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domenica 15 dicembre 2019

Recensione Cortometraggi DEEP SHOCK di Davide Melini.




ProduzioneLuca Vannella ("Avengers", "Thor", "Harry Potter", "Apocalypto", "In the Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick"), Alexis Continente ("Assassinio sull'Orient Express", "Transformers: The Last Knight", "Thor"), Vincenzo Mastrantonio ("Titanic", "Moulin Rouge", "La passione di Cristo", "Romeo + Giulietta"), Bobby Holland Hanton ("Il cavaliere oscuro - Il ritorno", "Game of Thrones: Il trono di spade", "Assassin's Creed", "007 - Quantum of Solace"), Ferdinando Merolla ("Troy", "Gangs of New York", "Hannibal Lecter - Le origini del male"), Roberto Paglialunga ("To Rome With Love").
Anno: UK, 2019.
Regia e Sceneggiatura: Davide Melini.
Genere: Thriller/Horror.
Colonna sonora: Giulio De Gaetano.
Fotografia: Juanma Postigo.
Montatore: Daniel Salinas.
Interpreti Principali: Muireann Bird, Francesc Pagés, George Bracebridge, Erica Prior, Luis Fernadez de Eribe.
Durata: 29 minuti circa.

Commento di Matteo Mancini
Dopo aver marcato tutti i record con l'horror dai tratti fantastici Lion (2017), divenuto il cortometraggio horror più premiato della storia del cinema mondiale con 284 premi all'attivo, il romano Davide Melini torna con un cortometraggio che promette di macinare ulteriori successi e che, a differenza del precedente, segue una strada più collaudata. Citazionista fin dal titolo, Deep Shock è un vero e proprio tributo alla cinematografia che ha formato il regista. Aiuto assistente ne La Terza Madre (2007) di Dario Argento, Melini concede il suo omaggio alla filmografia di Dario Argento e Mario Bava, ma anche ad altri registi quali Lamberto Bava e William Friedkin, realizzando un film dalla doppia traccia. Dapprima ghost story, poi omicidi alla Dario Argento e infine irruzione nel filone demoniaco in un cocktail che si presenta quale thriller deformato in horror.

Protagonista è una giovane ragazza (Sarah), interpretata dalla brava Muireann Bird (pescata dalle serie tv irlandesi), funestata da una serie di incubi scatenati dalle morti del nonno e della sorella maggiore. Melini propone una carrellata di articoli di giornali per presentare l'antefatto. La giovane, colpita da un profondo shock, vive una sorta di psicosi che la fa protendere a pensare di esser circondata da fantasmi che la inducono a imbattersi in corpi trucemente mutilati. In cura da uno psicologo e sostenuta da un prete, oltre che da una sorella, si troverà al centro di una tresca ordita da qualcuno che penserà bene di sfruttare le sue fobie per incamerarne la cospicua eredità familiare di cui è entrata in possesso.

Al grido "Il giallo all'italiana è pronto a far il suo ritorno", Melini realizza il suo prodotto più "commerciale", forse la sua perla, confermando quei continui miglioramenti già messi in atto con La Dolce Mano della Rosa Bianca (2010) e proseguiti con i successivi prodotti, forte dell'esperienza marcata quale assistente alla regia del serial anglo-americano-irlandese Penny Dreadful (2016), con attori come Josh Hartnett (lo ricordiamo, tra gli altri, in Pearl Harbor e in svariati film di Robert Rodriguez) ed Eva Green (nomination ai Golden Globe quale migliore attrice protagonista nei serial televisivi ottenuta proprio con questa serie), e del serial americano Into the Badlands (2016), infarcito di diverse star del circuito televisivo a stelle strisce.

Il film punta molto sul montaggio (notevole il movimento di raccordo tra la scena finale del prete che corre e la scena con l'assassino che si prepara a uccidere simulando un suicidio) del confermatissimo Daniel Salinas, già collaboratore del regista in Lion, e sulla regia che mantiene, pur non scandendo vorticoso ritmo, sempre alta la tensione. Melini si sbizzarrisce negli omaggi, tra Profondo Rosso (l'omicidio nella vasca da bagno, i primissimi piani sull'occhio), Tenebre (l'inizio con i guanti che stralciano fogli con il background di un focolare), Non Ho Sonno (la testa sbattuta nel muro col dettaglio dei denti che si rompono), La Casa con la Scala nel Buio (una pallina che rimbalza da una scala) e I Tre Volti della Paura (si cita l'episodio della ragazza che viene minacciata al telefono da uno sconosciuto), giocando con i cliché del genere e gli effetti sonori. Non mancano alcune inquadrature modaiole con l'ausilio dei droni, sebbene il nostro interesse ricada proprio su quegli aspetti tradizionali del tempo che fu. Così registriamo la presenza di un killer con guanti, impermeabile nero e cappello in stile L'Uccello dalle Piume di Cristallo, ma anche scene immerse in una nebbia dalla caratterizzazione onirica (visto che si maniesta in un interno) oppure sotto la pioggia, per non parlare dell'irlandese Lorna Larkin che appare a seno scoperto come una novella Edwige Fenech che esce dalla doccia. Abbiamo già fatto notare la componente horror, ascrivibile al filone satanico per effetto di croci che si capovolgono prendendo fuoco, bibbie le cui pagine scorrono vorticosamente senza esser mosse da alcun dito e poi indemoniati che parlano con voce cavernosa inducendo chi dovrebbe combatterli a una morte che evoca l'epilogo de L'Esorcista.

Melini è bravo alla regia, mai banale, ed è culturalmente preparato al genere. Armato di Red Epic Dragon a 6K, studia a tavolino le sequenze, cura il dettaglio e soprattutto muove sempre la macchina, evitando noiose riprese dal cavalletto. Notevoli almeno tre sequenze (non poche per un corto) tutte nei momenti di maggior impatto emotivo, a dimostrazione dell'attitudine del regista al genere. La sequenza più riuscita è forse l'attacco satanico al prete, in cui Melini, forte di un bellissimo primissimo piano sul volto di Bracebridge che viene illuminato da una luce satanica, lascia allo spettatore il compito di immaginare chi o cosa si sia manifestato al cospetto del religioso.

Molto bene gli effetti digitali e il make up, con momenti di gore assai disturbanti. La fotografia invece convince meno, specie negli interni. Postigo opta per un taglio cupo, dove sembrano esser stati adottati dei filtri blu che non rendono sempre pulitissima l'immagine. Interessante invece il contrasto con la parte finale (dove la luce vince le tenebre), solarissima e caratterizzata da un'esplosione di colori assai bella. Una soluzione, quest'ultima, che sembra più nelle corde dell'autore. 

Confermatissimo il cast tecnico, a partire dalla produzione (la stessa di Lion). L'unica novità di rilievo si registra alla colonna sonora dove Giulio De Gaetano, al debutto, assolve bene al compito.
Professionali le interpretazioni. Se la cavano molto bene tutti, specie George Bracebridge (nei panni del prete) e la protagonista (bravissima all'epilogo). 

Il film è stato girato in lingua inglese.

In definitiva Deep Shock è un cortometraggio che tiene in tensione e regala brividi, incollando alla visione (pur scegliendo, in alcuni frangenti, la scorciatoia del sogno che cancella quanto visto in precedenza o dell'effetto, tipico della ghost story hollywoodiana, che fa saltare sulla poltrona per l'improvvisa comparsa di un volto). Piacerà senza ombra di dubbio a tutti gli appassionati del thriller e dell'horror all'italiana, pur avendo una cura che lo avvicina più a un prodotto americano. Molto più professionale che artigianale. Essenziale nella sceneggiatura, dialoghi ai minimi termini, storia portata avanti con l'artificio del narratore/giornalista fuori campo.

Uscito a fine giugno 2019, il corto ha già conquistato 37 premi ed è in competizione ufficiale per il David di Donatello 2020. Siamo certi di poter dire che ripeterà il successo di Lion, con la speranza che possa finalmente fungere da trampolino di lancio per Melini verso la direzione di un lungometraggio.

Abbiamo sentito il regista che, in riferimento a Deep Shock, così ci ha risposto: "Ho cercato di ricreare la stessa magia degli anni 70, utilizzando peró le nuove tecniche. Perció la villa, i fantasmi, la pallina, la pioggia, la nebbia, il gatto e quasi tutti gli ingredienti che hanno reso celebre questo genere. Oltre a una semplice storia gialla, c'é di mezzo anche l'horror: sono due storie in una.."

Per chi voglia curiosare ulteriormente ecco dove rivolgersi.

- Teaser Promozionale (in 4K): https://www.youtube.com/watch?v=wJVeMjjNPfs&t=4s

- Pagina IMDB: https://www.imdb.com/title/tt2277640/?ref_=nm_knf_i3

- Facebook: https://www.facebook.com/DeepShockDavideMelini

- Twitter: https://twitter.com/DeepShock_2017

- Instagram: https://www.instagram.com/deepshockfilm
Dopo i 284 premi ottenuti da LION,
Davide Melini, tra George Bracebridge e Muireann Bird, 
confeziona il suo tributo al thriller italiano degli anni '70.


mercoledì 27 novembre 2019

Recensione Narrativa: LA COLLINA DEI SOGNI di Arthur Machen.



Autore: Arthur Machen.
Titolo Originale: The Hill of Dreams.
Anno: 1907.
Genere: Fantastico.
Editore: Il Palindromo, 2017.
Pagine: 286.
Prezzo: 18,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
The Hill of Dreams è il tribolato prodotto di diciotto mesi di duro lavoro e di dieci anni di lunga attesa per vedere quella luce che solo la pubblicazione può offrire a un lavoro affondato nella polvere del proverbiale cassetto. Arthur Machen lo confeziona dopo i vari Il Gran Dio Pan (1894) e I Tre Impostori (1895) che, col passare degli anni, diventeranno le opere più conosciute della sua produzione ma che, all'epoca, non ebbero immediato successo. L'obiettivo dell'autore, tacciato dalla critica di essere un imitatore di Robert Louis Stevenson, è quello di proporre un qualcosa di più personale e, se vogliamo, autoriale. Ispirato da un'introduzione di Charles Whibley al romanzo Tristam Shandy  di Laurence Sterne, Machen decide di sviluppare il tema della solitudine, dell'isolamento e del distacco dell'umanità per scrivere quello che lui definirà un "Robinson Crusoe dell'anima."

The Hill of Dreams è, innanzi tutto, un romanzo sprovvisto di una vera e propria trama, sospeso tra immaginazione e realtà, dove il fantastico è puramente mentale, prodotto di un'evasione autoindotta da un mondo che il protagonista non accetta (a ragione) come proprio. In altri termini, è una fuga mentale dalla realtà che non può che avere un epilogo tragico. Non a caso, è stato definito "il libro più decadente della lingua inglese." A differenza di Huysmans (pensiamo a Controcorrente, 1884) o a Oscar Wilde (Il Ritratto di Dorian Gray, 1891), Machen toglie del tutto la valenza esteta che dominava i romanzi manifesto dei due importanti precursori del movimento. Il suo Lucian è un personaggio che, pur lottando, non riesce a integrarsi in una società che trova corrotta dall'ipocrisia e da valori materiali che portano gli integrati a interessarsi a banalità e a giudicare quale degenerati e un po' "tocchi" tutti coloro che scelgono vie diverse. Lucian vorrebbe diventare uno scrittore e, già questo, lo porta a essere indicato dai concittadini gallesi quale un vagabondo che nella vita non otterrà niente di concreto. Essere un sognatore diviene così sinonimo di persona stramba, persino malata. Inevitabile l'isolamento a cui il giovane andrà incontro, dapprima in modo sofferto e poi, via via, accettato e subito, con l'intento mentale di dissociarsi dal grigiore quotidiano, persino della metropoli londinese, per trovare nella letteratura e, prima ancora, nei viaggi mentali il luogo in cui soddisfare il proprio animo. "Per lui le persone non erano che esseri nocivi, capaci solo di avvelenargli la vita con parole caustiche e di disprezzo."
Lucian è dunque una sorta di tossicodipendente erudito, poiché come coloro che assumono sostanze stupefacenti si abbandona ai viaggi mentali in cui vede rivivere la mitica città romana di Isca Silurum e tutti i riti connesi, in un mix che miscela paganesimo e cristianesimo, ma anche cultura celtica e romanica.

Machen sviluppa qua una metodologia narrativa, non facile da seguire, assai densa e prolissa, sicuramente non consigliabile ai lettori medi (non a caso faticò non poco a trovare un editore), su cui ritornerà in seguito, con elaborati quali Un Frammento di Vita, L'Avventura Londinese o L'Arte del Vagabondaggio Il Cerchio Verde. Tale metodologia si sostanzia in una trama assai poco delineata che trae linfa dalle emozioni provate dal protagonista nei suoi continui pellegrinaggi, ora in campagna e ora in città. Il camminare, il vedere costruzioni o boschi, diviene lo stimolo per evadere, creare mentalmente situazioni che forzano e piegano la realtà, delineando un corridoio di fuga in cui stordirsi per vincere la solitudine.

In questa evoluzione/involuzione, Lucian cerca di cogliere quel successo letterario che lo porterebbe a manlevarsi dal suo sentirsi fallito, dal suo cercare di plasmare la "grande opera". Il suo è uno stimolo che non è legato a un'affermazione economica né, tanto meno, a un riconoscimento del valore letterario (che non potrebbe mai avere perché la massa non è in grado di comprenderlo). Niente di tutto questo. Il suo è un obiettivo egoistico, di realizzazione spiriturale. Un proposito ambizioso e coraggioso che non riuscirà a centrare, idealizzando tutto, a partire dalla figura della donna, vista con una cifra poetica che si rivelerà lontana dalla realtà, tanto da assumere una connotazione da eroina salvatrice. Il principio di Lucian è tuttavia chiaro e stoico (in aperta polemica con gli editori orientati al riscontro economico e non alla qualità autoriale): "Meglio fallire cercando di raggiungere la grandezza, piuttosto che avere successo nella mediocrità; aveva giurato a sé stesso di preferire l'ultimo posto alla scuola di Cervantes invece di essere il primo all'accademia dei vari Un Brutto Ceffo da Battere o Il Matrimonio di Millicent."

Machen mette molto di sé nel testo, tanto da farne una semibiografia estremizzata nei contenuti e votata al pessimismo più nero. In The Hill of Dreams ci sono tutte le delusioni vissute dall'autore, il sogno per un amore impossibile (la delusione nel constatare la difformità tra la romantica visione della donna idealizzata e la cattiveria e crudeltà di quelle conosciute: "la lingua della donna era velenosa per natura, così come i denti della vipera; andavano evitate entrambe"), le difficoltà editoriali (che comprendono anche furti che vanno oltre al mero plagio), il ripudiare la società moderna, rimpiangendo i fasti dei tempi che furono. Soprattutto però c'è la forte critica alla contemporaneità, gli uomini moderni sono i responsabili della morte dello spirito artistico e, con esso, del decadimento della cultura umana, sempre più orientata alle frivolezze e alle banalità, con il consequenziale appiattimento generale. "Questa immonda sozzura era stata modellata in forma umana soltanto per scodinzolare e sbavare davanti ai ricchi, nella convinzione che ogni nefandezza compiuta non sia tale se benedetta dal potere costituito, e che ogni meschinità nei confronti dell'umile e dell'oppresso non sia mai abbastanza raffinata... L'Umanità spendeva le proprie energie in cose inutili; la creatività dell'uomo contemporaneo si era estrinsecata in sciocchezze... Il sapere degli antichi veniva irriso perché le persone del suo tempo non erano più in grado di leggere il significato riposto nei simboli; si fermavano alla loro apparenza."
Ecco che riaffiora il conservatorismo di Machen, il suo guardarsi alle spalle per ripescare i valori perduti e dimenticati, cancellati da un progresso illusorio essendo tale sotto il mero versante economico, ma non certo culturale. E allora ecco la frase simbolo che sottende la filosofia di Lucian: "Soltanto nel giardino di Avallaunius è possibile scoprire la vera e sublime scienza." Il vero obiettivo della vita dell'uomo non è da ricercarsi nel successo sociale, bensì nel divenire padrone delle proprie percezioni col fine di ascendere, di conquistare l'anima. Questo era l'obiettivo degli alchimisti e in questo deve decriptarsi il simbolismo alchemico dagli stessi delineato in tanti anni di storia. La trasmutazione del piombo in oro sottindendeva qualcosa di diverso e la pietra filosofale capace di trasformare in oro i metalli vili altro non simboleggerebbe che l'oro delle percezioni più raffinate. Lucian tenta di perseguire queste percezioni più raffinate attraverso la letteratura. "La letteratura è l'arte voluttuosa di evocare sensazioni sublimi con le parole." Questa è l'unica vera scienza che dovrebbe interessare l'uomo superiore. "L'Alchimista non perseguiva gli agi e i lussi di questo mondo!"

Crudissimo il finale, in cui Lucian, ormai deceduto e socialmente fallito (tanto da non avere amici e vivere da eremita, solo nella confusione londinese), viene deriso da due uomini comuni che, vedendo quanto ha lasciato sulla propria scrivania, reputano illeggibile e incomprensibili i suoi appunti, adducendo per giustificare il tutto una qualche malattia mentale o un'alterazione psicofisica riconducibile all'assunzione di una qualche droga. Viene così da sottolineare quanto non vi sia gloria e soprattutto comprensione per i sognatori e per coloro che cercano di superare il velo che separa questa triste e mediocre realtà da ciò che il mistico spera di intravedere e conquistare certo di una sola cosa nella vita: la caducità della materia e di quanto ruoti attorno a essa (potere, denaro, successo).

The Hills of Dreams diventa così una sorta di apologia alla fuga dal mondo contemporaneo, un non voler uniformarsi alla mediocrità a costo di autodistruggersi pur di rispettare se stessi. "Meglio sprofondare in una vaga malinconia, smarrirsi nei labirinti di una città maledetta da secoli, vagabondare in un miserabile deserto di rocce, pur di non destarsi nella certezza di una sofferenza insopportabile, e dover così confessare che sarebbe stato più saggio trovarsi un buon impiego, tosto che tentare un'impresa impossibile." Del resto chi ci assicura che la vita non sia davvero un sogno...? E se tale deve essere, forse, è opportuno renderlo avventuroso come solo i sogni sanno essere e non grigio e banale in ossequio alla proposta offerta da una massa che, per ricordare un vecchio adagio di Kierkegaard, non può che essere mediocre e refrattaria al senso artistico.

Capolavoro, infarcito di belle frasi e molteplici spunti riflessivi, ma indirizzato solo ai cultori e ai lettori di prodotti non commerciali. Ha di contro un alto tasso di prolissità, uno sviluppo non lineare che rende talvolta difficile mantenere alta l'attenzione.



"L'uomo comune odia l'artista per la paura istintiva di tutto ciò che devia dall'ordinario."

giovedì 14 novembre 2019

Recensione Narrativa: IL CERCHIO VERDE di Arthur Machen



Autore: Arthur Machen.
Titolo Originale: The Green Round.
Anno: 1933.
Genere: Fantastico.
Editore: Providence Press, 2018.
Pagine: 192.
Prezzo: 17,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Testamento letterario di Arthur Machen che, a settanta anni, chiude la sua carriera di narratore con un testo che si pone a metà strada tra le dissertazioni saggistiche che rievocano L'Avventura Londinese o L'Arte del Vagabondaggio (1924) e i racconti incentrati sulla tematica del piccolo popolo, avviciandosi a quel Un Frammento di Vita (1923) di recente pubblicato dalle Edizioni Hypnos di Andrea Vaccaro.
Un volume non sempre di agevole lettura, per il suo interrompere e riprendere la narrazione degli eventi alternandoli persino a studi operati dal protagonista concentrati su testi relativi al mondo delle fate (ragione per cui, probabilmente, finirà per essere perseguitato dai rappresentanti del piccolo popolo, pur pensando di esser preda di allucinazioni e di essersi immaginato tutto). Un modo di procedere in virtù del quale, grazie anche ai resoconti di uno psicologo e di altri testimoni oculari, Machen torna più volte sui medesimi fatti, quasi a forgiare un romanzo corale in grado di offrire molteplici punti di vista e che, per questo, a mio modo di vedere, non si rivela adatto a un pubblico medio. L'autore parte da una serie di commenti pubblicati in un presunto giornale relativi alle innovazioni apportate alle infrastrutture di una cittadina balneare meta di turisti, sottolineando la sua posizione di anti-progressista, per poi passare ai bizzarri accadimenti che perseguitano il protagonista, un solitario in vacanza che si sforza, per vincere un esaurimento nervoso, di diventare socievole salvo poi esser sempre più isolato dagli altri turisti. Da qui si procede in base a una serie di interrogazioni introspettive sulla potenza menzoniera del sogno e di come questo, quando realistico e ancorato ai dati reali, desti confusione nella mente di chi lo ha concepito, sempre più in difficoltà a discernere tra la realtà e il sognato. A volte però l'assurdo irrompe davvero nella realtà ed è qui che la mente umana rischia di esplodere, non più legata al confortevole mondo dell'esperienza e in balia di un occulto che, in quanto tale, assume l'emblema di un'oscurità che avvolge un viandante smarritosi dentro la propria abitazione e per questo costretto, per cercare la luce, a battere da un angolo all'altro delle proprie stanze.

Machen, in altre parole, si concentra su più argomenti e concede la sua visione filosofica per alcuno di essi. Si passa dalla capacità di suggestionare dei sogni, all'esistenza di una realtà altra a quella percepita quale unica dagli uomini comuni, un mondo evanescente e rumoroso che, pur essendo caratterizzato da un'intensa luce, può essere solo intravisto, allo stesso modo degli esseri che vi fuoriescono (delle specie di gnomi dal volto invecchiato e dalla silhouette di bambini). Creature, queste ultime, pronte a sconvolgere la tranquillità quotidiana (sembra per capriccio e dispetto). Portale d'accesso al mondo nostro, da cui tutto ha inizio nel volume oggetto di analisi, è il cerchio verde ovvero un anfiteatro naturale ricoperto di erba e fiori collocato nella cittadina balneare di Porth, in Galles. Sembra che sia uno dei tanti luoghi punto di contatto tra le due realtà. La particolarità del racconto, contrariamente ad altri simili fenomeni, sta nel fatto che gli eventi straordinari finiscono col seguire il soggetto anche una volta che questo è ritornato a casa e ha esaurito la sua vacanza, così da determinarne una nuova crisi nervosa e la fuga all'estero.

Al di là della tematica centrale, che ripetiamo è miscelata a capitoli di valenza saggistica e che non propone un grande campionario di eventi, finendo per soffermarsi su una serie di ripetuti avvenimenti che sembrano suggerire l'azione di un poltergeist, non vengono risparmiati, tra una peregrinazione e l'altra per le vie di Londra (usando come valvola di studio l'ipotetico testo A London Walk che il protagonista si ostina ad analizzare), gli strali contro lo sviluppo londinese in particolare e dell'Inghilterra in generale. Questo viene prospettato in un'ottica negativa quale deturpamento delle bellezze ambientali proprie delle origini. Una posizione che l'autore mutua anche per analizzare, con accezione negativa, il progresso scientifico. La scienza è destinata a fallire per il suo voler ricondurre tutto sotto le sue limitate conoscenze, al punto da accettare un evento e riconoscerlo come possibile solo quando è stato compreso, ignorando tutto il resto ivi compresa l'evidenza di quei fatti non spiegabili. Eloquente l'epilogo del romanzo in cui Machen, al cospetto con l'inspiegabile, opta per una soluzione sofista ovvero "credo non ci sia risposta a questo mistero, Faremmo meglio a dire: Noi non parliamo di queste cose." Una chiusura su cui l'autore conclude il suo lungo rapporto con ciò che si cela oltre i veli dell'ignoranza, quasi a voler lasciare un testimone alle nuove generazioni, suggerendo una vita orientata ad andare oltre le apparenze e a cercare la verità laddove solo gli eletti e i poeti possono spingersi, a rischio però della propria sanità mentale (immancabile monito).

Due parole in conclusione a favore della Providence Press, impegnatissima tra l'altro nell'attività di divulgatrice della narrativa del grande Robert Ervin Howard, che, per prima, ha pubblicato questo inedito in Italia, contribuendo a rendere sempre più accessibile la narrativa di un autore monumentale nel panorama fantastico e del terrore, un maestro che ha ispirato larghe schiere di scrittori, a partire da H.P.Lovecraft per giungere a Stephen King (si legga il racconto di questi, N., inserito in Al Crepuscolo o la dedica iniziale resa all'inizio del romanzo Revival).
Di spessore la postfazione dello studioso ed esperto Giacomo Ortolani, senz'altro fondamentale per la comprensione di un testo non troppo indicato a chi voglia avvicinarsi per la prima volta alla lettura di Machen e, soprattutto, ai lettori medi, ma imperdibile per gli studiosi di Arthur Machen.
Da notare l'esistenza di un volume a serie limitata sempre edito dalla Providence Press, si parla di 59 copie, contenente, in aggiunta, tre racconti inediti di Machen.

Il buon vecchio 
MACHEN.

"L'immensa lacuna delle mie conoscenze, riguardo a questo ampio cerchio di eventi, mi impedisce di accettare tali fenomeni, nonostante il loro incredibile impatto. E ciò significa che la mente scientifica è riluttante ad accettare isolati fenomeni sovrannaturali che non abbiano una qualche teoria che li sorregga, un qualche logos che li razionalizzi, un qualche schema in cui possano essere catalogati."

lunedì 21 ottobre 2019

Recensione Narrativa: I VAMPIRI SONO FRA NOI di Frank Graegorius



Autore: Libero Samale (Sotto lo pseudonimo di Frank Graegorius).
Genere: Horror / Esoterico.
Anno: 1967.
Edizione: Editrice FARCA, collana I Racconti di Dracula, I Edizione, N. 96.
Pagine: 124.

TRAMA: Un noto psicanalista viennese, Graegorius von Hoellenstein, famoso per aver scritto un volume in cui teorizza l'esistenza degli “psiconi” - così da spiegare l'esistenza dell'anima - medita di vendicare la morte del figlio. Quest'ultimo, respinto in amore, ha infatti pensato di farsi saltare il cervello con un colpo di rivoltella per alleviare il dolore dovuto all'abbandono. Deciso a eseguire i suoi piani, Graegorius, armato di pistola e pronto a irrompere nell'abitazione della giovane, viene bloccato da un viandante che gli rivela di averne compreso i piani, sulla base della semplice osservazione delle sue condotte. Lo sconosciuto non ha tuttavia intenzione di denunciarlo, ma di proporgli un patto: uccidere la ragazza e con lei altre undici donne, ma in modo da aver garantita l'impunità. Come? Semplice, grazie a un grimorio e alla psicanalisi, utilizzando una cavia quale strumento di morte. I due stringono così un patto in odore di zolfo diabolico e, grazie a un mix di magia e ipnosi, riescono a uccidere persone agendo in una dimensione altrove, penetrando in una sorta di cimitero e al tempo stesso anagrafe ultraterrena da cui parte l'energia che tiene in vita tutte le persone del mondo. Un luogo cui accedere con la mente e agire inducendo la cavia ad abbeverarsi alla fonte della vita delle varie vittime designate. Spiegato il modus, i due entrano in relazione con un altro ragazzo vittima d'amore, salvato pochi attimi prima di impiccarsi. Convinto di esser vittima di un esaurimento nervoso, il giovane viene sottoposto alle ipnotiche sedute condotte da Graegorius von Hoellenstein dove si troverà, di volta in volta, al cospetto di una fontana collocata nei pressi di un albero e di una lapide, con inciso il nome della persona, che sormonta una fossa. Quando le varie persone muoiono lo zampillo si placa e l'albero secca, mentre una presenza ectoplasmatica scende sotto la fossa. L'ignaro paziente, chiamato a eseguire gli ordini impartitegli dallo psicanalista e assuefatto da un continuo tambureggiare, si accorgerà presto che le ragazze viste nel sogno moriranno nella vita di tutti i giorni di lì a poco dalle sue esperienze oniriche...

COMMENTO A CURA DI MATTEO MANCINI: 
Romanzo dalla grosse potenzialità, giustamente indicato con l'ideale titolo “La Fonte della Vita”, traduzione del tedesco Die Quelle vom Leben. Frank Graegorius modernizza la tematica legata al vampirismo, rendendola metaforica e incastonata in una moderna Vienna. Qua i vampiri non si muovono nella realtà, pur essendo tra noi, ma si dissetano in quella che potremmo definire la centrale elettrica da cui si diffonde la vita degli uomini.

Più che altrove, il bagaglio professionale dell'autore la fa da padrone, trattandosi di un'opera incentrata sulla psicanalisi e sull'ipnotismo, spesso presenti nelle opere del maestro ma mai centrali come in quest'opera. È curioso notare quanto Graegorius, che qua si autocita utilizzando un personaggio che si chiama come lo pseudonimo con cui è firmato il romanzo, sia avveniristico nella costruzione della base che funge da spunto iniziale. Tutto parte dall'idea di uno psicanalista, definito nel testo “il sacerdote di Freud”, che ha teorizzato una tesi secondo la quale “l'anima è formata di unità semplici e indivisibili di energia, veri quanta psichici da lui denominati psiconi ovvero atomi dell'anima, altrimenti detti unità di energia psichica.” L'anima altro non sarebbe che “l'insieme delle funzioni psichiche” e sarebbe formata da un insieme di psiconi. Questi ultimi “non avrebbero alcuna proprietà fisica nel senso della scienza contemporanea, ma sarebbero un ponte tra questo nostro mondo fisico e quello che gli occultisti chiamano mondo astrale.” Per mondo astrale si intende un luogo metafisico, legato agli studi teosofici, dove poi ascenderebbe, morto il fisico, l'anima delle persone. Secondo alcune religioni e alcuni esoterici, il mondo astrale potrebbe esser visitato coscientemente con il corpo astrale, attraverso pratiche esoteriche iniziatiche, durante il sogno e il sonno (cosa che succede nel romanzo). Ritorniamo però agli psiconi. Frank Graegorius attinge dagli studi del parapsicologo inglese Walter W. Carington, che definiva “psiconi” puri elementi psichici, contrapposti ai materiali, alla base delle sensazioni, delle immagini e delle idee. Molti anni dopo, nell'agosto del 1991, sul giornale La Repubblica uscirà un articolo, dedicato al premio Nobel per la medicina John Eccles, intitolato “LO SCIENZIATO CHE HA SCOPERTO L'ANIMA.” L'articolo parla espressamente del termine “psiconi”, assente sia sui dizionari che sulle enciclopedie dell'epoca, definendoli quali elementi costitutivi della mente in correlazione con gli elementi fisici facenti capo ai neuroni, così da formare i due mondi che costituiscono il cervello: quello fisico e quello mentale, in modo da sconfessare la tesi prioritaria secondo la quale “il mondo sarebbe totalmente riducibile a materia ed energia, a fenomeni fisici e chimici.” Secondo Eccles “il mondo mentale non solo sarebbe autonomo rispetto alla sua base materiale, ma la controllerebbe; inoltre il suo centro non sarebbe nei meccanismi fisici e chimici del cervello, ma nell'IO che non può che nascere in virtù di una creazione spirituale sovrannaturale. In altre parole la fonte della mente, dello spirito, dell'autocoscienza, dell'IO è una sola: Dio.” L'articolo viene firmato, curiosamente, da Franco Prattico, che i lettori de I Racconti di Dracula ricorderanno con lo pseudonimo di Morton Sidney, così da chiudere un curioso cerchio che dimostra quanto lo spunto di partenza del romanzo sia tutt'altro che abusato, oltre che a dare valore alla collana e ai suoi autori. Non solo Graegorius modernizza la tematica del vampiro, ma tenta di essere un antesignano confezionando quello che è, a tutti gli effetti, un vero e proprio romanzo esoterico (genere che in Italia in pochi sono stati capaci di confezionare). Purtroppo il notevole spunto di partenza cala alla distanza. Dopo i primi trequarti di narrato, il romanzo esaurisce la spinta innovativa, complice un schema di sviluppo un po' ripetitivo e una difficoltà a trovare una chiusura degna di nota. Così si fa riferimento alla LSD quale strumento alternativo alla magia; una sostanza che unita alla concentrazione, alla contemplazione e all'ipnotismo permette di accedere al mondo astrale allo scopo di ottenere “effetti sovrapponibili a quelli indicati dall'occultismo tradizionale.” La parte finale viene così a strutturarsi quale confronto tra parapsicologia e occultismo (e relativi rappresentanti), con una giustificazione di quanto andrà a verificarsi un po' becera (non ce ne voglia l'autore, ma attribuire doti trascendenti all'acido lisergico, piuttosto che allucinatorie e illusorie, ci pare troppo). Peccato, perché la costruzione del testo era molto ma molto buona. Così, pur se per vie diverse, avremo dei personaggi capaci di immergersi nel “mondo astrale”, una realtà ectoplasmatica ovvero “un mondo senza dimensioni e senza tempo. La desolata terra dei morti immersa in una luce crepuscolare”, che diventa teatro di incontro e di scontro tra uomini che, dal mondo materiale irrompono nello spirituale, vagano con l'intenzione di portare morte o protezione, a seconda degli obiettivi. L'interazione sul piano spirituale, ovvero inconscio, ha valenza su quello materiale e provoca incidenti, morti per malattie ed eventi all'apparenza dovuti al fato. Un'ipotesi alquanto sinistra e inquietante, ben sintetizzata dal quesito avanzato da uno dei protagonisti: “Credi che si possa uccidere a distanza, per maleficio, o stregoneria o che altro stramaledetto diavolo sia?” La risposta è si, ma attenzione al monito di Frank Graegorius, il dovuto ammonimento ai non iniziati che non tarda a manifestarsi: “Un cippo si drizzava al cospetto di quell'oceano desolato e recava un'iscrizione: Passeggero, davanti a te si stende il grande oceano Astrale, sulle cui onde galleggiò l'Arca della Salvezza, quando sulla terra fu sparsa la morte e la desolazione. Passeggero! Se non hai lo sguardo dei draghi, torna nel tuo mondo dei vivi, abbandona questo tenebroso universo privo di dimensioni.”

Penso che si possa dire che il romanzo abbia una chiave interpretativa che vada oltre la mera descrittiva, che si sostanzia nel superamento di una porta che immette in una sorta di aldilà (impropriamente definito nel testo l'Inferno) dove trovano sede le tombe dei morti e le fosse in attesa di ricevere gli spiriti di coloro che sono ancora vivi, in una sorta di cimitero allargato dai tratti fortemente onirici e intriso di nebbie e presenze sinistre (“Ombre e fantasmi passavano davanti a lui in lunghe file silenziose, si dissolvevano per poi ricomparire più vicino o più lontano”). L'autore, sul piano descrittivo, si conferma grande maestro. Da scrittore vicino a certi ambienti massonici, fa largo ricorso ai simboli (amuleti caratterizzati da stella a sei punte, clavicole di Salomone, simboli che rappresentano la c.d. anima inferiore, nomi che forniscono indizi sulla natura del personaggio, a esempio il nome Hoellenstein significa “pietra d'inferno”, dove la pietra è un simbolo per eccellenza in chiave simbolica per il contesto massonico), ma alla fine la sua è una lunga discesa nell'animo umano o, meglio ancora, nella mente umanaNon a caso, fin da subito, si scrive che “in fondo all'animo nostro, dove fermentano i semi della vita, si apre una portache conduce nel mondo dell'assurdità o della follia.” Più avanti la struttura su più livelli viene di nuovo a materializzarsi per mezzo di un palazzo, in cui ha sede l'ambulatorio dello psicanalista, strutturato su più piani. “Io la costringo a scendere nelle tenebre dell'inconscio e lei è salito più in alto di quanto avrebbe dovuto” protesta lo psicanalista nei confronti del suo paziente, quando questo sbaglia piano e finisce al piano superiore. Una parte altrimenti superflua, ma che viene ad acquisire valenza metaforica con la sua conformazione, alla stregua della mente, labirintica. “Ogni errore o dimenticanza, anche i più banali nella vita quotidiana, hanno un senso, un significato logico...Nulla, nell'anima dell'uomo, accade a vanvera.”
Romanzo da rivalutare nella produzione di Libero Samale.

sabato 19 ottobre 2019

Recensione Saggi GUIDA ALLA MASSONERIA di Michele Leone



Autore: Michele Leone.
Anno: 2017.
Genere: Saggio.
Editore: Odoya.
Collana: La Cineteca di Caino.
Pagine: 382.
Prezzo: 20,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Eccoci di nuovo a recensire un volume della casa editrice Odoya, a noi sempre gradita tanto che un paio di giorni fa, al Pisa Bookfestival, abbiamo acquistato tre loro volumi, tra i quali Guida alle Società Segrete, scritta dall'autore di cui ci accingiamo a parlare oggi: Michele Leone.
Esperto di esoterismo e soprattutto studioso di simbologia, Michele Leone, dopo svariate pubblicazioni, giunge al progetto probabilmente a lui più gradito, data anche la rassegna periodica di cultura massonica (Delta) per la quale è direttore del comitato di redazione. Stiamo parlando della Guida alla Massoneria, edita nel 2017.
Il suo è un vero e proprio atto di amore, come lui stesso lo definisce, in più frangenti provocatorio e, allo stesso tempo, conciliatorio e funzionale a superare le asperità e le incomprensioni tra logge; una visione probabilmente dall'interno della scuola iniziatica, sebbene l'autore, a parole (non nei fatti), voglia suggerire di essere estraneo alla questione.
E' subito utile chiarire cosa questo volume non sia. Innanzi tutto non si tratta di un testo a caccia di sensazionalismi o votato a suggerire complotti o a proporre derive deviate. Non è neppure un testo che cerca di svelare segreti o fornire indizi o spunti di indagine per smascherare presunti massoni. Niente di tutto questo.
Si tratta invece di un lavoro colto e chiaro, neppure troppo denso di concetti e sviluppi, che vuol destare curiosità inducendo il lettore a pensare, ma soprattutto sconfessare pregiudizi e far luce sul senso puro e storico della massoneria. Leone torna più volte, nel corso del testo, a focalizzare l'attenzione su alcuni punti, plasmando, più che una guida, un volume introduttivo alla massoneria utile a spingere chi dovesse essere interessato a cercare ulteriori approfondimenti. La massoneria, intesa come concetto generale dal momento che non ve n'è una universale ma un coacervo di logge, è una scuola iniziatica, che trae le sue origini dalle corporazioni lavorative medievali e, prima ancora, dal mito, a partire da Hiram e dalla costruzione del Tempio voluta da Re Salomone. Il suo scopo è lo sviluppo dello spirito umano mediante la conoscenza di se stessi e delle leggi del sacro e della natura (scuola trascendente, come piace definirla a me), partendo dall'iniziazione degli apprendisti (le c.d. pietre grezze) e procedendo, attraverso un metaforico viaggio nel mondo dell'oltretomba (che altro non è che un viaggio nel proprio subinconscio funzionale a conoscere sé stessi e indirizzare così il proprio spirito, ovvero le proprie passioni, sulla retta via, così da giungere alla consapevolezza e alla piena coscienza di ciò che è), a quello di compagno d'arte e, da questo, a quello di Maestro, ovvero colui che è morto ed è rinato (il Traditor cioè colui che trasmette e conferisce agli "allievi" i diversi stadi di luce per far meglio vedere). Un processo evolutivo non semplice, che fa del massone moderno l'inquieto ricercatore di verità, un individuo instancabile, libero da dogmi, preconcetti e sudditanze, che, in possesso di indizi e dei giusti strumenti, cerca di carpire dai più esperti, giungendo a mettere in discussione il pensiero dei maestri, perché "il segreto della muratoria è inviolabile e chi lo ha appreso non lo ha appreso da nessuno, ma a furia di ragionare, di osservare e di dedurre" e chi riesce a coglierlo non potrà fare altro che mantenere il silenzio poiché "chi non ha avuto il talento di penetrare il segreto non avrà neppure quello di trarne partito apprendendolo oralmente." Uno sviluppo individuale variegato e funzionale alla crescita della loggia e da questa del mondo stesso, distillando i valori e i retti principi in vista della nascita di un nuovo uomo. Un proposito che, ai giorni nostri, ci pare di poter definire chimerico, data la perdita dei valori e l'imperare di un atteggiamento collettivo totalmente in balia del materialismo e dei desideri carnali (che il vero iniziato dovrebbe superare).

Leone spiega al lettore, senza scendere nei dettagli ma limitandosi a una dissertazione generale, i metodi seguiti da questa scuola, metodi che passano dal linguaggio massonico (spesso interpretabile in diversi modi, con un passaggio dal senso letterale a uno allegorico assai più profondo), all'utilizzo di un gergo specifico, comprensibile solo da chi sia in possesso delle giuste chiave interpretative, da toccamenti e segni particolari che permettano ai "fratelli" di riconoscersi in un costesto più ampio e variegato senza farsi scoprire dagli altri. Prima di ciò, attraverso un apposito capitolo, spiega la ritualità dell'iniziazione, sia sotto il profilo formale e rituale sia da quello simbolico, fino a soffermarsi sul dovere dell'apprendista di rispettare il silenzio, in quanto non depositario delle capacità richieste per comprendere così da poter liberarsi di quanto non gli è utile e abbeverarsi delle sostanze richieste. "La parola è uno strumento che con il passare del tempo, dei gradi di consapevolezza, dei livelli di iniziazione può divenire un'arma."

Da segnalare poi il capitolo dedicato al rapporto tra le donne (escluse dai dettami imposti dalla Loggia d'Inghilterra) e la Massoneria, con la netta posizione di apertura scelta da Leone sulla base di un giusto principio che va oltre la sfera sessuale e guarda, piuttosto, al concetto di anima, in vista di quel traguardo metaforico verso l'essere unico rappresentato dall'individuo androgino ovvero la completezza assoluta omnicomprensiva.

In conclusione la Massoneria non è una scuola ordinaria, ma una scuola extra-ordinaria fatta per persone straordinarie, o almeno così dovrebbe... La cosa non ci convince del tutto, al giorno d'oggi, viste certe liste di nomi, non ce ne voglia il buon Leone. Inoltre la Massoneria non fornisce risposte, ma fornisce a ogni ricercatore gli strumenti per ottenerle e trovarle. Come dice un vecchio adagio mai caduto di moda: a buon intenditore poche parole...

"La Massoneria insegna che è lecito parlare di lei, approfondire e discettare dei suoi piccoli misteri; tuttavia dice anche che, quando si è innanzi ai grandi misteri, quando si è innanzi al Mistero, non si può più viaggiare in compagnia, ma bisogna proseguire da soli..."

Da un punto di vista tecnico, il volume è ben scritto e di media difficoltà. Leone alterna la parte saggistica con colte citazioni che vengono riportate, in carattere più piccolo, nella loro interezza. Frasi attribuibili ad altri studiosi (tra i quali Guenon), ma anche filosofi (l'immancabile Bruno Giordano, tra gli altri), psicanalisti (Jung) fino a stralci dal mito e da testi religiosi. L'impaginazione, in puro stile Odoya, è accattivante e ricca di immagini inserite lungo tutto il corso del testo. Chiusura con regolamenti e statuti per intenditori e cultori.
Bel volume, poc'altro da dire. Indicato, ovviamente, agli studiosi della materia e a chi cerchi un approccio alternativo più votato agli aspetti pratici e storici che a quelli complottistici (del tutto assenti). L'Odoya ne ha stampato una seconda edizione di recente, segno di un buon volume (da intedersi su più livelli interpretativi) di vendite.

L'autore MICHELE LEONE

"Quanto più un'apprendista è capace di resistere allo scalpello, tanto più è inattaccabile dalle intemperie. Spesso, maestri con poca voglia di affaticarsi tendono a scartare quelle pietre che potrebbero piegare il loro scalpello. Tra i vari tipi di "pietra-apprendista", questo è il più interessante per il CIRCOLO e il più complesso per i soci. Lavorare una pietra come quella descritta non è facile, in alcuni casi può sembrare un'impresa disperata, ma proprio per questo i maestri dovrebbero gioire quando ne incontrano una. Sono questi gli Apprendisti Accettati che, se riescono a superare l'apprendistato, a lavorare le loro asperità, a forgiarsi strumenti in grado di non piegarsi, potranno un giorno ambire a essere i Maestri, le pietre d'angolo, i pilastri del Circolo."

Recensione Narrativa: MALASACRA di Francesco Corigliano.


Autore: Francesco Corigliano.
Anno: 2019.
Genere: Antologia Horror.
Editore: Kipple Officina Libraria.
Pagine: 224.
Prezzo: 15,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Siamo lieti oggi di presentare la prima antologia pubblicata da Francesco Corigliano. Professore di italiano, storia e geografia, giovanissimo, non ancora trentenne, si tratta di una vera e propria promessa della narrativa italiana del terrore (a mio avviso già di caratura internazionale) che con questo Malasacra ha già in mano, se debitamente distribuito e promosso, il materiale per conquistare riconoscimenti importanti. Laureato in filologia moderna con una tesi sui racconti del terrore, ha conseguito un dottorato di ricerca presentando un lavoro sulla letteratura weird. Studi e percorsi formativi che ne fanno un "professionista" del settore. Corigliano però non si limita al lavoro di divulgazione e di ricerca, è anche e soprattutto uno scrittore rifinito, molto colto e tecnico, abile tessitore di trame ad ampio respiro capaci di suscitare tensione e angoscia senza prendere la scorciatoia del grandguignolesco o del c.d. effetto speciale. Le sue storie sono estremamente evocative, talvolta lente nello sviluppo, e assumono i connotati di discese o avventure in contesti scenografici stranianti (sotterranei, ville abbandonate, scavi nel cuore della terra, abissi oceanici, foreste vergini etc) dove il passato, in un modo o in un altro, torna a rivivere. Archeologi, paleontologi o ladri su commissioni di perle rare, ma anche biologi e talvolta poliziotti, sono i suoi personaggi più ricorrenti che diventano protagonisti di avventure dal ritmo e dallo "svelamento" progressivo. Talvolta non si capisce dove sia il confine tra realtà e suggestione, perché l'autore tende a prediligere il fascino del mistero alla risoluzione dell'occulto, che il più delle volte persiste a essere tale anche a fine racconto e viene affrontato con valenza di matrice soggettiva. I suoi mostri sono sfumati, mai mostrati nella loro completezza, anzi, sono appena suggeriti. Alla loro vista, un po' come in Lovecraft, il protagonista tende a perdere il senno, scappa, urla senza accorgersi di farlo, non domina la situazione ma ne è incuriosito. A differenza del solitario di Providence il modo di narrare di Corigliano è liberato dalla tentazione di tracciare le sembianze del mostro. Un modo di affrontare il weird, per questo aspetto, opposto a quello di Lovecraft, ma che gli permette di non cadere mai nel ridicolo o nell'inverosimile ottemperando ai trucchi di quell'antica lezione offerta al pubblico da Steven Spielberg con Jaws. Lezione che, più o meno, insegna a mostrare il meno possibile il mostro, così da far attivare la fantasia dello spettatore che andrà, di certo, a delineare l'essere per lui soggettivamente più mostruoso così da non restarne deluso.
Tecniche e percorsi di sviluppo che hanno fatto di Corigliano una presenza costante nelle premiazioni dei concorsi di maggior calibro italiano dedicati al mondo del fantastico; vincitore del Premio Hypnos nel 2016, finalista nel Premio Rill nel 2018, vincitore del concorso di fantascienza N.A.S.F sempre nel 2018. Ha collaborato alla Guida ai Narratori Italiani del Fantastico edita dall'Odoya nel 2018 e vincitrice di importanti premi di caratura nazionale. Il suo è un nome sicuramente già appuntato sul taccuino dei talent scout che, nel giro di pochi mesi, contiamo di veder approdare nelle scuderie dei più grandi editori italiani, magari sulle collane Urania della Mondadori. Un target, quest'ultimo, ampiamente nelle corde dell'autore.
Vediamo ora di presentare questo suo primo lavoro antologico, un'opera di notevole spessore.

La Kipple Officina Libraria sforna un gran bel volume che potrebbe finire menzionato nei saggi dedicati alla narrativa fantastica italiana. Undici racconti, quasi tutti di matrice orrorifica, per 236 pagine. Corigliano sceglie attentamente nella sua produzione e schiera undici storie di livello, nella gran parte dei casi, equivalente. C'è addirittura chi abbia visto un fil rouge sullo stile de I Tre Impostori di Arthur Machen. Francamente, a parte la cifra stilistica e alcuni temi ritornanti (il passato dell'umanità, gli scheletri testimonanza di vite passate, l'orrore sfumato, la paura per ciò che non si mostra ma si lascia intravedere), non abbiamo riscontrato un legame unitario dei vari racconti.
L'opera prende il via con un'escursionista che si arrampica lungo un sentiero boschivo montano, costeggiando un ruscello. A un tratto, in un punto ben determinato dove non si era mai spinto, si accorge dell'improvviso placarsi del fragore sebbene il ruscello continui a scorrere ai suoi fianchi... Questo lo spunto fantastico de Il Silenzio, elegante e fulmineo antipasto all'antologia che si appresta ad aprirsi sotto gli occhi del lettore. Un breve racconto intriso di atmosfere alla Blackwood (Corigliano gli è fortemente debitore) che propone subito quell'infiltrazione nella realtà di rumori e squarci visivi che sono ancorati in un altrove sfuggevole e arcano, eppure in grado di penetrare nell'inconscio e nel cervello dello sprovveduto pellegrino fino a condurlo nelle maglie della follia. Un orrore dunque psicologico, non mostrato ma suggerito con forza. Corigliano prosegue in questa via nell'orgia necrofila di Sancta Sanctorum. Testo dilatato nel suo incedere, eppure mai noioso grazie a una magistrale cura della tensione. Corigliano, nonostante la giovanissima età, è uno scrittore rifinito, maestro del terrore e abile tessitore di trame che, a poco a poco, sprofondano in un maelstrom dove spumeggia una follia infettiva che si propaga da personaggio in personaggio. Così la commissione di un furto di un'opera d'arte, rimasta nel siracusano all'interno di una villa abbandonata, si trasforma, sia per il mandante che per l'esecutore, in una lenta discesa in un delirio sacrilego in forte odore di blasfemia. Una progressione tra topi, ragnatele e degrado da cui iniziano ad affiorare, nel passaggio da una stanza all'altra (altra tematica ricorrente nella narrativa dell'autore), reperti scheletrici umani dapprima isolati e poi legati e uniti ad altri di derivazione animale così da creare strutture asimmetriche, in un buio pesto debellato solo dal cilindro di luce vomitato da una pila elettrica. “In cuor suo fu lieto di non vedere chi lo afferrava alle caviglie, tirandolo e lacerandogli le gambe, per lanciarlo in un sol gesto al di là della stanza” così pensa il ladro quando si accorge che a fargli compagnia non ci sono solo i ratti ma anche qualcosa che ha preso vita dalle pazzesche trame dell'artista un tempo proprietario della villa. Testo che si chiude con un che di barkeriano (rif. a Clive Barker) per effetto di una distruzione strutturale e ossea in vista di una nuova ed evoluta struttura, pur se mostruosa e innaturale, che rimanda all'angelico e dunque al demoniaco.

Strutturato su tre piani narrativi è l'altrettanto dilatato Carolus Rex. Corigliano, che un po' strizza l'occhio ad William H. Hodgson omaggiando l'autore di Chelsea introducendo un personaggio omonimo, parte dall'idea abusata della c.d. nave fantasma per sviluppare il tutto in modo personale. La storia prende l'abbrivo dall'incontro, in Norvegia, tra un giornalista e un comandante di navi mercantili. Quest'ultimo racconta la sua esperienza avuta nei mari del Sud America dove narra di aver rinvenuto, squarciata dalla ruggine e con strani segni da speronamento, una nave scomparsa venti anni prima e ormai alla deriva, pur se non indicata dagli strumenti di bordo: la Carolus Rex. Intenzionato a vederci chiaro, l'uomo rivela di esser penetrato all'interno della nave, insieme a circa una dozzina di marinai e qui di aver rinvenuto il diario del comandante. Ecco che si innesca il terzo piano narrativo ovvero il resoconto dei fatti filtrati dagli appunti del comandante. Corigliano, a poco a poco, grazie alle sapienti capacità descrittive e una calibrato gestione della tensione (crescente), conduce il lettore in un mistero che sprofonda in un orrore evanescente, una minaccia che si rende impalpabile pur manifestandosi con rumori bizzarri (il cinguettio di uccelli che non possono trovarsi a quella latitudine o il biancore di statue maledette issate a bordo) e da questi diffondersi penetrando nelle menti degli uomini inducendoli a fuggire, a pregare e persino a sacrificarsi per la salvezza dei compagni. Un male oscuro, metafisico, che minaccia di abbandonare la Carolus Rex per ammorbare la nave che l'ha attraccata e allungare la sua mano diabolica sul mondo... Corigliano dimostra di esser molto più che uno scrittore emergente, peraltro affascinato dall'arte e  più in particolare dalle statue (le ritroveremo nel racconto che ciude l'antologia). Lo conferma nell'ancora più particolare La Terra Altrui, che ha la peculiarità di esser ambientata nell'antica Roma. Durante una cena in famiglia, si parla delle campagne belliche in Germania, nel cuore della Schwarzwald ovvero la foresta nera. Un tribuno racconta le imprese sul fronte europeo e svela di esser stato testimone di una battaglia contro più gruppi di barbari coalizzati tra loro, compreso uno strano esercito composto da uomini ricoperti di fango, con arbusti usati quali ornamenti e parti umane amputate tenute legate al corpo quali truci trofei funzionali a scioccare il nemico. Un racconto che, nel corso del narrato, abbandona la componente storica e guerrigliera per planare nei confini di un orrore blackwoodiano. Il protagonista rivela di aver seguito alcuni combattenti di questo popolo in ritirata e di aver compreso cosa si celi dietro l'ardore e la combattività animalesca dei barbari. Non c'è alcun desiderio di conquista, ma una terra inconquistabile per l'uomo, intelligente e capace di animarsi per punire le guide religiose di questi popoli, assumendo tratti antropomorfi per schiacciare al suolo i perdenti. Non è dunque una volontà di estensione ad animare i barbari piuttosto la necessità di sottrarsi all'ira della terra. Un racconto molto colto, di eccezionale qualità. Corigliano sfrutta le conoscenze storiche e le mette al servizio di un elaborato assai particolare, di valenza metaforica, senza dimenticare la passione per i classici dell'orrore. Beati i suoi allievi che hanno la fortuna di avere un professore così...

Più complesso Il Dragone del Vuoto in cui Corigliano prosegue e rende ancor più manifesta l'evanescenza del male, una sorta di maledizione dalle forme di uno sfuggevole dragone (simbolo dai diametrali significati esoterici, a seconda dei contesti culturali di riferimento) che grava su una città e, osservandola dall'alto, ne vomita il passato all'interno di una caverna visitabile solo dagli iniziati (l'idea del tempio sepolto, che ritornerà nell'ultimo racconto del volume). Il protagonista, guarda caso, è un bibliotecario, un soggetto capace di procedere nel profondo della conoscenza grazie alla vasta gamma di libri (metafora del sapere) che ha a disposizione e che gli permettono di vedere una realtà diversa dall'apparenza. Corigliano riprende la metafora degli occhiali, alla Essi Vivono di Carpenter, per verificare la differenza tra quanto si cela alla vista non corretta e quanto invece emerge con la giusta prospettiva ottica. Stile colto, elaborato, costantemente sospeso tra realtà esoterica (da leggersi quale limitata a pochi) e delirio sulla scia de Il Diario di un Pazzo di Gogol, col protagonista che si autoproclama il più geniale di tutti e scopritore di misteri innominabili. Tutto questo a forgiare un racconto non per tutti, diverso dagli altri che lo precedono e più orientato all'autoriale che al testo di genere.

Dal Vuoto Mormorare. La Controlinguistica a Partire da Lacan è un divertissement, un gioco provocatorio sul linguaggio umano. La comunicazione che dovrebbe rendere più evoluta la razza umana rispetto alle altre specie animali viene qui vista come un motivo di limitazione. Un intermezzo dalla forma del finto saggio che si pone quasi a cavallo dell'opera.

Corigliano supera se stesso col racconto In Tenebris Umbra, vera e propria riscrittura weird della narrativa di Howard Phillips Lovecraft miscelata alle atmosfere del noir. Strutturato alla stregua di un giallo incentrato sulle faide che insanguinano distinte cosche legate alla ndrangheta e affiliate a logge massoniche in competizione tra loro, si trasforma, a mano a mano che le indagini si sviluppano sulla giusta strada, in un horror che rispecchia i canoni artistici dell'autore. Sfumato nel suo inquadrare il male che incombe attorno agli uomini, eppure articolato e snodato nel suo sviluppo che passa dai riti celebrati in riva al mare, tra simboli massonici e ambigue presenze che snodano i loro tentacoli laddove dovrebbe ergersi l'immacolato sigillo dello Stato, e serie omicide che non lasciano scampo ad avvocati e assessori comunali. Non mancano le gustose citazioni che vanno dai B-Movie cinematografici, si pensi al film, tanto per restare in tema di simboli massonici, L'Occhio nel Triangolo (con gli umanoidi che fuoriescono dal mare per andare a baciare i loro adepti), ma anche al racconto che Lovecraft scrisse con sua moglie Sonia Greene ovvero L'Orrore di Martin's Beach, e soprattutto all'immenso capolavoro Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco, da cui arrivano quelle incomprensioni e quel delirio interpretativo legato a un mistero che neppure i grandi maestri massonici (qua chiamato “Il grande vecchio”) riescono a risolvere, ma che non fa mai calare la speranza di poterlo andare a svelare, tanto da supporre che altri ci siano riusciti (un po' come successe col matematico che intercettò la chiave criptica legata alle lettere in codice firmate Zodiac). Da qui la convinzione, da parte dell'ambiente massonico, che il commissario di polizia protagonista del racconto abbia capito tutto. A differenza di Eco, però, nel racconto di Corigiliano il soprannaturale c'è davvero ed è legato a un misterioso pseduobiblia (vogliamo crederlo tale), di cui non si fa il nome e che è stato rubato, da un tale che si chiama Mancini, per ordine di una loggia massonica dedita all'esoterismo; un volume che è stato scritto da chi uomo non è tanto che le creature ammantate sotto il mantello del Mediterraneo lo consegnano di nuovo agli uomini, affinché essi ne facciano proseliti riservati agli iniziati, anche quando qualcuno pensa di distruggerlo.
Dunque un bellissimo esempio di come strutturare un giallo che piega sull'horror senza mai scadere in banalità. “Il male non si legge. Il male non assomiglia a nulla. Il male è.” Applauso all'autore per quello che è forse il miglior testo dell'antologia.

Non manca il fantastico criptozoologico che Corigliano rappresenta con due racconti di forte presa weird: Megatalga e Il Funebre Canto. Più orientato all'azione il primo (sparatorie e militari incazzosi), giocato in Siberia dove una spedizione di paleontologi avanza ipotesi su creature di enormi dimensioni e su un bosco preistorico composto da alberi ciclopici di cui alcuni scienziati avevano messo in discussione l'esistenza. Un discutere, sotto l'occhio vigile di alcuni soldati russi, che viene spazzato via da un orso, o una sorta di tale animale, che, attirato dagli odori rilasciati dai resti fossili di una creatura enorme, invade il campo e fa razzia di persone. Corigliano dimostra stile eclettico, tra azione e rimandi alla narrativa di Blackwood, con un epilogo in cui il passato e la natura sovvertono la presunta superiorità dell'uomo. Può il passato sopravvivere lasciando la propria anima a vagare nel presente? Corigliano sembra suggerire di si.
Molto interessante e coinvolgente il secondo di questi due racconti, una storia in cui Corigliano prende spunto dall'insabbiamento dei grandi cetacei e dal mistero del bloop, un suono oceanico captato da alcuni sonar sul finire degli anni novanta che inizialmente era stato associato al verso di una grossa balena degli abissi. L'autore fornisce qua la sua soluzione, o meglio interpretazione, di questo suono fondendolo all'orrore cosmico di matrice lovecraftiana. Il tutto sarebbe dovuto alla caduta in mare (storia ambientata nella penisola iberica) di una serie di meteoriti che, in realtà, altro non sono che bestie stellari piovute sulla terra per portare aiuto a una loro simile che si nasconde sotto la superficie dell'oceano e lancia un grido di aiuto che si diffonde nelle galassie. Una discesa suicida, che provoca la morte delle bestie e il loro relativo insabbiamento sulla risacca, ormai irriconoscibili e bruciate. Corigliano caratterizza il tutto con un velo melanconico e triste che passa dalle caratterizzazioni dei personaggi, dei biologi che analizzano una carcassa di cinquanta metri in riva al mare (il protagonista è reduce dalla morte della propria donna), a quelle del mostro condannato a un isolamento che non vuole accettare. Aspetti questi che rievocano alla memoria il celebre racconto La Sirena di Ray Bradbury. “Mi sono imposto di credere che non possa esistere, che non possa avere vita una solitudine tale da costringere a chiamare i propri simili a una morte folle, pur di godere almeno della compagnia dei loro resti sfasciati, mentre si dispongono cadaveri su cadaveri in un'esposizione insensata e occulta.” Questa la conclusione del protagonista, fuggito in preda all'orrore per la città una volta scoperto il mistero legato al ritrovamento dei resti della bestia rivenuta in spiaggia.

Chiude l'antologia Le Colline o le Città che riportano Corigliano nell'amata terra nativa, la Calabria, in un racconto sulla memoria che non sopravvive, o meglio che non lo vuole fare perché reputa indegna la modernità. Un professore di archeologia, che sta attraversando un brutto periodo personale, viene richiamato da Roma per valutare una bizzarra scoperta fatta sotto una collina. Attraverso un foro aperto nel terreno, l'uomo discende e scopre la presenza di una sorta di tempio antichissimo, oltre le datazioni riconducibili alla nascita della civiltà. A mano a mano che avanza, analizzando affreschi che riproducono la creazione del mondo (sembrano trapelare omaggi al romanzo Il Vangelo Secondo Satana di Graham), si rende conto di attraversare una vera e propria città. Ecco allora che le colline vengono ad assumere la valenza metaforica delle fosse ricoperte di terra che popolano un cimitero ottocentesco e che oggi si vedono ancora nel periodo di attesa della realizzazione della tomba. La scoperta però non può esser rivelata al mondo, perché qualcuno o forse qualcosa, che popola le profondità (un po' come il misterioso personaggio che vive sotto il teatro dell'opera ne Il Fantasma dell'Opera), fa crollare l'intero impianto di sostegno per difendere il passato dall'indegna intrusione dell'uomo moderno. E' un po' il tema biblico dei non iniziati che profanano il tempio. In puro stile dell'autore, il tutto si fa poi evanescente chiamando in causa la suggestione del protagonista e addebitando il crollo a uno smottamento dipeso da cause naturali. Il confine tra realtà e immaginazione si rende indecifrabile, ma soprattutto il passato, il grande passato di una civiltà estinta e sconosciuta a noi abitanti del mondo del 2000, non è degno di esser rivelato e deve riposare nel cuore del pianeta, lontano da sguardi indiscreti. E su tutto cade quel SILENTIUM di matrice esoterica che è anche il titolo che apre il debutto antologico di Corigliano.

Antologia da comprare, poco da aggiungere, e autore da seguire. Imperdibile per gli amanti del modern weird, ma quello vero, cioè quello legato alla tradizione dei grandi narratori di inizio novecento, pur se svecchiato nello stile e articolato, con uno stile che lasciar intravedere doti da romanziere.

L'autore FRANCESCO CORIGLIANO

"Il male non si legge. Il male non assomiglia a nulla. Il male è."

lunedì 14 ottobre 2019

Recensione Narrativa: QUEL CONVENTO NELLA FORESTA NERA di Antonio Di Pierro (alias Jeremy Selenius).



Autore: Antonio Di Pierro (sotto lo pseudonimo di Jeremy Selenius).
Genere: Horror / Erotico.
Anno: 1973.
Edizione: Antonio Farolfi Editore, collana I Racconti di Dracula, II Edizione, N. 061.
Pagine: 116.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Ennesimo romanzo violentissimo e ai limiti dell'hardcore pubblicato da Antonio Di Pierro, col suo consueto pseudonimo di Jeremy Selenius. Autore giovanissimo, non ancora trentenne, Di Pierro era il nipote del barone Antonino Cantarella, il titolare della casa editrice de I Racconti di Dracula. Figlio della sorella di Cantarella, futuro impiegato in banca e infine emigrato in Australia. Il taglio di questo autore è molto più spinto - sotto tutti i versanti - e di grana grossa rispetto ai colleghi più anziani, tutto giocato sulle infuocate erotiche (assai spinte e subito messe in scena) e sui momenti splatter, con evisceramenti, stupri e assassinii assai truci. L'intreccio è molto debole, dilatato e portato avanti a fatica, mentre lo stile narrativo è snello e immediato penalizzato da dialoghi a tratti volgari. Di Pierro ha scritto undici romanzi de I Racconti di Dracula, tra cui l'ultimo numero della serie ovvero Le Stelle di Yoshiwara (1981).

Quel Convento nella Foresta Nera, presentato quale Schwarzwald Adventure, è il terzo romanzo horror pubblicato da Di Pierro. Rientrante nel solco del satanismo e delle sette sataniche, è un testo privo di background esoterico ed occulto e denota una scarsa cura nella realizzazione del soggetto. Protagonista è un giovane americano che si reca in Germania per andare a trovare una vecchia zia che non vede da dieci anni. In marcia, a bordo di un auto, incontra la "solita" autostoppista a cui decide di concedere un passaggio. Tra i due scoppia un improvviso richiamo sessuale, con tanto di ricorso ad afrosidiaci, con venti pagine iniziali di romanzo che costituiscono mera brodaglia. Poi, mentre il protagonista scopre negli scantinati della casa della sua ospite un cadavere mummificato ancora in vita (e crede di esser preda di droghe e dunque di aver avuto un'allucinazione),  facciamo la conoscenza di una setta di adoratori del demonio chiamata I SANTI DI SATANA che ha la sua sede operativa all'interno di un ex convento del 1450 eretto nel cuore della foresta nera. Di Pierro caratterizza il gruppo ricorrendo ai costumi (tuniche con cappucci forati all'altezza degli occhi) e ai paramenti tipici dell'immaginario collettivo (croci rovesciate, simboli con testa di caprone) per caratterizzare i suoi satanisti, eppure non crea alcun pathos esoterico. La location e i modus operandi del gruppo, che a metà novecento continua a praticare in Germania l'omicidio e i riti sacrificali umani quale fulcro della loro attività, rendono assai inverosimile l'intera vicenda. A tenere banco è la decisione del capo santone di condannare a torture abominevoli un'adepta accusata di aver praticato magia bianca (!?). Si tratta della giovane a cui, a inizio romanzo, il protagonista ha dato un passaggio e che improvvisamente ha abbandonato la propria abitazione lasciandoci l'estraneo che le ha dato il passaggio (non si capisce perché). Ora, penserete voi che si sia resa protagonista di riti contrapposti alla magia nera. Invece, no. Si è dilettata in esperimenti funzionali a esplorare "i confini della vita e della morte" così da impedire all'anima dei trapassati di andare in Paradiso o all'Inferno, confinandola in un limbo per l'eternità. Questa, secondo Di Pierro, sarebbe magia bianca e la cosa indispettisce non poco il capo setta che ordina l'incarcerazione della donna in attesa di decidere la condanna. Il processo viene però disturbato dall'improvviso risveglio, dopo quasi cento anni, di un barone condannato alla dannazione dalla setta (colpevole di avergli sterminato l'intera famiglia) e divenuto un vampiro (per effetto di un maleficio satanico). L'essere finirà con il simpatizzare per il protagonista e la giovane che lo ha drogato e che non prova per lui nessun sentimento. Quest'ultima, nonostante si dica che pratichi magia bianca, è condannata in modo definitivo da Dio tanto che l'atto di disegnare una croce (una sorta di rendenzione quale tentativo di sottrarsi ai fedeli di Satana) non trova affatto la misericordia divina poiché il dito inzierà a bruciarle senza fuoco, condannandola alla pazzia. 
Il vampiro intanto capitalizza la sua rabbia contro gli adepti della setta e, uno a uno, li uccide tutti in modalità truci e sanguinolente, penetrando infine nel loro convento con modalità militaresche. Di Pierro non spiega perché abbia atteso così tanto per consumare la sua vendetta. E il protagonista? Semplice, è vittima degli eventi e, alla fine, viene curato proprio dal vampiro che gli somministra delle cure atte a interrompere il processo innescato dalla giovane seduttrice a inizio romanzo. Solo così l'uomo potrà sfuggire a una sorta di morte da cui l'anima non potrà liberarsi.

Propongo qua di seguito un passaggio tra i più brutali dell'opera, inserito nella parte terminale del romanzo quando Di Pierro introduce anche un momento di erotismo saffico, giusto per dare un'idea dello stile. "Gertrud sentì un rivolo di sudore scendere lungo la schiena. Era sopra a Marion. Era una goccia più pesante e fredda dell'altra che si fermò all'attaccatura delle natiche e poi scese ancora di più giù, nello spacco. Ma non era una goccia... era il pugnale di Von Paulus. Spalancò la bocca e rimase senza fiato. Il vampiro aveva immerso la sua lama nel retto della donna, fino all'elsa. Strappò col braccio armato e squarciò l'intero complesso genitale della donna. Marion dilatò le pupille inorridita, in una pazza espressione. Von Paulus spostò da un lato il corpo ancora palpitante ma muto di Gertrud e fissò le pupille della Santa di Satana. Fissò il terrore mostruoso di lei. Vide la pelle della donna arricciarsi e incapponirsi come quella di un maiale che si sta sgozzando. E la vedeva realmente come una troia. Una troia troppo grassa e malata, schifosa. Gertrud improvvisamente urlò. Fu un urlo stridente acutissimo, di morte. Si reggeva gli intestini e le ovaie con la mano e le guardava... urlava e le guardava. Marion stette per svenire... ma Von Paulus fu più svelto: si chinò con uno scatto serpentino, da cobra sul suo collo e affondò i tremendi canini tra la carne."

Romanzo più che mediocre, inferiore persino a L'Ultimo Mago, testo di Di Pierro che abbiamo recensito, a suo tempo, su queste pagine.


"I segreti si tengono quando c'è una ragione di vita, dopo non se ne ha più lo scopo."

sabato 12 ottobre 2019

Recensione Narrativa: IL CASTELLO DELLE ROSE NERE di Libero Samale (aka FRANK GRAEGORIUS).



Autore: Libero Samale (sotto lo pseudonimo di Frank Graegorius).
Genere: Horror.
Anno: 1965.
Edizione: ERP, collana I Racconti di Dracula, I Edizione, N. 64.
Pagine: 100.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Apice nella produzione del Dottor Samale, accreditato col fedelissimo pseudonimo di Frank Graegorius. Il romanzo, presentato con l'ideale titolo anglofono The Black Roses, esce nel 1965 col numero 64 della collezione I Racconti di Dracula sotto il titolo de Il Castello delle Rose Nere. E' il settimo romanzo dell'autore a uscire per la serie del barone siciliano Antonino Cantarella e ripropone stile e tematiche care all'autore. Si ripresenta la figura di un protagonista afflitto dai sensi di colpa e dai complessi, qua addirittura attribuibili a un delitto commesso in una vita passata, che si trova a dover combattere, un po' come il protagonista de I Sussurri delle Streghe (1962), tra l'amore per una donna pura e casta da sposare e il peccaminoso e libidinoso appeal di una sorta di strega (compie invocazioni decapitando galline nere contornata da candele del medesimo colore) che torna in vita nelle ore notture. Del resto "il mistero è sempre mistero e amare è come affacciarsi a un abisso."
Lo stile è quello del Samale più ispirato, costantemente giocato tra incubo a occhi aperti e realtà, in un mix che, pur non toccando gli estremi di Sudario Nuziale (1964), rende difficile discernere tra l'immaginazione e la concretezza dei fatti.

Il romanzo prende l'abbrivio da alcuni spunti quali a esempio il ruolo giocato dal destino, tanto da presentare una storia dai tratti di una prova da superare sul cammino che eleva la vita e ne determina il giusto sviluppo. L'altro tema centrale è quello costituito dal karma e dalle influenze negative determinate dagli errori commessi nelle precedenti vite. Il protagonista e, con esso, l'autore si chiedono quanto il destino abbia un'incidenza nell'esistenza umana e quanto all'uomo sia concesso intervenire sugli eventi del proprio futuro. Ne verrà fuori una visione ottimista. Da questi spunti prende piede un romanzo che, a poco a poco, esce dalla metropoli tedesca, siamo nella regione della Turingia (Germania centrale), per prendere atmosfere e rimembranze che rimandano, in modo evidente, alla prima parte del Dracula di Bram Stoker. Protagonisti sono un celebre pianista francese, tale Pierre Lecoeur, e una giovane professoressa tedesca che, dopo aver investito l'uomo e averlo riconosciuto quale un grande maestro del piano, ha deciso di accompagnare lo stesso in auto a Francoforte. Un'improvvisa tempesta, unitamente al consiglio offerto da uno strano autostoppista (che dichiara di andare in giro in cerca di avventure spirituali e che avrà un ruolo da spirito guida), portano la coppia a riparare all'interno di un castello dove, alla stregua di Jonathan Harker, finiranno per essere imprigionati in balia di sortilegi da cui non riescono a liberarsi, se non per intercessione esterna. Qui i due vengono accolti, un po' freddamente, da un cameriere che è il sosia del protagonista e si chiama alla sua stessa maniera ovvero Peter Herz, corrispettivo in tedesco di Pierre Lecoeur. Questa caratteristica particolare serve a Samale per mostrare le due diverse linee seguite dal destino del protagonista. Quella in linea alla sua precedente vita (rappresentata da Herz) e quella che, grazie alla lotta spirituale e al superamento della prova che il destino gli ha messo davanti, costituirà il suo futuro (rappresentata dal protagonista in balia tra dannazione e redenzione); un futuro in cui supererà la maledizione iniziale, dovuta agli errori delle vite passate, che lo vedeva bandito dall'amore ("ero convinto di sapere che l'amore mi fosse per sempre negato, che un terribile destino mi aspettasse al varco... Perché devo pagare il fio di misfatti perpetrati da un altro uomo? Perché un anima deve subire qui un simile Karma, per una colpa commessa altrove?")
E' l'inizio di un incubo di natura labirintica, in cui le allucinazioni, l'ipnotismo, la magia nera e persino la distorsione temporale irrompono a scombinare la sanità mentale, tra apparizioni ectoplasmatiche e vampiri della tradizione folcloristica a farla da padrone (muoiono con paletti di legno conficcati nel cuore e sono sofferenti a preghiere e simboli religiosi). Un viaggio nell'orrore che suona però anche de liberazione o, meglio ancora, da esorcizzazione dal peccato passato, quale altra faccia della medaglia e corrispettivo da spendere per riabilitare la propria anima.
Romanzo all'insegna dell'onirismo, denso di descrizioni scenografiche e uditive, dove i sensi della vista e dell'udito, ma anche dell'olfatto, vengono resi estremamente sensibili. Samale piazza delle descrizioni da urlo, qualificandosi quale grande narratore dell'incubo con capacità evocative tutt'altro che secondarie.
Bellissima la parte in cui il protagonista viene convinto dalla padrona del castello in cui ha trovato riparo a suonare per lei un brano. Così, mentre la donna a poco a poco si sveste, accarezzando l'uomo, quest'ultimo vive un'allucinazione a dir poco agghiacciante (metafora della corruzione dell'anima), vittima di un sortilegio ordito da una carica sessuale da cui non riesce a liberarsi pur conscio della mostruosità del momento. "Si guarda nello specchio e si sente gelare: il suo volto si trasforma in una maschera di cera, lucida e inespressiva. Poi quella cera come per vivo calore comincia a sciogliersi, a colare in pesanti gocce purulente, scoprendo le ossa grigiastre del teschio: prima gli zigomi, poi le mascelle coi denti; infine le orbite. Gli occhi, infissi dentro occhiaie scarnite, sembrano di porcellana... Pierre abbassa lo sguardo e vede che anche le proprie dita hanno perduto la carne. Due mani di scheletro continuano a premere i tasti traendone soltanto delle stridenti dissonanze, dei tremuli tintinnii, delle ronzanti note basse. Quella musica rimbomba nel suo cranio vuoto come una cripta nel cimitero."

Samale, da psichiatra, offre un romanzo di natura psicanalitica, denso di simbolismi, peraltro ricorrenti nella sua produzione. Dal tema del doppio a quello della dicotomia tra due opposte tipologie di amori, quello legato agli impulsi animali (di derivazione dannata) e quello più cerebrale e raccomandabile. La componente erotica, non a caso, è fortissima, con punte necrofile e sadiche (la padrona di casa presa a frustate dal suo servo vestito alla maniera del cattivo de Il Boia Scarlatto di Pupillo, in quel periodo al cinema) a dir poco sorprendenti per l'epoca. Si nota un uomo, addirittura, costretto a baciare la testa decapitata della sua amante, atteggiamento che lo porta allo smembramento fisico..
L'epilogo della storia riabilita la vicenda, fin lì evanescente e sfuggevole, e la propone come un qualcosa di realmente accaduto e non già il delirio di due individui vittime delle suggestioni e dei giochi degli ipnotisti. La componente ipnotica, strumento psicanalitico per eccellenza, è fortissima in questa opera. La padrona del castello, tale Olga von Hortig, un'uxoricida condannata alla maledizione di vivere quale vampira (qua il vampirismo sembra esser dovuto a un omicidio e suona come punizione divina), è una potente strega capace di compiere ipnotismi ed evocare morti. A differenza dei vampiri stokeriani, il suo cadavere non è integro e vivo, ma mummificato e decadente salvo poi, al calare delle tenebre, rianimarsi fino a ritornare in vita con la bellezza di un tempo (caratteristica che si estende anche al castello che torna a vivere come nei suoi anni di gloria), con la capacità di trasformarsi persino in essere alato. Samale sembra esser stato contaminato dalle trasformazioni filmiche curate da Mario Bava, dapprima per Riccardo Freda (si pensi al film I Vampiri) e poi in via autonoma (si pensi a La Maschera del Demonio). Così si sbizzarrisce a più non posso, plasmando un'opera che, se fosse un film, sarebbe carica di ipotetici effetti speciali e trucchi. "Non era una cosa informe, come durante il giorno. Sembrava che stesse pian piano per riprendere vita e freschezza. E sanguinava. Dal collo mozzo colava un liquame sanguinolento. La faccia perdeva grinzosità, i capelli riacquistavano una lucentezza di seta. La testa era ritornata a vivere una vita mostruosa. Persino gli occhi brillavano di luce crudele..."

Il finale del romanzo, un po' come per I Sussurri delle Streghe, funge da monito ed evidenzia come il fascino del male sia tale da ridestarsi sempre dall'abisso per contaminare e tentare l'uomo.
In definitiva un grande testo che garantisce lustro all'intera collana e conferma Frank Graegorius quale autore da riscoprire e rivalutare, specie nel panorama italiano dove in pochi, pochissimi, hanno raggiunto simili vette.
Il romanzo è inserito anche nel primo volume stampato dalla Dagon Press di Pietro Guarriello nel 2010, a cura di Sergio Bissoli.

Il protagonista del romanzo
PIERRE LECOEUR
è un celebre pianista di fama internazionale
più o meno come NICOLA SAMALE,
è un grande maestro di fama internazionale,
compositore, direttore d'orchestra.

"Un essere mostruoso, mezzo uomo e mezzo demonio, si rizzò alle sue spalle. Due ali scure, vellutate e membranose, cominciarono a remigare lentamente, facendo vento all'uomo addormentato; un vento freddo che sapeva di muffa e di putredine."

venerdì 11 ottobre 2019

Recensioni Narrativa: IL TESORO DEI CAVALIERI NERI di Gualberto Titta (Guy de Saint Sever).



Autore: Gualberto Titta (sotto lo pseudonimo di Guy de Saint Sever).
Genere: Horror.
Anno: 1972.
Edizione: Antono Farolfi, collana I Racconti di Dracula, II Edizione, N. 53.
Pagine: 126.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Celato sotto il nome di Guy de Saint Sever, Gualberto Titta, meglio conosciuto dai lettori della serie I Racconti di Dracula quale Paul Carter, regala ai lettori un nuovo romanzo horror dalla marcatissima struttura gialla, il nono per la serie, avendo la pretesa di spacciarlo come una storia realmente accaduta.
Il suo è un ritorno, a distanza di sei anni, alla mitica casa editrice di Antonino Cantarella in cui era entrato a far parte dopo ventuno uscite, nel 1961, con Le Belle e i Mostri, romanzo che abbiamo recensito qualche anno fa su questo blog. Titta sceglie per l'occasione un nuovo pseudonimo. Dopo il ricorrente Paul Carter (cinque firme), il teutonico Werner Welgren, con cui aveva firmato nel 1964 i romanzi Il Cane Nero e Il Marchio del Vampiro, e l'inglese Kevin McHynes per Il Canto degli Annegati (1965), è la volta del franco Guy de Saint Sever. Titta utilizzerà tale pseudonimo anche per i romanzi del 1973 La Femmina di Satana e Il Sesso e la Morte. Ricorrerà infine a un quinto pseudonimo per gli ultimi due suoi romanzi della serie I Racconti di Dracula, pubblicati nel 1975 e 1977, per un totale di tredici numeri.

Spacciato per romanzo di lingua francese edito col fantasioso titolo Je T'Aime, Monstre, Il Tesoro dei Cavalieri Neri è un vero e proprio giallo con marcate venature horror ed erotiche. Titta tenta di modernizzare il sottogenere legato ai vampiri, dapprima con una visione fantastica legata alla prematura sepoltura di inividui non ancora morti, quindi optando per una giustificazione psico-sessuale, assai più verosimile, da cui tornare sul versante fantastico (bellissimo il modo attraverso il quale viene ucciso il vampiro, a cui viene iniettato un siero, frutto di un mix di sonniferi, a base di estratti concentrati di aglio). Facendo riferimento al teosofo tedesco Franz Hartmann, Titta scrive che "il vampiro può essere originato dall'errore di aver seppellito, credendola morta, una persona dotata di fervidissima immaginazione. Accade che la forsennata disperazione con la quale le facoltà pensanti e l'anima di detta persona si aggrappano al corpo siano tali da permettergli il ritorno alla via. Ma ciò si verifica sotto una forma diversa dalla normale, con dei caratteri astrali che rendono necessario all'essere tornato di cibarsi di sangue umano." Ipotesi affascinante che viene accennata, ma poi non seguita.

I fatti si svolgono sui Pirenei francesi, nei territori compresi nel vicariato apostolico di Lourdes, in una zona montuosa, piuttosto isolata, flagellata dalla neve. Il protagonista è un medico che, una sera, di ritorno alla propria abitazione, si imbatte alla guida di un'automobole in un'affascinante diciottenne che vaga in solitaria sulla carreggiata. Disidratata dal freddo, la giovane, un turista olandese, viene presa sotto le cure del medico, ma dimostra presto di essere una vera e propria ninfomane amante degli uomini o, se preferite, una mignottona dai facili costumi (eppure con doti medianiche). "E' nel sesso la più alta esaltazione della vita" si legge. Titta introduce così una spiccata componente erotica, pur senza sconfinare nel volgare, innescata da una trama gialla che, al decorrere della storia, assume connotati horror e fantastici (pur se mascherati). Poco dopo l'arrivo della giovane in paese, infatti, viene rinvenuto da alcuni cacciatori un cadavere di un turista dissanguato e con la gola recisa da un'arma affilatissima. Il modus operandi rimanda all'azione di un assassino che ha operato nella Loira e che, dalle ecchimosi rivenute sui corpi, lascia pensare che succhi con le labbra dal collo delle vititme la linfa vitale che porta ossigeno al cuore.
Titta sfoggia uno stile elegante, attento ai dettagli legati ai rudimenti della medicina legale, senza appesantire mai la lettura. Per adeguare il testo al format de I Racconti di Dracula inserisce la presenza di una giovane medium capace di entrare in comunicazione con le anime dei defunti ma, soprattutto, inscena la parte terminale del romanzo all'interno di una chiesetta (di Saint-Gaudens) in cui sono conservati i teschi mummifati di nove templari che, secondo la leggenda, allo scoccare dell'anniversario della loro morte tornerebbero a proferire parola (cosa che puntualmente si verifica!!!). In un mix di fantastico e di poliziesco, il protagonista, afflitto da dubbi di ogni specie che lo portano a sospettare anche della moglie, verrà a capo della soluzione per una storia che fonde la leggenda dei tesori nascosti dei templari alla tematica del vampirismo, usando la struttura del giallo quale veicolo motore.

Romanzo onesto, di piacevole lettura. Non certo un capolavoro, eppure piuttosto quadrato e con risvolti interpretativi di natura psicanalitica. Sul sito La Zona Morta si legge che "presto gli elementi gotici si amalgano con furia trash e il furibondo istinto del sesso avviluppa la morale cattolica perbenista." In effetti, tra le righe dell'opera, sembra emergere una critica da parte dell'autore alla morale italiana degli anni sessanta e settanta, tesa a evidenziarne l'ipocrisia di fondo. Il protagonista, il perfetto borghese legato ai buoni principi, non riesce a placare il richiamo della carne e, pur se alla soglia dei quarant'anni, cede al richiamo della carne e finisce tra le braccia di una diciottenne di strada, salvo poi farsi prendere dai rimorsi e colpevolizzare la moglie, fino a vederla quale il mostro ricercato dalla polizia.
La piccante copertina, che rimanda in parte all'epilogo del romanzo, è dell'eccellente Mario Caria.

L'autore
GUALBERTO TITTA.

"Vampirismo? Si, vampirismo. Ma non quello creato e alimentato dalle antiche, orripilanti leggende nate in Transilvania... No. Vampirismo con un nome, un'etichetta scientifica: EMATOMANIA. Folle avidità di nutrirsi di sangue umano, originata da inguaribili tare psico-sessuali, da perversioni patologiche che spingono chi ne è colpito a commettere con assoluta freddezza e agghiacciante determinazione i crimini più efferati pur di procurarsi di che saziare la propria brama."