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venerdì 29 marzo 2024

Recensione Narrativa: VIRUS CEPHA di Ian MacMillan.

Autore: Ian MacMillan. 
Titolo originale: Blakely's Ark.
Anno: 1981. 
Genere: Post-Apocalittico - Survival. 
Editore: Mondadori, collana Urania (1983). 
Pagine: 134. 
Prezzo: Fuori catalogo.
 
Commento a cura di Matteo Mancini

Anomala pubblicazione all'interno della collana Urania, chissà per quale via giunta nelle mani della Mondadori. Distribuito sul territorio italiano col titolo di Virus Cepha, Blakely's Ark dovrebbe essere il romanzo d'esordio dello scrittore Ian T. MacMillan, laureato presso l'Università di New York ma vissuto prevalentemente alle Hawaii. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1981 e giunto nelle nostre edicole il 7 agosto 1983, si tratta di una vera e propria rarità sul mercato italiano. Carlo Fruttero e Franco Lucentini lo scelgono, probabilmente, in un lotto di romanzi post-apocalittici americani puntando su un nome nuovo. MacMillan è un perfetto sconosciuto, appena quarantenne, con un'antologia alle spalle (Light and Power: Stories) e una rivista locale (l'Hawaii Reviex) da lui fondata nel 1973. Professore di inglese presso l'Università di Manoa, nelle Hawaii, resterà lontano dalle pubblicazioni per sette lunghi anni, riproponendosi sul mercato americano nel 1988 con Proud Monster, dando seguito alla propria passione mettendosi al servizio, in veste di redattore, del Manoa: A Pacific Journal of International Writing. Scrittore a cadenze irregolari, si dedicherà alla narrativa soprattutto nell'ultimo decennio della propria vita – verosimilmente dopo esser andato in pensione. In dieci anni (1998-2008), infatti, pubblicherà otto libri, più due postumi, su un totale di quattordici (otto romanzi e sei antologie). Interessato, piuttosto che alla fantascienza, a storie di usi e costumi locali e soprattutto a esperienze che pongono i suoi protagonisti al cospetto di un orrore legato alla malvagità che viene dagli istinti e dall'egoismo degli uomini. Virus Cepha rientra proprio in quest'ultimo gruppo di storie, di cui fanno parte altresì una serie di romanzi ambientati nei campi di concentramento (quotati Orbit of Darkness e Village of a Million Spirits). Le sue opere sono difficili da reperire. Si trova giusto qualcosa sul mercato dell'usato, ma a prezzo salato. Morto relativamente giovane, è spirato nel 2008 all'età di sessantasette anni. Strana scommessa dunque, da vero e proprio estremissimo outsider, mai più riproposta nel nostro paese. 

 

Copertina originale

IL ROMANZO

Virus Cepha, sostanzialmente, è una novella lunga centoventi pagine circa, un po' pesante nella sua parte centrale e divisa in soli quattro capitoli che non ne rendono certo fluidissima la narrazione.  Macmillan riprende le tematiche romeriane, sostituendo, nel caso più avanzato della malattia (ci si infetta anche toccando oggetti contaminati o per l'effetto del vento che trasporta le molecole del virus), allo zombi classico l'infettato che barcolla completamente fuori di testa per le vie. Gli scenari sono quelli tipici dei romanzi post-apocalittici. Si guarda a The Stand (“L'Ombra dello Scorpione”), a False Down (“Tra gli Orrori del 2000”) della Yarbro, a I Am Legend di Matheson e a mille altri romanzi del genere, con un giovanissimo protagonista munito di bicicletta e arco che se ne va in giro per centinaia e centinaia di chilometri, in un mondo ormai al collasso. Le strade sono intasate da file di auto e di mezzi corrosi dagli anni (spesso tombe per corpi mummificati), le città sono deserte, la vegetazione è cresciuta ovunque e gli scheletri sono adagiati in ogni dove. Le case, per lo più, sono state incendiate, mentre file di teschi infilzati sui pali dei telegrafi testimoniano la presenza di bande di manigoldi (punk) che razziano quanto resta da depredare. Come si capisce, siamo in un survival di ambientazione post-apocalittica. Sono trascorsi dieci anni da quando un virus, non meglio definito (non si sa come si sia diffuso o quale sia la sua origine) e denominato Cepha - per la sua capacità di agire a livello cerebrale provocando una microencefalite virale che porta alla pazzia – ha sterminato il regno animale, riducendo a poche unità la razza umana. MacMillan copia da The Crazies (“La Città Verrà Distrutta all'Alba”, 1974) e, in parte, da Night of the Living Dead (i superstiti si barricano in casa, usando assi inchiodate per difendersi dagli infettati che, comunque, penetrano dentro beccandosi frecce e colpi in testa). La costruzione del soggetto è quella del romanzo derivativo, sebbene lo sviluppo presenti dei punti a suo favore andando, come spesso succede, ad anticipare i plot degli stessi autori da cui MacMillan prende ispirazione. In prima battuta si anticipa Land of the Dead (“La Terra dei Morti Viventi”, 2005) di George A. Romero. Infatti, un po' come arriverà nel quarto capitolo della saga zombie di Romero, la popolazione più facoltosa e fortunata (ci sono delle lotterie che premiano i possessori dei biglietti sorteggiati), un po' come in Night Land ("La Terra dell'Eterna Notte", 1912) di William H. Hodgson, vive all'interno di un complesso residenziale isolato dall'esterno e protetto da soldati muniti di tute di plastica ed elmetti di plexiglass. Il Complesso viene percepito come il paradiso (vi vive all'interno lo stesso Presidente degli Stati Uniti), un ideale di vita e una speranza per un mondo migliore. Fuori di esso i militari non perdono tempo a usare lanciafiamme e a sparare su chi violi il coprifuoco o passi da un settore all'altro senza autorizzazione. Se fuori scarseggia il cibo, all'interno del complesso ci si nutre di primizie, ci sono ragazze sicure con cui fare sesso, ci si diletta persino nelle nuove olimpiadi e si può ammirare gli animali allo zoo (fuori sono tutti estinti). Questo, quantomeno, è ciò che viene riferito a chi sta all'esterno, dove regna il caos, la corruzione, la prostituzione e la malvivenza in un rapporto direttamente proporzionale al progressivo allontanamento dal complesso in funzione di una serie di cerchi che si aprono, l'uno sull'altro, come in un inferno dantesco. La realtà purtroppo è un'altra e ne verrà a capo proprio il giovane protagonista, munito di un biglietto della lotteria e per questo annesso al Complesso (che si rivelerà essere un vero e proprio mausoleo da cui evadere). Il cepha, che continua a far danni all'esterno, infatti è filtrato anche là dentro. La notizia non è stata fatta trapelare per non uccidere le speranze dei superstiti, così lasciare aperta in loro la prospettiva del sogno. “Impediscono che le notizie si diffondano così quelli dei settori contaminati non cercheranno di passare a quelli ancora indenni.” MacMillan insiste sul tema delle zone rosse, dell'importanza del distanziamento sociale e, con anticipo su quanto avverrà qualche mese dopo della pubblicazione del romanzo (quando negli States si comincerà a parlare di AIDS), sul rischio della contaminazione a seguito di rapporti sessuali visti come croce e delizia dell'esistenza in un interessante rapporto di eros e thanatos (“Questi magneti anatomici sono un invito alla morte e nello stesso tempo i mezzi per soddisfare il desiderio e la continuazione della specie”). Il cepha, infatti, sembrerebbe sfruttare proprio l'impulso naturale dell'uomo e degli animali alla riproduzione per insinuarsi e infettare quante più persone possibile, diffondendosi inoltre per via aerea. Una modalità di aggressione subdola, con MacMillan in anticipo sulla piaga AIDS. Non vi sono cure e la mortalità è del 100%, peraltro amplificata dall'azione repressiva delle autorità che provvedono a muovere elicotteri che rilasciano nelle zone infette un pioggia di gas che cuoce indiscriminatamente i polmoni di chi la respira.

In questo inferno, dapprima con la speranza di trovare una salvezza e poi con la consapevolezza dell'inesistenza del paradiso terrestre (vera e propria illusione), si muove Dave, seguendo, un po' come farà il protagonista di Zombieland (2009), un manuale di regole di comportamento per evitare il cepha ritrovandosi a essere un potenziale patriarca di una nuova stirpe (si porterà dietro un gruppetto di ragazzini e una giovane tredicenne che finirà a letto con lui subendo tutti i rischi del caso, perché altrimenti non sarà possibile gustare la vita).

Point to Point dunque, con un finale aperto e un messaggio fatalistico che allude all'impossibilità di sconfiggere la natura e, al tempo stesso, cerca di trovare una chiave di volta metaforica per sopravvivere alla costante paura della morte. La filosofia conclusiva è quella che sottolinea l'importanza della qualità di vita piuttosto che della sua lunghezza ("Non è importante quanto vivi, ma come vivi").

Azione, sense of wonder, horror e avventura per una storia che offre il suo meglio nella parte iniziale e nell'epilogo (le parti esterne al Complesso). Da segnalare, per potenza orrorifica, la fuga in una galleria/fogna inondata dalle acque dove il protagonista, sfuggito ai lanciafiamme dei militari e dopo essersi cauterizzato una ferita in modalità Rambo (film che uscirà l'anno dopo), vive l'incubo a occhi aperti di essere artigliato dai cadaveri di quanti ha conosciuto in vita in un momento che anticipa una delle sequenze clou di Phenomena (1985) di Dario Argento.

Poca originalità dunque, ma interessante sviluppo personalizzato che, bisogna darne atto, si muove in anticipo su quanto arriverà in seguito soprattutto a livello cinematografico. Il romanzo gode di buone recensioni da parte dei collezionisti urania, aiutato, forse, anche dal tentativo di stimolare riflessioni su più argomenti, addirittura sull'effetto deleterio provocato dalle medicine viste quale veicolo più adatto per il germe, “perché indeboliscono le difese del corpo”. Disperato e pessimista ma, al tempo stesso, aperto a un futuro che rimane incerto. Particolare, nel suo essere convezionale.

 
L'autore Ian MacMillan.
 

I moribondi sono gelosi e non fanno nulla per risparmiare la vita ai fortunati che sono riusciti a conservarla.... Non derogavano mai dalla regola di tenersi a due metri di distanza... S'era avvicinato di proposito per spalmare l'olio viscoso della sua infezione.”

domenica 24 marzo 2024

Recensione Narrativa: IL SEGNO DI YOG SHOTOT di Fabio Calabrese.

Autore: Fabio Calabrese.
Anno: 2020.
Genere: Horror - Weird.
Editore: Dagon Press.
Pagine: 170.
Prezzo: 15,50 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Quarta di sei antologie, uscite a irregolari intervalli periodici per la Dagon Press, dedicate da Fabio Calabrese alla narrativa di Howard P. Lovecraft. Definito dal pluri-vincitore del Premio Italia Donato Altomare “il Lovecraft italiano” e da Pietro Guarriello un “epigono e continuatore a tutti gli effetti dell'arte di Lovecraft”, Fabio Calabrese, nell'occasione, non convince pienamente dando l'impressione, contrariamente a quanto affermato da illustri studiosi, di essere più un imitatore che un artista avente affinità col Maestro Lovecraft.

 
L'AUTORE
Classe 1955, Fabio Calabrese è un vero e proprio veterano che ha bazzicato importanti ambienti del fantastico italiano, faticando tuttavia a imporsi dopo i promettenti inizi. Attivo fin dai primi anni '70, addirittura al fianco di Giuseppe Lippi, suo compagno di liceo a Trieste, nel dare vita a Il Re in Giallo – all'epoca una delle più apprezzate fanzine e dal terzo numero in poi diretta proprio da Calabrese – entra nel giro della Garzanti, conquistando nel 1975 la finale del Premio Shelley indetto dalla fanzine padovana The Time Machine. Il piazzamento gli vale la pubblicazione all'interno dell'antologia fantascientifica Universo e Dintorni (1978) a cura di Insiero Cremaschi che, tra gli altri, include racconti di nomi altisonanti del fantastico italiano dell'epoca quali Lino Aldani, Vittorio Curtoni, Adalberto Cersosimo, Giuseppe Lippi, Vittorio Catani, Renato Prestiniero e Gianni Montanari. Un inizio folgorante a cui però, a differenza di Lippi che si trasferisce a Milano per lavorare prima con Armedia e poi con Mondadori, stenta a dare immediato seguito. Si laurea in filosofia e diventa professore di scuola secondaria, portando avanti Il Re in Giallo fino a giungere al numero sette. Tra il 1986 e il 1988 piazza tre racconti per altrettante antologie curate da Gianni Pilo per la Fanucci, tra le quali figura L'Abisso di Cthulhu. Pubblica sporadicamente un altro pugno di racconti, selezionato da grandi firme del movimento italiano, per Perseo, Solfanelli, Il Cerchio Iniziative Editoriali e, in un caso, per Mondadori con l'inserimento del racconto Starlight nel Millemondi Primavera 1998: Strani Giorni, un'antologia tutta italiana curata da Giuseppe Lippi. Tra questo gruppo di antologie figura anche Gli Eredi di Cthulhu (1990), raccolta di culto curata da Gianfranco De Turris.

Nel 2005, a cinquantatré anni, pubblica, per Perseo Libri (attualmente acquistabile tramite Elara), la sua prima raccolta di racconti: Occhi d'Argento (2005). Trova in seguito nella Dagon Press l'editore giusto per liberare la propria inventiva, pubblicando - dal 2008 al 2023 - sei antologie tutte dedicate a Lovecraft. Tanti raconti dunque, ma non a sufficienza per ottenere un box nel saggio Guida ai Narratori Italiani del Fantastico (Odoya, 2018), in cui gli vengono dedicate sole quattro righe a metà colonna, facendone di fatto uno scrittore non tenuto in grande considerazione dai curatori (Walter Catalano, Andrea Vaccaro e Gian Filippo Pizzo.

Lo stile di Calabrese, quantomeno stando alla lettura de Il Segno di Yog Shotot, modernizza il lessico di Lovecraft. Vengono meno le frasi ridondanti e i lirismi, dando spazio piuttosto frequente ai dialoghi. I racconti sono brevi, non superano le trenta pagine, e beneficiano sovente di chiusure a effetto finalizzate a scuotere il lettore. Purtroppo manca, ad avviso di questo recensore, il “cuore” e tutto si traduce in un esercizio di stile. A parte un paio di racconti, si percepisce una costruzione dei soggetti in modalità “catena di montaggio”. Calabrese è troppo legato ai contenuti del Solitario, cita episodi dei racconti come se fossero accadimenti realmente successi negli anni venti, ambienta le storie a Dunwich, Arkham, Innsmouth e cita di continuo Providence e il Necronomicon (una vera ossessione). La sensazione che si ha nel leggere è quella di avere a che fare con storie suggerite dall'intelligenza artificiale, non che Fabio Calabrese abbia fatto ricorso a tale scorciatoia. Mi spiego meglio. I racconti, alcuni dei quali ripetitivi nell'affermare i medesimi concetti, sono sviluppati (il più delle volte sommariamente) ruotando su soggetti che prendono una serie di ingredienti dalle storie di Lovecraft per rimontarli secondo diverse combinazioni in un collage finale che non offre niente di innovativo ai lettori. Alla fine escono fuori dei racconti in grado anche di farsi apprezzare singolarmente (funzionerebbero meglio in antologie collettive) ma che, messi insieme, finiscono per lo scocciare persino il lettore più fedele del weird ortodosso. L'autore ricorre troppo spesso ai medesimi ingredienti, proponendo svariate storie che sono l'una lo sviluppo dell'altra o che raccontano la medesima storia da prospettive lievemente diverse. Ne esce fuori un'antologia piacevole, che intrattiene, ma che non può certo reputarsi un modello di riferimento. Ne Il Segno di Yog Shotot Fabio Calabrese non è né un Lovecraft italiano, né un epigono, ma un mero imitatore (non ce ne voglia).

Veniamo ora all'analisi dei singoli racconti.


RECENSIONE NEL DETTAGLIO

Undici racconti per centocinquantaquattro pagine, dalle ventitré pagine de Il Trono di Llogra alle sei de Il Suo Nome. Gli ingredienti sono soventi gli stessi e sono rappresentati dalla presenza di grimori (almeno quattro racconti ripropongono la lunga sequela di titoli, in modalità copia e incolla da Lovecraft, collocati ora in biblioteche comunali, ora in collezioni private ora in scantinati segreti) la lettura delle cui formule apre dimensioni misteriose provocando la scomparsa dello sprovveduto lettore; vi è il tema della creatura parassitaria che assume il corpo dell'uomo o lo ingloba in sé stesso, facendolo muovere alla stregua di un mostro; vi sono le descrizioni dettagliate e ossessive (ripetute in quasi tutte le storie) di creature che richiamano alla memoria piovre giganti e chele di granchio; c'è il tema dei popoli degenerati perché frutto di rapporti incestuosi; insomma non c'è niente che non si sia già letto. Nonostante questo, vi sono almeno cinque racconti da salvare, che acquisterebbero consistenza maggiore se inseriti in antologie collettive.

Tra tutti brilla Il Trono di Llogra, opera già pubblicata da Calabrese nel lontano 1986 all'interno dell'antologia Eroi e Sortilegi. Sempre Fantasia Eroica della Fanucci Editore (curatela Gianni Pilo). È la storia a più ampio respiro e dunque più sviluppata dell'antologia, che riesce a generare quel sense of wonder che, ad avviso di questo recensore, manca in diversi racconti. Due ladri, a intervalli diversi, finiscono nelle grinfie di una città, un tempo sfarzosa, ormai decadente che sorge in pieno deserto. Il luogo, denominato Darna, è costellato da raffigurazioni di una divinità dalla forma di polpo e da edifici fatiscenti che, tuttavia, sfoggiano innesti in oro che contrastano con il clima di povertà generalizzato. Gli abitanti sono minuti, stranamente bianchicci e suggeriscono una linea genealogica degenerata a seguito, probabilmente, di unioni tra consanguinei. I due stranieri si presentano con lo scopo di depredare le ricchezze e, a tal riguardo, sfruttano la tradizione locale di eleggere, ogni anno, un nuovo sovrano tra coloro che risulteranno vincitori in una serie di gare e duelli all'ultimo sangue in arena. Quello che non sanno è che, una volta incoronati, saranno destinati a fornire il loro corpo a un cervello di natura tentacolare che sostituirà definitivamente il loro.

Bel racconto di atmosfera, nulla da dire, con punte gore estranee rispetto agli altri racconti. Calabrese descrive l'arrivo del secondo dei ladri in città, i combattimenti (stile Spartacus), le strutture architettoniche, le caratteristiche degli abitanti e l'aspettativa del manigoldo di mettere le mani sulle ricchezze, il tutto fino allo sconvolgente finale che riscrive sotto un'altra ottica quanto fin lì accaduto. Pur se derivativo è davvero un ottimo testo, non a caso selezionato da Fanucci. Tra l'altro, proprio a Il Trono di Llogra si deve la pertinente copertina dell'antologia disegnata da Pietro “Pitt” Rotelli.


Un altro racconto riuscito è Ospite Temporaneo, uno sci-fi che allude velatamente ai grandi antichi o, meglio, a creature che vivono ad anni luce rispetto all'uomo e che ne sono predatori. Non colpisce tanto per il soggetto, che propone un'equipe scientifica impegnata a realizzare un progetto che possa aprire un varco dimensionale nello spazio, ma per come Calabrese riesca in modo convincente a giustificare il tutto. In particolare è interessante la descrizione della finalità del parassita extraterrestre entrato nel corpo di un astronauta inizialmente disperso attorno a una base spaziale. “C'è un fenomeno naturale che ricordi la possessione? Si, il parassitismo... Un parassita può modificare il comportamento dell'ospite fino a prenderne il controllo...” ed è il caso specifico rappresentato da tutti quei parassiti che, in natura, sfruttano il corpo parassitato per andare a colpire il vero obiettivo (di solito un predatore del parassitato). Un bel racconto, peraltro originale rispetto agli altri proposti. Finale sospeso, senza scadere in descrizioni di mostruosità aliene e dunque più efficace di altri.


Non delude neppure il racconto che da il titolo all'antologia ovvero Il Segno di Yog Shotot dove Calabrese, che pure si concede momenti erotici e uscite poco felici (come una ragazza che, in fondo in fondo, brama di esser stuprata) piuttosto aliene rispetto alla narrativa di Lovecraft, costruisce una gran bella atmosfera notturna. Immagina una ragazza, appena scesa dal treno, dispersa nei vicoli bui di una Dunwich spettrale, con l'intenzione di recarsi presso la zia morente lungo sentieri fangosi delimitati da case arcaiche. La storia resta in sospeso tra Rosemary's Baby, Il Presagio e L'Orrore di Dunwich, quindi piega su un finale abbastanza imprevedibile che propone l'azione di un serial killer e, al contempo, un epilogo che sembra ricalcato dall'ultimo episodio del film I Delitti del Gatto Nero. Meno brillante degli altri due, ma comunque buono e imprevedibile fino in fondo.


Dietro questi tre racconti, a mio avviso, ne abbiamo altri due interessanti seppur meno qualitativi. Bottino di Guerra, nella sua semplicità, ha il merito di distinguersi dal resto dell'antologia per un soggetto disancorato dai cliché lovecraftiani. Un reduce dal conflitto in Irak, importa negli Stati Uniti un'anfora contenente dei semi di una pianta misteriosa, forse riconducibile ai giardini pensili dell'antica Babilonia. Incoraggiato da un professore, il militare pianta i semi con l'intenzione di vendere ai giardini botanici il prodotto finale, sebbene il suo pastore tedesco manifesti ogni volta una strana contrarietà al cospetto dei semi. Nata la pianta, il protagonista scoprirà che la definizione di giardini “pensili” è caratterizzata da un imperdonabile refuso di traduzione trovandosi al cospetto, piuttosto, di una misteriosa pianta un tempo facente parte di un “giardino prensile”. Pur se con delle incongruenze (l'avversità del cane fin dall'inizio), è una storia divertente che gioca intelligentemente sul termine “pensile”-”prensile”. Carino.


Piace meno, ma è comunque accattivante e ben cadenzato nel ritmo Pembroke Manor. Un'indagine nei pressi di Arkham condotta da un detective privato, rivela una realtà inconfessabile. Il possidente Peter Rickert, scomparso nel nulla e ricercato dalla sorella, si è trasformato in un essere insettiforme divoratore di carne umana (“Attorno al nostro mondo ci sono dimensioni sconosciute e proibite, in cui però l'uomo che conosce le formule segrete può viaggiare con la forza del pensiero. Quello sconsiderato ha usato le formule del Necronomicon ed è tornato da un viaggio astrale con le sembianze di una creatura di quelle zone dimensionali”), imprigionato nel sottosuolo della sua villa da un tuttofare intenzionato a continuare a beneficiare delle ricchezze del datore di lavoro. Storia semplice, kafkiana, che scivola verso la fine con i giusti tempi senza far calare mai il coinvolgimento.


Il buono dell'antologia, a mio avviso, si ferma qua. Non che il resto sia da buttare, ma in questo contesto appare come già letto o comunque sfruttato per i racconti sopra riportati. Hypnos-Thanatos, Il Suo Nome e Il Misterioso Dott. Weinberg riprendono, da diversa prospettiva, il medesimo spunto di Pembroke Manor. Le tre storie infatti parlano di soggetti che, tramite la lettura di formule magiche contenute in testi proibiti, dischiudono i veli che separano il nostro mondo dall'altra dimensione, finendo vittime di creature mostruose e di una progressiva alterazione psichica che allontana il sonno e conduce nella maglie della follia. Hypnos-Thanatos strizza l'occhiolino, per costruzione e sviluppi, a Nightmare di Wes Craven, con il protagonista perseguitato nel sonno dai mostri; Il Misterioso Dott. Weinberg propone una serie di sedute psicanalitiche per giungere alla ragione e alla cura degli incubi che perseguitano il protagonista, salvo poi sconvolgere i lettori per effetto di un epilogo tanto forzato quanto spiazzante (tra l'altro il protagonista si scopre essere un conoscitore sopraffino dei testi maledetti studiati dallo psicologo che brama di tramutarsi in un essere dell'altra dimensione); Il Suo Nome, il più debole dei tre, presenta le creature dell'altra dimensione alla stregua degli adepti di un credo che ha nell'uomo la vittima sacrificale pronta a essere divorata.


Piuttosto banale è La Preda, in cui il tentativo di studiare il bigfoot, da parte di due cacciatori che sono riusciti nell'intento di imprigionare in una gabbia da orsi la misteriosa creatura di cui si fantasticava l'esistenza, si traduce in tragedia. I due infatti, a loro insaputa, si sono imbattuti nel wendigo, un essere - a quanto pare - non narcotizzabile.


Una Notte Tropicale è un racconto che sembra uscito da un'antologia sui crimini violenti e che potrebbe esser stata ispirata dall'aggressione sessuale di cui è vittima la protagonista de Il Segno di Yog Shotot. Calabrese si concentra sulla caratterizzazione (peraltro ben tracciata persino da un versante filosofico/esistenziale) del protagonista per giungere a un epilogo tragico e realista.


Aria di incompletezza per Figlia dell'Oceano, in cui i confini tra sogno e realtà si confondono e sembrano giungere a sconfessare un fantastico meramente supposto in virtù delle ambientazioni (siamo a Innsmouth) e delle deformazioni degli uomini che camminano per le vie.


CONCLUSIONI

Antologia per cultori irriducibili e non saziabili di Lovecraft. Poche invenzioni, poca originalità, ma stile narrativo capace di divertire senza nulla chiedere ai lettori e all'insegna di quell'intrattenimento squisitamente da pulp magazine. Puro ed esclusivo genere, dunque, alleggerito da pretese autoriali e da volontà di veicolare messaggi personali, esistenziali o filosofici.

Da segnalare l'erronea indicazione del numero delle pagine di inizio dei racconti riportati nell'indice. Si evidenziano inoltre una serie di raffigurazioni interne non poi così elaborate e calzanti alle storie.

Può piacere, ma non parlate di opera o di scrittore di riferimento nell'ambito del fantastico italiano. Sono pronto a ricredermi con le prossime letture, sia chiaro. Leggeremo altre antologie di Calabrese perché, in fondo in fondo, il weird lovecraftiano qui è di casa.

 
L'autore.
FABIO CALABRESE
 
Quando sogniamo, entriamo almeno in parte in una dimensione diversa dal mondo della veglia, e li diventiamo vulnerabili. ”

venerdì 22 marzo 2024

Recensione Narrativa: MAGNIVERNE di Maurizio Cometto.

Autore: Maurizio Cometto.
Anno: 2018.
Genere: Fantastico - Orrore.
Editore: Edizioni Il Foglio.
Pagine: 310.
Prezzo: 16,00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

A distanza di tredici anni dalla nostra ultima lettura, Maurizio Cometto torna ospite di queste pagine e lo fa ripartendo da dove lo avevamo lasciato. Magniverne, antologia di cinque racconti e una novella aventi in comune l'ambientazione, prosegue il percorso qualitativo dell'autore nell'ambito di un fantastico interessato da marcate venature horror.

Cometto sposta lo scenario della narrazione dalla Torino di Cambio di Stagione (qua la nostra recensione https://giurista81.blogspot.com/2011/10/recensione-narrativa-cambio-di-stagione.html) all'immaginifica Magniverne, una località agreste nella campagna torinese. Alla maniera di Philip Fracassi e della sua Sabbath (si veda la novella Commodore pubblicata da Independent Legions, qua la nostra recensione: http://giurista81.blogspot.com/2024/01/recensione-narrativa-commodore-di.html), si tracciano i contorni di un paese di “frontiera”, sospeso tra il mondo quotidiano e una dimensione ulteriore che travalica il mistero della morte. I protagonisti delle avventure sono sempre ragazzini oppure adulti che regrediscono, stimolati dal ritorno a Magniverne, ai tempi di un'infanzia traumatica.

Impossibile non pensare a novelle quali Stand by Me e It di Stephen King, passando dai romanzi e dai racconti incentrati sull'adolescenza di Charles L. Grant (tra tutti si ricorda La Carezza della Paura di cui qua trovate la recensione http://giurista81.blogspot.com/2024/01/recensione-narrativa-la-carezza-della.html) fino al recentissimo The Black Lord di Colin Hinckley (qua la recensione http://giurista81.blogspot.com/2024/02/recensione-narrativa-black-lord-di.html). Magniverne si inserisce perfettamente in questo alveo del fantastico, sebbene il suo autore dica di essersi ispirato a Ray Bradbury e Julio Cortàzar. A tenere banco sono gli amori giovanili non corrisposti, le prove di coraggio, le leggende popolari sui luoghi maledetti (casolari abbandonati divenuti dimora di fantasmi, sentieri maledetti lungo i quali si sono impiccati alcuni ragazzi e boschi infestati dallo spettro di un boscaiolo impazzito), gli atti di bullismo (al centro di Un Ragazzo Solitario), l'incomunicabilità familiare (L'Uomo Invisibile), l'impossibilità di avere un futuro degno di tal nome per coloro che non si decidano di lasciare Magniverne (idea molto kinghiana) e, non da ultimo, i rimpianti per ciò che sarebbe potuto essere e invece non è stato. A tutto questo Cometto aggiunge la componente fantastica rappresentata da una Magniverne sommersa, vuoi sottoterranea vuoi subacquea sotto la superficie del fiume Labironte (nella Sabbath di Fracassi abbiamo il lago), che funge da vero e proprio riflesso negativo di quella emersa. Una dimensione in cui sopravvivono, sotto forma di sirene e tritoni (racconto Magniverne Sommersa), le anime dei cittadini trapassati (che una volta all'anno, nel giorno di pasqua quando la vita vince sulla morte, “rapiscono” i viventi per condurli nel mondo subacqueo) o dove si muovono i corrispettivi malefici (sotto forma di ombre, topi e talpe) dei cittadini che tramano di emergere in superficie per prendere il posto dei vivi (aspetto che riesce in Via da Magniverne e L'Uomo Invisibile, ma fallisce nel fiabesco Il Costruttore di Biciclette).

Il fantastico irrompe nel quotidiano e ha una duplice valenza: da una parte quella di affascinare i lettori con un innegabile sense of wonder (marcatissimo ne Il Costruttore di Biciclette e in Magniverne Sommersa), dall'altra di veicolare un sottotesto più profondo che dal fantastico torna a guardare alla quotidianità.

Cometto sembra scrutare con una certa nostalgia nel suo passato (giochi in cortile, omaggi allo sport, passeggiate in bicicletta, aneddoti scolastici), quasi come se le storie (un po' come avviene per il protagonista dell'eccezionale Ritorno a Magniverne) avessero una qualche natura psicanalitica in cui l'elemento fantastico rimanda a un qualcosa di pratico. Il rapporto con Magniverne è un rapporto di odio-amore; il paese è solo in apparenza un luogo ameno, tanto che assume, a poco a poco, i tratti di un purgatorio che assorbe i suoi cittadini e li perseguita per tutta la vita minacciando di sostituirli col loro "negativo".

Lo stile di Cometto è essenziale, privo di fronzoli o di velleità artistiche. Non si bada, in altri termini, a impressionare i lettori con terminologie ricercate o espressioni poetiche, piuttosto si utilizza un lessico semplificato che, a poco a poco, costruisce trame che prendono il tempo loro necessario per calare i lettori dalla quotidianità al fantastico.

Il livello dell'antologia è eccellente. Vi sono un paio di gioielli, senza che si percepisca un crollo di livello negli altri racconti. Vediamoli nel dettaglio.


RECENSIONE NEL DETTAGLIO

Il Costruttore di Biciclette è una fiaba nera, già pubblicata nel 2006 quale romanzo a sé stante dal Foglio Letterario di Piombino - addirittura introdotto da Valerio Evangelisti (purtroppo qua non viene riproposta la prefazione). Qui si delinea la caratteristica di Magniverne quale paese di “frontiera” sospeso tra due mondi. Da una parte abbiamo la realtà quotidiana e dall'altra la seconda faccia di una medesima medaglia. Non a caso si parla di “Magniverne” e di “Anti-Magniverne”. Nell'episodio in questione le due dimensioni si sovrappongono, grazie a un congegno a carrucola rappresentato da una speciale bicicletta la cui pedalata provoca l'innalzamento e l'apertura dell'altro mondo. A fungere da motore e sprono necessario ad azionare il meccanismo fantastico è l'amore non corrisposto che porta un ragazzino a scaricare la propria “frustrazione” sulla bicicletta. Il giovane corre in su e in giù lungo le strade di un paese che si trasfigura e muta persino forma in un allucinatorio viaggio nel fantastico. A differenza degli altri racconti, nel Costruttore di Biciclette la “realtà” si deforma, deflagra destrutturandosi. Sogno e realtà si confondono portando la narrazione ben oltre gli steccati del realismo magico. Cometto cerca e trova il sense of wonder, rappresentato da una nebbia di pece che sommerge il paese facendo calare sulla stesso un buio impenetrabile. L'intervento di un prete e di alcuni cittadini di Magniverne porta alla luce il mistero che determina gli strani accadimenti, rappresentati anche da un'infestante invasione di topi e talpe che incarnano l'animo oscuro degli stessi abitanti della cittadina. Il processo inverso, agendo in modo contrario sulla bicicletta connessa allo strano fenomeno, ripristinerà il tutto, favorendo l'intervento risolutore di gatti e civette. Una storia dunque che, per certi versi, fa il paio con Predatori dall'Abisso di Ivo Torello, sostituendo il cosmic horror con un orrore che si cela dietro il velo della banalità quotidiana. È un Cometto non ancora maturo, tuttavia (e si noti che, già allora, Evangelisti non perse tempo a definirlo il suo autore di fantastico preferito). Non tutti i passaggi sono chiari, molto viene lasciato all'immaginazione dei lettori e vi sono diversi sviluppi narrativi in cui si suggeriscono viaggi astrali non ben giustificati (a nostro modo di vedere). Alla fine la potremmo definire un'avventura di formazione con elementi horror e fantastici che non scadono nell'effettaccio.


L'Uomo Invisibile è un esempio di realismo magico. Il fantastico è soffuso (suggerito ma non palesato), penetra, in chiave metaforica, nelle famiglie per sottolineare quell'incomunicabilità che spesso è preludio allo scioglimento dei legami. Qui, un Cometto che appare molto più maturo (sebbene il racconto originale sia datato 1997), cela dietro l'apparente quotidianità un mistero fantastico. Parabola della solitudine e della depressione, viste quali protagoniste della mutazione degli uomini, sostituiti dall'ombra di loro stessi. “Quando quelli dell'altra parte vengono a Magniverne, tutto cambia, perché portano con sé la maledizione che c'è di là... La maledizione degli uomini perduti... Quelli che sentono la solitudine. Quelli che vorrebbero andarsene per sempre.”


Magniverne Sommersa è l'autentico gioiello dell'antologia. Un piccolo capolavoro in cui il sense of wonder tocca vette eccelse. Questa volta in chiave acquatica, torna il leit motiv dell'antologia caratterizzato dal rapporto tra “Magniverne” e “Anti-Magniverne” con le due dimensioni che si toccano e si sovrappongono. Al posto delle ombre, in azione abbiamo i defunti di Magniverne che si mostrano nelle forme di sirene e tritoni che puzzano di pesce marcio. La storia procede attraverso tre racconti di episodi lontani nel tempo che una nonna, al momento di andare a letto, rivela al nipote nei periodi festivi dell'anno. Molto mystery, tanta attesa che non viene delusa culminando in una parte finale memorabile e complessa. Amori lontani, rimpianti e sensi di colpa fanno da sfondo a una vicenda magica, in cui, una volta all'anno – il giorno di Oasqua ovvero “festa in cui la morte è sconfitta e la vita incontra ciò che sta oltre” - i morti rapiscono i vivi per condurli nella Magniverne sommersa in un processo inverso rispetto alla cristiana ascensione verso il regno dei cieli (qua si fluttua sopra la cittadina completamente immersa dalle aque e l'ascesa verso la superficie riconduce al mondo terrestre).


Via da Magniverne è un inquietante ghost story che ruota attorno al tema delle prove di coraggio adolescenziali. Semplice, ma efficace e, al tempo stesso, coinvolgente. Grandissimo pathos, che rimanda alla memoria a quelle storie ispirate a L'Invasione degli Ultracorpi in cui un qualcosa di straordinario (che sia un alieno, un'ombra o un demone) prende possesso dell'involucro esterno attraverso i quali gli uomini si manifestano nella società e muta carattere e comportamento.


Sono invece legati al passato Un Ragazzo Solitario e Ritorno a Magniverne. Protagonisti sono adulti fuggiti da ragazzini da Magniverne che hanno rimosso un evento traumatico del loro passato. In entrambi i casi, tale evento emergerà a poco a poco, complice il ritorno al paese, sconvolgendo irrimediabilmente le menti dei due protagonisti. Le storie sono due eccezionali esempi di realismo magico, specie la seconda che allude, con una qualità invidiabile e l'artificio delle sedute psicanalitiche regressive, alle storie sul boogeyman o sul mostro in stile teen horror americani (penso ai film soprattutto di Wes Craven) senza cadere nel banale e sfumando il tutto così da far coesistere, quali possibili ricostruzioni alternative, ghost story e thrilling.


CONCLUSIONE

Antologia eccezionale, poco da dire, che rispolvera gli inizi invidiabili del Foglio Letterario di Piombino, una casa editrice che nella prima decade di secolo era sicuramente tra le migliori nel campo della narrativa fantastica e horror proponendo una serie di scrittori in erba che hanno poi fatto successo (Luca Barbieri, Lorenza Ghinelli, Maurizio Cometto, Luigi Boccia, Nicola Lombardi e altri ancora). Magniverne è l'ennesima dimostrazione di talento di uno scrittore che, in Italia, dovrebbe essere sulle bocche di tutti gli appassionati di fantastico con venature horror e che invece fatica a imporsi pur avendo, negli ultimi anni, trovato una sua dimensione (anche come responsabile di collana) al servizio di Delos Digital. Chapeau e sinceri complimenti.

 
 La copertina originale de
"Il Costruttore di Biciclette."

Di storie ce n'erano tante, tutte diverse e insieme poco uguali. Varianti di un'unica storia che era sempre la stessa. Quella di creature nascoste in fondo al Labironte, o di fantasmi imprigionati nel vecchio mulino, o di esseri deformi che vivevano in qualche casolare. Creature e fantasmi che erano i morti di Magniverne, o la loro parte nascosta, quella inconfessabile.”

mercoledì 20 marzo 2024

Recensione Cinema: RACE FOR GLORY di Stefano Mordini.

Regia: Stefano Mordini.
Anno: 2024 (Italia-Inghilterra).
Genere: Biografico / Sportivo / Azione.
Soggetto: Riccardo Scamarcio.
Sceneggiatura: Riccardo Scamarcio, Filippo Bologna e Stefano Mordini.
Attori Principali: Riccardo Scamarcio, Volker Bruch, Daniel Bruhl, Katie Clarkson-Hill.
Fotografia: Luigi Martinucci
Musiche: Venerus. 
Durata: 141 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Prendete Le Mans 66 (il finale è quasi ricalcato, così come le trovate degli italiani furbacchioni che fregano gli avversari stranieri), Rush (da cui arriva Daniel Bruhl, il cecchino di Bastardi senza Gloria), Ferrari di Michael Mann (il duello tra Walter e Mikkola che si conclude con l'uscita di strada del pilota Audi), Veloce come il Vento (la regia, i dettagli sulla componente meccanica in funzione all'interno dell'auto e il montaggio serratissimo), Driven (struttura narrativa), la serie televisiva Ferrari interpretata da Castellitto (l'intervista a Fiorio che funge da trait d'union, in cui gli si chiede se abbia rimpianti o remore nel mandare i piloti incontro a rischi che vanno oltre il calcolato) e la barzelletta sull'ispezione dei carri armati di Mussolini (difficile credere che sia avvenuta una furbata del genere), quindi shakerate bene e avrete Race for Glory.

Buon film, specie se si evidenzia che è quasi del tutto italiano (c'è una compartecipazione inglese sul versante artistico). Scamarcio ci butta i soldi in prima persona, aiutato nelle sforzo dal premio oscar Jeremy Thomas, in Italia già coinvolto in diverse produzioni affidate a Matteo Garrone e, prima ancora, a Bernardo Bertolucci. Stefano Mordini, a gran sorpresa, dirige da specialista del genere d'azione (che non è, pur essendo un pluri-candidato al David di Donatello e ai Nastro d'Argento), molto aiutato dal montaggio di Massimo Fiocchi e Davide Minotti prendendo da modello Matteo Rovere e, sull'altro versante, giocando di continuo tra primi piani (leoniani) e dettagli (mano che cambia, mano che sterza, piedi che si azionano sulla pedaliera, soggettive dell'auto in corsa e così via). Il ritmo è serratissimo, con le sequenze delle corse nettamente predominanti sul narrato. Quello che mancava nel Ferrari di Mann arriva qua, a discapito di uno sfondo narrativo. Riccardo Scamarcio, protagonista, produttore e soggettista, adatta a finalità cinematografiche il mondiale di rally del 1983 e propone, tappa su tappa, l'intera stagione di riferimento cercando di drammatizzarla e spettacolarizzarla. Il taglio, seppur non fedelmente sovrapponibile a quanto veramente accaduto, è estremamente realistico. Non sono presenti “americanate” alla Fast & Furious, né interventi della computer grafica come visto nel Driven di Renny Harlin. Ecco che la resa filmica delle "tappe" è eccellente (non direi lo stesso del sonoro, comunque valido). Manca qualcosa sul piano della scrittura, specie nei dialoghi e nelle caratterizzazioni. Si introducono domande interessanti e ricorrenti nell'ambito dello sport automobilistico (cosa si cerca nella corsa? perché si rischia la vita?), a cui si tende a evadere nelle risposte (“devo vincere” ripete in continuazione Fiorio/Scamarcio, salvo poi mitigare la questione con un epilogo non proprio riuscito sul piano filosofico) o a cercare metafore non così brillanti di caratura bellica ("sono il comandante di un'armata"). In questi aspetti, curiosamente più semplici perché frutto del lavoro al cosiddetto tavolino, Race for Glory non è all'altezza dei vari Rush, Ferrari, Veloce come il Vento (manca tutta la componente smargiassa e tamarra) e Le Mans 66. Anche l'incidente che capita al giovane pilota è telefonato e inflazionato, peraltro sottolineato da Mordini ben prima che succeda con una serie di inquadrature strette e primissimi piani sul volto del pilota nonché dettagli sulla componente meccanica. 

Al di là di questi aspetti, Race for Glory è un film che diverte gli appassionati di motor sport (non penso possa piacere a chi non è appassionato di corse), ricchissimo di adrenalina. Scamarcio, pur non brillando, tiene il ruolo e poco importa se non parli con accento torinese. Tra i migliori del cast artistico segnalerei Katie Clarkson-Hill, di gran lunga la più espressiva. Bruhl, invece, è poco sfruttato. Volker Bruch (Walter) è senza infamia e senza lode, con una curiosa quanto non sfruttata passione per l'apicoltura (buttata là tanto per). Simpaticissima comparsata di Lapo Elkann nei panni dell'avvocato. Musiche sufficienti, mentre, lo ribadisco, è notevole il montaggio (vero punto di forza del progetto ai livelli hollywoodiani). Probabili nomiantion ai Nastro d'Argento e ai David di Donatello, con montaggio in lizza a quota interessante per un premio. Di certo, è un film che si esporta anche all'estero con qualche velleità. Visto al cinema, insieme ad altri due spettatori (“il solito casino italiano” nella realtà delle sale, purtroppo, non produce un aumento nel conteggio come avviene per le 103 auto da produrre).


 

sabato 16 marzo 2024

Recensione Narrativa: PREDATORI DALL'ABISSO di Ivo Torello.

Autore: Ivo Torello.
Anno: 2012-22.
Genere: Weird - Orrore cosmico.
Editore: Edizioni Hypnos.
Pagine: 480.
Prezzo: 16,90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Il miglior romanzo weird da moltissimi anni a questa parte” assicurava Pietro Guarriello, studioso e appassionato della narrativa lovecraftiana in Italia nonché referente della casa editrice indipendente Dagon Press. Predatori dall'Abisso, romanzo di esordio di Ivo Torello, è, in effetti, un solidissimo esempio del weird delle origini. In occasione del primo decennale della prima uscita, sempre per Hypnos nel 2012, Ivo Torello ha dato alle stampe una vera e propria extended version del romanzo. Quattrocentottanta pagine circa, nel formato 17x13 della collana Impronte, che segnano un ritorno alle origini, dopo gli “sperimentalismi” de La Casa delle Conchiglie (2018) e la serie degli strani casi di Ulysse Bonamy. Qua trovate le mie recensioni: https://giurista81.blogspot.com/2018/06/recensioni-narrativa-la-casa-delle.html / https://giurista81.blogspot.com/2020/05/recensione-narrativa-la-gorgiera-della.html / https://giurista81.blogspot.com/2020/12/recensione-narrativa-lharem-delle.html

Innegabile firma più autoriale nell'ambito del weird italiano (termine che va giustamente stretto all'autore), al punto da essere salito, non con poche polemiche da parte di una certa frangia di ultras di lettori e aspiranti scrittori, a ricoprire il ruolo di curatore della rivista Hypnos, Torello propone qua il suo romanzo più in linea con la tradizione weird. Già conosciuto agli addetti ai lavori da oltre un ventennio, nonostante un'età relativamente giovane (classe 1974), Torello è l'unico autore, insieme allo scrittore Mondadori Dario Tonani (undici volte vincitore del Premio Italia), ad aver vinto più volte il Premio Lovecraft (due successi tra il 2000 e il 2003). Affermazioni che lo avevano portato sotto la lente di ingrandimento di Franco Forte, l'ormai storico direttore – tra gli altri – della collana Giallo Mondadori, salvo poi preferire prendere vie più intellettuali e ideologiche disancorate dalla produzione di mero ed esclusivo consumo commerciale. È bene dunque evidenziare la caratura dello scrittore con cui abbiamo a che fare, peraltro già palesata dalla maestria stilistica e dagli intrecci mai banali delle sue opere che, sovente, guardano a quel mondo occulto di cui oggi si è quasi smarrita la via preferendo soluzioni ereditate dal cinema piuttosto che dalla tradizione esoterica.

Torello è un talento poliedrico. Incisore, scultore, fotografo, illustratore, cultore d'arte e persino musicista. Una versatilità che ha trovato nella letteratura il campo d'esaltazione. Fortuna ha voluto, per gli appassionati di weird, che il genere fantastico sia il veicolo preferito da Torello per proporre la propria visione e la propria interpretazione della letteratura. Lovecraft è stata la partenza da cui, a poco a poco e infischiandosene dei compromessi e delle ipocrisie, ha sempre più personalizzato la propria versione verso un intellettualismo che trova, soprattutto, nella cultura letteraria ottocentesca francese la sua principale fonte di ispirazione.

Predatori dall'Abisso, tuttavia, resta legato al “primo periodo” dell'autore, quello più squisitamente weird. Il cosmic horror (quello vero ovvero quello legato agli insegnamenti dei grandi maestri di inizio novecento) domina assoluto, sebbene miscelato a un'ironia di fondo (soprattutto nei dialoghi) che ne stempera il pessimismo al punto (a differenza di Lovecraft) da superarlo. Un'altra innovazione che si respira, pur essendo la storia ambientata in Scozia, è il piglio folk che rimanda al mondo agreste nostrano, una sorta di “gotico padano” alla Pupi Avati. Definire il romanzo “lovecraftiano” è dunque riduttivo e, in parte, superficiale. Pur pescando da racconti quali From Beyond e in modo più lato a The Cats of Ulthar (i felini saranno infatti i grandi protagonisti della vicenda), altri autori partecipano a delineare gli ingredienti del testo. Tra questi vi sono Joseph Payne Brennan, con racconti quali Slime e Long Hollow Swamp (i mostri in azione sono molto simili), il grande Valerio Evangelisti con Picatrix (passaggio sulla terra di creature provenienti dall'universo, oltre che legame tra i pazzi ricoverati in manicomio e gli eventi interstellari che portano alla comparsa di creature dall'altrove) e frangenti che rimandano a Night of the Living Dead (protagonisti che si asserragliano all'interno di abitazioni dopo aver inchiodato tavole di legno a finestre e porte) e The Shadow of the Beast di Robert E. Howard (la parte della prima aggressione all'interno della abitazione). La struttura del testo, decisamente corale per l'aggiungersi continuo di personaggi che cooperano nel tentativo di risolvere l'intrigo interstellare, ricalca quella del giallo di indagine a matrice occulta. Scienza, o meglio ancora zoologia (da evidenziare il grosso studio compiuto per rendere credibili i dialoghi tecnici in cui si addentrono i personaggi), astronomia e occultismo (lunga sequela di grimori, pseudobiblia, presenza di un fantomatico mazzo di tarocchi, cosiddetto del diavolo, che riproduce una serie di creature leggendarie e persino una macchina astrologica riconducibile agli studi di Cornelio Agrippa) concorrono per venire a capo di un mistero che oggi definiremmo criptozoologico e che sarà destinato per la sua particolare natura, anche una volta risolto, a essere celato per ragioni di ordine pubblico.

Torello conduce i lettori, alla maniera di uno scrittore di primissimo piano di Weird Tales, nelle Highlands (anche se il romanzo prende le mosse a Londra), a Kirsdale (luogo di fantasia), nel 1890. Una serie di razzie a danno di vacche, cavalli, pecore e successivamente di contadini allarma le autorità. Quale misteriosa bestia, che agisce solo di notte, è responsabile di tali scempi? Le vittime vengono ritrovate dilaniate, essiccate e totalmente private di sangue (“la povera bestia era stata letteralmente prosciugata, il corpo scarnificato in più punti. Sembrava che non contenesse più una goccia di sangue”). Il tutto sembra essersi innescato a seguito di alcuni scavi condotti, in concomitanza del passaggio di una data cometa, da un paleontologo (“uno scienziato isolato dal mondo accademico per la peculiarità dei suoi studi”) ritrovato sventrato sul posto. Intanto, negli archivi custoditi nella chiesa locale viene rinvenuto il resoconto di una serie sospetta di decessi, addebitati a una misteriosa pestilenza che si sarebbe manifestata a Kirsdale nel 1602. A tale data risalirebbe inoltre un curioso quadro che immortala una lotta all'ultimo sangue tra creature demoniache e l'uomo. Torello, nel tratteggiare il dipinto, rimanda in modo evidente a celebri opere d'arte quali Il Trionfo della Morte di Buffalmacco e soprattutto al capolavoro La Caduta degli Angeli Ribelli di Pieter Bruegel il Vecchio. La stessa natura zoomorfa e complessa delle creature, che verranno a poco a poco delineate e mostrate per quel che sono, rivela una combinazione di caratteristiche proprie di esseri diversi proprio come avviene nell'immagnario degli artisti fiamminghi cinquecenteschi (Bosch su tutti).

Saranno un pittore amatoriale solito disegnare animali e bestiari (probabile omaggio al grande Albrecht Durer) e un docente di zoologia e sistematica all'Università di Edimburgo, un individuo un po' bizzarro che si definisce “collezionista di mostri”, a venire a capo del mistero, dopo una lunga indagine e una serie di apparizioni e aggressioni. Un plot molto coinvolgente che propone due personaggi azzeccati, in linea con gli stilemi degli indagatori dell'occulto nati sulla scia dei successi di Sherlock Holmes, che ritroveremo ne Le Creature della Follia (2023).

Grandissimo fascino, sense of wonder da vendere, tensione piuttosto costante e punte di puro terrore culminano in un epilogo visionario che fa di Predatori dall'Abisso un raro “capolavoro” weird italiano. Torello apprende a pieni voti la lezione di H.P. Lovecraft per rappresentare il sottogenere cosmic horror alla maniera del Maestro. Sbagliato però ritenere Predatori dall'Abisso un testo “lovecraftiano” in senso stretto. Non vi è infatti nulla di legato ai “Grandi Antichi” né una visione cupa e nichilista, restando invece sempre aperta una via per la salvezza dell'uomo in un'ottica di conflitto interdimensionale tra creature contrapposte.

I contenuti, sebbene accattivanti e “popolari”, sono complessi e colti. Torello, pur lasciandosi prendere la mano in alcuni dialoghi troppo contemporanei (penso all'infermiere che, per dileggio dell'interlocutore, sostiene - durante un incendio - di non stare a grattarsi le palle) e spesso conditi da espressioni di scherno, trova l'equilibrio tra uno stile forbito e, al tempo stesso, fluido e immediato che rende la lettura molto spassosa e mai pesante (non come altri autori vezzeggiati a livello internazionale che si concedono alla poesia in testi di narrativa, appesantendo ritmo e dinamicità con inutili virtuosismi). Inoltre cerca di dare sostanza alla vicenda. Introduce infatti una serie di dialoghi funzionali a stimolare la riflessione del lettore sui misteri dell'universo, sulla limitatezza della specie umana (“l'effimero, insignificante pensiero umano non può nemmeno sfiorare la forma dell'universo, figuriamoci ciò che contiene”) e sui limiti della scienza, rappresentata come una conoscenza in perenne evoluzione e dunque costretta a inseguire un universo sfuggevole e pertanto non addomesticabile (“Io penso che alla scienza continui a mancare una visione d'insieme, oltre alla necessaria modestia di chi, per prima cosa, ammette di conoscere ben poco dell'infinito che circonda i nostri poveri sensi”). Vengono poi accennate questioni (casi bizzarri o rimandi a opere letterarie di fantasia) che non verranno via via accantonate, facendo cenno a esperienze straordinarie avvenute in altre occasioni quasi a voler riservare l'eventualità di tornarci sopra in successive opere. Interessante anche il tentativo di analizzare i presunti usi locali, attraverso un abbozzo di dialetto autoctono e un tentativo di mettere in scena tradizioni locali quali fuochi della miseria, gusti culinari e capi di vestiario dell'epoca. Non mancano inoltre occasioni per lanciare strali contro la società, in un parallelo che dal passato vuol colpire la contemporaneità nostrana. Così abbiamo un giornalista arrivista che cerca di descrivere gli accadimenti da un'ottica falsa e criminalistica (distorsione dell'informazione), poiché la gente vuole il sangue. “La gente se ne infischia di mostri e bestiacce. Desidera la crudeltà umana sopra ogni altra cosa, compresa la verità: non potete nemmeno immaginare quanto se ne bea! E io voglio fare carriera... e per arrivarci servono assassini e storie torbide di vendetta, di soldi e di sesso.” Un'analisi cinica che, tuttavia, rappresenta la quotidianità, basti vedere gli speciali televisivi che vengono messi in piedi in fretta e furia al verificarsi di stragi familiari o di omicidi truculenti (la violenza piace, a quanto pare). Lo stesso si potrebbe dire dello sfogo di un oste che, poco dopo aver assistito a una rivolta sedata a colpi di manganello dalle guardie, invece di calarsi nei panni dei più deboli, da perfetto emblema dell'egoismo, afferma di non capire perché si debbano tenere in vita dei ricoverati in un ospedale psichiatrico. “Non servono a niente e sono anche pericolosi. Andrebbero sterminati come i topi.”

In conclusione Predatori dall'Abisso è un must per tutti gli appassionati di cosmic horror, trattato con competenza e cultura, grazie a continui rimandi alla tradizione dell'occultismo occidentale sebbene poi, alla fine, tutto si risolvi in un'indagine criptozoologica che mostrerà tutti i limiti della scienza umana, ruotando sulla concretezza di creare un varco dimensionale tra il nostro mondo e le creature di un lontano universo. In altre parole, Torello entra con questo romanzo nell'alveo di opere quali Saturnring (1920) di Gustav Meyrink, From Beyond (1934) di Lovefraft, Long Hollow Swamp (1976) di Brennan (da cui arriva l'idea degli invertebrati/molluschi succhiasangue che si palesano di notte e si muovono a gran velocità, un po' come avverrà in The Drawing of the Three di Stephen King) e Picatrix (1998) di Valerio Evangelisti. Vi assicuro, soprattutto per le prime trecento pagine e gli ultimi tre capitoli (la restante parte tende un po' a tornare su sé stessa), Predatori dall'Abisso è una delle migliori opere weird uscite in Italia, probabilmente la migliore cosmic horror story, peraltro con una struttura narrativa e dei contenuti convenzionali (nelle opere successive Torello cercherà sempre più di personalizzare i contenuti) in osssequio a quanto siano abituati i lettori della narrativa dei grandi maestri weird. Lunga vita alla narrativa di Ivo Torello, a prescindere dalle opinioni personali e dalle diverse impostazioni filosofiche che contribuiscono a rendere più interessanti le discussioni, variegando i punti di vista e stimolando i ragionamenti dei singoli (piuttosto che delle masse). Se vi piace il weird letterario: leggete Torello.


L'autore  
IVO TORELLO

La conoscenza è una spirale su cui possiamo camminare per un po', domanda dopo domanda dopo domanda, senza la benché minima possibilità di giungere a conclusioni definitive.”