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domenica 24 marzo 2024

Recensione Narrativa: IL SEGNO DI YOG SHOTOT di Fabio Calabrese.

Autore: Fabio Calabrese.
Anno: 2020.
Genere: Horror - Weird.
Editore: Dagon Press.
Pagine: 170.
Prezzo: 15,50 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Quarta di sei antologie, uscite a irregolari intervalli periodici per la Dagon Press, dedicate da Fabio Calabrese alla narrativa di Howard P. Lovecraft. Definito dal pluri-vincitore del Premio Italia Donato Altomare “il Lovecraft italiano” e da Pietro Guarriello un “epigono e continuatore a tutti gli effetti dell'arte di Lovecraft”, Fabio Calabrese, nell'occasione, non convince pienamente dando l'impressione, contrariamente a quanto affermato da illustri studiosi, di essere più un imitatore che un artista avente affinità col Maestro Lovecraft.

 
L'AUTORE
Classe 1955, Fabio Calabrese è un vero e proprio veterano che ha bazzicato importanti ambienti del fantastico italiano, faticando tuttavia a imporsi dopo i promettenti inizi. Attivo fin dai primi anni '70, addirittura al fianco di Giuseppe Lippi, suo compagno di liceo a Trieste, nel dare vita a Il Re in Giallo – all'epoca una delle più apprezzate fanzine e dal terzo numero in poi diretta proprio da Calabrese – entra nel giro della Garzanti, conquistando nel 1975 la finale del Premio Shelley indetto dalla fanzine padovana The Time Machine. Il piazzamento gli vale la pubblicazione all'interno dell'antologia fantascientifica Universo e Dintorni (1978) a cura di Insiero Cremaschi che, tra gli altri, include racconti di nomi altisonanti del fantastico italiano dell'epoca quali Lino Aldani, Vittorio Curtoni, Adalberto Cersosimo, Giuseppe Lippi, Vittorio Catani, Renato Prestiniero e Gianni Montanari. Un inizio folgorante a cui però, a differenza di Lippi che si trasferisce a Milano per lavorare prima con Armedia e poi con Mondadori, stenta a dare immediato seguito. Si laurea in filosofia e diventa professore di scuola secondaria, portando avanti Il Re in Giallo fino a giungere al numero sette. Tra il 1986 e il 1988 piazza tre racconti per altrettante antologie curate da Gianni Pilo per la Fanucci, tra le quali figura L'Abisso di Cthulhu. Pubblica sporadicamente un altro pugno di racconti, selezionato da grandi firme del movimento italiano, per Perseo, Solfanelli, Il Cerchio Iniziative Editoriali e, in un caso, per Mondadori con l'inserimento del racconto Starlight nel Millemondi Primavera 1998: Strani Giorni, un'antologia tutta italiana curata da Giuseppe Lippi. Tra questo gruppo di antologie figura anche Gli Eredi di Cthulhu (1990), raccolta di culto curata da Gianfranco De Turris.

Nel 2005, a cinquantatré anni, pubblica, per Perseo Libri (attualmente acquistabile tramite Elara), la sua prima raccolta di racconti: Occhi d'Argento (2005). Trova in seguito nella Dagon Press l'editore giusto per liberare la propria inventiva, pubblicando - dal 2008 al 2023 - sei antologie tutte dedicate a Lovecraft. Tanti raconti dunque, ma non a sufficienza per ottenere un box nel saggio Guida ai Narratori Italiani del Fantastico (Odoya, 2018), in cui gli vengono dedicate sole quattro righe a metà colonna, facendone di fatto uno scrittore non tenuto in grande considerazione dai curatori (Walter Catalano, Andrea Vaccaro e Gian Filippo Pizzo.

Lo stile di Calabrese, quantomeno stando alla lettura de Il Segno di Yog Shotot, modernizza il lessico di Lovecraft. Vengono meno le frasi ridondanti e i lirismi, dando spazio piuttosto frequente ai dialoghi. I racconti sono brevi, non superano le trenta pagine, e beneficiano sovente di chiusure a effetto finalizzate a scuotere il lettore. Purtroppo manca, ad avviso di questo recensore, il “cuore” e tutto si traduce in un esercizio di stile. A parte un paio di racconti, si percepisce una costruzione dei soggetti in modalità “catena di montaggio”. Calabrese è troppo legato ai contenuti del Solitario, cita episodi dei racconti come se fossero accadimenti realmente successi negli anni venti, ambienta le storie a Dunwich, Arkham, Innsmouth e cita di continuo Providence e il Necronomicon (una vera ossessione). La sensazione che si ha nel leggere è quella di avere a che fare con storie suggerite dall'intelligenza artificiale, non che Fabio Calabrese abbia fatto ricorso a tale scorciatoia. Mi spiego meglio. I racconti, alcuni dei quali ripetitivi nell'affermare i medesimi concetti, sono sviluppati (il più delle volte sommariamente) ruotando su soggetti che prendono una serie di ingredienti dalle storie di Lovecraft per rimontarli secondo diverse combinazioni in un collage finale che non offre niente di innovativo ai lettori. Alla fine escono fuori dei racconti in grado anche di farsi apprezzare singolarmente (funzionerebbero meglio in antologie collettive) ma che, messi insieme, finiscono per lo scocciare persino il lettore più fedele del weird ortodosso. L'autore ricorre troppo spesso ai medesimi ingredienti, proponendo svariate storie che sono l'una lo sviluppo dell'altra o che raccontano la medesima storia da prospettive lievemente diverse. Ne esce fuori un'antologia piacevole, che intrattiene, ma che non può certo reputarsi un modello di riferimento. Ne Il Segno di Yog Shotot Fabio Calabrese non è né un Lovecraft italiano, né un epigono, ma un mero imitatore (non ce ne voglia).

Veniamo ora all'analisi dei singoli racconti.


RECENSIONE NEL DETTAGLIO

Undici racconti per centocinquantaquattro pagine, dalle ventitré pagine de Il Trono di Llogra alle sei de Il Suo Nome. Gli ingredienti sono soventi gli stessi e sono rappresentati dalla presenza di grimori (almeno quattro racconti ripropongono la lunga sequela di titoli, in modalità copia e incolla da Lovecraft, collocati ora in biblioteche comunali, ora in collezioni private ora in scantinati segreti) la lettura delle cui formule apre dimensioni misteriose provocando la scomparsa dello sprovveduto lettore; vi è il tema della creatura parassitaria che assume il corpo dell'uomo o lo ingloba in sé stesso, facendolo muovere alla stregua di un mostro; vi sono le descrizioni dettagliate e ossessive (ripetute in quasi tutte le storie) di creature che richiamano alla memoria piovre giganti e chele di granchio; c'è il tema dei popoli degenerati perché frutto di rapporti incestuosi; insomma non c'è niente che non si sia già letto. Nonostante questo, vi sono almeno cinque racconti da salvare, che acquisterebbero consistenza maggiore se inseriti in antologie collettive.

Tra tutti brilla Il Trono di Llogra, opera già pubblicata da Calabrese nel lontano 1986 all'interno dell'antologia Eroi e Sortilegi. Sempre Fantasia Eroica della Fanucci Editore (curatela Gianni Pilo). È la storia a più ampio respiro e dunque più sviluppata dell'antologia, che riesce a generare quel sense of wonder che, ad avviso di questo recensore, manca in diversi racconti. Due ladri, a intervalli diversi, finiscono nelle grinfie di una città, un tempo sfarzosa, ormai decadente che sorge in pieno deserto. Il luogo, denominato Darna, è costellato da raffigurazioni di una divinità dalla forma di polpo e da edifici fatiscenti che, tuttavia, sfoggiano innesti in oro che contrastano con il clima di povertà generalizzato. Gli abitanti sono minuti, stranamente bianchicci e suggeriscono una linea genealogica degenerata a seguito, probabilmente, di unioni tra consanguinei. I due stranieri si presentano con lo scopo di depredare le ricchezze e, a tal riguardo, sfruttano la tradizione locale di eleggere, ogni anno, un nuovo sovrano tra coloro che risulteranno vincitori in una serie di gare e duelli all'ultimo sangue in arena. Quello che non sanno è che, una volta incoronati, saranno destinati a fornire il loro corpo a un cervello di natura tentacolare che sostituirà definitivamente il loro.

Bel racconto di atmosfera, nulla da dire, con punte gore estranee rispetto agli altri racconti. Calabrese descrive l'arrivo del secondo dei ladri in città, i combattimenti (stile Spartacus), le strutture architettoniche, le caratteristiche degli abitanti e l'aspettativa del manigoldo di mettere le mani sulle ricchezze, il tutto fino allo sconvolgente finale che riscrive sotto un'altra ottica quanto fin lì accaduto. Pur se derivativo è davvero un ottimo testo, non a caso selezionato da Fanucci. Tra l'altro, proprio a Il Trono di Llogra si deve la pertinente copertina dell'antologia disegnata da Pietro “Pitt” Rotelli.


Un altro racconto riuscito è Ospite Temporaneo, uno sci-fi che allude velatamente ai grandi antichi o, meglio, a creature che vivono ad anni luce rispetto all'uomo e che ne sono predatori. Non colpisce tanto per il soggetto, che propone un'equipe scientifica impegnata a realizzare un progetto che possa aprire un varco dimensionale nello spazio, ma per come Calabrese riesca in modo convincente a giustificare il tutto. In particolare è interessante la descrizione della finalità del parassita extraterrestre entrato nel corpo di un astronauta inizialmente disperso attorno a una base spaziale. “C'è un fenomeno naturale che ricordi la possessione? Si, il parassitismo... Un parassita può modificare il comportamento dell'ospite fino a prenderne il controllo...” ed è il caso specifico rappresentato da tutti quei parassiti che, in natura, sfruttano il corpo parassitato per andare a colpire il vero obiettivo (di solito un predatore del parassitato). Un bel racconto, peraltro originale rispetto agli altri proposti. Finale sospeso, senza scadere in descrizioni di mostruosità aliene e dunque più efficace di altri.


Non delude neppure il racconto che da il titolo all'antologia ovvero Il Segno di Yog Shotot dove Calabrese, che pure si concede momenti erotici e uscite poco felici (come una ragazza che, in fondo in fondo, brama di esser stuprata) piuttosto aliene rispetto alla narrativa di Lovecraft, costruisce una gran bella atmosfera notturna. Immagina una ragazza, appena scesa dal treno, dispersa nei vicoli bui di una Dunwich spettrale, con l'intenzione di recarsi presso la zia morente lungo sentieri fangosi delimitati da case arcaiche. La storia resta in sospeso tra Rosemary's Baby, Il Presagio e L'Orrore di Dunwich, quindi piega su un finale abbastanza imprevedibile che propone l'azione di un serial killer e, al contempo, un epilogo che sembra ricalcato dall'ultimo episodio del film I Delitti del Gatto Nero. Meno brillante degli altri due, ma comunque buono e imprevedibile fino in fondo.


Dietro questi tre racconti, a mio avviso, ne abbiamo altri due interessanti seppur meno qualitativi. Bottino di Guerra, nella sua semplicità, ha il merito di distinguersi dal resto dell'antologia per un soggetto disancorato dai cliché lovecraftiani. Un reduce dal conflitto in Irak, importa negli Stati Uniti un'anfora contenente dei semi di una pianta misteriosa, forse riconducibile ai giardini pensili dell'antica Babilonia. Incoraggiato da un professore, il militare pianta i semi con l'intenzione di vendere ai giardini botanici il prodotto finale, sebbene il suo pastore tedesco manifesti ogni volta una strana contrarietà al cospetto dei semi. Nata la pianta, il protagonista scoprirà che la definizione di giardini “pensili” è caratterizzata da un imperdonabile refuso di traduzione trovandosi al cospetto, piuttosto, di una misteriosa pianta un tempo facente parte di un “giardino prensile”. Pur se con delle incongruenze (l'avversità del cane fin dall'inizio), è una storia divertente che gioca intelligentemente sul termine “pensile”-”prensile”. Carino.


Piace meno, ma è comunque accattivante e ben cadenzato nel ritmo Pembroke Manor. Un'indagine nei pressi di Arkham condotta da un detective privato, rivela una realtà inconfessabile. Il possidente Peter Rickert, scomparso nel nulla e ricercato dalla sorella, si è trasformato in un essere insettiforme divoratore di carne umana (“Attorno al nostro mondo ci sono dimensioni sconosciute e proibite, in cui però l'uomo che conosce le formule segrete può viaggiare con la forza del pensiero. Quello sconsiderato ha usato le formule del Necronomicon ed è tornato da un viaggio astrale con le sembianze di una creatura di quelle zone dimensionali”), imprigionato nel sottosuolo della sua villa da un tuttofare intenzionato a continuare a beneficiare delle ricchezze del datore di lavoro. Storia semplice, kafkiana, che scivola verso la fine con i giusti tempi senza far calare mai il coinvolgimento.


Il buono dell'antologia, a mio avviso, si ferma qua. Non che il resto sia da buttare, ma in questo contesto appare come già letto o comunque sfruttato per i racconti sopra riportati. Hypnos-Thanatos, Il Suo Nome e Il Misterioso Dott. Weinberg riprendono, da diversa prospettiva, il medesimo spunto di Pembroke Manor. Le tre storie infatti parlano di soggetti che, tramite la lettura di formule magiche contenute in testi proibiti, dischiudono i veli che separano il nostro mondo dall'altra dimensione, finendo vittime di creature mostruose e di una progressiva alterazione psichica che allontana il sonno e conduce nella maglie della follia. Hypnos-Thanatos strizza l'occhiolino, per costruzione e sviluppi, a Nightmare di Wes Craven, con il protagonista perseguitato nel sonno dai mostri; Il Misterioso Dott. Weinberg propone una serie di sedute psicanalitiche per giungere alla ragione e alla cura degli incubi che perseguitano il protagonista, salvo poi sconvolgere i lettori per effetto di un epilogo tanto forzato quanto spiazzante (tra l'altro il protagonista si scopre essere un conoscitore sopraffino dei testi maledetti studiati dallo psicologo che brama di tramutarsi in un essere dell'altra dimensione); Il Suo Nome, il più debole dei tre, presenta le creature dell'altra dimensione alla stregua degli adepti di un credo che ha nell'uomo la vittima sacrificale pronta a essere divorata.


Piuttosto banale è La Preda, in cui il tentativo di studiare il bigfoot, da parte di due cacciatori che sono riusciti nell'intento di imprigionare in una gabbia da orsi la misteriosa creatura di cui si fantasticava l'esistenza, si traduce in tragedia. I due infatti, a loro insaputa, si sono imbattuti nel wendigo, un essere - a quanto pare - non narcotizzabile.


Una Notte Tropicale è un racconto che sembra uscito da un'antologia sui crimini violenti e che potrebbe esser stata ispirata dall'aggressione sessuale di cui è vittima la protagonista de Il Segno di Yog Shotot. Calabrese si concentra sulla caratterizzazione (peraltro ben tracciata persino da un versante filosofico/esistenziale) del protagonista per giungere a un epilogo tragico e realista.


Aria di incompletezza per Figlia dell'Oceano, in cui i confini tra sogno e realtà si confondono e sembrano giungere a sconfessare un fantastico meramente supposto in virtù delle ambientazioni (siamo a Innsmouth) e delle deformazioni degli uomini che camminano per le vie.


CONCLUSIONI

Antologia per cultori irriducibili e non saziabili di Lovecraft. Poche invenzioni, poca originalità, ma stile narrativo capace di divertire senza nulla chiedere ai lettori e all'insegna di quell'intrattenimento squisitamente da pulp magazine. Puro ed esclusivo genere, dunque, alleggerito da pretese autoriali e da volontà di veicolare messaggi personali, esistenziali o filosofici.

Da segnalare l'erronea indicazione del numero delle pagine di inizio dei racconti riportati nell'indice. Si evidenziano inoltre una serie di raffigurazioni interne non poi così elaborate e calzanti alle storie.

Può piacere, ma non parlate di opera o di scrittore di riferimento nell'ambito del fantastico italiano. Sono pronto a ricredermi con le prossime letture, sia chiaro. Leggeremo altre antologie di Calabrese perché, in fondo in fondo, il weird lovecraftiano qui è di casa.

 
L'autore.
FABIO CALABRESE
 
Quando sogniamo, entriamo almeno in parte in una dimensione diversa dal mondo della veglia, e li diventiamo vulnerabili. ”

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