Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

lunedì 24 aprile 2023

INTERVISTA A FAUSTO MARCHI

FAUSTO MARCHI AI NOSTRI MICROFONI. A cura di Matteo Mancini

 


A distanza di due anni, torniamo a incontrare l'amico di penna FAUSTO MARCHI, autore tra gli altri de La Vestale di Dagon (2018) e Rime Gotiche (2021). L'occasione ci è propizia per presentare e spendere alcune considerazioni sulla sua ultima fatica: il giallo Il Bacio del Crisantemo, uscito il febbraio scorso per la Susil Edizioni.


M.M.: Carissimo Fausto, ben tornato. Ho appena finito di leggere Il Bacio del Crisantemo e, avendo già letto alcune tue precedenti opere, l'ho trovato una perfetta sintesi di tutti i tuoi interessi. Il weird, la passione per l'arte pittorica, l'infatuazione per le sirene e i miti legati al culto di Dagon si ripropongono all'ennesima potenza, accompagnati da un pizzico di erotismo e dalle tue classiche “eroine” borderline. Nell'occasione, tuttavia, mi è sembrato di intuire uno spiccato omaggio a un ulteriore genere che ti è caro: l'hard boiled. Che ci dici al riguardo e quali sono i tuoi autori preferiti di questo genere?


F.M.: Ciao Matteo; prima di tutto ti ringrazio per l’eccellente analisi strutturale di mio ultimo thriller: veramente un notevole lavoro che rivela la padronanza della materia e la tua professionalità. Dunque, nel romanzo ricompaiano, come da te giustamente evidenziato, alcune tematiche a me care come la pittura decadente e simbolista, i soggetti lovecraftiani, il mare in tempesta, la sensualità femminile oscura e tentatrice; ma, in questo caso, invece di un horror, abbiamo di fronte un giallo, o meglio un thriller; non si tratta però del classico “giallo deduttivo” all’inglese, stile Agatha Christie tanto per intenderci, bensì un “giallo all’italiana” con chiari rimandi al genere “hard boiled” in voga negli Stati Uniti nel trentennio inizio Anni Trenta fine Anni Cinquanta. Si tratta di un filone nel quale chi indaga è, nella maggior parte dei casi, un detective non professionista oppure un normale cittadino coinvolto, suo malgrado, in una serie di avvenimenti criminosi dei quali deve far luce. I personaggi, in questo caso, sono dei “duri”, un po’ misogini, forti bevitori, generalmente in aperto contrasto con i metodi della polizia e via dicendo. Capostipiti di questo genere sono stati Dashiell Hammett e Raymond Chandler, poi Mickey Spillane, Henry Kane e Richard Prather, i quali ne hanno esasperato i toni, incrementando la violenza e aggiungendo una buona dose di sesso.


M.M.: Come è arrivata la scelta di pubblicare con Susil Edizioni e che percorso editoriale ha fatto Il Bacio del Crisantemo?


F.M.: Inizialmente ho inviato i file del romanzo, insieme alla sinossi e una breve mia biografia a tutte le maggiori case editrici e poi anche alle cosiddette “medie”; dalle prime non ho avuto alcuna risposta - probabilmente per i motivi che poi spiegherò nella domanda numero undici -, dalle seconde, invece, ho ricevuto qualche confutazione, peraltro negativa o evasiva, per cui ho dovuto rivolgermi alle piccole case. Di quest’ultime la Susil, la quale mi aveva già pubblicato Rime Gotiche, si è sempre distinta per l’ottima grafica, la professionalità e la correttezza, cosa che mi ha convito ad affidarmi di nuovo a essa.


M.M.: Nei primissimi capitoli del romanzo dedichi uno spaccato ad alcuni quartieri capitolini, un po' sulla scia di opere come L'Arte del Vagabondaggio di Arthur Machen. So tuttavia che ti sei ispirato anche a testi francesi per questi passaggi. Quanto ti affascina il vagare per le vie urbane, cercando di intravedere quei dettagli che sfuggono ai comuni cittadini sempre più assorbiti dalla frenesia di tutti i giorni? C'è un po' di te nel protagonista?


F.M.: Certamente un esteta come me, amante del Decadentismo e del Simbolismo, ha nel suo codice genetico il desiderio di vagare per la metropoli alla ricerca di luoghi insoliti, fuori dal cosiddetto “circuito” turistico; d’altronde, il personaggio del “flaneur” è un termine francese che il grande poeta Charles Baudelaire rese noto. Il girovagare senza fretta, in modo quasi ozioso, è diverso dalla visita progettata e finalizzata verso un determinato monumento o museo; il filosofo Walter Benjamin analizzò con cura questo comportamento, che ritroviamo anche nello scritto dello svizzero Robert Walser “La passeggiata” e, se non erro, nella descrizione di Lisbona fatta da Fernando Pessoa.



M.M.: Già ne La Vestale di Dagon ti eri divertito a immaginare una contaminazione tra il mondo di Lovecraft e l'Italia. Qua cerchi di fare lo stesso, pur velando il tutto ricollegando i riferimenti a idoli pagani di derivazione fenicia e siriaca. Che ci dici del quartiere al centro del mistero, dove ha sede l'antiquario da cui fuoriescono il quadro e il coltello sacrificale su cui lavoreranno i due protagonisti della storia? E' un quartiere di tua invenzione letteraria?


F.M.: Certo, si tratta di un quartiere di pura invenzione, ma con descrizioni anche storiche e artistiche che gli ho fornito per farlo apparire il più possibile autentico. D’altronde anche Lovecraft nella Maschera di Innsmouth e in altri racconti - tra i quali L’orrore di Dunwich - ha fornito precise descrizioni delle cittadine e dei luoghi, cosicché appaiano vere. Un quartiere fatiscente di Roma di mia invenzione mi è sembrato il luogo adatto per ambientare l’inizio del romanzo, un luogo ove avvengono i due delitti, ma poi il thriller si snoda nella Roma autentica, quella reale, con i suoi ristoranti, i suoi musei, i suoi monumenti, il suo traffico e i suoivizi, nei quali la coprotagonista Coppelia si muove molto bene.



M.M.: Il giallo e il mondo della pittura. Da dove hai preso l'idea del pittore maledetto del testo, il russo Ivan Ostrosky, che cela indizi nelle sue opere per condurre i critici a mettere mano su un tesoro sepolto?


F.M.: Beh, in effetti c’è un pittore russo, realmente vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, al quale mi sono ispirato per descrivere Ivan Ostrosky, si tratta di Nicholas Kalmakoff; costui, di nobile famiglia russa, nacque però in Italia, a Nervi, poi comunque si trasferì a San Pietroburgo, ove rimase fino alla Rivoluzione. In quella città venne in contatto con il gruppo “Mir Isskoustva”, un movimento artistico russo vicino al simbolismo e all’art noveau. Kalmakoff disegnò alcune scenografie per la Salomè di Wilde, ma queste opere erano troppo sensuali e realistiche per cui ebbe guai con la polizia. In quel periodo incominciò anche a interessarsi alla demologia e frequentò alcune sette eterodosse come gli “Skopzi” e i “Chlysty”, setta quest’ultima alla quale sembra appartenesse anche Rasputin. Molto visionario si convinse profondamente dell’esistenza del diavolo e lo raffigurò in molte sue opere; inoltre, per lui, la femmina era l’essenza del Maligno e la bellezza il suo tramite. Nel 1924 si trasferì in Francia ove visse sempre più in ristrettezze economiche, fino addirittura in un ospizio dei poveri, ove morì, in preda alla follia, nel 1955, solo e dimenticato. Indubbiamente, uno di quei personaggi che mi attraggono in maniera morbosa. Di lui ho inserito un paio di riproduzioni dei suoi dipinti.

 


M.M.: La struttura de Il Bacio del Crisantemo è molto prossima al cosiddetto sottogenere del whodunit e l'ho trovata affine alle strutture dei gialli argentiani degli anni settanta, quelli dove la polizia resta ai margini della vicenda e due personaggi improvvisati, come la Nicolodi e Hemmings di Profondo Rosso, tirano le fila delle indagini. Cosa puoi dirci al riguardo e quali sono state le tue fonti di ispirazione?


F.M.: Come tu affermi in effetti nei thriller di Dario Argento l’apporto della polizia è minimo e ridotto a puro corollario dell’indagine che, volente o nolente, il protagonista conduce per conto proprio; anche nel genere hard boilled statunitense degli Anni 50 e 60 l’investigazione è portata avanti da un detective solitario, il quale il più delle volte non collabora con le forze dell’ordine o, addirittura, è in contrasto con queste ultime. Io mi sono districato tra questi due generi nello scrivere il thriller, il quale giostra anche sull’inquietante mistero del quadro e sulla psiche contorta dei personaggi femminili.



M.M.: Come già ne La Vestale di Dagon, si nota un tuo culto per il cibo esotico e particolare, qua addirittura per gli alcolici, i cocktail e le specialità messicane. Non a caso dedichi molti momenti alla descrizione culinaria. È una scelta legata a una tua passione per la cucina oppure risponde ad altri motivi, magari a un tentativo di rallentare le descrizioni e far respirare la vicenda con inserti distesi sulla scia degli insegnamenti lasciati da un regista del calibro di Alfred Hitchcock?


F.M.: No, non c’è alcuno escamotage finalizzato ad allungare il romanzo; sono sempre stato attratto dalla cucina raffinata e dall’enologia. A casa ho una discreta collezione di vini rossi italiani, ma anche francesi, cileni, spagnoli, sudafricani e mi diletto nel preparare piatti elaborati. La cucina francese, per la sua decadente raffinatezza mi ha sempre affascinato e a Pasqua di quest’anno ho proposto alcune specialità d’oltralpe. Per quanto riguarda i cocktail, quest’ultimi, indubbiamente, si riallacciano al discorso del giallo “hard boilled”, ma devo aggiungere che mi hanno sempre attratto per l’ingegnoso mix di sapori ed è il mio modo preferito di bere superalcolici. E poi sono uno snob senza attenuanti: quando fumavo (ho smesso trenta anni fa) acquistavo solo sigarette di classe come le Dunhill o le Silk Cut, oppure tipo “orientale”, cioè quella a sezione ovale e prive di filtro, con il pacchetto a “cofanetto”, come le Serraglio, le Turmac o le Macedonia, che ormai, con l’appiattimento della globalizzazione, non si trovano più; per quanto riguarda i profumi cerco ancora marche “retro” come Habit Rouge, Lancetti Uomo , Arden for Men, tanto per citarne alcuni…mi piacerebbe Canasta di Jacques Fath ma è quasi introvabile, anzi ne esiste uno negli USA ma costa 370 euro! Se fossi ricco non acquisterei mai una Jaguar, bensì una Daimler, che è identica alla Jaguar ma più di élite, anche se ormai è stata inglobata nella più celebre casa automobilistica. Per finire sono un appassionato della cosiddetta “rasatura tradizionale”, infatti uso i classici rasoi di sicurezza tipo “Gillette” a monolama cambiabile, adopero saponi da barba aromatici da montare nella ciotola con il pennello e after-shave ricercati. In effetti mi atteggio a un dandy decadente!



M.M.: Ti sei inoltre ispirato a certi vezzi della letteratura gialla di inizio Novecento. Penso a tutte quelle storie incentrate su figure di detective, quali Sherlock Holmes di Conan Doyle o il principe Zaleski di Matthew P. Shiel, che ricorrono a droghe e nonostante questo sono acuti indagatori. Qua abbiamo una coprotagonista che fuma oppio ed eroina. Una scelta piuttosto coraggiosa alla luce del perbenismo bigotto dei tempi moderni. Come giustifichi questa tua mossa controcorrente?


F.M.: Caro Matteo, a me le donne “borderline” mi hanno sempre morbosamente attratto; per dirla alla Vasco Rossi direi “donne in cerca di guai” perché incasinate in situazioni estreme che loro stesse hanno generato. Quando militavo nell’Ordo Templi Orientis (che ho lasciato successivamente non essendo in linea con le loro tematiche) ne ho conosciute parecchie: belle, seducenti, coperte di tatuaggi, con piercing anche sui genitali, ma vere e proprie mine vaganti! La donna può essere via di salvezza o fonte di perdizione, ma i miei personaggi maschili incontrano sempre le prime, anche se non ne vengono coinvolti. Conobbi tanti anni fa una giovane che aveva lavorato, qui a Roma, in uno studio sadomaso, una tipa molto affascinante che ricordava vagamente la Valentina di Crepax e che ispirò il personaggio di Rosaspina del mio primo romanzo di scavo psicologico “La casa del gufo” che tu non hai letto. Anche la Coppelia del thriller si rifà a lei, però solo parzialmente.


M.M.: Noto la particolare scelta dei nomi dei personaggi, tutti piuttosto ricercati tra nomi libanesi e altri legati a opere di Clement Philibert Lèo Delibes. Lo stesso protagonista, che è uno scrittore a caccia del suo best seller, si chiama Fulvio Georgiev ed è di origine est-europea, una scelta quantomai curiosa che sembra rispondere a una qualche ragione. C'è un motivo particolare per queste scelte?


F.M.: Sì, certamente. Il mondo bizantino mi ha sempre attratto e affascinato - lo hai anche notato nell’accurata analisi delle mie sillogi liriche “Rime gotiche” - per cui le ex provincie “levantine” dell’Impero, quel coacervo di culture e di raffinatezze esercitano su di me un fascino irresistibile. Per quanto riguarda il personaggio di Fulvio Georgiev ci sono precise corrispondenze con me, perché anch’io sono ortodosso e non cattolico. Aderii all’Ortodossia durante gli studi universitari, quando ero sentimentalmente legato a una ragazza greca che studiava in Italia.



M.M.: Il Bacio del Crisantemo è il tuo terzo romanzo, probabilmente quello più personale e caratterizzato. Hai infatti speso molte energie per delineare i profili comportamentali e psicologici dei vari personaggi, ognuno ben distinto dagli altri. Come reputi, da questo punto di vista, Il Bacio del Crisantemo rispetto ai precedenti due?


F.M.: In effetti lo scavo psicologico dei personaggi c’è anche nel mio primo romanzo La casa del gufo῎, che, come scritto prima, tu non hai avuto occasione di leggere. In quel romanzo, che non è un horror e neppure un thriller bensì la narrazione di un’ossessione fetish/erotica che il personaggio principale si porta dietro dai tempi dell’adolescenza, c’è la descrizione di un flaneur῎ il cui girovagare per le vie di Roma lo metterà, dopo un fortuito incontro con una giovane, bella e perversa, di fronte a un passato che ritorna. Ne La vestale di Dagon῞ la descrizione è principalmente fisica, incentrata nelle figure della donna matura ῞devota῎ alla setta e nell’inquietante sirenide Lavinia, figlia del gestore della trattoria. Nel thriller ῞Il bacio del crisantemo῞ ho cercato di rappresentare un personaggio come Fulvio Georgiev, lo scrittore, freddo e distaccato, un po’ cinico, investigatore suo malgrado, in contrasto con la sensuale e affascinante Coppelia, vera ragazza ῞borderline῞, piena di contraddizioni, ma dotata anche di notevole intelligenza, che aiuterà lui nella ricerca dell’assassino del suo amico Bruno.

M.M.: Passiamo al Fausto Marchi lettore. A livello di autori contemporanei, compresi gli emergenti italiani, c'è qualche scrittore che ti ha colpito e di cui sei rimasto favorevolmente impressionato? Come pensi di inserirti in questo difficile mondo dove persino autori di importazione pluripremiati all'estero faticano a vendere 300 copie?


F.M.: Dunque, per quanto riguarda la prima parte della tua domanda ti rispondo che ho letto con interesse scrittori di gialli o di thriller del calibro di Donato Carrisi, Jacopo de Michelis, Ilaria Tuti (quest’ultima a mio parere piuttosto sopravvalutata) e Giorgio Faletti (prematuramente scomparso), ma quest’ultimo solo per la sua prima opera “Io uccido”, dopo diventa troppo ripetitivo e con una prosa fumettistica. Questo per gli italiani, invece, per gli “stranieri” ho terminato ultimamente “Lovecraft, contro il mondo, contro la vita” e precedentemente “Estensione del dominio della lotta” e “Piattaforma” del francese Michel Houellebecq, uno, secondo me, dei più interessanti e validi autori contemporanei. La seconda tua domanda tocca un tasto triste e dolente dell’editoria italiana; infatti, ormai le case editrici nostrane tendono a dare fiducia oltre che a scrittori già affermati (come è ovvio), solo a esordienti che abbiano “visibilità” mediatica, cioè se sei uno sportivo, un giornalista, un attore che inventa un racconto, hai facilità a trovare chi te lo pubblica, anche se hai scarse qualità di scrittore, tanto in quei casi ci pensano i “ghost writers” a correggere il testo. Per i nuovi autori sconosciuti l’unico ripiego sono le piccole case editrici o le autopubblicazioni, che faticano nella distribuzione presso le librerie. Questo giustifica e spiega il basso livello delle vendite degli esordienti perché, può sembrare strano, ma online acquistano i tuoi libri solo parenti o amici, mentre in libreria, specie se appare il famoso “totem” pubblicitario, anche chi non ti conosce è incuriosito dalla copertina e dalla sinossi e ti compra il romanzo.



M.M.: Che ne pensi della piega che ha preso la letteratura del terrore del nuovo secolo? C'è qualche scrittore che apprezzi in particolare, oppure preferisci restare legato ai grandi classici di metà Novecento?


F.M.: Diciamo che, per me, l’epoca d’oro della letteratura horror va dalla fine del secolo XIX a circa metà del secolo XX, cioè dalla fine del 1700 alla Seconda Guerra Mondiale, dopodiché si perde quella nota di mistero e, soprattutto, vengono a mancare i miti classici di tale genere (vampiri, licantropi, mostro di Frankenstein) e prevalgono altri come gli zombie; ma anche quando i primi persistono ne sono snaturati, basti pensare a film recenti su bande di vampiri che combattono contro bande di licantropi o vampiri teenager! Anche esulando da tali temi, romanzi come quelli di King o di Anne Rice non mi attraggono, ecco perché ho sempre apprezzato la serie dei “Racconti di Dracula” che trattava l’horror in un modo oserei dire romantico.



M.M.: So che sei già all'opera per il prossimo romanzo. Troveremo ancora i personaggi de Il Bacio del Crisantemo, puoi anticiparci qualcosa?


F.M: A questa tua domanda posso rispondere con certezza: sì, almeno per quanto riguarda Fulvio Georgiev e il commissario Venanzi, però compariranno anche nuovi personaggi; si tratta di una serie che ho in mente simile a quella del film “L’uomo ombra” con William Powel e Myrna Loy, cioè proseguita con “Dopo l’uomo ombra”, “Si riparla dell’uomo ombra” e via dicendo, solo che qui i titoli riguarderanno i crisantemi.



M.M.: Hai ulteriori progetti futuri?


F.M.: Beh, crisantemi a parte, sto ultimando due racconti gotici in stile “Racconti di Dracula”, poi un romanzo erotico e ho in mente un altro thriller che si snodi nel sinistro mondo delle sette sataniche, ove erotismo e blasfemia si mescolano una cupa trama. Ho anche un’idea fissa: cioè quella di cimentarmi con un sottogenere del romanzo poliziesco, cioè il cosiddetto ῞enigma della camera chiusa῎, per cui sto leggendo maestri del calibro di Gaston Leroux, Dickson Carr, Anthony Berkeley e Hake Talbot, per istruirmi.

Un saluto all'amico Fausto, che attendiamo a nuove fatiche.