Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

mercoledì 20 luglio 2011

Recensione Narrativa: "Mister Hyde all'Avana" (A. Torreguitart Ruiz)




Autore: Alejandro Torreguitart Ruiz

Anno di uscita: 2009

Casa editrice: Il Foglio Editore

Pagine: 200

Prezzo: 15.00

Commento di Matteo Mancini

Strano prodotto questo, pubblicato dalla casa editrice dello scrittore piombinese Gordiano Lupi (qua in veste anche di traduttore) e scritto da un autore cubano classe 1979 solitamente interessato a lavori di carattere politico-esistenziale ( Adios Fidel , "Il mio nome è Che Guevara" ) che denunciano le falsistà del regime cumunista cubano nonché la povertà di un popolo tradito dalla rivoluzione.

Con "Mister Hyde all'Avana" Torreguitart opta per una soluzione di compromesso interessandosi all'horror senza però distaccarsi da quello che è il suo vero cruccio: la critica al regime di Fidel Castro. Ecco così che dai suoi tre horror, ma soprattutto dai primi due, emerge uno Stato allo sbando retto da poliziotti corrotti e da un governo che vuole nascondere il marcio che vive nei quartieri lontani dagli occhi dei turisti perché il regime comunista deve incarnare il modello dello Stato perfetto. Quindi la censura e la menzogna sono le armi predilette da chi detiene il potere e tiene sotto scacco una popolazione che vive con le elemosina dei turisti e che si rifugia nei riti magici della santeria o del palo mayombe.

La vocazione di Torreguitart è così marcata dal portarlo a introdurre nel libro una seconda parte totalmente dedicata alla politica. Ecco che ci imbattiamo in "Diario quotidiano 2008-2009" , in cui si commentano con ironia avvenimenti e ricorrenze del regime cubano.

Ne esce fuori alla fine un'opera non ben bilanciata che sembra quasi organizzata in modo tale da spingere amanti di un genere (cioè l'horror) a conoscere un autore che forse si interessa di altro (critica politica). Giungo a questa conclusione, perché la parte finale del diario è totalmente avulsa dal resto dell'opera che invece si presenta come una rivisitazione di alcuni classici dell'orrore con storie attualizzate e ambientate a cuba.

Il libro si apre con "Jekill avanero" una storia, cruentissima e dall'infinito numero di morti, sospesa tra l'erotico e il porno. Torreguitart prende le mosse da "Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde" di Stevenson per strutturare un racconto che, per il suo sviluppo (e la sua struttura in tanti piccoli capitoli che, di fatto, è identica), ricorda molto da vicino "Sangue tropicale" di Gordiano Lupi (racconto inserito nell'antologia "Nero Tropicale" sempre edita da Il Foglio Editore). Comune al racconto di Stevenson c'è la figura del medico legale convinto che in ogni persona risieda una parte buona e una malvagia e allo stesso tempo un lato femminile e uno maschile. Alla soglia dei trent'anni e senza aver trovato un'anima gemella ma solo donne avide di denaro, il dottor cerca di compiere un esperimento per comprendere meglio le donne e scoprire cosa si cela dentro il loro cervello. Riesce così a sdoppiarsi: di giorno è il serio e insospettabile dottor Uribe che collabora con la polizia negli omicidi più cruenti, di notte è la sexy Barbara Santos che se ne va in giro per Cuba ad adescare clienti di ogni sorta (barboni, bulli, lesbiche, poliziotti, avvocati, stranieri, turisti interessati a orge) e a ucciderli solo dopo aver intrattenuto con loro un rapporto sessuale (visione un tantino misogina forse, ma concediamo il beneficio dell'esigenza narrativa di sviluppare la storia). Inutile dire quale delle due anime riuscirà a prevaricare l'altra...

Lo stile del racconto è quello della narrativa pulp, con descrizioni che esaltano il lato grandguignolesco (la Santos stacca a morsi il pene delle vittime, in un caso mutila una donna) e soprattutto quello erotico anche se le descrizioni dei rapporti sessuali diventano ripetitive e narrate con taglio a mio avviso troppo grossolano (avrebbero avuto più effetto se non si fosse descritto in modo freddo e dettagliato la tipologia dei rapporti, perchè così facendo si uccide la sensualità dell'erotismo trasformandola in pornografia).

Come nel già citato "Sangue tropicale" si assiste al fallimento della santeria con una santera locale che va incontro alla morte e a un finale dove il lato malvagio delle persone pare proprio non voler mai morire.

Dunque una lettura pulp che si alterna tra omicidi (mai letti tanti omicidi in un racconto di 90 pagine), disagi sociali (questi ben equilibrati e rappresentati) e un pizzico di narrativa fantastica ripresa da Stevenson.

L'opera prosegue con due omaggi a H.P.Lovecraft e più nel dettaglio ai racconti "Orrore a Dunwich" e "Il cane" . In questa seconda parte del testo, Torreguitart dimostra di avere delle immense qualità narrative da spendere nel mondo della narrativa dell'orrore. I due racconti "L'orrore di Yumuri" e "Il cane" sono due autentiche perle. L'autore modifica lo stile utilizzato in "Jekill avanero" sostituendolo con uno classicheggiante (anche se depurato dalle ridondanze tipiche del solitario di Providence) che crea un'atmosfera davvero paurosa. Ottime poi le ricostruzioni ambientali all'interno delle quali vengono riproposti i due soggetti di Lovecraft. Al posto del culto degli antichi Torreguitart introduce il Palo Mayombe come rito capace di evocare morti e demoni della più fioca specie. Molto belle, in entrambi i racconti, le descrizioni ambientali in modo particolare quella di Yumuri: "a Yumuri lo avrebbero accolto avvoltoi e chupacabras, cattivi odori infernali, sabba demoniaci, grida di orribili fantasmi e persino uomini ridotti a zombi che lavoravano silenziosi nei campi" .

Si prosegue poi con il Diario che occupa quasi metà libro, forse un po' troppo.

In conclusione si tratta di un'opera che nell'intenzione del'autore ha lo scopo di far conoscere due mostri sacri della narrativa fantastica ai lettori cubani (forse, anziché mettere il diario, sarebbe stato meglio scrivere un altro paio di remake narrativi) e di denunciare ai più fortunati lettori italiani le difficoltà dei cittadini di uno Stato spesso visto solo come paradiso tropicale in cui soddisfare voglie della più diversa specie.

Torreguitart è uno scrittore che può regalare perle per la narrativa fantastica. Sarebbe bello vederlo all'opera con soggetti tutti suoi (magari uno sul Chupacabra, visto l'ottimo utilizzo che ne ha fatto ne "L'orrore di Yumuri" e scritti col taglio dei due omaggi a Lovecraft.

Riuscito a metà. Voto: 6

lunedì 18 luglio 2011

Recensione narrativa: "Incubo a seimila metri" (R. Matheson)



Autore: Richard Matheson

Anno di uscita: 2002

Casa editrice: Fanucci

Pagine: 268 Prezzo: 9.90

Commento di Matteo Mancini

Antologia considerata - a torto - una pietra miliare della narrativa horror tanto che sia King e soprattutto lo stesso Matheson si definiscono, con l'arroganza di chi valuta la qualità di un lavoro in base al numero di copie vendute, il "rock 'n roll" del genere, beffeggiando Lovecraft e gli scrittori scuola weird tales.

Si tratta di un'opera che raccoglie diciassette elaborati già proposti in passato a partire dagli anni '50 e qui riuniti nuovamente in un nuovo volume. Ci sono alcuni racconti storici che hanno fatto la fortuna di Matheson, come l'indimenticabile "Incubo a seimila metri" utilizzato come base per un famoso episodio della serie televisiva "Ai confini della realtà" e altri meno noti e meno qualitativi.

Salvo un pugno di eccezioni, siamo alla prese - a mio avviso - con racconti molto banali (si potrebbe dire adatti a un pubblico di adolescenti). Molti testi (si vedano il confuso "Dai canali" , il mediocre "La legione dei cospiratori" in cui un uomo ossessionato dai rumori si convince di essere vittima di una cospirazione, il delirante "Figlio di sangue" nel quale un adolescente giunge a sottrarre un pipistrello dallo zoo per farsi vampirizzare con la speranza di diventare un vampiro ma trovando solo la morte per dissanguamento in un delirio allucinatorio) faticherebbero persino a piazzarsi nei concorsi narrativi underground. Matheson adotta uno stile asciutto, impersonale ed essenziale (verrebbe da dire da sceneggiatore, professione che, guarda caso, Matheson ha ricoperto per moltissimi anni fin dai tempi delle collaborazioni col regista Roger Corman), disinteressandosi di creare frasi d'effetto o metafore che facciano esclamare al lettore sensibile: "cacchio, che bella frase... ora me la segno". Soprattutto, poi, Matheson non permette al lettore di sognare mondi fantastici da completare con l'immaginazione disegnando quelle componenti bizzarre tipiche delle storie del genere fantastico. No, all'autore non interessa questo... Matheson vuol solo costruire trame di pronta soluzione incentrate sul ritmo e sui colpi di scena finali (talvolta prevedibili). A differenza di King (che si può considerare il figlioccio di Matheson, sintomatici al riguardo sono i racconti "La preda" e "Il nuovo vicino di casa" riproposti in meglio da King con i titoli "Campo di battaglia" - racconto inserito nell'antologia "A volte ritornano" - e "Cose preziose" ) sono poco curate le caratterizzazioni sia dei personaggi che quelle ambientali. L'effetto sono racconti maggiormente scorrevoli (infatti si divorano), ma anche meno profondi e da recepire passivamente senza alcun ragionamento mentale.

La componente fantastica è appena accennata e quasi sempre soffocata dalla pazzia dei personaggi. Matheson diluisce il bizzarro in un contesto normalissimo (fanno eccezione il poco riuscito "La danza dei morti" e l'altalenante "Guerra di streghe" ), senza mai inebriare il lettore con mondi onirici o soluzioni visionarie. Costante di molti racconti è la paranoia dei loro protagonisti che si sentono braccati da minacce più o meno consistenti (chi è ossessionato dalle telefonate notturne, chi dai rumori dei vicini o dei grilli, chi dal volo in aereo, chi dal desiderio di diventare un vampiro) che li inducono ad assumere comportamenti folli che sfociano quasi sempre nell'omicidio o nel suicidio. Ne deriva un orrore psicologico che non scandaglia l'occulto (fa forse eccezione il profetico e inquietante "Una chiamata da lontano" nel quale una signora inferma viene molestata telefonicamente da un uomo - o forse è la morte? - che si scoprirà interagire dal cimitero a causa di un temporale che ha lesionato i fili proprio in corrispondenza del luogo del riposo eterno permettendo ai rumori esterni di interferire con la linea), con l'autore che si sbizzarrisce in una scrittura di getto limitandosi a voler narrare una storia. Niente a che vedere quindi con l'orrore esoterico e iniziatico dei grandi maestri (penso a Lovecraft, Smith o Meyrink) o con l'orrore onirico e psichedelico di assi come Barker o K.E.Wagner o Poe e neppure con la scrittura fantastica e finalizzata a far ragionare il lettore di maestri del calibro di Borges, Buzzati, Cortazàr o Ballard (tanto per citarne alcuni). Qui si vuole solo intrattenere il lettore parlando di cose di tutti i giorni che, proprio per questo, non possono spaventare come le cose che non si conoscono (vorrei sapere quanti si spaventerebbero se si raccontasse una storia di una bambola assassina che vi insegue armata di coltello oppure di un fantasma che vi assilla nel sonno solo quando vi ponete sotto le lenzuola... eppure Matheson, in questa antologia, racconta storie, per lo più, di questo tipo). Situazioni dunque troppo paradossali per inquietare davvero chi legge e ha una certa cultura nel settore.

Pochissimi i racconti meritevoli di esser ricordati, tra essi citerei il famosissimo "Incubo a seimila metri" incentrato sull'ossessione del volo che porta il protagonista a vedere un alieno in piedi su un ala che tenta di sabotare l'aeroplano agendo sui motori, "Primo anniversario" (forse il testo contenutisticamente migliore) in cui si parla dell'amore indivisibile tra marito e moglie che porterà la seconda a cancellare, ma solo verso di lei, tutti i cinque sensi del marito per celare il fatto che è morta e si è ridotta in una poltiglia putrefatta, e soprattutto il simpatico e allo stesso tempo terribile "I figli di Noé" che vedrà un contravventore delle norme del codice della strada finire sotto arresto ed essere condannato a una pena molto particolare, visto che nel paese fantasma i 67 abitanti cominciano a parlare di grigliata. Coinvolgente anche il diabolico "Il nuovo vicino di casa" grazie alla presenza di un personaggio che, appena arrivato in un quartiere, genera il caos mettendo gli uni contro gli altri per poi cambiare abitazione dopo aver innescato arresti, suicidi e cattiverie di ogni sorta (compresa l'uccisione di un cane).

Altri racconti (ex "L'uomo dei giorni di festa" o il pirandelliano "Eliminazione lenta" ) hanno un buon seme iniziale ma si perdono strada facendo senza sfruttare appieno le potenzialità. In particolare ne "L'uomo dei giorni di festa" è geniale l'idea del giornalista che prevede gli incidenti e il numero dei morti del giorno successivo pubblicando il tutto sul giornale prima che i fatti si verifichino.

Gustosissima, infine, l'intervista a Richard Matheson che chiude l'antologia, un'idea che sarebbe bello veder ripetuta in altre antologie di altri autori perchè avvicina il lettore all'autore.

Nel complesso un testo che si legge velocemente e che non richiede alcun sforzo mentale, ma che, per chi ama l'orrore puro, si rivela come un bicchiere di vino completamente annacquato. Per altro libri del genere portano anche i lettori medi a considerare libri di questo tipo come capisaldi del genere, perché di facile e rapida lettura, tuttavia la vera narrativa autoriale di genere risiede ben lontana e ha il suo fondamento in qualcosa di assai più profondo e ancestrale. Voto: 5.5

giovedì 14 luglio 2011

Recensione narrativa: "Dinosauri" (R. Bradbury)



Autore: Ray Bradbury

Anno di uscita: 1983

Casa editrice: Mondadori

Pagine: 164

Commento di Matteo Mancini

Antologia monotematica costituita da quattro racconti e due poesie selezionate dalla sterminata produzione di Ray Bradbury. Autore che non necessità di presentazioni, Bradbury confeziona questa opera raccogliendo testi scritti in una forbice temporale molto ampia, compresa tra il 1951 e il 1983 (anno di uscita dell'antologia). La ragione che sta alla base del progetto è prettamente commerciale e, visto che solo due testi (peraltro scialbi) erano inediti, è da ritenersi una scelta poco felice. Ciò detto, è giusto passare ad analizzare "Dinosauri” con l'occhio di chi non conosce i racconti proposti.

Come si evince dal titolo, l'argomento su cui vertono i testi sono i dinosauri, ma in un'ottica ampia. Abbiamo così dinosauri in carne e ossa, dinosauri cinematografici animati con la tecnica della stop motion (non a caso la prefazione del libro è curata da Ray Harryhausen, maestro di quest'arte) e animali sognati o comunque portati in scena in chiave surreale.Quasi tutti i racconti sono all'insegna della malinconia (autentico biglietto da visita di Bradbury), sebbene in molti è presente un'ironia graffiante che regala più di un sorriso.

Sui sei racconti proposti, a mio avviso, solo tre meritano di rimanere scolpiti nella memoria dei lettori e di questi almeno uno è una perla da far leggere e rileggere nei corsi di scrittura narrativa. Parlo del famosissimo “La sirena” (1951), autentica pietra miliare della narrativa fantastica e non solo.Si tratta di un racconto metaforico che utilizza l'elemento “fantastico” (nella fattispecie un lucertolone marino che nuota a pelo dell'acqua) per raccontare una storia sulla solitudine e sulla rabbia che deriva dalla mancata corresponsione di un amore. Protagonista è un dinosauro degli abissi che riemerge dal letargo attirato dal suono della sirena di un faro. La bestia risponde ai sibili del faro, producendo un suono molto simile: è convinto che i suoi simili siano tornati a vivere in quel mondo che un tempo popolavano in massa. Così, avvolta dalla nebbia, la creatura nuota per un po' attorno al faro, sperando di veder muovere un dinosauro finché si accorge di aver solo sognato. Presa dalla rabbia, distrugge la struttura restando poi a piangere nella notte prima di inabissarsi ancora una volta verso il letargo. Illuminante, per comprendere il senso del racconto, è lo splendido dialogo che intercorre tra i due operai testimoni della vicenda. «Così è la vita» dice uno di loro «qualcuno aspetta sempre qualcun altro che non torna mai a casa. Qualcuno ama sempre qualcosa più di quanto questo qualcosa ami lui. Dopo un po' ti viene voglia di distruggere questa cosa, qualunque sia, in modo che non possa più farti soffrire.» Ancora funzionale al senso del racconto è la chiusura con lo stesso operaio che, a distanza di mesi dall'episodio, rassicura il collega dicendogli: «il mostro se n'è andato. Ha imparato che a questo mondo non si può amare troppo qualcosa. Si è rintanato in fondo agli abissi ad aspettare per un altro milione di anni.» Dunque un testo con una forte anima di fondo, strutturato su un'idea base pessimista ma molto più vicina alla realtà di quanto possa apparire a prima vista. Da segnalre che il racconto ha ispirato, con ben altra poetica e con risultati neppure paragonabili a quelli del racconto, il film “Il risveglio del dinosauro” (1953).

Meno qualitativi, ma comunque ottimi sono “Rombo di Tuono” (1952) e “Tyrannosaurus Rex” (1962).

Il primo è un classico della narrativa fantascientifica proposto e riproposto in diverse antologie. Il tema è quello dei viaggi nel tempo e delle conseguenze che questi potrebbero cagionare sul futuro. Così abbiamo una società che organizza safari nel cretaceo, curando tutti i particolari dell'operazione per evitare che le visite possano pregiudicare l'evoluzione naturale della storia. Vengono infatti sterilizzati i vestiti dei clienti, viene predisposta una passerella sollevata dal terreno, vengono uccisi animali che sarebbero comunque morti nel giro di qualche minuto per cause naturali. In una spedizione, però, un cliente impaurito dall'urlo di un T-Rex esce dalla passerella e schiaccia una farfalla. L'evento sembra di poco conto, ma ritornati al presente gli organizzatori dovranno fare i conti con un nuovo politico che ha instaurato una dittatura. Un racconto dunque brillante che miscela azione e sci-fi con grandi descrizioni ambientali e soprattutto con un ritratto del T-Rex scritto dal genio di un narratore di razza. L'epilogo è palesemente ironico e regala qualche sorriso, facendo al contempo azionare il cervello. Piccola curiosità: questo racconto ha ispirato, come idea iniziale, una pellicola (mediocre) uscita per il mercato home video diretta da Peter Hyams e intitolata “Il risveglio del tuono” (2005).

Con “Tyrannosaurus Rex” invece la malinconia torna a farla da padrona, questa volta rappresentata da un effettista cinematografico solitario, gelosissimo delle sue opere e nulla tenente alle prese con un produttore despota intenzionato a girare un film sui dinosauri. Il produttore inizia così a mettere sotto pressione il suo addetto, chiedendo ogni volta di ritoccare il modellino (un T-Rex) da animare con la stop motion: vuole un essere che susciti terrore, che rappresenti la paura. L'effettista così, all'insaputa del datore di lavoro, realizza un modellino con i tratti somatici del produttore. Inevitabile a questo punto, al momento della proiezione in post produzione, la rabbia del produttore che esplode in una furia licenziando l'effettista e bloccando l'uscita del film. Un avvocato però, per non pregiudicare i soldi investiti, decide di fungere da intermediario tra i due e convince il produttore a far uscire il film. Il legale infatti rivela al produttore che l'effettista ha voluto creare qualcosa di innovativo omaggiando una figura, come quella del produttore, che non viene mai ricordata dal pubblico, dando il volto dell'uomo a quello del dinosauro. Il film viene così fatto uscire e realizza un mega incasso, per la gioia del produttore che, riconosciuto per strada, si ritrova a firmare autografi. Un racconto dunque ironico che evidenzia il sottile confine tra la presa di giro e il colpo di genio. Personalmente, questo racconto così come la frustrazione dell'effettista che vede respingersi continuamente le sue opere, mi ricorda un mio elaborato e il suo protagonista; forse anche per questo “Tyrannosaurus Rex” mi è piaciuto in modo particolare.

L'antologia prosegue con il confuso e a tratti noioso “A parte un dinosauro, cosa vuoi diventare da grande?” scritto appositamente per questa raccolta e incentrato sulle fantasie dell'infanzia. Un racconto di chiara impronta bradburyana con il bambino protagonista che, a poco a poco, sostenuto dal nonno matura e si lascia alle spalle un sogno impossibile (diventare un T-Rex) per uno assai più concreto (diventare macchinista di una locomotiva). Anche qua l'atmosfera malinconica la fa da padrona, quasi a simboleggiare la morte della fantasia a vantaggio della concretezza.

Chiudono l'antologia due componimenti più vicini alla poesia che alla prosa entrambi fiacchi e dal taglio surreale e cioè “Ode al dinosauro danzante” (gruppo di dinosauri che ballano in riva al mare) e “E se vi dicessi: il dinosauro non è morto?” (brontosauro viene multato da un vigile urbano disattento che lo scambia per un autotreno in divieto di sosta).

Nel complesso una lettura veloce e breve che si legge velocemente e che lascia qualche traccia nella memoria del lettore. Voto: 6,5

domenica 10 luglio 2011

Recensione Narrativa "Creature della Luce e delle Tenebre" (R.Zelazny)"



Autore: Roger Zelazny

Editore: Newton

Anno: 1994

Pagine: 100

Commento di Matteo Mancini

Romanzo datato 1969 pubblicato da uno dei nomi più importanti della narrativa fantastica americana e da noi, sebbene pubblicato soprattutto sulla collana Urania della Mondadori, non tributato quanto meriterebbe. Parliamo dello scrittore di origini polacche Roger Zelazny, nato nel 1937 e pluripremiato con tanto di tre premi Nebula e sei premi Hugo ottenuti fin dalla prima metà degli anni '60.

Abile autore di fantascienza (collaborerà con P.K Dick nel romanzo "Deus Irae" , ma anche con mostri sacri come Robert Sheckley), Zelazny dimostra fin da subito un grande interesse per la mitologia e il gusto del macabro (due dei suoi romanzi più famosi sono gli orrorifici "La pista dell'orrore" e "Terra di Mutazioni" ). Scrive testi come "Io, l'immortale" (1965) e "Il Signore della Luce" (1967) rispettivamente sulla mitologia greca e indù (entrambi gli valgono il premio Hugo, il primo addirittura a pari merito con un classico da milioni di copie vendute come "Dune" di Frank Herbert). L'interesse di Zelazny per la mitologia prosegue con il romanzo qui oggetto di esame, dove Zelazny sposta l'attenzione sulle divinità egizie che colloca però al di fuori da qualunque canone realistico disseminandole in giro per il cosmo.

L'autore estrae così dal cilindro un romanzo di difficile decifrazione a causa di una frammentazione esasperata in decine di capitoli (c'è spazio anche per delle poesie) dove ogni volta viene modificato il punto di vista e ci si sposta da un contesto a un altro. Moltissimi i personaggi che si susseguono (dalle divinità quali Osiride e Anubis per passare a mostri come Cerbero e il Minotauro o altri di pura invenzione zelaznyana), spesso contrapposti in duelli fatali su mondi diversi dove si spostano in virtù di una sorta di teletrasporto. Il soggetto è intricatissimo, tra magie, menzogne, guanti che amplificano la forza di chi li indossa e colpi di spada vengono proposti una serie di complotti ordini da divinità dislocate su mondi diversi. In palio c'è il controllo dell'universo, la posta fa così sorgere una guerra che causa terremoti, maremoti ed esplosione di mondi interi.

Ne viene fuori un trip visionario, esaltato da uno stile ricercato che regala vari passaggi onirici, ma che apparentemente potrebbe sembrare un calderone pretestuoso e presuntuoso. Dietro a tutto però si cela un'anima di fondo che acquisisce valenza metaforica. Sarà compito del lettore decriptare gli sviluppi di questo fantasy dagli spiccati elementi fantascientifici (come dimostra subito il primo capitolo in cui Anubi trasforma un morto in una specie di androide che sarà il protagonista del libro). Eccezionale la caratterizzazione dei personaggi, dai protagonisti fino a quelli di contorno (penso alle guardie drogate che sorvegliano alcuni mondi), ma anche dei mondi (ci sono realtà dove alieni pullullano nelle vie, altre in cui gli esseri viventi vivono nei cunicoli sotterranei di pianeti contaminati, altri ancora dove le tenebre e la nebbia sono le uniche costanti di un ambiente inospitale per la vita). Non sono da meno alcuni passaggi con capitoli dall'immenso impatto visivo (nonché cruentissimi) che potrebbero essere dei veri e propri racconti autonomi (penso agli oracoli che prevedono il futuro leggendo le budella di uomini appena eviscerati oppure agli operai alieni ciechi che, pur di vedere i loro strumenti di lavoro, eseguono le opere commissionate in cambio del trapianto di un paio d'occhi che saranno insesorabilmente rigettati dai loro organismi o ancora alla scena - che preannuncia i moderni reality show - di uno spettacolo dove gli spettatori vogliono vedere morire in diretta sul palco i partecipanti).

Purtroppo, come già anticipato, lo stile è - a mio avviso - troppo pesante per un romanzo e alla fine la maggior parte dei lettori finirà con l'alzare bandiera bianca prima dell'epilogo. Ciò è un vero peccato, poiché l'opera vale e regala molte occasioni sia di riflessione che di evasione mentale.

Siamo dunque alle prese con un'opera dall'enorme potenziale visivo e contenutistico, ma destinata solo ai palati fini e a chi non vuole una lettura da sotto l'ombrellone.

Per specialisti del genere.

venerdì 8 luglio 2011

Recensione narrativa: "Uomini qualsiasi e giorni qualunque" L.Guardabascio


Autore: Luca Guardabascio

Anno di uscita: 2009

Casa editrice: MEF – L'autore Libri Firenze

Pagine: 140


Commento di Matteo Mancini

Terzo libro dello scrittore, regista e attore pollese (provincia di Salerno al confine con quella di Potenza) Luca Guardabascio, qui alle prese col suo genere preferito: il marron (così battezzato dall'autore quale unione tra il giallo e il noir).

Strutturata in 18 racconti, "Uomini qualsiasi e giorni qualunque" mira a tracciare un insieme in cui protagonisti sono uomini perdenti e falliti che tentano un disperato testacoda per destarsi dalla melma sociale in cui sono impantanati senza però riuscire a liberarsi dalle sabbie mobili in cui sono precipitati (emblematico in tal senso il racconto “Ilo”). Guardabascio cerca di dare vita a un contesto variegato, sia a livello geografico (si va dall'Italia, ai deserti Australiani, agli Stati Uniti, passando per il clima rigido del Canada e finendo in contesti futuristici o fantastici), sia temporale (si parla della caduta del comunismo o della legge che ha chiuso i manicomi o degli Stati Uniti degli anni '80) che sociale, con testi finalizzati a comunicare un qualcosa che va ben oltre all'intrattenimento e che spesso è così forte da pregiudicare la dinamicità del testo. Siamo dunque alle prese con un antologia che fa del pessimismo il suo biglietto da visita (non è un caso se quasi tutti i protagonisti vanno incontro alla morte o al suicidio). All'autore interessa caratterizzare i personaggi, i loro difetti, i loro vizi e i loro sogni, mostrando poi come la realtà sia crudele e proponga sorti assai lontane dai desideri. Ne deriva un impianto dove il lato drammatico delle vicende supera di gran lunga quello fantastico, orrorifico o noir di volta in volta proposti come sfumature superficiali atte a ricoprire il medesimo trait d'union.

Comune a tutti i racconti, e ciò non è necessariamente un pregio (perché alla lunga diventa un po' stucchevole e prevedibile), è l'abitudine dello scrittore di introdurre soggetti che si sviluppano lentamente per poi subire colpi di scena volti a ribaltare la situazione o comunque la ricostruzione mentale che il lettore va facendosi della vicenda. Tranne due casi, forse in omaggio a Bukowski e al suo “Storie di ordinaria follia” (guarda caso questo titolo appare come sottotitolo dell'antologia, così come comune ai due lavori sono le caratteristiche dei vari protagonisti), i testi sono raccontati in prima persona (nel caso dell'autore campano da soggetti che alla fine si scoprirà esser morti).

Non sempre però sono riscontrabili i citati punti comuni. Ci sono varie eccezioni riconducibili a dei testi che paiono esser stati inseriti più per far numero che per un'affinità col progetto base. Tra questi segnalerei gli unici due horror a 360' gradi (seppur parodistici) ovvero “Cenere alla cenere” (testo divertentissimo dal taglio Sheckleyano, in cui un vampiro cerca di ottenere l'immortalità bevendo il sangue di sei vergini e divorando il cuore di una settima donna, fallendo il tentativo proprio all'ultimo a causa di una sorpresa finale) e “Play death boy” (testo impersonale che pare uscito dall'antologia “Il libro dei morti viventi” con uno zombi che cerca in un posto un po' inusuale il diamante scelto per la propria fidanzata), ma anche il surreale e simpatico “Fanculismo” in cui un avvocato disonesto cade vittima della maledizione di un cliente che lo ha mandato a quel paese (che si scoprirà essere una dimensione popolata da creature mostruose) nonché il fiacco sci-fi “Paura dei giochi” che ribalta (in modo non perfetto) il rapporto giochi-bambini con questi ultimi vittima di giochi bizzosi.

Gli altri 14 racconti invece hanno molto in comune, anche se il livello qualitativo non è sempre della medesima importanza. Alcuni testi, infatti, sono confezionati in modo poco accattivante e assumono valenza di mere riflessioni come “667” (condannato a morte riflette sugli errori della propria vita e sul senso dell'esistenza) o il delirante “Cos'è la paura?” che, nonostante vari spunti interessanti che vanno al di là della religione e della filosofia (accostabili a una penna del calibro di Poe), si perde in uno sviluppo non sempre chiaro; altri invece, a mio avviso, non son ben calibrati e finiscono per toccare poco le corde emotive del lettore come lo sconclusionato “Stronzo” (a metà strada tra la riflessione e la parabola, con un epilogo assurdo) o la gangster story dalla partenza lentissima e dal finale in crescendo, seppur rovinato da un epilogo deludente, “Lo chiamavano inferno”. Non entusiasma neppure “Un democratico popolare” anche se qui il testo riesce a coinvolgere a dovere ed è presentato con gusto visivo (due uomini in treno si trovano a faccia a faccia, uno di loro è un serial killer ma la polizia scambierà i due, arrestando la persona sbagliata. Purtroppo, nonostante la volontà di sorprendere il suo pubblico, i colpi a sorpresa sono telefonati e restano più cose un po' confuse).

I restanti dieci racconti sono meritevoli di maggiore attenzione, con alcune perle che resteranno scolpite nella mente del lettore. Il racconto più originale è il noir “Sotto il bar di Hooker”. Abbiamo un giovane barista che vive col sogno di diventare un ranger, finché, in una notte d'inverno, fa un incontro che gli cambia radicalmente la vita. Una bellissima donna entra di corsa all'interno del suo bar e chiede di esser coperta, rintanandosi in uno sgabuzzino. Poco dopo entrano nel locale due poliziotti: stanno cercando il malloppo che il sindaco aveva raccolto per il rifacimento delle fognature della città. Il gruzzolo di denaro è stato rubato da una setta i cui componenti sono stati già arrestati. Ha inizio così la parabola discendente che porterà il barista a bruciare il proprio bar e ad accordarsi con la donna, l'unica ancora in libertà a conoscere dove siano stati nascosti i soldi ed è un luogo impensabile per una mente sana... Il racconto è coinvolgente con Guardabascio che trova un'originale soluzione per far nascondere alla sua protagonista il denaro. Epilogo tristissimo e malinconico che rappresenta la massima “il denaro non fa la felicità”.

Ancora donne fatali protagoniste in “Amori di un uomo normale”. Qua un Don Giovanni fa incetta di conquiste, a danno della fidanzata finché non si innamora di quella che crede essere la donna ideale. Il giovane, però, non sa di avere a che fare con la ex tutta rifatta in cerca di vendetta. Racconto molto ironico che fa leva su un'idea di fondo assai pessimista: la donna dei sogni non esiste, ma è un'idea confinata nella nostra mente, la realtà è molto squallida e ripresenta minestre riscaldate. Finale mega splatter.

Si prosegue con testi dall'intelaiatura gialla, in cui donne assassine si disfano di vecchi mariti disabili economicamente da spolpare (“Afa”) e mariti cercano di sopperire ai debiti di gioco spolpando fisicamente la propria moglie (“Il cadavere del vedovo”, testo violentissimo e ben strutturato, ispirato a fatti di cronaca nera verificatesi nei paesi dell'Est Europa dopo la caduta del comunismo, con pratiche quali il cannibalismo e l'abitudine di spacciare al mercato nero carne umana per cavallo).

E' poi il turno della solitudine tipica degli emarginati sociali quali vecchi barboni - destinati a un triste destino e a caccia di vestiti da rubare e rivendere per quattro soldi - (“Manie di persecuzione”) o disabili che credono di essere suore di clausura abbandonate da parenti e da leggi ipocrite che decretano la chiusura dei manicomi (“Il giorno che si decise per me”).

Non possono poi mancare truci assassini che i cittadini considerano integerrimi compaesani ligi alla disciplina come l'acrobatico idraulico “Ilo” che, da una tubatura all'altra, porta con sprezzo del pericolo l'acqua alle nuove ville australiane e fuori dal lavoro passa il tempo in risse e atti di bullismo (racconto claustrofobico narrato con grande talento, di sicuro tra i più riusciti dell'opera, che ricorda un po' “La cadillac di Dolan” inserito nell'antologia "Incubi & Deliri" di King e che vedrà il protagonista intrappolato nelle sabbie mobili e torturato da quelle vittime che si era divertito a pestare poco prima di rimanere invischiato nella trappola mortale) o lo scemo del villaggio di “Tu” che viene eletto dal popolo come unico eletto a rispondere alla voce tumultuosa che rimbomba dal cielo nel giorno che tutti credono essere quello del giudizio universale (racconto apocalittico che sembra uscito dalla penna del folle Howard Fast).

Si chiude con un testo Browniano, alla “Sentinella” per intenderci, intitolato “Dismorfobia” il quale sottolinea la soggettività della bellezza e come questa sia un valore legato al contesto ambientale e storico in cui un essere vivente si trova a essere inserito piuttosto che a un valore, per così dire, matematico.

Nel complesso un'antologia elegante, con pochi refusi e una prefazione notevole che delinea il progetto e l'ambizione iniziale dell'autore: parlare di uomini qualsiasi in giorni qualunque, dei loro sogni e di come questi si infrangono nell'apatica realtà quotidiana. Racconti dunque vicini alla realtà, più drammatici che altro (salvo un pugno di eccezioni). Tra alti e bassi (alcuni soggetti non riescono ad andare oltre alla mera riflessione, mentre altri sono troppo diluiti nei loro prologhi con relativo appesantimento della dinamicità del testo), nel complesso più che sufficiente grazie a un pugno di racconti altamente qualitativi. Autore da tenere d'occhio. Voto: 6.5

sabato 2 luglio 2011

Recensione narrativa: La Briscola in cinque (M.Malvaldi)


Autore: Marco Malvaldi

Anno di uscita: 2007

Casa editrice: Sellerio Editore

Pagine: 162

Prezzo: 10 Euro

Commento di Matteo Mancini

Romanzo che segna il debutto del pisano Marco Malvaldi in veste di romanziere. L'autore, classe 1974, decide di giocare in casa con il soggetto di "La briscola in cinque" ambientando la sua storia nella cittadina di Pineta (nome di fantasia sotto il quale si cela la mia Tirrenia). Dunque, per me, recensire un romanzo del genere non può che avere un gusto particolare, sia perché sono alle prese con un mio concittadino sia, soprattutto, perché la storia è ambientata nel mio paese.

L'impianto è quello del giallo classico: abbiamo un cadavere di un'adolescente rinvenuto in una cassonetto dell'immondizia (non viene descritta la scena dell'omicidio), un commissario imbranato che fa più danni della grandine (come si direbbe dalle mie parti) e un cittadino che si ritroverà, suo malgrado, a ricoprire il ruolo di detective privato riuscendo a risolvere il caso.

Gli snodi sono pochi, Malvaldi chiama in causa due potenziali assassini per poi introdurre il colpo di scena finale che scagionerà i due e porterà all'incriminazione del vero assassino. Scricchiola e non poco l'epilogo, poiché si risolve tutto con una soluzione un po' scorretta nei confronti del lettore. Lo scrittore infatti scardina alcune premesse iniziali, modificandole a suo piacimento per rendere verosimile l'epilogo piuttosto che creare a monte un intreccio più solido. Alcune prove snocciolate nell'ultimo capitolo hanno il sapore di aggiustare i fatti senza però esser state presentate al lettore nel corso del romanzo (in un giallo che si rispetti l'autore deve mettere a disposizione, seppur velati, tutti gli indizi utili alla risoluzione del caso).

Il ritmo è buono, anche se Malvaldi si concede più di una divagazione pur di allungare le cartelle ma lo fa puntando sui dialoghi piuttosto che sulle descrizioni. La lettura resta così fluida, esaltata da battute esilaranti attinte dai modi di dire pisani. Per rendere ancora più efficace la propria scelta, Malvadi fa parlare i personaggi con spiccati accenti dialettali (escamotage ultimamente piuttosto di moda nell'ambiente degli autori dediti al giallo all'italiana). Inoltre, l'autore pennella situazioni e protagonisti con taglio grottesco e sopra le righe (sono ben riuscite le caratterizzazioni del commissario, che fa incetta di brutte figure, e del gruppetto di vecchi pettegoli che giocano a carte - da qui il titolo del romanzo - e si beffeggiano l'uno con l'altro).

Ne deriva un romanzo disinteressato a suscitare tensione o a costruire un'atmosfera tipica del poliziesco. Ciò a cui si ambisce è regalare sorrisi (Malvaldi ci riesce), prendendo come intelaiatura del contenitore un soggetto giallo tutt'altro che geniale. Ed è proprio l'arma del comico/grottesco (usata benissimo e furbescamente dall'autore) a salvare il libro dall'insufficienza. Piacevole lettura di intrattenimento. Voto: 6