Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

giovedì 25 agosto 2016

Recensione Narrativa: LA CASA STREGATA DI FULHAM ROAD E ALTRI RACCONTI di Jean Ray



Autore: Jean Ray.
Genere: Antologia Giallo/Poliziesca/Horror.
Edizione Italiana: 2007.
Editore: Profondo Rosso.
Pagine: 324.
Prezzo: 29,00 euro.



A cura di Matteo Mancini. 

Con l'uscita di questa raccolta edita nel 2007 dalle edizioni Profondo Rosso di Roma, con coinvolgimento di nomi di spicco come il regista Luigi Cozzi, l'esperto di narrativa fantastica Sebastiano Fusco e la scrittrice Alda Teodorani in veste di traduttori, prefattori e curatori, facciamo la conoscenza di uno degli autori più importanti nell'ambito della narrativa fantastica dell'Europa continentale, accostato un po' esageratamente a H.P.Lovecraft: Raymundus J. M. de Kremer meglio noto come Jean Ray. 
Nato a Gand, Belgio, nel 1887, da un impiegato del locale porto e un'istruttrice, entra a 23 anni, dopo non esser riuscito a completare gli studi universitari, a lavorare presso l'amministrazione di Gand facendosi subito conoscere come discreto oratore e abile scrittore di storie. Due anni dopo si sposa e arrotonda i compensi collaborando con un agente di cambio. La sua vita prende una piega più oscura e avventurosa a metà degli anni '20. Lui stesso ricaverà da queste esperienze una serie di storie atte a trasformare la propria persona in un effettivo personaggio dei suoi racconti, con buona pace per l'adagio, dallo stesso riportato in alcuni testi, secondo il quale “quando la situazione romanzesca ha il sopravvento sulla vita reale, questa diventa impossibile.“ Sono infatti gli anni del proibizionismo in America e l'alcool diventa una grande fonte di guadagno. Inizia a imbarcarsi per coprire la c.d. via del rum, una lingua di mare fuori dalla territorialità americana in cui la polizia a stelle e strisce è inibita dall'intervenire. I viaggi non sono turistici ma finalizzati a vendere alcool oltreoceano. Durante queste navigazioni scrive i Racconti del Whisky (1925), storie con ambientazione marina che strizzano l'occhio a uno dei suoi grandi maestri: l'inglese William H. Hodgson (con cui condivide anche la passione per la forma fisica e le doti atletiche, oltre a esperienze da marinaio). Il commercio frutta bene, anche se Ray, frequentando loschi figuri e banditi di ogni specie, racconterà di esser rimasto coinvolto in numerose risse. Invece di traumatizzarlo questi episodi gli recano quasi divertimento, sembrerebbe di sentirlo mentre cerca di rincuorare gli amici: “Non vi preoccupate, sono delle sane scazzottate tra amici, al massimo vi prendete una coltellata. Tutto mestiere che entra nel sangue...“ Eh, si, perché anche il più coraggioso della compagnia deve tacere l'eventualità più gravi, del resto non si sa mai chi si ha di fronte. E così eccolo, qualche anno dopo, a sfoggiare cicatrici in più parti del corpo, memorie di quello che considererà il periodo più felice della sua vita: “Sono state lasciate da colpi di proiettili sparati a bruciapelo, ma ce li ho solo sul petto... Le dicerie che vogliono la mia schiena coperta da ferite sono dicerie“ affermerà con vanto, quasi a difendenre l'onore degli aggressori che mai si sarebbero permessi di aggredire alle spalle qualcuno. E che diammine, quella era gente seria! Violenza va bene, ma con rispetto, ci mancherebbe altro... 
Affabulatore di razza, volto freddo e occhi grigi. Non un tipo da smancerie, ma capace di calamitare donne e rubarle ai rispettivi uomini. No, niente "mi onora di un ballo" o "desidera un drink, miss?" Questa è roba per femminucce. Che ne dite invece di alzarsi dagli spettatori, durante una prova circense, e dirigersi verso il palco. Scambiare due chiacchiere con i gestori e poi far cenno loro di farsi di lato. Ed eccolo entrare nella gabbia delle tigri. Sugli spalti, il tipo vicino all'uomo che sedeva accanto a Ray si fa piccolo: «Ma il suo amico è un domatore di tigri, sir?» E quello, ridendo sotto i baffi: «Nemmeno per idea, con tutta franchezza credo che non sapesse neppure come eran fatte!» Ed è vero solo che quella sagoma lunga e affusolata varca il cancello di ingresso con sicurezza e armonia corporea. Le tigri lo guardano poi si adagiano al suolo, il muso tra le zampe, ferme, immobili. Dagli spalti pioveranno applausi, manco per sogno. «Per forza, quello è un addestratore di tigri! Quello è un professionista!» Tutti pensano questo, ma non la gestrice del luogo che comincia a tampinarlo, persa e rapita da quel temerario che sfida tutto e tutti. Altro che balli o drink...qua!?
Ray, questo il nome con cui inizia a firmare le proprie opere, emana un carisma paragonabile a un bagliore che stordisce la vista di coloro che lo incrociano sulla via. Una sorta di pistolero del far west, ma senza colt nel cinturone (giustappunto dirà di avere per nonna una sioux). L'aura viene alimentata anche dalle leggende, più o meno veritiere, che lo vogliono addestratore di tigri (da qui il soprannome di “Jack the Tiger“ o “Tiger Jack“), allevatore di tarantole (altro soprannome di Spider-Master dovuto alla sua abitudine di farsi camminare ragni lungo le braccia), persino in contatto con uno spirio guida che lo ammonisce degli imminenti pericoli, materializzandosi al suo cospetto nella forma di un omino con un foulard rosso al collo. Fantasia, leggenda o realtà? Semplicemente Jean Ray, un personaggio dove il confine tra accadimenti fenomenici e finzione narrativa si compenetrano fin troppo spesso mischiandosi in una sostanza difficile da dividere e ricostruire. Non a caso nel 1926 finisce arrestato per appropriazione indebita, insieme al suo amico agente di cambio. I due sono accusati di aver distratto denaro per finanziare un traffico internazionale di alcool e armi. Viene condannato a sei anni, ma ne sconterà quattro in carcere. Poco male. La fantasia come via di fuga alle restrizioni dettate dalla crudele realtà, un gioco da ragazzi per lui. Lo abbiamo detto: con Ray la realtà e la fantasia non sono ben delineate e ogni esperienza, pur che figlia del rilievo certificato dai sensi, è riproduzione visiva filtrata e riconosciuta dal cervello. Cosìcché l'immateralie può assumere anche contorni materiali, mentre diventa ben difficile affermare l'inverso, altrimenti si arriverebbe a dire che quello che gli occhi vedono non è il reale e che il reale starebbe sotto il velo delle apparenze... questo sarebbe troppo, questo sarebbe Machen...
Decide così di cambiare pseudonimo e di accantonare Jean Ray in favore di John Flanders. La sua produzione è copiosa, si parla di 250 racconti. Scrive di tutto, persino racconti per bambini e cronache giornalistiche. Negli anni '30 riceve l'incarico da un editore di Gand di tradurre dal tedesco una serie di racconti lunghi da far uscire con periodicità bimensile. Si tratta di storie apocrife che scopiazzano Sherlock Holmes. Ray inizia a leggere i testi: sono così brutti che si rifiuta di tradurli. Poi ci ripensa: perché buttar via un po' di soldi. Mica fa male al conto corrente fare qualche versamento ogni tanto... Problema risolto. Li riscrive tutti di sana pianta, alla faccia del buon Lovecraft che si limitava a dare suggerimenti o a sviluppare soggetti altrui. L'unico limite che gli viene dato dall'editore è rispettare i temi indicati dalla copertina illustrata da Roloff: mica si può mettere una copertina con impressa una scimmia e poi parlare di una storia ambientata all'ippodromo di Waregem. Nasce così il mito della serie di Harry Dickson, un detective londinese costruito sul modello di Sherlock Holmes (addirittura residente, pure lui, in Baker Street con tanto di assistente), ma con trame presentate con caratterizzazioni e un'aura paranormale (il più delle volte, però, si scopriranno astute macchinazioni ordite per far cadere in errore il prossimo, ricorda un po' la maggior parte delle storie del Carnacki di Hodgson). A differenza di altri colleghi del genere, però, Ray è avulso, o quanto meno sembrerebbe, dal mondo esoterico delle varie sette segrete, non filosofeggia nelle sue opere, ma sembra più votato a un taglio pulp. Inizia a farsi conoscere anche oltre i confini nazionali. Espatria negli Stati Uniti sulle preziose (da un punto di vista estrinseco, meno dal punto di vista intrinseco data la cartaccia su cui venivano stampate) pagine di Weird Tales, la celebre rivista americana dove hanno mosso i passi i vari Lovecraft, Smith e Howard. Vi compaiono vari racconti tra il 1934 e il 1935, altri ancora finiscono invece su Terror Tales. A questo punto può rispolverare lo pseudonimo Jean Ray, in luogo di John Flanders, farsi strada tra gli autori più apprezzati nel genere a livello mondiale. 
Sfoggia una cultura di pregevole fattura, appassionato soprattutto dell'arte gotica e del racconto fantastico. Non perde però la fama del mezzo matto e non ci si deve sorprendere in questo. Come definireste voi uno soggetto che entra, urlando e smanaccando, nella sede del suo editore, gli afferra la scrivania e gliela frulla fuori dalla finestra con gran crepitio di vetri? Ve lo dico io: lo definireste uomo che aveva una ragione per farlo, certamentente... Non sarete tanto pazzi da azzardarvi a dire: “Chiamate la neuro, presto!“ perché quello è Jean Ray e voi rischiereste di unirvi in matrimonio con la scrivania e non certo per una brillante carriera da scrittori!
Ironia, mista al gusto del macabro, questo è Jean Ray che si muove alla grande su tematiche gialle e poliziesche, ma anche nel fantastico più puro che contraddistingue molti dei suoi racconti con predilezione per le atmosfere claustrofobiche e gli spettri.
Durante il periodo della seconda guerra mondiale collabora con la testata giornalistica De Dag, inoltre si intensifica la sua produzione. Nel 1942 esce uno dei suoi capolavori: l'antologia Il Gran Notturno. Seguono, ad appena un anno di distanza, i due romanzi fondamentali dell'opera dell'autore fiammingo: Malpertuis (1943) e La città dell'indicibile Paura (1943), il primo dei quali tradotto in immagini dal film con un attore del calibro di Orson Welles.
Si salva da un secondo arresto al momento della liberazione del Belgio. I suoi colleghi di De Dag vengon tutti arrestati, meno che lui. Lo salva l'aver collaborato con un redattore che forniva documenti falsi a degli studenti per sfuggire dai rastrellamenti orditi dalla Gestapo. 
Negli anni '60 riceve grandi apprezzamenti in Francia dove viene pubblicata l'antologia “25 Racconti neri e fantastici“ che viene editata anche in Italia nel 1963 da Baldini & Castoldi. Tre anni dopo, sempre nella nostra penisola, uscirà anche il romanzo Malpertuis. Saranno le uniche due eccezioni a un silenzio, poco comprensibile, che sarà rotto solo nel 2007 con l'uscita della raccolta qui oggetto d'esame cui faranno seguito altre due antologie della Hypnos.
Ray lascerà questo mondo, per prendere la via degli dei da lui stesso decantati in più opere, nel 1964, a seguito di una banale crisi cardiaca. Una fine fin troppo umana per un soggetto che alimentava il proprio personaggio a suon di iniezioni di brivido con la pretesa di sconfiggere ogni paura, menando le mani e girando con piccole pistole nella tasca dei pantaloni intaccati dal salmastro lasciato dal bacio delle sue care onde.


Il volume si apre con una prefazione di Sebastiano Fusco e un ricordo, legato al suo rapporto con la serie di Harry Dickson, dello scrittore Henri Vernes. Segue poi una selezione di tre racconti lunghi, usciti nel 1933, facenti parte della saga Harry Dickson e per la prima volta tradotti in italiano.
Non è ben chiaro come sia stata operata questa selezione da parte di Luigi Cozzi, che ha tradotto le tre storie proposte nel testo. Di certo, penso di poter dire (pur non avendo letto gli altri 175 episodi della saga), non si tratta del meglio della produzione di Jean Ray vertente sulla figura di questo detective dell'occulto (ma non troppo direi io).
La saga Harry Dickson vide la luce in Belgio nel lontano 1929, importata dall'Olanda e originariamente scritta in tedesco. Dapprima furono tradotti da un autore non dichiarato e poi, a partire, dal 1930 furono adattati da Jean Ray e la quasi totalità riscritti dall'autore belga per niente soddisfatto dei testi originali. Si tratta quindi di racconti derivativi, spesso citazionisti e con soggetti scritti da altri e ripresi, talvolta stravolti, dall'autore belga. La serie è formata da 178 episodi usciti tra il 1929 e il 1938 con questa cadenza: otto numeri nel 1929, ventiquattro all'anno (uscita bimensile) negli anni compresi tra il 1930 e il 1935, quindi più diradate con un'uscita al mese nel 1936, nel 1937 e appena quattro uscite nel 1938.
Ebbero un grande successo in Belgio, proposte con una copertina accattivante e innovativa rispetto alle testate offerte dalla concorrenza, con una scelta cromatica dei colori tale da catturare subito l'attenzione di un potenziale acquirente. E' lo scrittore Vernes a parlarci del contenuto di questa serie e lo fa con un ricordo orientato decisamente all'horror, più di quanto offra invece la lettura dei testi scelti da Cozzi: "Parlava di donne sgozzate, poliziotti attaccati su macchine infernali con micce accese, vampiri avidi di sangue, bamini divorati da orchesse deliranti, scultori pazzi, piovre umane, demoni racchiusi dentro la pelle degli uomini..." Questo l'allegro campionario.

I tre testi proposti da Cozzi mostrano un comun denominatore molto marcato. A parte il protagonista, costruito sulla figura di Sherlock Holmes pur essendo assai meno caratterizzato (residente pure lui a Baker Street, fuma la pipa ed è titolare di un archivio dati contenente ritagli di giornali e appunti di buona parte dei crimini verificatesi a Londra e dintorni) e più votato all'azione piuttosto che ai ragionamenti, abbiamo altri elementi ricorrenti. Notiamo la figura di una spalla in stile Watson, ovvero l'aspirante detective privato Tom Wills (che si rivolge a Dickson chiamandolo Maestro), ma anche la presenza del capo di Scotland Yard Goodfield (una sorta di Bloch del fumetto Dylan Dog) che collabora col detective privato Dickson venendo continuamente superato in astuzia. Al di là dei protagonisti, costante è l'intelaiatura, in tutti e tre i casi, da racconto dell'orrore che poi si trasforma, spesso forzatamente, in un giallo con spiegazioni razionali pur se decisamente arzigogolate e ai limiti della fantascienza. Frequenti i camuffamenti, sia del duo protagonista, due volte su tre cambia identità e personalità per ingannare gli antagonisti e coprirsi nelle idangini, sia degli antagonisti che vengon presentati sempre come soggetti diversi da quelli che poi si scopriranno essere. Il più delle volte si tratta di individui affetti da handicap o che si presentano come tali, in modo da suscitare pietà.
Ray usa uno stile immediato ed efficace, piuttosto che lezioso ed elegante, più ironico che pomposo, riuscendo comunque a evocare una certa atmosfera e tensione. Il ritmo è buono, il soggetto fumettistico con trame e sviluppi che hanno natura popolare. Le tematiche ricordano un po' i racconti del Carnacki di Hodgson che poi si chiudono con soluzioni che hanno spiegazioni logiche e non paranormali. Rispetto all'indagatore di Hodgson, Dickson ha modi di fare da poliziotto. Usa la pistola senza tante remore, non conduce riti magici né è dotato di strumentazione esoterica.

Tra i proposti è decisamente migliore il racconto Le Stelle della Morte, che ruota attorno a un'idea centrale ripresa dal celebre I Delittii della Rue Morgue di Edgar A. Poe, mettendo in scena un assassino, nella fattispecie un incendiario dinamitardo, che ricorre alle scimmie per compiere dei delitti altrimenti inspiegabili e annunciati da una serie di puntini rossi che sembrano fluttuare in cielo (sone le braci dei sigari che gli scimpanzé tengon in bocca). Dickson e Goodfield dovranno così contrastare una serie di incendi che metteranno in ginocchio Londra, ma soprattutto i pozzi di gas di una società facente capo a un ex medico radiato dall'albo per aver condotto dei bizzarri esperiementi. Ray mette così in scena la figura dello scienziato pazzo, un po' sulla scia de L'Isola del Dottor Moreau pur non facendogli condurre gli esperimenti sugli animali bensì un qualcosa di inverso rispetto a quanto letto nel romanzo di Wells. L'epilogo ricorda un po' il movente che alimentava il Frankenstein di Mary Shelley con un pazzo scatenato che agisce per vendetta ai danni di chi lo ha ridotto in un fenomeno da baraccone (si parla di modifiche genetiche un po' in chiave La Mosca, ma con la scimmia al posto dell'insetto come animale da fusione).

Ne La Casa Stregata di Fulham Road si assiste al tema della macchinazione ordita da alcuni criminali, evasi da un carcere di massima sicurezza, per impedire che un'abitazione appartenuta in passato a un loro compagno di cella venga ceduta o affittata. I manigoldi sono infatti convinti che all'interno della magione sia stato celato, da un loro compagno di cella, un gioiello di inestimabile valore rubato alla legittima proprietaria. Semplice trama gialla, ma anche questa condita con riferimenti orrorifici dovuti all'utilizzo di un particolare veleno allucinogeno sparato con una bizzarra arma che induce i soggetti attinti a credere di esser braccati da mostri e creature ectoplasmatiche. Inoltre abbiam una sorta di mostro, che poi è un normale uomo che ha subito uno sfregio con l'acido, dotato di occhi che baluginano al buio tali da sembrare quelli di un gatto.
L'epilogo è piuttosto forzato, cun muri scorrevoli, fori praticati nelle pareti che permettono ai manigoldi di spiare l'interno casa e di colpirne gli occupanti, persino presenza di un soggetto nictalope (cioè cieco di giorno ma capace di vedere al buio).
Sulla falsa riga il racconto che apre l'antologia ovvero L'Isola del Terrore con la differenza che qua, le macchinazioni ordite per far credere alle persone di esser cadute vittima di una maledizione vengono messe in piedi allo scopo di strappare un'intera isola (che gode dell'autonomia dal governo inglese) all'Inghilterra. Dunque una storia di spionaggio di stato, con i tedeschi che, tramite alcuni suoi uomini e donne di azione, cercano di conquistare una terra in posizione strategica in vista di un'imminente guerra. Una costruzione dunque in salsa Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie, con una serie di omicidi che vengono perpretrati in un gruppo ristretto di persone e su un'isola quasi inaccessibile, a cui si aggiungono visioni orrorifiche e bizzarri ululati in una terra dove si assicura non vi sia nessun cane. Ray giustifica il tutto spiegando che i "cattivi" erano dotati di un armamentario completo di proiettori cinematografici destinati a far nascere mostri e fantasmi sulle isole deserte. Dickson e il fido Wills, qua in prima linea, scopriranno gli inghippi e salveranno la terra dalla minaccia straniera. Una costante per tutti i racconti è l'atteggiamento di Dickson che, a differenze di tutti gli altri, capisce sempre la soluzione in anticipo ma non la rivela mai ai suoi compagni di avventura che lo seguono buoni buoni come se fossero in compagnia di uno stregone che azzecca sempre le proprie previsioni.

Il detective HARRY DICKSON

La vera natura di Jean Ray, sia per i contenuti che per lo stile, emerge in modo più palese nei nove racconti scelti dai curatori dell'opera. Niente da far gridare al capolavoro, sia chiaro, piuttosto onesti elaborati, con un paio di primizie. Sei di essi sono degli inediti in lingua italiana, due sono stati invece ripresi dall'antologia culto, in vendita a prezzi stratosferici, 25 Racconti Neri e Fantastici, mentre uno era apparso nel 1988 nell'antologia Il Furore di Cthulhu col titolo Affitasi Casa anziché del ritradotto e più appropriato Vendesi.
Si tratta di racconti brevi, circa dieci pagine con l'eccezione de Il Vicolo Tenebroso (La Ruelle Ténébreuse) che inaugura il lotto e copre una lunghezza tripla rispetto alle altre storie. Proprio quest'ultima storia è la più famosa delle proposte, Ray dimostra subito una certa predilezione (a mio avviso) per Gilbert K. Chesterton da cui riprende l'idea delle mutazioni ambientali che vengono percepite solo da un numero limitato di persone con interesse a oggetti inanimati quali appunto strade, statue o mobili che diventano, nelle storie del belga, pensanti un po' come suggerito dallo stesso Chesterton ne La Strada dell'Ira: "Questi mobili sono piuttosto solidi, ma naturalmente la gente li tratta con noncuranza di gran lunga eccessiva... Cosa credi che la strada pensi di te? Che forse sei vivo? Da allora ho sempre rispettato le cose cosiddette inanimate!" Così l'autore inglese, reso famoso dalla serie di Padre Brown. Non diverge di molto il belga Ray che, nel racconto Durer, l'Idiota (anch'esso ambientato davanti a un tavolino di un bar come nel testo di Chesterton, nella fattispecie denominato Il Cinghiale Inferocito), scrive: "Non siete mai stati colpiti dall'atteggiamento ostile di un certo mobile, altrimenti familiare ed inerte? Ho osservato con diffidenza oggetti inanimati, come armadi o sedie... Ma la casa non si fidava, nemmeno di lei; con la complicità degli oggetti che comunicavano fra loro in un modo misterioso che noi ignoriamo, ma di cui oscuramente sospettiamo l'esistenza." Dunque vediamo un comun denominatore che viene esaltato dall'atteggiamento onirico che pervade le storie dell'autore belga. Ne Il Vicolo Tenebroso, come ne La Strada dell'Ira di Chesterton, un passante si accorge di un vicolo che solo lui vede e che costituisce un passaggio multidimensionale o, meglio, l'intersezione di due piani della realtà. Tematica che sarà ripresa da Stephen King per il suo Crouch End ma anche dallo stesso Ray ne La Scomparsa del Professor Wohlmut.
Il racconto, strutturato su piani temporali diversi e con tre distinti punti di vista messi in scena con l'artifizio dei manoscritti ritrovati in una sorta di pattumiera o con testimonianze di eredi dei personaggi che hanno vissuto in prima persona i fatti narrati, ha un interessante sviluppo con la stradina che si dilunga per una città parallela, disabitata, risultando tuttavia connessa a una serie di sparizioni e omicidi che sembrano connessi all'intervento di mostruose entità invisibili e che si verificano nella vita di tutti i giorni. Ray mette anche un pizzico di Bierce proponendo scontri tra esseri umani e creature invisibili, un po' come letto ne La Cosa Maledetta del bizzarro autore de Il Dizionario del Diavolo. Finale all'insegna del fuoco, con due personaggi che lucrano vendendo prodotti artigianali recuperati all'interno di questa stradina che serpeggia al di là di porte chiuse e strani casolari. Dietro alla maledizione, di questa storia ambientata ad Amburgo, ci sarebbero Le Strigi. Molto bella l'immagine dei volti infuocati che si pitturano nel cielo oscuro della città tedesca, un po' come si vedrà nel B-Movie La Macchina Maledetta: "Immense fiamme verdi salirono dalle macerie fino al cielo. Alcuni in preda alle allucinazioni vi videro sagome femminili di una ferocia indescrivibile."
Seguono logiche oniriche anche il sopra menzionato Durer, l'Idiota, che ripropone il tema della scomparsa nel nulla delle persone (tema ripreso anche ne La Scomparsa del Professor Wohlmut dove una bizzarra bevanda alcolica mette in comunicazione coloro che la bevono con un'altra dimensione) aggiunto a quello delle case maledette, nonché Crauti, dove un ignaro viaggiatore di un treno scende in una stazione avvolta dal buio che si apre su una città fantasma dove il viaggiatore vuol mangiare uno speciale piatto di crauti. Dunque il tema dei fantasmi si rivela centrale nelle storie di Ray, anche se trattato con piglio personale. Costituiscono revenge stories Irish Whisky e La Notte di Pentonville. In entrambi casi abbiamo per mattatori degli spiriti di uomini in cerca di vendetta ritornanti dall'aldilà per vendicarsi di chi li ha portati alla morte. Nel primo caso, Ray miscela il tema della metamorfosi kafkiana subita da un contabile attaccato al denaro con quello dell'orrore truculento. Abbiamo infatti un protagonista, che fa soldi  intascando i premi assicurativi di carghi mercantili destinati ad affondare per le condizioni proibitive dei mari in cui vengono indirizzati, che viene aggredito dagli spiriti dei marinai morti e trasformato in un mostro dapprima antropomorfo e poi dalle forme di un ragno. Bellissimi alcuni passaggi, in stile Entity (film diretto negli anni '80 da Furie), con il contabile sollevato fino al soffitto da forze invisibili, che si siedono sulle poltrone e provocano pressioni percepibili dall'occhio umano. Nonostante le condizioni sempre più degenerate, questo personaggio persisterà nel venerare il denaro e nel pretendere di consultare i libri contabili della sua società. La ragione è spiegata dalle sue stesse parole, pronunciate quando mandava al macello i suoi dipendenti; ecco il dialogo con il capitano del cargo prima della partenza che costerà la vita all'intero equipaggio:

"Forse Dio avrà pietà del suo indegno servitore. Ma voi, Gilchrist, cosa direte al cospetto del FORMIDABILE OCCHIO?"
"Carissimo, noi non abbiamo lo stesso Dio; il vostro si chiama Visnù o Brahma o Buddha, è uguale per me, e gli concedo la mia umile reverenza per rispetto verso di voi, capitano. Ma per quanto riguarda il mio Dio, si trova là dietro l'acciaio cromato e le serrature Lips della mia cassaforte. Tanto di cappello! Si chiama lira sterlina, conto in banca, si chiama Denaro. Ed è un Dio che perdona tutto, a condizione di averlo con sé, Ah, Ah!"

Il suo supplizio finale dunque porta l'inevitabile firma di Dio, un po' come la parabola del vitello d'oro venerato dagli scettici razionalisti. "Dio gli ha lasciato tutta l'intelligenza umana nel suo minuscolo involucro di insetto immondo." Se ne deduce, pur se orientata all'orrore, una filosofia di fondo trascendentale suggerita a livello poi neppur tanto subliminale.

Diverge di poco il tema de La Notte di Pentonville dove invece a fare ritorno dall'aldilà sono gli spiriti dei carcerati di una prigione di massima sicurezza che sono stati giustiziati nel corso degli anni. A fare le spese della rabbia di questi spiriti, guidati da un tale Brown (niente a che fare con l'omonimo più famoso di Chesterton), che sono comunque dotati di una loro etica perché si scagliano solo contro le persone reputate malvage, saranno il boia (un personaggio che si pavoneggia dei suoi crimini volendo persino festeggiare la 100° esecuzione), il direttore del carcere e alcune guardie carcerarie che spariranno nel nulla insieme ai detenuti destinati alla forca. Testo anche questo dotato di grande atmosfera, semplice nel soggetto ma ben narrato.

Ancora l'aldilà a farla da padrone in Vendesi ("Maison a Vendre") in cui un severo Presidente di Tribunale, passato a miglior vita, viene strappato all'eterno riposo da un condannato a venti mesi di reclusione in possesso di un grimorio attraverso il quale trarre dal sonno eterno i morti. L'obiettivo del malvivente è vendicarsi, infliggere venti mesi d'inferno a chi lo ha mandato in gatta buia per poi togliergli il maleficio e liberarlo dall'incantesimo. Lo spirito del pover uomo, infatti, continuerà a manifestarsi all'interno di quella che era stata la sua abitazione facendo scoppiare il panico tra i vari inquilini che, puntualmente, abbandoneranno l'edificio. Il tutto per venti mesi. A fungere da preludio alle apparizioni sarà un bizzarro calore che avvolge la stanza che era stata lo studio del presidente.
Lo stesso Ray definisce questo racconto una storia di fantasmi al contrario, poiché a vendicarsi, questa volta, non sono i fantasmi ma i vivi.

Più tradizionale Il Cimitero di Warlyweck dove un bizzarro personaggio, a conoscenza di fatti insoliti (come di un ombrello che si sposta da un posto a un altro come sorretto da un passante e che provoca la scomparsa nel nulla di chi vi si porti sotto), informa un suo amico dell'esistenza di un cimitero multiforme e vivo, che appare e riscompare nel nulla come se fosse confinato in un'altra dimensione. L'indiscrezione, per quanto folle possa sembrare, si rivelerà vera. Ray propone così un "luogo vivo", capace di cambiare forma, con statue mobili e siepi che cambiano allocazione da uno sguardo all'altro. L'incubo si sposterà, anche qua, dalla sua dimensione per perseguitare il protagonista che si vedrà arrivare a casa le statue ammirate nel cimitero pronte a distruggergli giardino e casa.

Appare invece più grezzo Le Nozze della Signorina Bonvoisin che vede una vecchia zittella contrarre matrimonio con un pappagallo con rito celebrato da un prete satanista. Cosa verrà mai fuori? Il parto di una creatura antropomorfa con la faccia da pappagallo e gli artigli al posto delle mani... E cosa succederà se proveranno a battezzarla con l'acqua santa? Avete immaginato bene... Solo che anche qua ci sarà un ritorno dall'aldilà in chiave vendicativa, mentre la madre sparirà, ancora una volta, nel nulla. A quanto pare queste storie di sparizioni e ritorni vendicativi costituiscono la croce e delizia di Ray, nella fattispecie in salsa Vade Retro.

Dunque abbiam visto come la narrativa di Ray sia orientata su temi ricorrenti, direi quasi ossessivi. La convinzione di una realtà ultraterrena e post mortem da cui è possibile far ritorno per vendicare torti subiti in vita, ma da cui è possibile anche esser rapiti per effetto di quelle che Ray definisce "scienze al di sopra di quelle dei mortali" e ricollegabili alla Cabbala e alla Clavicola di Re Salomone. Dunque un monito funzionale a condurre una vita rispettosa dei diritti altrui, evitando abusi di potere dettati da posizioni di maggior prestigio sociale. Persistente e ritornarnte anche il tema dell'intersecazione di mondi paralleli, che avviene per ragioni diverse (persino bevendo una bizzarra bevanda alcolica), con passaggio di creature da un piano all'altro con relativa irruzione di esseri più o meno mostruosi nella nostra realtà o scomparsa dal mondo di tutti giorni di persone più o meno invischiate in esperimenti. Ulteriore tema caro quello delle case infestate o dei riti diabolici o ancora delle mutazioni ambientali o corporee dettate dall'influenza di creature legate all'altrove. Questo è il Ray che emerge da questa antologia. Un autore immediato, facile da seguire che sa costruire grandi atmosfere, ma che va poco nel profondo, offrendo solo brevi accenni filosofici o spunti trascendentali tipici, a esempio, del blocco di autori legati alla scuola di un Arthur Machen o di un Meyrink. In ogni caso lettura piacevole.

Per chi ancora non fosse sazio si consigliano i libri su Ray editi dalla Hypnos, mentre per gli appassionati di saggistica si fa notare come questa antologia si avvalga di molteplici contributi di autori italiani e di altri stranieri tutti orientati a far luce sulla vita e sulle opere dello scrittore belga. Peccato per il prezzo, decisamente alto, nonché per la reperibilità non sempre semplice del volume.


sabato 13 agosto 2016

Recensione saggi TUTTI I CERCHI DEL MONDO di Emanuela Audisio



Autore: Emanuela Audisio.
Edizioni: Mondadori.
Anno: 2004.
Genere: Sportivo.
Pagine: 170.
Prezzo: 13,00 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Volume acquistato per caso, un annetto fa, sulle bancarelle dell'usato, con la convinzione di aver acquistato un volume sulle storie olimpiche. In altre parole, certezza quasi assoluta di aver acquistato un'antologia di piccole biografie legate ad atleti più o meno connessi al mondo delle olimpiadi. Editore importante, firma di una giornalista di punta del quotidiano La Repubblica, aspettative dunque alte, considerato anche il precedente e apprezzato Bambini Infiniti sugli sportivi che si son distinti fin dalla giovane età e il premio Gianni Brera vinto dall'autrice stessa (unica donna, pare, a esserci riuscita). Questa la premessa, in parte esaudita dalla lettura, ma delusione inevitabile. Siamo infatti alle prese con un volume concepito, a mio modo di vedere, in maniera sbagliata considerata la destinazione per il mercato editoriale e il circuito delle librerie. Un libro, per dirla in termini più specifici, che gioca a voler essere una sorta di aspettando le Olimpiadi del 2004, presentando storie, quasi tutte, legate ad atleti proiettati verso le gare di quel periodo. Poco importa se poi l'Audisio, questo il nome dell'esperta giornalista-scrittrice, tenti a suo modo di tracciare un profilo del mondo parallelo alla manifestazione, una sorta di squarcio sul velo che cela il dietro le quinte agli occhi degli spettatori di tutto il mondo. Grande attenzione per il mondo sportivo africano. Storie del razzismo sud africano, i viaggi della speranza dei calciatori del Cameroon, la fuga degli atleti kenyoti in favore dei paradisi economici offerti dagli stati di Qatar e Bahrein con atleti che cambiano nome (come il caso dello specialista dei 3.000 siepi Stephen Cherono che diventa Saif Saeed Shaheen) o ancora il capitolo sui Grand Sorcier ovvero gli stregoni al seguito delle nazionali africane. Ne deriva un volumetto che risente in modo pesante del tempo passato, destinato a finire fuori commercio non per il non essere più pubblicato ma per il suo essere poco appetibile e accattivante al decorrere degli anni. Lo stile narrativo è sperimentale, fatto di frasi brevi, spesso e volentieri di uniche parole seguite subito dal punto. Ventisei capitoli, incentrati su quasi altrettanti sport, molti dei quali freddi e ricamati in modo tale da stendere quattro o cinque pagine su un unico aspetto. La Audisio non traccia profili o biografie, si limita a istantanee di un dato periodo. Quasi un soffermarsi su una seduta di allenamento di un candidato alle Olimpiadi. Non sviluppa, cristallizza. Certo, non mancano alcuni aneddoti di grande spasso, fisiologici per un libro del genere, ma non sono quelli su cui si lavora. E' l'attesa, la speranza, l'incombere delle Olimpiadi di Atene a tenere banco, magari con la speranza di portare il lettore a seguire gli atleti su cui cala l'attenzione dell'autrice proprio in vista delle olimpiadi greche. Insomma, un progetto che sarebbe potuto andare bene se associato a un quotidiano sportivo dell'epoca, ma che perde senso se si analizza quale libro destinato, per definizione, a vivere al decorrere degli anni (e magari accescere di importanza). Poco comprensibili poi alcuni capitoli, si veda quello del baby camorrista o quello della bagnina di Saddam, che a mio avviso sono del tutto fuori luogo con il tema trattato.

EMANUELA AUDISIO

Questa la critica in generale, ma ci sono anche dei capitoli spassosi che valgano da soli l'acquisto. Su tutti la storia della "partita delle schiappe", come fu denominata dai tedeschi, ovvero lo scontro tra le due peggiori nazionali di calcio nel ranking Fifa nel 2002, o ancora il capitolo dedicato al pugile di thai box (Parinya Charoenphol poi Nong Toom il nome) che vuole esser donna e che va sul ring truccato e vestito come conviene al gentil sesso, tra risate e ironie di fondo, mandando K.O. avversari che lo sottovalutano per il suo look e i balletti, con cui introduce i combattimenti con pantaloncini rosa e reggiseno di pizzo nero, venendo poi baciati sul collo a fine incontro perché, in fondo, è un peccato doverli picchiare, sono così belli...; o ancora gli aneddoti legati agli atleti impacciati che arrivano straultimi ma calamitano l'attenzione di tutti come la ragazza di Kabul che corre i 100 metri senza aver cognizione dei blocchi di partenza o il samoano (Trevor Misapeka) sovrappeso che pensa di andare a fare il lancio del peso e invece viene schierato nei 100 metri, poco male... fa il suo record personale (cinque secondi sopra il record del mondo dei 100 metri) col padre che afferma: "L'ultima volta che l'ho visto correre così veloce è stata verso il frigo...L'unico lavoro di mio figlio è quello di mangiarsi i profitti!"
Poi storie di doping scientifico con società e bizzarri individui deputati a migliorare le prestazioni di intere squadre (è recente la storia della Russia alle Olimpiadi ancora in corso), indagini di personaggi legati a organizzazioni di alcaponiana memoria, campioni in provetta costruiti in laboratorio, scuole australiane che studiano una formula matematica per fare risultati e, infine, quella curiosa storia del barone giapponese, oro alle olimpiadi del '32 nella prova equestre di salto in ostacoli, promosso colonnello nella seconda guerra mondiale e caduto, non di cavallo ma dalla faccia della terra, sull'isola di Iwo, da buon samurai, per sfuggire alla cattura con addosso la criniera del suo Urano (il cavallo con cui aveva strappato l'oro in competizione) e il frustino usato proprio nei giochi di Los Angeles.
Lo sport, come ricorda l'Audisio, rimane sempre un buon punto di vista per interpretare il mondo. Veicolo, a volte, di idee, promotore di battaglie socio-politiche, contenitore di storie che vanno dalla leggenda alla tragedia, passando per il divertimento, la sofferenza, la speranza di fuga da mondi funestati dalla guerra o anche strumento di riscatto per interi popoli. Mi piace però chiudere con un monito offerto dalle parole di Watson, non l'assistente del più celebre personaggio nato dalla penna di Conan Doyle, bensì Checky Watson, professione giocatore di rugby, nazionale sud africano, componente dei famosi Springboks, quelli raccontati da Invictus di Clint Eastwood, ritiratosi un po' come Bulldozer quando scoprì l'inganno della federazione di cui faceva parte e le assurde regole di uno Stato forgiato su leggi pazzesche proprie degli anni '40. Vedendo il figlio, deciso a seguirne le orme, così lo catechizza, dimostrando di essere un grande: "Gli ho detto che se rinuncia a pensare da uomo perché nello sport è conveniente fare così, a casa mia non mette più piede. Non voglio diventi come gli attuali giocatori della nazionale. Vermi. Senza dignità. Gente che pur di non perdere il posto in squadra, con relativi privilegi, accetta tutto. Prima c'è l'uomo, poi il giocatore!"

Il centometrista TREVOR MISAPEKA

Mi concedo una parentesi in segno di quell'allegria e di quello spirito goliardico che dovrebbe caratterizzare il vero sport. E lo faccio con una partita snobbata da tutti, ma non dall'Audisio, che ha in sé il seme della partita da leggenda. Un match, forse l'unico della storia tra nazionali, incapace di attrarre un seppur minimo sponsor nonostante i 25.000 spettatori sugli spalti, ingresso rigorosamente gratuito. Si gioca in uno stadio da matti, con delle specie di templi al posto delle curve, bimbi seduti a bordo campo in rigorosa contemplazione, come se stessero vedendo la finale di Yokohama tra Germania e Brasile, un evento nazionale di importanza transoceanica, e di lato i palazzi che sovrastano il campo quasi a dare l'illusione di esser costruiti proprio sopra la gradinata colma in ogni posto. Si gioca a 2.200 metri di altezza, d'accordo non sarà La Paz ma è roba da gran premi della montagna. La sfida però è inversamente proporzionale all'altezza dello stadio:  Match tra la 202° contro la 203° del ranking FIFA, il Bhutan e il Montserrat. Organizzano gli olandesi, in veste di Don King dei poveri, rimasti esclusi dai mondiali del 2002 e alla ricerca di sfide alternative per buttarla sul ridere e inghiottire un boccone amaro un po' come si fa ai bimbi giocando col cucchiaio colmo di sciroppo per la tosse. Uaaaaan, ecco l'aereo... Uaaaam, Bravo!
Ed ecco così saltare fuori una sfida così allucinante che il centravanti del Montserrat, che pure dovrebbe esser abituato alla montagna, data la nazione di provenienza e certi ripetitori come suggerirebbe un lettore pisano, resta abbagliato alla stregua di San Paolo sulla via di Damasco. Ha perso alla grande la sfida col collega avversario, un tale Wangay che non si chiama così perché ama l'agricoltura pur calzando una specie di bandana per proteggersi dal sole. Roba da border line e infatti la punta del Montserrat, tale Laborde, chiede il cambio al suo allenatore. Crampi, stanchezza, infortunio, mossa tattica? Nemmeno per idea, non sarebbe congeniale a una sfida come questa... Sostituito per "allucinazioni" si legge nel testo. Dopato non era di sicuro, toglietevelo dalla testa! Eloquenti le parole nel dopo gara: «Pensavo di aver visto lo yeti...!» Non è ben chiaro se l'abominevole uomo delle nevi o l'ominimo film diretto da Parolini, Frank Kramer per gli americani, il regista che ha avviato la saga Sartana caduto nel più abominevole film della sua carriera.
Persino l'arbitro, un turista inglese professionista, resta stupefatto a guardare lo spettacolo che fa da cornice al match: "Ne ha strada da fare la Premier League per arrivare a uno spettacolo del genere, my balls.... altro che theese cocks! B.... Beautiful anche se siamo in serie Zeta! Si è Faccia a faccia con un Beauregard... firmato Bennett!" Bennett, appunto, il nome dell'arbitro, solito vedersela con lo spice boy Beckham.

Allo stadio sono presenti diversi poliziotti. No, signori... avete capito male, non sono lì per il servizio d'ordine pubblico, sono direttamente in campo. Come, direte voi? Abbiam appena detto che ci sono i bimbi seduti poco oltre le linee che delimitano il rettangolo di gara... E infatti avete preconcetti, perché i poliziotti sono in campo tra le file del Montserrat e ci tengono a precisare che lavorano senza pistola, perché da loro non serve, bastan le barzellette. Sarà forse per quello che quando giocano in zona Concacaf tutti ridono di gusto, chissà... Gli risponde il Bhtuan con i monaci tibetani, anni luce lontani da quelli di Shaolin Soccer, ma pronti a riportare su un piano di parità il conto delle autorità in campo. Diritto e religione, autorità civile e autorità secolare.

In europa, nell'università del calcio che benedice la bandiera blu con stelle gialle, DER SPIEGEL non fa giri di parole: "LA FINALE DELLE SCHIAPPE" compare a lettere cubitali in una copia lancio finita nel cestino per ordine del capo redattore e ridimensionata all'interno del giornale in formato quattordici. Non è un mistero se i tedeschi fungono da esatto contrario al termine romanticismo. La pensano diversamente i governi dei due paesi, che si smuovono come per una finale olimpica. VINCENT CASSEL, no l'uomo della BELLUCCI bensì il presidente della federazione dello stato caraibico, pretende di fare la formazione al posto del coach inglese. Sembra che non digerisca la presenza del portiere Lake... Preferisce di gran lunga i Fiumi... Si, di Porpora, del resto è così convinto di sé stesso che apprezza il film perché di spalla al protagonista c'è proprio lui...
Il Kuensel, unico foglio bhutanese, parla di sfida del secolo. Gli fa da eco RADIO FAMILY che trasmette in diretta, dall'altro capo del mondo, la sfida in una nazione che ha la capitale sepolta tra la cenere e la lava per i capricci del vulcano Soufriere. Chissà se per lanciare il match abbian lanciato il famoso pezzo dei Sister Sledge per sottolineare che 150 tesserati in una nazione in realtà altro non sono che una grande famiglia.
Tutti snobbano una sfida che ha sapore di LEGGENDA, il senso imprenditoriale sembra mancare. Qualcuno le occasioni non saprebbe coglierle nemmeno a sventolargliele sotto il naso: no, sento odore di bruciato... Non interessa a nessuno sapere che il portiere ospite abbia imprecato per ogni rete subita, tutt'altro che irresistibile, intonando il seguente sproloquio: «Bhutana la misera!» e anche, in formato Squallor «Himalaya, himalaya... maremma grossetana!»... Alla fine il PRIMO MINISTRO di Bhutam, entusiasta della partita, scende giù dagli spalti. Ci sono strette di mano e onori per tutti, a differenza di quanto visto a certe sfide in quel di Rio 2016 con atleti che fuggono ai saluti, i capitani delle due squadre alzano insieme una coppa al cielo. Il Primo ministro, dopo aver decretato un giorno di festa per tutti gli studenti dello stato, commenta in modo pertinente: «Ci interessava il messaggio di unità, fratellanza e speranza che la partita ha dato, e che ce fotte a noi dei soldi..» Per festeggiare si segnala persino l'invasione di campo di un cane, come dimostrano i reperti documentali che girano su internet, in Germania qualcuno ha subito sospettato la presenza di un complotto per meditare multe per omessa custodia di animale. Si sa, in Germania certe cose non sarebbero di certo capitate. Ma non osate guardare negli occhi il monarca della nazione vincitrice del confronto: potreste finire dietro le sbarre per aver violato una delle leggi più importanti dello Stato, alla faccia della scuola pitagorica... Non tutte le cose si prendon con filosofia!
Dimenticavo, abbiam detto che han organizzato gli olandesi, ma i soldi chi ce li ha messi? Indovinate un po'...? Una casa italiana di produzione di documentari, la Mercurio nome quanto mai idoneo in tema di febbre da mondiali (e anche di ostacolisti fan di R.J.'S Fighter, ma questa è un'altra storia), in coproduzione con un ente benefico olandese e la Robot giapponese. Una vera e propria coproduzione alla conquista del mondo, proprio come si sapeva fare nel cinema italiano degli anni '60, con buona pace dei blasonati milionari di Tokyo e Seul.

L'ORGOGLIO DEGLI ULTIMI.

"Noi giochiamo all'estero, quando torniamo a casa, non chiediamo un centesimo per stare in nazionale. Io gioco per me, per il popolo, per ragazzi del mio quartiere. Perché capiscano che lo sport è un mezzo.E' la chiave per entrare in Europa, per vincere le differenze e riscattare la nostra immagine. Lo strumento per sentirci degni e liberi. Ci giochiamo il mondo, in piscina" (Danilo Ikodinovic)