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lunedì 28 agosto 2017

Recensioni Narrativa: MAGIA ROSSA di Gianfranco Manfredi.



Autore: Gianfranco Manfredi.
Anno: 1983.
Genere: Horror.
Editore: Gargoyle Books.
Pagine: 220.
Prezzo: 15,00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Romanzo uscito per la prima volta nel maggio del 1983 per conto della Feltrinelli Editore, segna il debutto in veste di narratore del milanese d'adozione Gianfranco Manfredi.
Classe 1948, da non confondere col più famoso Valerio Massimo Manfredi, si tratta di un artista a tutto tondo, nato in veste di cantautore (si parla di 300 canzoni), quindi critico musicale e poi sceneggiatore di commedie con una passione però celata fino a inizio anni '80: l'horror. Il nome Gianfranco Manfredi è proprio in quest'ultimo settore che è maggiormente considerato, al punto da essersi ritagliato uno spazio di particolare tenore nell'ambito del fantastico italiano tanto da esser definito uno dei padri del "gotico italiano". Sulla scia del successo ottenuto da Magia Rossa, ha dato alle stampe romanzi come Cromantica (1985), l'antologia horror Ultimi Vampiri (1987), il grottesco Nelle Tenebre mi Apparve Gesù (2005) o i citazionisti Ho Freddo (2008) e Tecniche di Resurrezione (2010) denotando uno spiccato interesse per l'insolito, l'esoterismo e le teorie cospirazionistiche, il tutto da cucire a quel retrogusto sociale tanto in voga negli anni '70 e '80 nella produzione cinematografica d'autore americana. Uno scrittore che non disdegna il grand guignol pur non riuscendo a fare a meno di quella forte dose di ironia che ne ha segnato i debutti sia da sceneggiatore che da compositore (un titolo di un suo album su tutti: Zombie di tutto il mondo unitevi, 1977). Ha avuto poi l'onere e l'onore di sceneggiare sette albi della serie regolare Dylan Dog (oltre a Tex e ad altri fumetti griffati Bonelli) e un copione di un piccolo ma interessante horror italiano: Il Nido del Ragno.


Gianfranco Manfredi.

Nel 1979 il cantautore esoterico Franco Battiato cantava, in modo alquanto criptico e metaforico, "spero che ritorni presto l'era del cinghiale bianco...", quattro anni dopo il collega Gianfranco Manfredi, sulla stessa falsa riga, seppur resa in modo maggiormente popolare, mette in scena il ritorno dell'era del levriero bianco e lo fa con un humor e una costruzione che ha spunti da grande maestro. Simbolismi sparsi ovunque, accenni alla grande tradizione esoterica paramassonica con tanto di chiamata in causa degli Illuminati (che poi faranno la fortuna, decenni dopo, di Dan Brown), dell'Alba Dorata (aleggia di continuo il rimando a questo termine e non si può non pensare alla Golden Dawn) e altri affini, il tutto con giochi di nomi, anagrammi, parole in codice a formare un linguaggio iniziatico ben incastonato nella scenografia di una Milano di fine ottocento (che comprende personaggi reali come lo scultore Conconi, il politico Stefano Labus, l'attrice Emma Ivon, gli scapigliati etc), quando lo spiritismo muoveva i suoi primi passi tra rivoluzione industriale, lotte di partito e repressioni sanguinolente di operai in rivolta. Anni per i quali il mio libro di storia delle superiori scriveva: "Bava Beccaris doma esemplarmente la rivolta sparando cannonate sulla folla". Manfredi gioca nel fare continui rimandi tra il fine ottocento e il fine novecento, scegliendo per protagonista un personaggio oscuro, maledetto, se vogliamo un antieroe che poi si scopre essere un antagonista, ai limiti del satanico: Tommaso Reiner. Un giovanotto dai capelli rosso rame, di cui si sa poco, ma che i resoconti della Milano di inizio secolo scorso trattegiano alla stregua di un mago prestigiatore, un illusionista capace di fermare i proiettili dei fucili dei carabinieri, di azionare i macchinari con la forza del pensiero e di compiere mirabolanti imprese stimolato dall'uso dell'oppio (la droga proposta quale strumento di apertura delle porte e superamento dei limiti umani). Un anarchico che sembra esser uscito da certi romanzi alla Zorro, ma che ha un anima assai più tenebrosa e maledetta. "Reiner sarebbe stato uno stregone negromante, che partecipava a sedute spiritiche in compagnia di alcuni Scapigliati di Brera" si spiega nel testo.

Manfredi struttura il tutto in trentatre capitoli (numero magico per eccellenza, quando si parla di certi contesti), a loro volta divisi in tre parti che hanno per titolo la costante del "triangolo", un altro simbolo cardinale nel contesto magico-esoterico. La scelta, come accenna l'autore che poi si meraviglia che nessuno l'abbia mai sottolineata nel corso degli anni, non è casuale. Del resto chi mai potrebbe pensare a un caso, dati i temi trattati? Solo chi ignora il background che risulta opprimente per tutta la vicenda e che comporta ammonimenti, inviti a non proseguire e minacce più o meno velate che sortiscono, non poteva esser diversamente, l'esatto effetto contrario.

Il romanzo prende l'abbrivio con un antefatto alla Conan Doyle. Il riferimento non va al personaggio di Sherlock Holmes, ma al racconto lungo Nel Paese delle Nebbie. Un avvocato, convinto sostenitore dell'infondatezza dello spiritismo, organizza presso la propria abitazione una seduta spiritica per dimostrare le frodi orchestrate dai presunti medium. L'esperimento ha un risvolto alquanto macabro e imprevedibile che serve a Manfredi per presentare il protagonista occulto del romanzo: Tommaso Reiner. E' un escamotage utile a portare subito nel vivo la storia per poi tessere una trama dalla tensione crescente e dallo sviluppo lento e graduale. Dal 1898 si passa al 1981. Manfredi costruisce un'intelaiatura mystery, più che fantastica, e la tiene viva per trequarti di romanzo. Lo spettatore resta sospeso in un'atmosfera esoterica tra giallo, mystery, fantastico e poliziesco. Gli sviluppi potrebbero prendere qualunque strada, ma alla fine avranno un esito imprevedibile, specie per l'epoca, alquanto grezzo rispetto alle molte soluzioni che si sarebbero potute scegliere. 

Manfredi ha una visione e uno stile che potremmo definire cinematografico. Si respira a pieni polmoni la simpatia per i film di Dario Argento e George A. Romero, ma anche Pupi Avati (si veda la parte col protagonista che si imbatte col ritratto di Reiner). Il ritmo è crescente e la tensione monta a poco a poco al procedere della storia. Per lunghi frangenti, chiudendo gli occhi, sembra quasi di rivivere le ambientazioni e le sequenze dei mitici spaghetti thriller che resero tanto importante, all'estero, il nostro cinema di genere. Tra questi mi viene in mente anche La Casa dalle Finestre che Ridono.

A far luce sui fatti del passato, che poi irromperanno nel presente, ci sono tre studiosi che scopriranno, loro malgrado, di esser pedine di un destino, a quanto pare, per Manfredi già scritto per ognuno di noi. Da un articolo di uno dei tre, riscoperto a distanza di anni da un secondo componente del terzetto fidanzato della donna di allora del primo, prende piede una ricerca che si trasla presto nel campo dell'ossessione. Cronache, articoli, lettere, messaggi codificati sottratti dalle polveri e dall'oblio sono la ragione degli effetti letali che si innescano, quali eventi inevitabili oggetto di una lontana profezia. Statue che sembrano muoversi, persone che scompaiono, strani incidenti e reperti magici di cui si stenta a capire la provenienza. Una fissazione per un'indagine in apparenza innocente, priva di potenziali pericoli, che assume presto la sostanza dell'incubo. Ciò che sembrava sepolto in un lontano passato riprende forma e lo fa all'ennesima potenza, alla stregua di un demone incatenato che non aspettava altro di esser liberato dalle catene per portare l'apocalisse sulla terra. 

"Il Levriero Bianco era una setta massonica. Non una normale loggia massonica, ma una filiazione spuria della massoneria egizia... si ispirava ai rituali di magia nera e Reiner ne era uno dei massimi affiliati." Una congrega che, a differenza degli Illuminati ("scopo della setta era l'eversione di tutti i poteri dello Stato e delle religioni per l'instaurazione di un cosmopolismo a base popolare"), ha come fine il ribaltamento dell'ordine costituito da intendersi non a livello politico, ma a livello naturale e anch'esso orientato a un socialismo che non ammette distinzioni di classi. 
"Il levriero cadrà nella Tomba di Luce e l'Alba dorata conoscerà il passo di un nuovo esercito. E, se son vivi loro, allora tu sei morto!" un concetto che ribalta ogni punto di vista, un po' come in Io Sono Leggenda di Matheson. Non vado nello specifico per evitare gli spoiler ma, pur nella sua ironia di fondo (alquanto spiccata in verità), è evidente come anche in Manfredi si assista a un sopraelevamento dello spirito (l'anima immortale che ritorna nella sua integrità) rispetto alla materia (i corpi che marciscono) andando a capovolgere gli ordinari valori in campo per un ritorno alle origini finalizzato al superamento del Kali Yuga ovvero l'era dell'oscurità che collasserà con la fine del mondo (si veda il metaforico attacco finale alla cabina dell'Enel ovvero la generatrice di luce). Un epilogo, quello che va al di là dell'umanamente concepibile, che non può essere accettato dall'autorità costituita: "Ho scritto un ottimo rapporto" dice il poliziotto (una macchietta) che conduce le indagini per mascherare l'impossibile agli occhi della popolazione e dei superiori, ben conscio di aver scritto una falsità colossale (non a caso si dimette). "Ogni avvenimento è stato considerato per quel che era... un guasto meccanico, una fuga di gas, una compagnia di profanatori... Ho scritto un vero e proprio capolavoro!"

Che tipo di lettura vi aspetta, allora? Beh, un mix di generi che si chiude in un modo un po' fracassone, dati i presupposti aulici e l'attenzione a chiamare in causa un substrato di fondo esoterico. Epilogo fracassone, certo, ma non per questo banale. Una conclusione forse frettolosa, eppure di grande effetto visivo e contenutisticamente giustificabile. Un nuovo anno (il 1984, data che evoca la società distopica per eccellenza, a livello narrativo) che si apre all'insegna di un nuovo (dis)ordine e che viene preannunciato dal solito messaggio del Presidente della Repubblica italiana che parla di "un anno di crisi, ma non mancano i sintomi di una ripresa." L'humor nero regna sovrano, ovviamente, e non poteva esser diversamente guardando le origini artistiche dell'autore.
Forte il legame, più che alla narrativa fantastica, al cinema italiano di genere e  a quello di Romero. Ci sono omicidi che rievocano Suspiria (penso alla scena di Berlino col cane che azzanna al collo il cieco), altri Profondo Rosso (l'uso del pupazzo animato che introduce l'assassinio), ma attenzione all'evocativa parte ambientata nella città fantasma di Crespi d'Adda, il momento in cui il romanzo vira decisamente all'horror (c'è pure qualche reminescenza lovecraftiana) con Reiner che si addentra nel villaggio costruito nel 1878 "per ospitare le famiglie delle maestranze al fine di tenerle vicine alle fabbrice e lontane dalle osterie". Una scenografia desolata, molto più di quella reale, che fa saltare alla mente la città industriale di Pripjat, così come appare oggi dopo la catastrofe nucleare e la morte (verrebbe da dire la macellazione) degli operai e dei familiari che lavoravano nella vicina centrale. 

Magia Rossa è dunque una lettura che non annoia, agevolata da uno stile scorrevole e da una trama accattivante che si lascia leggere in periodo compreso tra due e tre giorni. Consigliato agli amanti dei B-Movie, a coloro che apprezzano il grand guignol  e a chi ami l'horror dai risvolti sociali e ironici. Si astengano i puristi del romanzo fantastico classico e serioso, specie quelli del gotico dell'ottocento.



Polizia e Carabinieri pronti a irrompere
nel cimitero di Crespi d'Adda
nella copertina dell'edizione
Feltrinelli.

"Il volgere dell'ultima era è ormai imminente. Solo un'Autorità Superiore può fermare la Corsa del Veltro... e questa autorità è la Luce Pura, l'Occhio stesso della Divinità: il Triangolo d'Argento."

sabato 26 agosto 2017

Recensione Narrativa: LA CITTA' VAMPIRA di Paul Feval.



Autore: Paul Feval.
Genere: Horror.
Titolo originaleLa Ville Vampire.
Anno: 1867.
Edizioni: Mondadori, Collana Urania Horror, n.13.
Pagine: 126.
Prezzo: 9,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Raro prodotto tradotto in lingua italiana della sterminata produzione firmata Paul Feval (si parla di qualcosa come 200 opere). Autore di straordinario successo in patria nel primo ottocento, svalutato poi nel novecento da un atteggiamento di disinteresse generale. Ex avvocato, poi banchiere poco convinto e infine scrittore di fueilleton con predilezione per il romanzo d'avventura e l'azione. Paul Feval, classe 1817, è anche stato uno dei precursori della narrativa fantastica francese e non solo di essa. Contemporaneo di Gerarad de Nerval e di Merimee, dieci anni più vecchio di Jules Verne, ha il merito di anticipare alcuni temi e alcuni soggetti che staranno alla base della narrativa popolare a seguire. Anticipa un personaggio alla Zorro con Le Loup Blanc (1843), orchestra un romanzo fiume a sfondo poliziesco dal titolo I Misteri di Londra (1843) e confeziona uno dei primi thriller della storia della letteratura con un delinquente protagonista che fungerà da ispirazione per il "nostro" Diabolik: Jean Diable (1862).

Tra i vari temi toccati, Feval si interessa anche di narrativa fantastica concentrando la propria attenzione su due argomenti: il vampiro e le organizzazioni segrete (al punto che qualcuno per spiegare la morte di Kennedy dirà: "Non perdete tempo a leggere i giornali. Leggete Feval"). Sulla scia de Il Vampiro (1819) di John Polidori, è tra i primi a mettere in scena in narrativa i vampiri, anticipa in questo pure John Sheridan Le Fanu e il suo celebre Carmilla (1872). E' di Feval, infatti, la prima vampira donna col romanzo La Vampira (1865), preceduto da Il Cavaliere delle Tenebre (1860) che esce trentasette anni prima di Dracula.  Si tratta quindi di un passaggio obbligatorio per i fan di questa figura archetipica che da secoli funesta le notti dei maggiormente impressionabili. Nonostante l'indubbia importanza storica, il nome Feval viene del tutto omesso da volumi come Guida alla Letteratura Horror dell'Odoya o dal Dizionario dell'Orrore di Pilo. Ne fa invece cenno la splendida guida Maestri della Letteratura Fantastica della Edipem, ma solo perché si tratta di un volume francese. Tale mancanza è giustificata dal disinteresse dell'editoria italiana che solo di recente si è accorta di questo autore. Le opere di Feval in italiano sono rare, per giunta lo scrittore, originario di Rennes, è caduto nell'oblio anche in Francia per effetto dei cattivi investimenti e di una lenta ma graduale pazzia che lo ha portato a rinchiudersi in un convento di frati a distruggere le opere non in linea con il credo cattolico a cui ha aderito poco prima di morire. Un destino quest'ultimo comune al più famoso Huysmans.


L'autore Paul Feval.

La Città Vampira è il capitolo di chiusura, pensiamo di poter dire, della trilogia di Feval dedicata alla figura del vampiro. Si tratta di un romanzo breve, appena 120 pagine, che risente in parte degli anni e allo stesso tempo si presenta come moderno con punte oniriche piuttoso rare per il periodo. Scritto nel 1867 (probabilmente revisionato nel 1875 con il taglio di alcune parti), ingloba al suo interno svariati generi proprio come il vampiro Otto Goetzi farà con le sue vittime. Feval ha un approccio farsesco, mi verrebbe da dire grottesco. I personaggi sono sopra le righe, si esprimono in maniera poco consona a un racconto del terrore e hanno quel che di fracassone che poi si trasmette all'intera opera. Claudia Salvadori, in prefazione, parla addirittura di parodia del romanzo gotico. A mio avviso sarebbe più giusto parlare di satira sugli usi e costumi di inglesi, irlandesi e olandesi. L'autore si diverte a estremizzare le caratteristiche degli abitanti di queste nazioni, dileggia gli inglesi presentandoli, da francese, alla stregua della massima ispirazione della nobiltà e della perfezione umana.

Feval fonde in un'unica opera il romanzo gotico, rappresentato dal canovaccio dell'eroina che si lancia in soccorso dell'amico fraterno per far sì che i cattivoni di turno non facciano venire meno il matrimonio dallo stesso organizzato, con l'avventura da intrattenimento miscelata a un orrore che ha delle punte di grande originalità. Lo scontro finale, all'interno di un castello, è il collegamento più evidente alla narrativa lanciata da Horace Walpole, con fantasmi, catene e complotti più o meno terrestri. L'esperimento viene reso gustoso dalla presenza di Ann Radcliffe, madrina del romanzo gotico, quale protagonista diretta della storia. Feval immagina infatti che l'estro narrativo della futura scrittrice derivi da un'esperienza paranormale che l'ha vista coinvolta. Gli ingredienti ci sono, tuttavia l'intreccio, che assume presto i contenuti di un giallo con storie nella storia e continui colpi di scena, procede tra alti e bassi. La trovata metanarrativa è un importante quanto raro valore aggiunto (per l'epoca), purtroppo però il racconto ha una prima parte pesante (che sarà ripresa in parte da Stoker), sullo stile del romanzo rosa epistolare. Pecca inoltre di una certa ripetitività, al fine forse di rendere chiari i fatti e gli intrecci. Il racconto viene narrato da una persona centenaria che rivela esserle stato raccontato dalla Radcliffe in persona e si apre con quest'ultima, prossima a sposarsi, che legge le lettere di un amico fraterno e della sua promessa sposa che dovranno congiungersi in matrimonio lo stesso giorno in cui la stessa Radcliffe dovrà convolare a nozze. Lo snodo che innesca la storia è il rapimento della promessa sposa dell'amico della Radcliffe, giustificato da ragioni di eredità e di denaro. La "nostra" eroina, seguita dal fedele servitore, deciderà di lanciarsi all'inseguimento di coloro che hanno orchestrato il rapimento e scoprirà che questi ultimi, il padre della ragazza (un conte) e la precettrice della stessa, si sono avvalsi di un losco individuo che in realtà è un vampiro e che intendono incamerare le ricchezze di cui la giovane è divenuta erede.

Al di là del soggetto, La Città Vampira e, più in generale, l'opera di Feval è interessante materia di studio poiché qua poteva cristallizzarsi la figura del succhiasangue per antonomasia. Feval infatti indica le caratteristiche e i poteri dei (suoi) vampiri. Stoker rivedrà il tutto in modo massiccio e si dovrà a lui la figura che oggi caratterizza l'immaginario collettivo. I vampiri di Feval hanno la caratteristica di esser accompagnati da una fluorescenza verde, sono originari della Serbia, e riescono a contenere in sé le proprie vittime con la possibilità, all'occorrenza, di farle uscire dal proprio corpo (in una nuova forma rispetto all'originaria, comprendente anche quella animale) fino al punto di sdoppiarsi. Chi viene vampirizzato diviene a sua volta vampiro ma non è una creatura libera. Diviene infatti una sorta di proiezione del vampiro originario che ha la possibilità di richiamare il proprio servitore e di annetterlo a sé stesso. La morte del vampiro principale determina la morte di tutte le altre forme, salvo scollegamento di particolari nervi contenuti all'interno dello stesso. I vampiri di Feval succhiano il sangue non per effetto dei canini allungati, ma per via di una lingua appuntita tramite la quale perforano la carne delle vittime. Come per Stoker, prediligono sangue di vergini. Non viene fatto cenno all'uso di rimedi quale agli, crocefissi o paletti di frassino, l'unica cosa che li fa morire è l'estirpazione del cuore e la successiva cottura dello stesso sulla brace oltre che al gettito della cenere di vampiri defunti (provoca delle vere e proprie esplosioni!?).

A rendere meritevole di lettura e di riscoperta questo romanzo è la parte centrale in cui i protagonisti si recano nella città dei vampiri: Selene. Siamo in Serbia, poco dopo Zemun (periferia di Belgrado). Feval regala una perla onirica che teme pochi confronti per l'epoca. Descrive una realtà oscura, impenetrabile dalla luce (anche a mezzogiorno), quasi parallela alla nostra, dove i protagonisti si addentrano e in cui vi è un'ora in cui tutto tace e nulla si muove (l'ora del riposo). A Selene sono presenti le tombe di tutti i vampiri del mondo e queste, a seconda dell'importanza del vampiro, hanno strutture di templi o di palazzi. All'interno di ogni tomba riposa il vampiro di casa. La città vampira è una metropoli di tombe imponenti, ornate di sculture e rifiniture capaci di animarsi al momento opportuno. Feval narra con dovizia di particolari i vari quartieri di questa città e fa schizzare la tensione, nonostate i personaggi siano guasconi e tamarri, ai limiti della macchietta.

Purtroppo l'epilogo non è all'altezza di questa parte. Si torna di nuovo dalle parti del gotico di primo ottecento, con un doppio finale che risente degli anni e che si regge su una soluzione, ai giorni nostri, trita e ritrita.

Nell'estate del 2017 Giuseppe Lippi ha deciso comunque di includere il romanzo all'interno del numero 13 di Urania Horror intitolato Cerimonie Nere, che comprende anche l'antologia Il Villaggio Nero di Grabinski e il romanzo La Cerimonia di Laird Barron, rendendo così fruibile La Città Vampira al grande pubblico. Così come accennato da alcuni lettori della recensione, il testo era già stato pubblicato nell'antologia della Feltrinelli intitolata I Vampiri tra Noi (1960)..

In conclusione si tratta di una buona occasione per conoscere questo importante autore francese, ma soprattutto per comprendere, qualora ce ne fosse ancora bisogno, come la figura del vampiro non sia frutto di un'ideazione di Bram Stoker ma che, al di là delle preesistenti leggende folkloristiche, era già stata trattata e caratterizzata da altri autori. Feval è forse il meno reclamizzato tra questi, ma è stato di sicuro letto dai vari Le Fanu e Bram Stoker al punto da poter esser considerato un autore centrale per lo sviluppo e l'evoluzione della figura del vampiro.



"E' più che certo che il miglior rimedio contro il vampiro sia la cenere di vampiro."

domenica 13 agosto 2017

Recensione Narrativa: Cose Preziose di Stephen King.



Autore: Stephen King.
Titolo Originale: Needful Things.
Anno: 1991.
Genere: Fantastico / Horror.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 768.
Prezzo: 11.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Definito il capitolo di chiusura di una trilogia di romanzi (in realtà sono quattro) ambientati a Castle Rock, costituisce un grottesco gioco degli equivoci innescato dai e sui peccati umani debitamente stimolati e sviluppati dalla mano di chi sa farli fruttare all'eccesso. Tutto succede a Castle Rock, l'immaginaria cittadina ideata dal “maestro del terrore” Stephen King e il cui nome arriva dal romanzo Il Signore delle Mosche (titolo che si addice perfettamente al protagonista del romanzo) del premio Nobel William Golding. Castle Rock, terra in cui i fan dello scrittore del Maine erano già stati catapultati in occasione di Cujo e La Meta Oscura, come ricorda l'autore con gustose autocitazioni nel testo, ma anche in occasione de La Zona Morta (ecco perché non si può parlare di trilogia) e di altri racconti.

È un romanzo buono, inutile fare boccucce o critiche addirittura tese a indicarlo quale uno dei peggiori libri di King. Ottimo per le caratterizzazioni e la gestione della tensione, ma soprattutto per il messaggio sottinteso che lo eleva da semplice opera di intrattenimento a opera d'autore. Certo, non è privo di difetti. Purtroppo c'è quel gusto grossolano tipicamente kinghiano, amato dai lettori popolari meno da quelli tradizionalisti del fantastico, che va a depauperare l'orrore dalla forza occulta insita nell'influenza attiva delle "forze del male". Mi spiego meglio. Anche qua King cade nel facilone e soprattutto nel fracassone macchiettistico di stampo fantasy e blockbusterone (si veda il finale del romanzo, guarda caso modificato in blocco dalla trasposizione cinematografica) piuttosto che classico, eppure ciò non inficia molto il valore del testo. King è stato bravo nella costruzione, nel suo rendere briosa la narrazione che scivola via come un bel bicchiere di fresca acqua potabile bevuto in pieno deserto dopo ore di marcia. Cose Preziose è un romanzo da leggere, a suo modo educativo (pur se con almeno tre momenti crudissimi di una cattiveria unica), vuoi per il ritmo e la fluidità nella lettura, vuoi per il background che ne sta alla base, vuoi per il misterioso personaggio di Leland Gaunt caratterizzato in modo divino. King, con questo personaggio, offre, qualora ce ne fosse bisogno, la dimostrazione delle proprie eccezionali doti di caratterizzatore (su questo nulla da obiettare). Leland Gaunt è il vecchio antiquario che giunge, a suo dire, da Akron, Ohio, per fare affari aprendo un negozio di oggetti da collezione. 

L'autore è bravissimo nello stillare le proprie carte e nel sorbire al lettore le piccole dosi di suspence che ha per lui confezionato. Così costruisce un quadro d'insieme magistrale, andando a tratteggiare i profili dei vari cittadini di Castle Rock, individualmente ma anche collettivamente. Tutti vorrebbero entrare dentro il negozio ma nessuno, inizialmente, vuole fare il passo decisivo perché a Castle Rock, o meglio nella provincia americana, per “perlustrare un negozio nuovo ci sono delle regole non scritte.” Presunte regole della buonma condotta, tanto sceme quanto rispettate. Nessuno sa che cosa ci sia dentro quel negozio dalle vetrine insaponate né è chiaro chi sia il proprietario, eppure quest'ultimo sa tutto dei cittadini. Questi ultimi altro non sono che modelli stereotipati, così diversi tra loro quanto identici ai prototipi stampati dalla società americana (e non solo quella). “Sapere è il mio mestiere. E il suo è sospettare” dirà più avanti Gaunt. 

Leland Gaunt interpretato da
Mox von Sydow nell'omonimo film
diretto da Fraser C. Heston, 
figlio di Charlton Heston e Lydia Clarke.
"SPLENDIDO, ORA COMINCIA LO SPASSO" dice Von Sydow
in questa scena.

Ma chi è questo Gaunt? È un personaggio pienamente riuscito, poco da dire in contrario, ogni volta che King lo mette in scena il fascino e la bramosia di leggere salgono alle stelle per effetto di una personalità camaleontica, multiforme e poliedrica. Cambia atteggiamento in funzione del cliente e della situazione, racconta aneddoti di una sua vita passata, molto remota, addirittura dice di esser l'incarnazione di un iracheno venditore di tappeti. Affabile, educato, persino melassoso con modi da gentleman ottocentesco capace di trasformarsi, all'occorrenza, in dittatore, manipolatore e persino uomo che si esprime con gergo da frequentatore di bordelli di infima lega. King, a differenza di quanto farà Heston, figlio del grande Charlton presentatore della serie La Bibbia, protagonista de Furia Bianca (1953), Pony Express (1958) ma soprattutto Il Seme della Follia (1995), una storia dal retrogusto La Metà Oscura, e narratore di un film dal titolo qui quanto mai profetico Armaggeddon - Giudizio Finale (1998) dato che Gaunt sosterrà di essere "il miglior giudice", è vago sulla vera natura del personaggio. Intendo vago per spiegare che non gli da una vera e propria caratterizzazione religiosa (come invece farà Heston col suo sceneggiatore da terremoto di scala Richter). Nel romanzo Gaunt è un sagace interprete delle emozioni umane, un manovratore che tocca corde atte a far sciogliere ciascun personaggio di Castle Rock. È la personificazione umana della sostanza stupefacente, intesa proprio alla stregua di una droga. Promette felicità e raggiungimento dei desideri, quando invece induce al baratro la propria clientela che è tuttavia, come Cristo insegna, libera di scegliere. Il suo è un gioco che va avanti da secoli. 

Lo stimolo gli veniva soprattutto dal divertimento. Puro e semplice divertimento. Diventava l'unico scopo dopo qualche tempo, perché quando gli anni son lunghi si cerca svago come e dove si può... La gente pensava sempre in termini di anime, e naturalmente di quelle ne avrebbe prese quante più possibile una volta chiuso il negozio; per Gaunt erano come i trofei per il cacciatore.” Chi vi ricorda come modus operandi...? Pensateci bene... Si, probabilmente è proprio lui, ma King lo usa non tanto per costruire una storia dal retrogusto solfureo (che comunque c'è e si sente tutto) ma per fare una critica al consumismo e, più in particolare, alla spiccata predisposizione umana per il materialismo in luogo dello spiritualismo che dovrebbe segnare il cammino degli uomini. L'autore, come giusto che sia in narrativa, estremizza il tutto, lo porta sul versante del grottesco per condurre all'eccesso tutti gli sviluppi del caso, ma i fili che muove non sono per nulla banali, anzi, corrispondono alla triste realtà su cui è costruita la società della civiltà occidentale. “Le cose che possiedi alla fine ti possiedono” diceva Chuck Palahniuk (mi vengono in mente anche gli scherzetti iniziatici per fare parte del Fight Club) ed è proprio quello che succede in Cose Preziose. La volontà di possesso, l'adulazione degli oggetti, alla stregua del vitello d'oro della parabola biblica, l'ambizione e l'invidia portano le varie persone a comportarsi alla stregua di eroinomani disposti a tutto pur di avere la soddisfazione che cercano, diventando preda di vere e proprie ossessioni (tipo il terrore che le cose vengano rubate o distrutte da altri), esaltate in modo divino nella scena della donna che fa l'amore col ritratto di Elvis Presley. Un maelstroem di follia orchestrata da illusioni e visioni distorte della realtà. Non si salva nessuno, il peccato è filtrato in ogni dove, pure laddove dovrebbe esser combattuto. 
Gaunt agisce a livello mentale, plagia chi incontra, conquista, entra nei sogni della gente e alla fine ordina di fare per suo conto degli scherzetti, quale contropartita suppletiva del prezzo (stracciato) pattuito per l'acquisto dei vari  oggetti. Scherzetti... così li chiama lui. In verità sono dei veri e propri reati che vanno dalla violazione di domicilio, passando per il danneggiamento, la minaccia aggravata fino all'uccisione di animale. 

King simboleggia per questa via la contaminazione della purezza umana (non a caso il primo cliente è un ragazzino di undici anni). L'uomo è peggiore degli animali. Accecato dal materialismo e da peccati quali superbia, ira, invidia e lussuria, è una vera e propria macchina di morte. Non è colpa delle televisioni, dei film o delle letture, è predisposizione naturale. Gaunt sfrutta tutto questo per compiere il suo fine, quello di generare caos e vincere così le anime dei cittadini, ciò nonostante non è un vero e proprio personaggio negativo. Non lo è, perché si limita a trattare con personaggi che non sono degli interdetti, certo il suo modo di fare non è per nulla corretto. Sa benissimo la bomba che sta innescando, ma la colpa, in fondo in fondo, di chi è? Dissapori preesistenti, chiusura mentale, idea della persona amata come un oggetto, attaccamento ai soldi, agli oggetti e poi.... cos'altro? Tutto questo è l'humus in cui Gaunt innesca le sue bombe, mandando i vari soggetti a compiere dispetti su persone che poi pensano che gli stessi siano stati commessi da altri.  Inevitabile il finale.


Se Gaunt è joker... Batman è forse la sua metà oscura?
Un ritratto di King con alle spalle la sua creatura più famosa:
IT.

Mi piacerebbe proprio sapere come mai c'è tanta gente che è convinta che tutte le risposte siano in un portafogli... Eppure, per le cose di cui la gente ha veramente bisogno, il portafogli non da risposte” commenta sarcastico Gaunt che sa bene quale sia la ragione. Potremmo definirla la vuotezza dell'anima, l'assenza di una visione trascendente e ulteriore. E' sempre la solita solfa, signori miei. 
“Quando il negozio era chiuso, i visitatori facevano un passo indietro con un'espressione di irritata delusione, come quella dei tossicodipendenti in crisi che non trovano il loro fornitore dove aveva promesso di essere.” Eccola la spiegazione, una scena da L'Alba dei Morti Viventi di George A. Romero, è la triste realtà di una società dove fenomeni come la moda dimostrano ogni giorno quanto siano pensanti le menti del popolo. Ligotti chiama tutto questo "il teatrino delle marionette", e poco lontano va dalla realtà. L'uomo è schiavo del materialismo. 
Persino le due confessioni religiose della città, Battisti e Cattolici, finiscono in guerra tra di loro, rivendicando entrambe il proprio dominio sui dettami impartiti da Dio, come esegeti dell'interpretazione delle sacre scritture che devono estirpare gli infedeli dall'opera di allontanamento dal gregge dei fratelli per effetto di convinzioni erronee. I cattolici vengono criticati dai Battisti di venerare la Madonna, come se quest'ultima fosse la meretrice di Babilonia quando invece è la madre del soggetto che venerano gli altri. Ed ecco che parte una vera e propria guerra capitanata da un reverendo da una parte e da un prete dall'altra al grido: “Alla pugna contro gli infedeli, Cristo ci guida dall'alto dei cieli.” Usare il nome di Dio per compiere nefandezze, il più grosso peccato che possa compiere un religioso. Ora magari qualcuno riderà nel leggere queste scene, che potrebbero sembrare situazioni da macchietta, ma spostate un po' l'attenzione dalla narrativa alla cronaca nera di questi ultimi anni... vi sembra davvero una macchietta? Poesia pura per il principe della notte, che divertito assiste, senza avere colpe (mi verrebbe da dire), all'idiozia dell'uomo, perché è sempre quest'ultimo quello che poi agisce e non il Gaunt di turno che si limita a muovere i fili. "No, Dio non è con noi..." dice Il Buono in un indimenticabile film di Leone: "Perché anche lui odia gli imbecilli..." Come dargli torto?

King è di un'ironia pazzesca, per tutto il testo. Utilizza nomignoli che si rifanno al cinema tipo “Buster Keeton” (ma perché lo chiamano Buster? Dice una donna poco avvezza al cinema, ottenendo di risposta "chi lo sa il perché" come se fosse difficile trovare la risposta) alla musica “Oh, Georgie Porgie...” (mitica canzone dei Toto), o altri alla narrativa fantastica. Spettacolare sequenza in una città fantasma con un tale soprannominato Asso che tira fuori da un garage un prototipo (definito un capolavoro) giallo canarino eppure invisibile persino alla polizia. Mentre con fare circospetto cammina nelle vie di questa città legge sui muri scritte a lui incomprenisbili: REGOLE DI YOG-SOTHOTH. Poi sniffa una polverina bianca speciale che gli ha fornito Gaunt e che proviene dalle fantomatiche pianure di Leng. Non sempre queste citazioni sono ben amalgamate al testo, talvolta appaiono un po' celebrative e gratuite ma agli appassionati non possono che fare piacere. Bene, voi che siete buoni lettori (altrimenti non perdereste certo tempo a leggere una recensione tanto lunga), per rifarmi a una celebra massima di Jorge Borges, avrete di certo capito il riferimento narrativo. Non manca poi uno sguardo al microcosmo creato nel corso degli anni da King. Si tenga presente che Cose Preziose è all'incirca il suo ventesimo romanzo, così troviamo riferimenti a Inside View (rivista del paranormale su cui ruota la vicenda del Volatore Notturno dove per protagonista c'è un personaggio secondario de La Zona Morta) e ad altri omaggi della narrativa kinghiana che impreziosiscono l'opera.

Possiamo quindi definire il testo un'opera matura, pur nel suo giocare col grossolano, una vera e propria critica all'atteggiamento consumista dell'uomo e al suo voler essere “pecorone”, ma anche alla sua cecità persino in presenza delle prove tangibili. Non solo i cittadini non vedono cosa comprano, ma rifutano anche ciò che sfugge dalla loro comprensione come se non esistesse. Cogito ergo sum diceva Cartesio, qui bisognerebbe dire: "Non lo capisco quindi non esiste." Emblematica una delle battute finali con un poliziotto che chiede allo sceriffo se ha visto bene. "La macchina di quel Tizio si è trasformata in un carro che se n'è andato volando nel cielo?” e lo sceriffo risponde: “Non lo so e, davanti a Dio, credimi, non voglio sapere...” 
Dunque la volontà, ancora una volta, di voler restare attaccati alle cose terrene, di non voler considerare che vi è un altrove che interagisce o che, comunque, costituisce un monito per seguire vie diverse da quelle sponsorizzate dai venditori. Una cecità che, per un bizzarro scherzo del destino, non si verifica, anzi diviene di portata inversa, quando si comprano cianfrusaglie scambiandole per oggetti preziosi. Gaunt tutto questo lo sa, ed è sarcastico a livelli di satira: “Non crederete ai vostri occhi” canzona gli acquirenti fin dall'emblema del suo negozio, modificando di continuo tra l'altro il colore dei propri, di occhi, al cospetto dei clienti che neppure se ne accorgono, così come non si accorgono di quel che comprano. Qual'è la “base di tutte le magie se non l'equivoco?” scrive King, proprio come nella satira che è tutta giocata sugli equivoci e per questo divertente, quando non è rivolta agli stessi che ridono però. 
Un personaggio quello di Gaunt che non considero maligno né diabolico, è un mero strumento di giustizia divina, una sorta di strumento per mettere alla prova le imperfette creature generate da Dio. L'uomo è un essere imperfetto che vive la sua vita per cercare di superare i limiti che gli sono stati messi, perché deve fare una scelta. E la scelta è condizione imprescindibile per ciò che poi succede dopo. Il male è la componente imprescindibile di una stessa medaglia, volerlo rimuovere equivalerebbe a uccidere la vita.

Tensione, paura, raccapriccio dunque, ma anche sano divertimento. YOU SAY HELLO I SAY GOODBYE GOODBYE GOODBYE... I DON'T KNOW WHY YOU SAY HELLO I SAY GOODBYE” lascia scritto alla fine Gaunt, ribaltando il titolo della storica canzone dei Beatles, sulla porta del proprio negozio. Lo fa per canzonare lo sceriffo, un appassionato di illusionismo e cortometraggi amatoriali, che non ha capito cosa stia succedendo e su cui si innescherà una raffazzonata intercessione divina. Lo sceriffo diviene strumento di Dio in un epilogo non all'altezza del resto del romanzo. Non è la magia che entra in scena, come ho letto in certi commenti, ma è la volontà superiore. Uno sceriffo cosa mai potrebbe fare col personaggione che ha davanti? Niente... Le armi e le leggi terrestri non possono andare ad arrestare l'inarrestabile, ma il “male”, con King, perde. Questo, a mio avviso, è un peccato, perché come detto il male è una componente del bene (“Io sono un pacifista, uno dei grandi pacifisti del mondo” dice Gaunt che infatti opera sempre indirettamente). “L'immagine di Gaunt era quella di Joker, la nemesi di Batman” scrive King, ma non c'è certo da meravigliarsi in un paese in cui, per la notte dei morti (31 ottobre), i cattolici pensano bene di organizzare una serata di casinò in Chiesa per beneficenza e dove il primo consigliere è un giocatore incallito che spende alle corse dei cavalli i soldi dei contribuenti pretendendo, non a torto, di parcheggiare negli stalli degli handicappati. Castle Rock diviene quindi l'ideale teatro di un gioco complessivo in cui succede di tutto, fino al finale apocalittico altamente esplosivo.

Voglio riportare, per sommi capi, uno dei passaggi più esilaranti del volume, per sottolineare come King vada a condire il tutto con quel tocco di ilarità che stempera situazioni fin troppo paradossali. Del resto, quale linguaggio utilizzare parlando di personaggi che perdono letteralmente il senno, in taluni casi, per delle assurdità banali come chi deve passare la notte con un soggetto immaginario? Ecco allora uno di questi passaggi:
Sul letto c'era il Re, ma non era il solo. Seduta sopra di lui, a montarlo come un pony c'era Myra Evans. Si è girata a fissarla, quando aveva aperto i battenti. Il Re non aveva staccato lo sguardo da Myra, sbattendo le palpebre su quei magnifici, languidi occhi blu.
«Myra, che cosa fai qui!» aveva esclamato Cora.
«Non sto certo passando l'aspirapolvere... Siamo occupati... non è vero... El?»
«Dici bene, gioia» le aveva risposto il Re. «Occupati come Ricci.»
Poco dopo Cora va tutta arrabbiata dal negozio di Gaunt, perché il Re deve essere suo e solo suo, sta a lei galopparci sopra, non è certo la Furia di Mal dei Primitives con cui ci si poteva fare un ammucchiata anche in tre.
«Ah, Cora» esclamò il signor Gaunt. «Mi domandavo quando saresti passata.»
«Quella puttana!» vomitò Cora. «Quella porca traditrice!»
«Scusa, Cora» le si rivolse il signor Gaunt con zelante cortesia «ma mi sembra che ti sei dimenticata di allacciarti qualche bottone.» Indicò il vestito che indossava con l'indice straordinariamente lungo.
Cora si era infilata il primo indumento che aveva trovato ed era riuscita ad allacciarsi solo il primo bottone, sotto il quale i lembi della casacca si allargavano lasciandola scoperta fino ai riccioli del pube.»
«Chi se ne frega?» ribatté lei in tono brusco.
«Non io di certo, anzi...» rispose candidamente il signor Gaunt.

Un breve cenno al film, uscito due anni dopo. Fraser Heston lo dirige con mano sicura, ma semplifica molto, elimina diversi personaggi, e cambia interamente la parte finale. Non mi sento di criticarlo per questo, anzi forse è stata una scelta intelligente. La sua modifica è utile per evitare possibili cadute nel ridicolo, situazioni che sulla carta funzionano mentre sul grande schermo non altrettanto. Trasforma Gaunt (magistrale interpretazione di Max von Sydow che passa così da L'Esorcista all'avversario) nel diavolo, una sorta di djin che avvera le richieste dei clienti (tra i quali persino Hitler). La tensione non manca e, alla fine, grazie soprattutto a Von Sydow, il film regge bene alla distanza. "Finiremo sui giornali, parleranno di noi a Giakarta" canzona il diavolo nel finale all'attonito sceriffo interpretato da Ed Harris, quasi a voler dire (giusto per far pari con la citazione dei Beatles e per sottolineare il fatto che nel testo sottolinea varie volte l'orgoglio delle donne come la sua passione) "vanità, decisamente il mio peccato preferito..."


J.T WALSH l'attore che interpreta Buster Keeton,
il PRIMO CONSIGLIERE patito
per le corse dei cavalli. Per lui Gaunt
ha un gioco che è una tavoletta ouija che indica
i vincitori delle varie corse in programma nel vicino ippodromo.


"Forse non è nemmeno un libro. Forse tutte le cose molto speciali che vendo non sono come sembrano. Forse sono oggetti amorfi che hanno un'unica proprietà straordinaria, quella cioè di assumere la forma degli oggetti che animano i sogni di uomini e di donne."

giovedì 3 agosto 2017

Recensione Narrativa: LA CERIMONIA di Laird Barron.



Autore: Laird Barron.
Genere: Horror.
Titolo originaleThe Croning.
Anno: 2012.
Edizioni: Hypnos.
Prezzo: 17,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Il volume che esaminiamo in questa pagina ci permette di fare la conoscenza di Laird Barron, autore ancora di nicchia non troppo conosciuto in Italia eppure molto prolifico. Solo nell'ultimo anno ha dato alle stampe i volumi Swift to Chase, Man with no Name X's for Eyes (quest'ultimo edito nel 2017 in Italia anche dalla Hypnos col titolo X per Occhi). Che si condiva o meno, è considerato negli Stati Uniti una delle più grandi promesse della nuova narrativa horror. Classe 1970, di origine e formazione alquanto curiosa, così come il suo presentarsi con una benda con un toppino calato sull'occhio destro a ricordare gli antichi pirati o, per gli amanti di sci-fi, lo Jena Plissken di 1997 Fuga da New York. Nato e cresciuto in Alaska, ex conduttore di slitte di cani poi pescatore sullo stretto di Bering, reinventato scrittore dopo essersi trasfertio a Washington dalla metà degli anni '90. Appassionato di poesia e di rock and roll, parte con i racconti con i quali, nel nuovo secolo, riceve una certa considerazione e riscuote svariati apprezzamenti che si traducono in premi importanti, tra i quali due edizioni dello Shirley Jackson Award.
The Croning è il suo secondo romanzo, scritto in un momento di crisi e prendendo al balzo un periodo di vacanza presso la casa del fratello, Jason, nel Montana. Lo completa in otto mesi nel 2012, miscelando in un unico progetto i generi più disparati: dall'heroic fantasy passando per il giallo e lo spionaggio e concludere con il cosmic horror. La piccola Hypnos di Andrea Vaccaro, casa editrice tra le più interessanti nell'ultimo decennio nell'ambito della narrativa fantastica, decide di scommettere su questo scrittore e acquista subito i diritti per la distribuzione sul territorio italiano. L'investimento si rivelerà quanto mai "indovinato", quanto meno dal punto di vista commerciale, dato che cinque anni dopo Vaccaro vende (credo di poter dire) i diritti alla Mondadori per la pubblicazione del testo in un numero della collana Urania Horror. Il romanzo esce così una prima volta nel 2012 col titolo La Cerimonia e viene ristampato nel luglio del 2017 dalla Mondadori, all'interno dell'ultimo volume della collana Urania Horror, come romanzo conclusivo di una raccolta edita col titolo Cerimonie Nere.
La pubblicazione sotto il marchio Mondadori rende più popolare il nome Barron che inizia così a circolare, in Italia, in un contesto se vogliamo più diffuso, sdoganandolo dal confine delle narrativa e dell'editoria di ultra nicchia, offrendo altresì la possibilità alla Hypnos di farsi conoscere da un maggior numero di persone. In seconda questione permette, per effetto di una distribuzione e di un volume di vendite molto più ampio, di abbattere il prezzo dell'opera che passa dai 17,90 euro iniziali ai 9,90 statuiti dalla Mondadori, con l'omaggio di due ulteriori opere da non perdere (tra cui la splendida antologia del polacco Grabinski da noi già analizzata in questo blog).

Nuovamente pubblicato all'interno
di un'antologia di romanzi 
per la collana URANIA HORROR.

Veniamo ora all'analisi del romanzo. Rivisitazione in chiave moderna, soprattutto per lo stile linguistico e la struttura adottata, dell'orrore cosmico portato in auge da Howard Philips Lovecraft a inizi novecento. Laird Barron ripropone l'idea di una realtà umana sprovvista di un futuro trascendente (il futuro è caso mai orizzontale ovvero come possibilità di acquistare l'immortalità terrena), assoggettata, in buona parte inconsapevolmente, al controllo di creature che si spostano su un piano spazio-temporale grazie a dei portali, soprattutto caverne, che mettono in contatto il nostro mondo con l'altrove. Si tratta però di un altrove non dimensionale, lo definirei, piuttosto, concreto, verrebbe da dire universale e stellare, popolato da esseri che più dei veri Dei sono degli alieni mostruosi (“una razza che esiste ai margini dell'universo, chiamata dagli uomini I Figli dell'Antica Sanguisuga”), dalla forma vermiforme, dotati di capacità superiori alle umane e in grado di sostituirsi, sotto il falso involucro esterno, all'uomo stesso, un po' come visto in film quali L'Invasione degli Ultracorpi (di DON Siegel, da cui Barron prende in omaggio il nome del suo protagonista, non a caso cita direttamente il film nel testo), Astronaut's Wife, La Cosa o Essi Vivono (da cui arriva l'idea del Governo Ombra), al fine di controllare le vicende dell'alta società umana. Barron suggerisce, addirittura, una sorta di controllo mentale messo in atto da questi mostri per effetto di “un'aura che uccide piccole chiazze del cervello, come una radiazione che avvelena la mente, fino a far evaporare le memorie degli uomini.” Creature che sarebbero addirittura responsabili dell'estinzione dei dinosauri e di altri mondi, che si nutrono di bambini appena nati, ma anche dell'orrore e della disperazione dell'uomo (ricorda un po' certa narrativa di Clive Barker in questo) in una visione pessimista della condizione umana che richiama Thomas Ligotti. Barron, verosimilmente, ha voluto omaggiare il suo collega, predisponendo dei passaggi che sembrano presi a prestito dalla narrativa dell'asso di Detroit, oltre che a far gravitare il tutto su un plot ideale continuo del racconto L'Ultimo Banchetto di Arlecchino. Da quest'ultimo testo infatti arrivano le idee dell'antropologo in contatto con popolazioni indigene intente a effettuare strani rituali risalenti all'alba dei tempi, ma anche l'abusato tema dei sacrifici umani (che coinvolgono parenti delle precedenti donne sacrificate) e soprattutto la presenza di adepti che sembrerebbero umani ma poi mutano sembianze tornando alla loro vera natura che è quella di esseri striscianti alla stregua dei vermi. Chi decide infatti di collaborare con gli "alieni" (a quanto pare la vecchia regola del libero arbitrio regge pure in questa visione orrorifica fantastica), a completamento di un vero e proprio rito di iniziazione, diviene essere ibrido, un po' come quegli angeli/demoni citati da Ligotti nel sopraindicato testo.
Emblematico inoltre il passaggio finale in cui Barron traccia il sistema umano assimilandolo, di fatto, a quello di un acquario in cui guizzano i pesci gestiti e amministrati da esseri superiori. L'uomo non è creatura capace di amministrare il proprio mondo, sono altri a farlo in sua vece. “E realizzò, nel suo cupo momento di chiarezza, come i fili da marionetta delle sue spalle andassero estendendosi fino a brillare in pugno alla sua comatosa moglie; come ogni passo da lui fatto fosse l'andirivieni di una danza solo da lei condotta con piccoli strattoni su quei fili; come il proprio futuro gli riservasse altre di quelle danze. Il suo cosiddetto futuro, il suo cosiddetto passato... Spettacoli di marionette. Mia cara, chi è che tira i tuoi fili?” Vedete dunque come torna la figura metaforica della "marionetta" tanto cara a Ligotti, è per via di questo aspetto che alcuni hanno trovato delle analogie tra i due autori. Analogie non certo stilistiche. Laddovè Ligotti è poetico e aulico, l'altro è immediato e pulpeggiante.

Questo il contenuto del romanzo che ha una struttura non perfettamente riuscita e soprattutto diluita all'eccesso. Laird Barron, assai più di un autore come Stephen King (il che è tutto dire), si perde in caratterizzazioni eccessive, sotto trame da spy story che coinvolgono la CIA, la Nasa e gli agenti federali (manco si fosse in X-Files), teorie cospirazionistiche (stile organizzazioni segrete e governi ombra), con un'alternanza di capitoli che vanno dal passato al presente per sottolineare l'incapacità del protagonista di ricordare i fatti traumatici che lo hanno colpito. L'amnesia viene vista come una difesa, più o meno razionale, al cospetto dell'irrazionale. Dimenticare per non impazzire, cancellare per non vedere sgretolare le certezze impartite dall'educazione umana e trovarsi così perduti in un oceano di cui si ignorava l'esistenza. “L'amnesia è un meccanismo di autoconservazione. La coscienza valuta la minaccia posta da certi affronti alla sanità mentale, e decide di abbassare le luci e appendere il cartello con scritto FUORI SERVIZIO.”

Il risultato dello schema narrativo scelto da Barron, tuttavia, sortisce la controindicazione di un ritmo molto rallentato con “ingessamento” della storia, che ha dei momenti di una noia che definir mortale è dir poco. Una partenza subito in quarta marcia, con un prologo dal retrogusto fiabesco caratterizzato da una scelta linguistica che modernizza (non so quanto sia un bene) il taglio pulp di Robert Ervin Howard, si pensi alla serie Conan o Solomon Kane, catturando il lettore per effetto di sagaci venature erotiche, gran gusto per il weird (penso alle descrizioni dei tempi pagani o dei castelli dal sapore gotico) e lo splatter. Si tratta però di un fuoco di paglia su cui, in seguito, si innesca una trama gialla che sembra finire dopo un capitolo, quindi un'estenuante caratterizzazione dei personaggi con un background da spy story e con un protagonista smemorato che non sa neppure chi sia davvero sua moglie e perché lo abbia abbordato ai tempi dell'Università. Quest'ultima, esponente di una famiglia alquanto misteriosa e con conoscenze influenti, è un'antropologa che vaga per il mondo alla ricerca di conferme circa la teoria della terra cava, fervente sostenitrice dell'esistenza del c.d. piccolo popolo e ossessionata dalla ricerca di informazioni che possano permetterle di ricostruire il proprio albero genealogico. Per darvi un'idea pensate alla coppia costituita da Schwarzenegger e Jamie Lee Curtis in True Lies, con la seconda che ha una vita di facciata utile a coprire la vera vita, quella segreta, che sta invece alla base dei suoi lunghi viaggi e che è completamente ignorata dal marito. Prima di arrivare agli ultimi due capitoli sembra di leggere un romanzo di un giallista prestato alla narrativa fantastica, un qualcuno che non riesce a staccare dal suo convenzionale campo d'azione. Per fortuna arrivano gli ultimi capitoli a risollevare, di molto, il romanzo. Barron riesce a suscitare angoscia, sia grazie a pennellate atte a stimolare la paura del buio e degli spazi chiusi, sia toccando corde di un orrore esistenziale legato ai rapporti con le persone più care di un'intera vita. La famosa ansia che fa tremare i genitori pensando che possa succedere qualcosa di brutto ai figli. C'è persino una strizzatina d'occhio alla parabola biblica di Abramo e Isacco, con il nano malefico che chiede al protagonista di sacrificare la vita del nascituro nipotino per aver salva la propria ed estenderla fino al crepuscolo del mondo, mostrandogli quella che sarà la Terra dell'apocalisse finale (visione ballardiana niente male, stile la trilogia in cui è inserito Il Mondo Sommerso). Non è un caso che Barron abbia deciso di chiudere così il romanzo, dato che, a ragione (lo dico da sempre pure io), ha sostenuto nelle interviste che “la Bibbia sia il più grande libro di storie horror che sia mai stato scritto.

Per chiudere mi sento di dover promuovere a metà questo The Croning, che è costruito su un plot buono, pur se molto derivativo, ma paga dazio per un'assurda mania di caratterizzazione che sembra aver rapito Laird Barron durante la stesura. Un atteggiamento che, a mio avviso, non sarebbe per nulla piaciuto a quel Howard Philips Lovecraft a cui viene accostato il nativo della splendida Alaska. Un'altra cosa che mi porta a promuovere a metà il lavoro è il linguaggio narrativo adottato. Barron non è molto equilibrato in questo. Parte in un modo pulpeggiante, prosegue in uno stile da giallo poi diviene classicheggiante per ritornare a un lessico sporco e volgarizzato da letteratura mainstreaming. Per rispondere a una domanda che mi è stata fatta, La Cerimonia è un libro da esaltare? “Ni”.

Laird Barron.


"L'uomo della luna disse: Ragazzo mio, è una bella sensazione. E un nero sciame d'insetti si riversò dalla sua bocca e si disperse in un gelido vuoto senza limiti."