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sabato 27 maggio 2017

Recensione Narrativa: ALRAUNE. La Storia di un Essere Vivente (Aka La Mandragora) di Hanns Heinz Ewers.


Autore: Hanns Heinz Ewers.
Anno: 1911.
Genere: Fantastico/Drammatico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2017.
Pagine: 250.
Prezzo: 18,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Il trasgressivo Ewers nell'opera più coraggiosa ed estrema della sua produzione e, anche per questo, la più famosa e di successo. Scrittore di cui abbiam già avuto modo di parlare, in occasione della recensione Il Ragno e Altri Racconti del Terrore, giova qua ricordarne le abitudine libertine ed estremamente aperte. Viaggiatore instancabile, dapprima rivoluzionario poi in linea con le idee nazionalsocialiste al punto da diventare un primario rappresentante del partito di Hitler per poi essere oscurato dallo stesso in quanto reputato completamente eretico e osceno, sia come scrittore sia nella vita privata. Bisessuale, frequentatore, anche se non accertato in modo pieno, di movimenti di ordine magico/esoterico praticanti la magia sessuale di crowleyana memoria (non nascosta l'amicizia stretta col mago inglese), definito, un po' forzatamente, “narratore pornografico“, Ewers è stato un autore coraggioso e sperimentale, che non si tirava certo indietro e che ha saputo scalare, al di là delle simpatie politiche, i gradini dello spettacolo tedesco per poi cadere giù, alla stessa maniera della protagonista del suo celebre romanzo (qua oggetto di esame), divenendo lui stesso vittima di quei meccanismi magici che sottendono le trame dei suoi migliori testi senza emergere in modo troppo esplicito in superficie. Una sorta di Dorian Gray della realtà, peraltro opera molto apprezzata da Ewers che ha trasformato Oscar Wilde quale personaggio attivo di un suo celebre racconto (Il Ghigno).
Alraune è, dopo L'Apprendista Stregone, il secondo romanzo della trilogia dell'avventuriero Frank Braun, personaggio ritornante, per alcuni proiezione letteraria dell'autore. Ewers ambienta la storia in Germania e concepisce il soggetto lavorando su più versanti. In prima battuta parte dalla leggenda medievale legata alla figura della mandragola (scritta con la “l“), alraune in lingua tedesca e mandragora in latino. Pianta particolare con effetti narcotizzanti, secondo alcuni afrodisiaci e addirittura occulti (talismano contro la stregoneria), ma che per quel che ci riguarda è da considerarsi sotto un'altra ottica. Ewers si interessa alla leggenda secondo la quale, nel medioevo, alcuni esoteristi solevano recarsi sotto i patiboli per scavare, alla mezzanotte, sotto il punto in cui la mattina erano state eseguite le esecuzioni capitali. In quel punto infatti l'ultimo seme schizzato fuori dal pene del condannato, nel momento della frattura dell'osso del collo, e filtrato nella terra genarava una radice dalla forma antropomorfa e dall'immediato sviluppo, la c.d. radice vivente in grado di urlare una volta portata alla luce al punto da far perdere i sensi ai passanti. Una sorta di amuleto in grado di portare ogni forma di fortuna al suo detentore, ma anche da condurlo in un più profondo egoismo e una più profonda onnipotenza e da determinare, alla stregua di un costoso corrispettivo da versare, la sfortuna dei parenti e delle persone più vicine negli affetti al detentore. Parte da qui l'ideazione del romanzo, con un oggetto ornamentale di legno, che simboleggia appunto la madragola antropomorfa, che si stacca da un muro durante una festa in casa e colpisce in testa un ospite. L'evento, tra l'ilarità generale, porta uno degli invitati a prendere la parola per raccontare la leggenda della mandragola. Il racconto non viene preso molto sul serio, se non dal citato Braun. Studente scapestrato, pecora nera di una famiglia accademica, il giovane viene catturato dal racconto e decide così di solleticare la vanità dello zio, un dotto professore che conduce esperimenti su animali, per realizzare una vera e propria mandragola dell'epoca moderna. Il punto di forza del romanzo, a mio avviso, sta nel tentativo, pienamente centrato da Ewers, di superare la leggenda predisponendo uno sviluppo realistico, piuttosto che fantastico, modernizzando l'antica leggenda grazie al filtro della scienza. Si verifica così una sorta di mescolamento tra occultismo e scienza (all'epoca avveneristica, oggi realtà consolidata), introducendo la pratica dell'inseminazione artificiale. Così il duo, frequentando locali ambigui a luci rosse, sceglie una prostituta avvenente, tale non tanto per il mestiere scelto ma per vocazione (la bocca di rosa di turno, per intenderci chiamando in causa la storica canzone di De André) così che possa degnamente rappresentare la terra (prostituta per vocazione per concedersi con fertilità e costrutto a qualunque seme), e la convince a collaborare dietro squallida proposta di denaro con l'obbligo di rinunciare a ogni diritto sul nascituro. Ewers in questi passaggi è molto crudo, per l'epoca senz'altro volgare e disinibito. Passa da dialoghi e passaggi che sfiorano la poesia ad altri che sembran usciti da un gretto giornalino pulp della più infima specie. La madre della futura mandragora è una vera e propria ninfomane che va con giovani, vecchi, uomini e donne per il gusto della trasgressione e il piacere del sesso, non tanto per denaro, che comunque non disdegna dovendo pur mangiare, ma per passione. La donna, provocante e ben tratteggiata da Ewers, si rivolge agli interlocutori in modo sboccato ed esplicito. Catturata dall'idea di esser stata scelta come futura madre di un principe ingiustamente incarcerato e intenzionato a giocare un brutto tiro agli eredi con la nascita di un figlio all'insaputa di tutti, viene rinchiusa in una stanza e poi arrestata con una falsa accusa (così da tenerla sotto controllo) fino alla nascita della figlia che porta in grembo e che viene concepita col seme rilasciato, anziché dal principe che le era stato promesso, da un condannato a morte proprio come nella tradizione medievale. Credo che per l'epoca l'escamotage studiato da Ewers fosse da considerarsi fantastascientifico, letto ai giorni d'oggi, dove si parla anche di fecondazione eterologa e donazioni di ovuli, risulta ampiamente superato dalla realtà. 


La copertina dell'adattamento cinematografico
del 1918 che sintetizza in modo chiaro
la natura della storia.

Il romanzo prosegue con la storia di questa nuova figura narrativa che, pur avendo punti di contatto, è bene precisare, non integra il caso dell'homunculus di alchemica memoria (essendo stata procreata per una via poi non troppo distante da quella naturale) né quello del prodotto realizzato dal mad doctor di turno, sulla scia mostro di Frankenstein, per intenderci. Ewers tuttavia sta sul confine tra le due figure accennate e lo fa, a mio modo di vedere, per rendere il più realistico possibile il narrato, obiettivo che centra in pieno. Ne deriva così un romanzo che è difficile da definire fantastico ma che, tuttavia, ha un'innegabile atmosfera occulta che grava di continuo sui fatti, ammiccando, suggerendo, senza però mai dare una chiave di lettura univoca se non a livello subliminale. La piccola, che viene allevata dal suo creatore mentre la madre muore al parto, divenuta adulta, si trasforma in croce e delizia, portatrice di fortune per il suo ideatore (proprio come nella tradizione leggendaria) ma al contempo causa di morte per tutti coloro che le girano attorno e che, a diverso titolo, ne finiscono preda mentale o, più spesso, sessuale. Una ragazza attraente, dai tratti androgini, che le piace vestirsi da maschio e che sa conquistare ogni uomo, e che nella sua apparente innocenza e ingenuità si dimostra di un egoismo sconfinato. Si diverte a rubare gli uomini alle altre donne, così, per il gusto narcisistico di farlo, conducendoli alla rovina (molto bello l'aneddoto dell'autista che costringe a correre sempre più forte in auto o dell'amico di infanzia a cui fa prendere una polmonite come prova d'amore) ma passando sempre da innocente. Inevitabile il collegamento alla successiva e classica figura di Demian di David Seltzer, protagonista nel romanzo Omen (1975), che era un homunculus a tutti gli effetti (ovvero una creatura dal corpo umano, ma generata da uno sciacallo e privo di anima, al punto da incarnare la figura dell'anticristo), da cui mutua quell'atteggiamento da predestinata, che non fa niente di veramente grave, eppure conduce alla morte e alla disgrazia tutti coloro che le girano intorno, rivelandosi immune da malattie infettive, da condurre la madre alla morte al parto e da trasudare un carisma invalidante per tutti coloro che si trovano al suo cospetto, ivi compresi gli animali che cercano di evitarla (si ricordi la scena dello zoo nel romanzo di Seltzer). Laddove però Seltzer è esplicito, Ewers resta sempre con un saldo piede nella realtà, tenendo sempre celato l'occulto ivi compreso nell'epilogo. Sono i suoi stessi protagonisti, compresi gli informati sui fatti, a chiedersi se quello che succede sia legato all'antica leggenda o all'interferenza di forze occulte o piuttosto sia solo frutto di suggestioni e del caso (ben incarnato dal fatto che la madre della protagonista si firma, all'insaputa di chi l'ha scelta, come AL RAUNE ovvero Mandragora), soluzione quest'ultima che viene suggerita proprio per portare il lettore a pensare all'esatto contrario. Agatha Christie soleva dire che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova, qua invece possiamo dire che gli indizi si sprecano al punto che fanno una trattato, più che un romanzo, esoterico.
Ma chi è Alraune? Si tratta di un personaggio di spiccatissimo valore sessuale, una vera e propria femme fatale, che si riallaccia alla protagonista de Il Grande Dio Pan (1890) di Machen da cui mutua un concepimento benedetto (o maledetto), se vogliamo, dal signore del tenebre, e un atteggiamento libertino che la porta a suscitare scandalo e a conquistare uomini su uomini. Curioso notare come, in ogni rapporto sessuale che la ragazza intrattiene, si verifichi una sorta di effetto mantide religiosa, sviluppo caro all'autore (si ricordi Il Ragno), in un'ottica sadomasochistica dove il master è sempre la donna e lo slave il compagno di turno destinato a soccombere perché inibito a ogni resistenza di ordine mentale, completamente inebriato dalla carne e stordito dal sangue che assume valenza alcolica (si parla di vino con accezione, probabilmente, sacrilega). Negli ultimi capitoli Ewers libera alla massima potenza la sua libido, portando la protagonista a praticare delle incisioni sul petto dell'amato per suggere il sangue che ne fuoriesce (riprenderà la cosa nel terzo romanzo della saga Braun intitolato Vampiro). Il sangue, appunto, sostanza centrale nelle pratiche magico/alchemiche (Ewers anticipa Crowley e il suo Moonchild) che quan corre in modo copioso, con Alraune che tende sempre a mordere, nei suoi baci, i fortunati (sarebbe il caso di dire sventurati che ne restan ammaliati), in una logica da cannibalismo accennato che richiama quella mantide religiosa che abbiam, poco sopra, accennato solita divorare il compagno di turno all'apice dell'amplesso (morte da cui nasce la vita, perfetta sintesi della nascita della mandragola della leggenda).
Questa per sommi capi la tematica del romanzo che scorre via lineare, senza particolari cripticismi tipici di certa narrativa fantastica (di cui Ewers fa parte), e dunque se vogliamo a suo modo commerciale, pur scadendo spesso di ritmo con digressioni di cui, a mio avviso, si sarebbe potuto fare a meno, in cui Ewers mette alla berlina la borghesia tedesca e il movimento accademico. Trasgressivo fino all'eccesso, per l'epoca, orientato a scioccare il pubblico sul piano erotico piuttosto che orrorifico, con una vera e propria lode alla libertà sessuale vissuta in chiave sadomasochista dove la donna diviene la dea della perdizione che porta l'uomo a perdere il senno e a ragionare con un qualcosa che sta più in basso dell'ordinaria cabina di regia. Il finale, un po' accomodante, resta forse lievemente posticcio (non è ben spiegato) e porta la protagonista a decadere dal suo trono diabolico (rappresentato dai tetti dove cammina sonnambula, un po' come faceva il suo creatore lanciandosi nel mondo degli affari confidando ciecamente nelle guide sataniche dallo stesso scatenate) proprio per essersi fatta conquistare dall'amore e dunque redenta al contrario.

Quanto alla versione da me letta, c'è da lodare la Hypnos che ha predisposto, per l'occasione, un volume molto curato (molto più della collana Biblioteca dell'Immaginario) sia nella sua portata grafica sia nei contenuti. Oltre al testo, curato (alla grande) da Alessandro Frambini, fanno da cornice un'interessante introduzione di Fambrini stesso e una notevole postfazione dell'omnipresente Walter Catalano, che ci parla di Ewers e della sua notevole influenza sull'espressionismo tedesco (precursore, in veste di sceneggiatore, nel 1919 con Lo Studente di Praga), ma anche dei legami tra Ewers e Crowley e delle versioni cinematografiche, comprese le apocrife, de Alraune ovvero La Mandragora.
A mio avviso un po' sopravvalutato, lo definirei un romanzo erotico dai tratti drammatici con un'atmosfera fantastica che funge da cornice ma che non diviene mai preponderante. Da avere in biblioteca, anche per cultura personale, per tutti gli studiosi del genere fantastico essendo forse il romanzo centrale (di certo quello di maggior successo, addiruttura superiore alle opere di Meyrink) di tutta la produzione fantastica tedesca del primo novecento. Complimenti ancora alla Hypnos e a Vaccaro, preziosissimi nella divulgazione della narrativa fantastica con la "F" maiuscola.


HANNS H. EWERS

"Le idee viaggiano nell'aria come il polline dei fiori , vanno vorticando finché non si posano nella mente di un uomo. Spesso si atrofizzano, inaridiscono, muoiono... Poche volte trovano un terreno fertile. La mia mente è sempre stata un campo ben concimato per tutte le pazzie e le fantasie più bizzarre."

giovedì 18 maggio 2017

Recensioni Narrativa: L'ALTRA PARTE di Alfred Kubin.



Autore: Alfred Kubin.
Titolo Originale: Die Andere Seite. Ein Phantastiker Roman.
Anno: 1909.
Genere: Narrativa Fantastica / Distopica.
Editore: Adelphi Edizioni, 2012.
Pagine: 296.
Prezzo: 12,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Classico della narrativa fantastica non troppo reclamizzato nei volumi finalizzati a orientare il pubblico alla riscoperta dei volumi che costituiscono la storia del genere. Solo un piccolo trafiletto nella Guida alla Letteratura Horror dell'Odoya, ben diverso trattamento ne I Maestri della Letteratura Fantastica della Edipem dove riceve la massima attenzione dei curatori. Il motivo di questo interesse non proporzionale al valore del testo è probabilmente attribuibile al profilo dell'autore Alfred Kubin. Artista a tutto tondo, nato a Leitmeritz nel nord dell'attuale Repubblica Ceka, cresciuto artisticamente a Monaco di Baviera, conosciuto quale uno dei massimi esponenti  dell'arte pittorica macabra del primo novecento. Specializzato nell'acquarello, nella pittura a olio e nella litografia, ha realizzato le illustrazioni dei volumi di E.A.Poe e di E.T.A. Hoffmann oltre che dei racconti inseriti nella rivista tedesca a scadenza periodica Der Orchiden Garden. Affascinato dalla morte e dal regno delle tenebre anche per effetto di una serie di morti premature che gli han portato via, in tenera età, molti dei suoi affetti personali (perde la madre a dieci anni, poi la fidanzata), cade in una profonda crisi inventiva allo scoccare dei trent'anni, proprio in corrispondenza dell'ennesimo lutto in famiglia. E' infatti la morte del padre a spingere il pittore a trasformarsi in romanziere, in quella che sarà la sua unica incursione nella letteratura lunga. Così nel giro di cinque mesi stende il suo primo romanzo, corredandolo con cinquantadue illustrazioni. Die Andere Seite, tradotto in Italia come L'Altra Parte, è dunque l'opera di debutto di Kubin in ambito narrativo, data alle stampe nel 1909.
Si tratta di un romanzo distopico a tutti gli effetti, caratterizzato da una spiccatissima verve satirico/comica che diviene, via via, sempre più tragica e malata, perdendo la linearità a beneficio della schizofrenia. Kubin prende The Coming Race di Bulwer Lytton, ne sosituisce il mondo sotterraneo con uno completamente chiuso in una muraglia invalicabile, e rende farsesco il tutto con uno stile allucinato e allucinante in cui trovano spazio passaggi che solo un pittore surrealista del fantastico avrebbe potuto concepire. Un romanzo che, per certe tematiche, anticipa addirittura 1984 di George Orwell in una chiave però più occulta (nel senso esoterico del termine, piuttosto che politico), orientata sui poteri nascosti ("nessuno mi toglierà dalla testa che qui esista una specie di associazione segreta, una sorta di massoneria"), sull'influenza mentale dettata da un contesto opprimente che succhia vitalità e porta i soggetti a vivere come in una sorta di sbiadita e opaca caverna di platonica memoria, dove tutti sono contenti, a loro modo, perché rifiutano l'esterno.

La storia ha inizio con la chiamata, tramite l'impiego di un enigmatico emissario, di un vecchio compagno di scuola che si mette in contatto col protagonista per invitarlo nel regno che lo stesso ha costruito in oriente, tra Mongolia e Uzbekistan, grazie a una cospicua somma ereditata da alcuni nobili cinesi. Quest'ultimo, una sorta di proiezione di Kubin (come lui fa l'illustratore), decide di accettare l'invito e di trasferirsi con la moglie in questo regno che viene proposto come un vero e proprio Regno del Sogno, dove solo personaggi deliberatamente scelti dal sovrano possono essere ammessi. Si parla di rifugio per gli insoddisfatti della civiltà moderna, un luogo in cui si cerca di sviluppare un approccio spirituale teso a tendere verso il profondo dove tutto è impostato su una vita il più possibile spiritualizzata. L'apparenza di oasi della felicità e di contesto indipendente capace di proporsi quale alternativa al nuovo ordine sociale (retto dal materialismo) è però un qualcosa di effimero. Patera, questo il nome del misterioso creatore (caratterizzato alla stregua di una divinità dotata di poteri occulti), ha plasmato infatti un regno di reietti vasto 3.000 chilometri quadrati e in cui vivono 65.000 abitanti scelti in base alle loro inclinazioni e alle loro caratteristiche tali da renderli, a loro modo, unici. Un micro/macrocosmo che rifiuta il progresso, che vive nel culto del passato e del senso artistico al punto da contornarsi di case, oggetti e opere acquistate in Europa ed erette nel nuovo regno al posto, a esempio, dei prodotti di una propria attività artistico/edilizia. Il nuovo è in realtà antico, una nostalgica riproduzione dei tempi d'oro che furono. Viene così a delinearsi un contesto che riproduce, se vogliamo, in ampia scala la caratterizzazione psicologica del protagonista di Controcorrente (1884) di Huysmans, con la differenza che l'isolamento personale qua diventa collettivo senza però riuscire a sfuggire all'inevitabile collasso finale. Interessante anche il lavoro che Patera va a operare sui cittadini del proprio regno i quali, a loro modo, diventano assimilabili agli adepti inebetiti di una setta governata da uno stregone carismatico che annulla le volontà altrui per poterne manipolare i comportamenti. Così vediamo come venga bandita ogni attività di relazione con il mondo che si trova al di là delle mura e come venga impedito ai cittadini del regno di recarsi al di fuori dei confini in cui viene loro concesso di vivere. La giustificazione di questa regola, non a caso, è identica a quella manifestata in certi contesti settari e viene giustificata come via necessaria per preservare puro il modo e lo stile di vita dell'uomo del sogno dagli attacchi psicologici operati dal corrotto mondo esterno. Dunque un ribaltamento della situazione, rispetto all'effettiva realtà, operato con chiara matrice manipolatoria così da delineare i tratti di un vero e proprio sistema totalitario che sembra anticipare i non ancora sorti stati comunisti (non a caso esiste in questo regno un'occulta politica equitativa governata da regole assurde che portano costantemente  a equilibrare i patrimoni economici dei vari cittadini) e che, come questi, andrà incontro a una spirale di follia e di sangue che condurrà al crollo definitivo del "sogno".
Il sogno però è fin da subito portatore di indizi che lasciano intuirne la vera natura. Gli occhi sognanti dei cittadini eletti si trovano presto a misurarsi con la truffa di un mondo in cui non sorge mai il sole, costantemente trattenuto dalle nubi e dalle nebbie, e dove il grigiore e l'assenza dei colori vivaci è regola costante di vita. Il sogno diviene così incubo, ma un incubo propinato in modo tale da perdere i tratti negativi e divenire normalità anche perché non comparabile con realtà diverse, censurate in modo totale e addirittura esorcizzate quali portatrici del vero male. Il consenso iniziale offerto in piena libertà si traduce così in prigionia inconscia e inconsapevole da cui non è consentito liberarsi se non andando incontro alla pazzia e alla morte, sorte che attirerà nelle proprie fauci molti dei personaggi del romanzo.

Lo stile è brioso, a tratti divertente, ma solo all'inizio. Nella prima parte del romanzo, un po' come Bulwer Lytton in The Coming Race, Kubin presenta il regno, i suoi abitanti, le attività e gli intrattenimenti che vi vengon tenuti, dimostrando un'ironia che poi andrà a latitare all'epilogo. Si assiste così a una sorta di testo fantasociologico, ma mentre nel testo del collega inglese non si cambia mai registro, qua la storia prende la via del delirio, si appesantisce per abbandonarsi, come una barca in balia delle onde di un oceano in tempesta, ai toni cupissimi, direi apocalittici e olocaustici, dalla metà del romanzo fino alla sua follissima parte finale dove irrompe l'orrore allo stato puro. Un orrore da cui traspira l'olezzo della putrefazione, il tanfo del sangue marcio e una psicosi visiva e comportamentale che Kubin, sacrificando la linearità del testo, trasmette in modo assai riuscito con un'impronta altamente visionaria e onirica che sembra suggerire un'ispirazione donata dall'assunzione di sostanze psicotrope. Un testo dunque che non è per tutti, anche perché la trama diviene un'allegoria da alcuni associata alla crisi dell'Impero Austro Ungarico (di cui Kubin era cittadino) prossimo a sfaldarsi, da altri addirittura viene vista come profezia della catastrofe che, di lì a poco, avrebbe colpito l'Europa flagellata dalle guerre. Vediamo così il Regno del Sogno divenire preda di una sorta di maledizione, dove ha un ruolo attivo un magnate americano che decide di far guerra al sovrano del regno dando vita ai primi movimenti politici, e per effetto della stessa disgregarsi alla stregua di una carcassa che imputridisce sotto l'effetto dei vermi che si generano direttamente dal suo interno e ne consumano la carne fino a emergere in superficie. Kubin utilizza in tal senso la fauna che si trova all'interno del regno, con tigri, serpenti, avvoltoi, topi e cavalli impazziti che incarnano il ruolo degli agenti di morte azionati per divorare l'apparato che costituisce l'ideale organismo del "mostro" civile costituito dal Regno del Sogno e che è stato intaccato dalla presa di coscienza della sua vera natura (si intuisce una certa relazione tra l'americano e l'angelo ribelle, tanto che viene utilizzato il nome di Lucifero con accezione quasi positiva). Una disgregazione che diviene anche mentale, il marciume e l'abbandono delle vie e delle case verso il degrado si rispecchia nei comportamenti dei cittadini che diventano assassini, stupratori, prostitute e ladri senza che nessuno abbia la forza di invertire il trend. Il sovrano del regno, infatti, resta passivo, a contemplare il crollo dello stesso, alla stregua di un Dio disinteressato alle sorti del proprio mondo, ormai troppo stanco per intervenire a ricostituire l'equilibrio. Kubin suggerisce altresì una duplice natura del Dio, come un essere al contempo malvagio e al contempo positivo. Il Demiurgo è un ibrido conclude Kubin, "il vero inferno consiste nel fatto che questo doppio gioco contraddittorio si prolunga in noi... Il bianco e il nero non sono che l'espressione di una lotta", in una visione che lo associa alla teoria cardinale di Empedocle e in cui il tutto si riduce in un unicum omnicomprensivo.
Quando alla fine arriveranno gli eserciti della società civilizzata, curiosamente i russi (cosa che letta anni dopo sa di beffa ironico-satirica, vista la via che poi prenderà la Russia circa cinque anni dopo la stesura del testo), per liberare i cittadini dalla folle egemonia totalitaria di Patera, resteranno solo otto abitanti: il magnate americano, il protagonista e sei ebrei.

Un testo allegorico e altamente simbolico (non si contano questi riferimenti, pressoché continui a partire dalla torre con l'orologio in cui tutti i cittadini si trovano costretti a recarsi per rendere omaggio a Dio), diviso in due parti nette, non di facile lettura e non adatto a un lettore medio. Molti i momenti in cui emerge l'estro visionario dell'autore. In particolare c'è una scena in un pozzo con un cavallo bianco cieco che galoppa contro lo spaurito protagonista. Bello poi un sogno dello stesso con un tipo dotato di "due file verticali di capezzoli" diciotto in tutto, che utilizza per suonare pezzi come se costituiserro parte integrante di una fisarmonica. Pennellate oniriche degne, in epoca moderna, di un solo scrittore: Clive Barker.

Il testo ha ispirato il regista Johannes Schaaf che, nel 1973, l'ha utilizzato per dar vita al misconosciuto film Traumstadt.

Da avere in biblioteca se siete studiosi della letteratura fantastica o se amate opere non convenzionali, assolutamente non suggerito a chi apprezzi testi lineari o ricerchi opere di mero intrattenimento. 

Alfred Kubin.

"E' raro che un artista sia un individuo veramente malvagio: qualche meschinità di quando in quando, e tutto si ferma lì. Le nostre sensazioni non ci lasciano tempo per bricconate in grande stile. Mettiamo l'anima allo scoperto nei nostri lavori, e così tutti possono vedere chiaramente che razza di mascalzone un artista sarebbe potuto diventare in certe circostanze. L'arte è una valvola di sicurezza."

lunedì 8 maggio 2017

Recensioni Narrativa: IL VILLAGGIO NERO di Stefan Grabinski




Autore: Stefan Grabinski.
Anno: 1919-24.
Genere: Antologia Horror.
Editore: Edizioni Hypnos, 2012.
Pagine: 290.
Prezzo: 21,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Grande riscoperta firmata Hypnos che nel 2011, probabilmente a caccia di autori inediti da pubblicare in Italia, incappa in un'edizione inglese intitolata The Dark Domain, ne prende due storie, le traduce dall'inglese e le pubblica sulla propria rivista in vista di un progetto a più ampio raggio (pubblicato l'anno seguente). Dietro al volume, che attira subito le attenzioni per esser associato a un autore definito dalla critica specializzata dell'epoca (tra cui l'italiano Enrico Damiani) il Poe Polacco, c'è il misconosciuto Stefan GrabinskiL'occasione si fa dunque propizia per presentare al pubblico di appassionati italiani una novità assoluta, un autore scandalosamente ignorato dalla nostra editoria e non solo da questa. Dal 1928, quando furono pubblicati in Italia due suoi racconti su La Stampa di Torino (i primi in assoluto a esser esportati all'estero nell'intera produzione del polacco), nessun testo dell'autore è mai apparso in Italia. Non solo, scarsamente tradotto all'estero (un solo volume in inglese), è stato nel corso degli anni ignorato del tutto da volumi come I Grandi Maestri della Letteratura Fantastica (Edipem Edizioni, traduzione francese) o Il Dizionario dell'Orrore della Newton curato da Pilo, persino non menzionato al 9 maggio del 2017 sulle pagine italiane di wikipedia. L'indovinatissima scelta di Andrea Vaccaro e di Andrea Bonazzi pone così termine a un centenario silenzio privo di motivazioni e ingiusto sia verso l'autore che verso gli appassionati del genere (privati dell'estro di un maestro che meritava palcoscenici ben più importanti di quelli a cui è stato relegato). Una panoramica, a mio avviso, ancora da completare, ma comunque già meritevole di lode nel panorama editoriale legato alla divulgazione di testi fantastici e che ha addirittura portato altri editori, Stampa Alternativa, a proporre "nuovi" volumi legati a questo scrittore, con l'uscita nel 2015 de Il Demone del Moto: Racconti Fantaferroviari. Un improvviso interesse che non è passato inosservato al recente saggio Guida alla Letteratura Horror (Odoya, 2014) di Gian Filippo Pizzo, che ha tributato (addirittura) una scheda a Grabinski passato da esser ignorato a esser catalogato come uno dei maestri assoluti del genere. Un cambio di orientamento imputabile, senza ombra di dubbio, alla riscoperta operata dalla Hypnos che ha pertanto reso giustizia a un piccolo grande scrittore. Ci piace allora immaginare un Grabinski che, per una volta tanto, sorriderà compiaciuto tra le nubi che coprono il regno dei cieli e che possono esser squarciate dallo sguardo dei sensibili proprio come il protagonista di uno dei suoi celebri racconti. Una piccola grande soddisfazione, penso di poter dire, per una realtà non certo faraonica come quella della casa milanese facente capo ad Andrea Vaccaro.

Un cenno alla biografia di Gabrinski, indispensabile per comprendere la portata dei racconti. Autore di lingua polacca, nato a Kaminonka Strumilowa nel 1887, città attualmente confinata nello stato Ucraino (Kamianka-Buzka) ma all'epoca facente parte dell'impero Austro-Ungarico, di origini borghesi. Contrae fin da giovanissimo una grave forma di tubercolosi ossea che lo accompagnerà per tutta la vita, portandolo alla morte in età non troppo avanzata (non ancora cinquantenne). Carattere schivo, soprattutto in età avanzata a seguito del fallimento matrimoniale con una moglie che lo abbandona dopo quattro anni di convivenza (aspetto che si riverbererà nella produzione narrativa con figure di donne che tolgono letteralmente la giovinezza e la spensieratezza ai loro amanti), si interessa soprattutto di filosofia e letteratura, vivendo spesso lontano dalla confusione e poco stimolato dai confronti con i colleghi di penna. Viene in particolare attratto dalle teorie di Henri Bergosn che cerca di rimodulare interessandosi anche di psicanalisi, parapsicologia e occultismo. Come molti colleghi legati alla letteratura fantastica anche Gabrinski vive in funzione di un'altra vita, la vita quella vera, la reale (che è in verità quella che non si vede, la spiriturale), quella in grado di sopravvivere alla decadenza del corpo. Lo si capisce dai suoi studi, ma soprattutto dalla sua narrativa, continuamente proiettata al di là del materialismo con uno sdoppiamento del piano esistenziale che si rispecchia anche, spesso e volentieri, nello sdoppiamento materiale dei vari protagonisti, come se l'anima degli stessi si distaccasse dal corpo e, incosciente di questo, vivesse di vita propria (una situazione, se vogliamo, che ricorda un po' certe tematiche affrontate dal surrealismo di Gogol).
Si laurea piuttosto giovane in letteratura polacca e a ventitre anni si ritrova, per vivere, a fare il professore nelle scuole secondarie polacche e austriache (per un biennio lavora a Vienna). Debutta in veste di narratore con un'antologia che si autofinanzia e che passa inosservata, peraltro firmata sotto pseduonimo. Devono poi trascorrere nove anni per veder uscire una seconda antologia. Corre l'anno 1918 quando da alle stampe Sulla Collina delle Rose. Scrive molti racconti, forma che sembra prediligere per intessere sottoforma di scrittura creativa le sue paranoie e le sue visioni filosofiche e metafisiche della realtà (vista quale falsa e irreale, totalmente piegata da una ignota e mutevole da una persona all'altra). E' però con le successive quattro antologie che conquista un certo successo in patria, soprattutto con la terza intitolata Demon Ruchu (Il Demone del Movimento) interamente dedicata ai treni e alle stazioni come luoghi in cui si palesa l'orrore in un contrasto tra progresso e tradizione. Un testo in cui la posizione dell'autore si rivela legata, o quanto meno simpatizzante, a un nostalgico conservazionismo come risposta a un (mendace) progresso ritenuto tale solo dal superficiale e apparente approccio capitalistico.
Tenta anche la via del romanzo lungo, con poco meno di una mezza dozzina di testi tutti incentrati sul genere fantastico (da cui non si è mai allontanato nella sua produzione), per non dire horror. Si tratta di opere non tradotte in italiano che, a detta di molti (la mia sensazione è che tuttavia vi sia stata un'opinione poi ricalcata da tutti senza che si sia in realtà letto i testi), sarebbero appesantite da un'atomosfera occulistica e teosofica tipica di certi scrittori del blocco fantastico inglese. Testi pertanto di gran lunga inferiori rispetto alla narrativa breve, secondo questi critici. Opinione quest'ultima su cui non possiamo esprimerci, non avendo letto i romanzi oggetto di esame, ma che ci pare molto strana alla luce dei racconti letti. Grabinski infatti, leggendo il lotto che va sotto il titolo de Il Villaggio Nero, non scende mai in tematiche o argomenti tipici di certi movimenti esoterici, restando più su un piano psicoanalitico o, in misura minore, squisitamente weird.
Caduto in un oblio ingiustificato, Grabinski, uomo poco avvezzo ai salotti frequentati da intellettuali e ben pensanti, pur gradendo viaggiare, si rinchiude negli ultimi anni in un isolamento tipico di suoi molti personaggi (a partire dallo scrittore, una sorta di suo alterego, protagonista del racconto L'Area) morendo abbandonato da tutti nell'indigenza e in povertà, ma avendo la soddisfazione di aver legato il proprio nome anche ad alcuni drammi teatrali e addirittura a una sceneggiatura di un film tratto dal racconto L'Amante di Szamota da lui stesso adattato, nel 1927, per la regia di Leon Trystan.

Il volume che ci apprestiamo ad analizzare è una libera selezione operata dai curatori, che hanno pescato da sei diversi testi offrendo al pubblico un lotto di dodici racconti compresi tra le trenta e le dieci pagine circa, scritti tra il 1919 e il 1924.
Il genere è squisitamente del terrore, più che fantastico. Tutti i testi hanno risvolti perturbanti, come direbbe Freud. Anzi, Grabinski si diletta nell'inserire in molte opere più di un elemento perturbante dotando così i racconti di più sfumature sospese tra il surreale, la follia vera e propria e il paranormale (di rado però di natura esoterica, piuttosto direi pseudoscientifica o metafisico/filosofica).
Lo stile è variabile. Ci sono racconti scritti in prima persona e altri in terza. Ciò che non cambia è la cura, estremamente parossistica, con un modo di esporre i fatti inizialmente lento e poi via via sempre più seducente (con descrizioni ai limiti del poetico e mai volgari, pur rischiando molto su questo versante) al punto da non distogliere l'attenzione del lettore e nel coinvolgerlo nella lettura fino alle sempre terribili ed efficaci rivelazioni finali. Grabinski è molto abile nel chiudere in modo adeguato le varie storie, che difficilmente si scompongono e, anzi, hanno sempre epiloghi all'altezza della situazione al punto da salvare, in alcuni casi, anche il resto del testo.
Il libro, per quanto riguarda la cura dell'editore, è buono. I refusi sono pochissimi e ininfluenti, manca magari una copertina di richiamo (ma questo poco importa) e una saggistca più approfondita (comunque interessante la critica di China Mieville). L'impaginazione è sufficiente, la grandezza dei caratteri medio grande così da non rischiare di accecare chi legge.

Il volume pubblicato da 
STAMPA ALTERNATIVA
nel 2015 in cui sono compresi
i primi due testi dell'antologia Hypnos. 

Passiamo ora all'analisi nello specifico dei contenuti. Si notano molti aspetti ritornanti nella narrativa di Grabinski, specie nei racconti raccolti dalla Hypnos. La prima cosa che salta agli occhi è il tipo di approccio che l'autore polacco ha con il fantastico e il terrore. A differenza di un autore come Lovecraft, che parla di mostri provenienti dallo spazio o da altre dimensioni, ovvero di Machen, che parla di un velo che separa la vera realtà da quella fittizia e che invece l'uomo si ostina a considerare come quella reale, Grabinski introduce l'elemento paranormale, con spirito filosofico e persino metafisico, facendolo generare dall'uomo stesso. L'orrore nasce dall'interno dell'animo, un po' come nel celebre racconto L'Uomo della Sabbia di Hoffmann (peraltro citato, pur se indirettamente, ne L'Area, con un protagonista che resta a scrutare cosa succede nel palazzo dirimpettaio), quale materializzazione concreta delle ossessioni e delle paure che albergano nella mente. Un meccanismo che si rafforza sempre più a mano a mano che i protagonisti cercano di sottrarsi alle loro paure o alle loro visioni, venendo così invischiati e assuefatti in un maelstrom che li condurrà alla sopraffazione. Grabinski non muta i profili dei suoi personaggi, quasi tutti dei perdenti (con alcune rare eccezioni, si vedano Il Bianco Lemure o A Casa di Sara). Abbiamo pertanto delle figure l'una ricalcata sull'altra, quanto a profilo psicologico. Sono dei solitari, dei nostalgici, che vivono legati al passato (emblematico il bellissimo L'Engramma di Szatera), il più delle volte studiando materie e sostenendo tesi aveneristiche, in quanto poco interessati alla realtà, non accettata o comunque vista come una costrizione esistenziale da cui si deve fuggire arrivando persino a rinnegarla o comunque a metterla in dubbio al cospetto di altre di ideazione personale. Cos'è che può dirsi reale? Si chiede spesso l'autore . La realtà è davvero tale o è un'illusione soggettiva partorita da ogni singolo cervello? Elucubrazioni degne di protagonisti che rasentano la pazzia, derisi o comunque non creduti da chi hanno intorno, talvolta con precedenti psichiatrici (il protagonista de Saturnin Sektor) o comunque che si indirizzano a psichiatri o neurologi per esorcizzare il loro dramma, ma non per questo dei minorati (si direbbe piuttosto il contrario). Soggetti che vivono in atmosfere ossessive, a tratti morbose, che non tardano a divenire claustrofobiche sotto l'effetto di fobie sempre più invadenti e il cui sbocco finale è, talvolta, l'omicidio, talaltra la perdita del senno, in un pessimismo nero da cui non ci sono speranze di redenzione. Bellissimo, sotto questo profilo, Lo Sguardo, con un protagonista che, a seguito di un trauma (il suicidio sotto un treno della fidanzata), inizia a temere tutto ciò che può nascondersi dietro un angolo di un'abitazione, dietro una porta (il collegamento va alla porta di casa lasciata socchiusa dall'amante prima di andare incontro alla morte) e persino ciò che potrebbe avere alle spalle. Un'ossessione che lo risucchierà in una spirale da cui non avrà via di fuga, costringendolo persino a rivoluzionare l'arredamento della propria casa per renderla sempre più simile a uno spazio aperto in cui nessuno potrebbe mai nascondersi senza passare inosservato. Una paranoia, questa per gli arredamenti da modificare, che si verifica anche ne La Stanza Grigia. Qua a innescare la rivoluzione dell'arredamento è la convinzione, frutto di un sogno ricorrente, che poltrone, armadi e scrivanie siano impregnate dell'energia psichica lasciata dal precedente locatario (un uomo triste) con estensione di questi influssi negativi e opprimenti in tutta la casa. In entrambi i casi Grabinski chiude in modo tragico, con epiloghi orrorifici che fanno balzare sulla sedia i lettori.

Molti i temi ritornanti, dicevamo... Abbiamo già citato il rapporto “tra la realtà e l'immaginazione", a cui fanno seguito il concetto relativo del tempo (affrontato in Saturnin Sektor) fino all'idea dell'illusione del movimento e della velocità (argomenti centrali nel metafisico Il Demone del Movimento, in cui si tratta anche il tema della dissociazione mentale) e a quello della persistenza, sotto forma ectoplasmatica, sul piano reale sia degli eventi legati al passato (L'Engramma di Szatera) sia alla possibilità di concretizzare nella realtà, come fatti materiali, i pensieri (L'Area) o i sogni (Il Villaggio Nero, dove si assiste alla materializzazione di un coltello che passa dal sogno alla realtà).

Il livello medio degli elaborati è più che interessante, possiamo addirittura dire molto omogeneo con alcune punte costituite dal lovecraftiano Il Villaggio Nero e dal più originale L'Engramma di Szatera, entrambi caratterizzati da un erotismo malato, a spiccare in un lotto altamente qualificato. Nel primo caso si anticipa, in un certo qual senso, la contrazione di malattie come l'Aids (si parla di lebbra) a seguito di un rapporto sessuale. Grabinski in questi due racconti offre delle pennellate di onirismo che gli valgano, per quel che ci riguarda, l'epiteto di grande maestro. Classico il primo con la bellissima descrizione di un villaggio da incubo dove domina il colore nero, con uccelli necrofagi e strani individui che vagano coperti da dei cappucci in un olezzo che stordisce l'olfatto e che avvolge una serie di abitazioni dalle finestre sprangate. È il sonno a condurre l'uomo in questo spazio mortale, dieci minuti appena di incoscienza gli sono sufficienti a varcare involontariamente un confine non ben identificato (una vera e propria realtà parallela) per poi ritornare alla realtà completamente travolto sia nella mente che nel corpo (ha un morso su una guancia). Uno sviluppo che sarà riutilizzato ne La Vendetta degli Elementi con un caso di possessione, più o meno diabolica, subita in pieno sogno, a coronamento di una vendetta messa in atto da degli spiriti elementali (creature a metà strada tra il regno animale e l'uomo e di cui farebbe parte anche il fuoco, trattato come una forza intelligente) contro la loro nemesi (il coraggioso capo dei vigili del fuoco) che verrà per questo trasformata (ancora una volta senza capacità di libero arbitrio) in uno strumento di distruzione (ritorna il tema del doppio che si dissocia e vaga senza controllo per il diretto interessato).
Ne L'Engramma di Szatera si parla invece di necrofilia vera e propria, con un racconto che probabilmente sarebbe piaciuto a Ballard (penso al suo contorto e controverso Crash). Grabinski infatti caratterizza la storia con una fortissima componente nostalgica. Protagonista è un capostazione che rimpiange la chiusura di una vicina stazione e la perdita di un amico collega (trasferito in altra sede), al punto da farne un'ossessione. L'uomo si convince che al mondo “nulla va perduto, nessun evento, poiché tutto è registrato e chi desidera rievocare il passato, facendolo tornare indietro dai cieli alla terra, lo può fare volgendo il suo pensiero a un dato avvenimento trascorso” che intende così rivivere. Questa convinzione, inizialmente innocua, determina un'involuzione mentale dell'uomo, stimolata da strane visioni e soprattutto da un evento traumatico (lo scontro frontale di due treni) che lo porta a desiderare di rincontrare una donna di cui si è pazzescamente innamorato baciandola sulle labbra. Attenzione però, il protagonista non ha baciato una donna consenziente, ma la testa mozzata della stessa ovvero il macabro trofeo raccolto sul selciato della stazione nell'immediatezza di un disastro ferroviario. Pazzesco il finale, uno dei più neri che mi sia mai capitato di leggere. Grabinski concepisce un epilogo che lascia esterrefatti, sfruttando in modo originale sia l'archetipo della sirena (da intendersi in senso lato) sia il tema della dissociazione mentale che porta all'annullamento della volontà dell'uomo (che si sdoppia in più figure, avviene la stessa cosa ne La Vendetta degli Elementi). Due racconti, questi ultimi, bellissimi, quanto crudeli. Interessante valutare il rapporto distorto con la figura femminile che si percepisce da queste letture (probabile reminescenza del rapporto fallimentare con la moglie, così traumatico da portare Grabinski a disinteressarsi del sesso femminile sulla scia del coevo Lovecraft). Si potrebbe, a mio modo di vedere, azzardare la sussistenza di alcuni tratti misogini evidenziati dal ruolo ricoperto da queste donne. Grabinski prende la figura di Eva (citata all'inizio de L'Amante di Szamota), la modernizza e la va a traslare su creature che altro non sono che delle predatrici sessuali. In entrambi i casi la donna è la via che conduce l'uomo alla perdizione, alla disfatta. Al posto della mela, Grabinski inserisce l'attrazione erotica e la carica sensuale, il corpo e la seduzione come frutti proibiti, il resto è presto fatto con delle donne che volontariamente fanno quello che fanno per il gusto di “infettare” il malcapitato e ingenuo passante, talvolta per alimentare la propria bellezza e farla sopravvivere come in un diabolico patto di wildiana (o narcisistica) memoria. Ne sono evidente dimostrazione i più espliciti L'Amante di Szamota e A Casa di Sara, entrambi del 1922, in cui il rapporto amoroso, verrebbe da dire carnale, diviene il vero e unico fulcro della storia. Se nel primo racconto Grabinski propone un soggetto più impersonale, nel secondo emerge in modo netto quanto abbiamo già accennato. La donna viene definita “un idolo maligno, odioso eppur sempre allettante, a cui si deve soccombere... una sorta di suggestione ipnotica” che induce l'innamorato a bramare l'oggetto del desiderio (sessuale) anche quando la stessa non si trova al suo cospetto. Un'ossessione che porta a vivere spaesati, disinteressandosi di tutto quanto prima aveva sempre catturato l'attenzione, trasformando così soggetti attivi in individui passivi sovrapponibili agli attuali drogati storditi dall'essenza dello sballo. Così in A Casa di Sara il protagonista cerca di spiegare al medico che lo visita che, alla stregua di un vampiro, “la donna lo deruba di ogni forza vitale”: “Assorbe la mia vita entro di sé... la gioventù della mia vita". Alla stessa maniera ne L'Amante di Szamota, più elegante per la cura nelle descrizioni scenografiche (e anche più romantico), l'innamorato finisce per invecchiare da un giorno a un altro, dopo essersi unito per oltre un anno con una donna bellissima che però non trova mai in giro per il paese e che, alla fine, scoprirà esser assai particolare. Terribile e ben resa la rivelazione finale con, ancora una volta, chiara rasoiata necrofila che sarà difficile da dimenticare per chi legge. Non mancano momenti macabri nel più originale A Casa di Sara con una bellissima scena di smaterializzazione del protagonista che viene, di fatti, assorbito dal corpo della moglie quasi centenaria, eppur giovane e assatanata come una trentenne, sempre in caccia di nuove prede da conquistare col frutto proibito della passione, così da mantenere la propria bellezza a discapito dell'amato. Una sorta di rivisitazione dell'accoppiamento della mantide religiosa, se mi concedete il paragone. 

Divergono rispetto al resto dell'antologia, per struttura e tematiche, La Storia del Becchino e Il Bianco Lemure. Si tratta di due racconti horror che ben avrebbero potuto comparire nei pulp magazine americani dell'epoca. Il primo testo è ambientato curiosamente in Toscana, nell'immaginifica Foscara (un omaggio forse all'Università Ca' dei Foscari di Venezia, città in cui Grabinski passerà una delle più felici vacanze sul finire degli anni venti). In questo racconto l'autore si avvicina alle tematiche squisitamente weird con un chiaro omaggio a Poe (La Sepoltura Prematura). Per l'occasione si abbandonano le ossessioni mentali per orientarsi su un orrore esterno, che arriva da un altro paese con la figura dell'estraneo che si presenta in una città di campagna dove nessuno lo conosce. Ancora una volta fanno da cornice delle belle scenografie in cui vengono incastonate tematiche diverse. Si parla di demonologia (con un cimitero in cui gli spiriti dei defunti si ribellano per la presenza di statue, sculture e lapidi costruite in modo ambiguo così da avere una seconda lettura in onore a Satana e alle creature della notte), ma anche di un personaggio, il misterioso becchino scultore, che per ovvie ragioni (un antesignano del Darkman di Raimi) vaga con un'aderente maschera di cera applicata al volto (fatta in modo tale da sembrare una faccia umana) per celarne la vera natura. Grabinski caratterizza questo soggetto con cenni e comportamenti, a sua volta ambigui, che conferiscono al becchino scultore un'aura demoniaca, ma soprattutto misteriosa ed enigmatica, senza che faccia niente di veramente deplorevole (a parte le sculture). Chi diavolo è questo uomo...? Ed è davvero un uomo, dato che i suoi unici due figli sono nati con delle assurde deformazioni fisiche che li hanno portati a morte prematura? La risposta a queste domande non può che essere, a sua volta, ambigua. Più convenzionale di altri, rimane una gradita lettura macabra specie per il finale Edgarallanponiano che probabilmente ha contribuito a convincere il critico polacco Karol Irzykowski a “battezzare” Grabinski come il “Poe Polacco”. 

Si passa alla criptozoologia (anche se in realtà i lemuri erano creature mitologiche romane simili ai vampiri, tese a rappresentare le anime di uomini deceduti per morte violenta che non hanno trovato la pace nell'aldilà) con Il Bianco Lemure, una creatura in parte scimmia e in parte rospo che vive all'interno di un camino aggredendo e sbranando gli spazzacamini che vengono chiamati a pulirlo. Finale, per una volta ottimista, con la lotta nel buio del camino tra la bestia e un coraggioso ragazzo calato nell'oscurità alla ricerca dei due amici scomparsi. Grabinski chiude la storia ritornando alla tematica della dissoluzione corporea del mostro alla luce del sole, proprio come per i vampiri, così da riportare l'elaborato dalle parti della narrativa soprannaturale piuttosto che prettamente fantastica.

Questo il contenuto di un testo che, a suo modo, fa la storia dell'editoria del genere fantastico in Italia, proponendo per la prima volta un volume interamente dedicato a un autore che meritava di esser riscoperto e che si spera possa ritornare, magari anche con un romanzo, a solcare l'impetuoso mare dell'editoria. Inutile dire che ne consigliamo l'acquisto nonostate un prezzo non proprio economico. Consigliato a tutti gli amanti della narrativa del terrore, compresi quelli che prediligono tagli commerciali. Sia chiaro i testi qua non sono superficiali, ma la scarsa pesantezza dello stile e, soprattutto, dei finali graffianti, a mio modo di vedere, rendono usufruibile il testo a una più ampia cerchia di pubblico rispetto al fedele zoccolo duro di appassionati e di studiosi del genere. Ancora complimenti alla Hypnos con l'invito a perseverare su questa strada.

Stefan Grabinski.

"Sogno e veglia! Sogno e realtà! In quale assoluta confusione si confondono, con che furia si scontrano sui crocevia del penisero! Uno di essi, malevolo oltre ogni umana misura, ha rimosso ogni segnale di frontiera e cancellato, fra l'uno e l'altra, ogni confine; scomparsa senza traccia ogni barriera. E regna ora suprema l'illusione, folle sovrana dei percorsi randagi e delle vie maestre."

giovedì 4 maggio 2017

Recensioni Narrativa: AI CONFINI DELLA REALTA', Twilight Zone di Rod Serling.



Autore: Rod Serling.
Titolo Originale: New Stories from The Twilight Zone.
Anno: 1962.
Genere: Antologia, Fantascienza/Fantastico..
Editore: Mondadori, collana Urania (n.1139), anno 1990.
Pagine: 134.


Commento a cura di Matteo Mancini.
Il volume che affrontiamo oggi è un vero e proprio omaggio narrativo a una delle più importanti serie partorite dal piccolo schermo sul finire degli anni '50. Molti decenni prima che Chris Carter desse sfogo alla sua fantasia e plasmasse X Files, era la serie Twilight Zone a stimolare la fantasia degli spettatori quale vero e proprio precursore nel genere fantastico e bizzarro, capace di rimodulare gli stilemi propri della narrativa weird per introdurre il fantastico nella vita di tutti i giorni in un modo all'epoca innovativo, abbandonando cioè la via del paranormale e dell'esoterico per abbracciare paure più terrene o comunque legate agli oggetti di tutti i giorni. Una soluzione questa in grado di rendere più popolare e comprensibile il genere, pur se più grezzo e meno aulico. Un nome su tutti a coordinare questa importantissima serie, dove tra gli altri hanno mosso i primi passi Sturgeon, Beaumont, Ray Bradbury e Richard Matheson: Rod Serling. 

Classe 1924, nato nel giorno del Santo Natale in quel di Syracuse (Stati Uniti), Serling è legato in modo indissolubile alla saga Twilight Zone, un impegno che lo ha assorbito quasi per tutta la carriera peraltro breve a seguito della prematura dipartita (deceduto a cinquantuno anni). Ideatore, nonché sceneggiatore di buona parte degli episodi, Serling è da considerarsi più un uomo di cinema che uno scrittore. Abile a mettere insieme qualcosa come 156 episodi, andati in onda negli Stati Uniti ininterrottamente dal 1959 al 1964 con tanto di sua presentazione per ogni numero, così da conquistare un inatteso successo tale da determinare il tentativo di riadattare sotto forma di racconto alcune delle sceneggiature, una via come un'altra per provare anche la scalata alla narrativa. Rientra proprio in quest'ottica il volume riproposto, a distanza di quasi trent'anni, dalla Mondadori. Giuseppe Lippi, all'epoca curatore della collana Urania, si prefigura l'idea di proporre, in tre distinti volumi, una selezione di questi racconti che nel 1990, col numero 1139, iniziano a invadere le edicole. Il proposito sarà colmato nel 1992, dopo l'uscita dei volumi Ai Confini della Realtà (1990), L'Odissea del Volo 33 (1991) e L'Umanità è Scomparsa (1992), con diciotto racconti presentati al pubblico italiano e poi radunati, nel 2006, dalla Fanucci Editore sotto il titolo Ai Confini della Realtà (titolo di distribuzione della serie nella nostra penisola).

Nel primo volume, quello che qui ci interessa da vicino, sono proposte cinque storie, tra il fantastico e il grottesco, che hanno in comune due aspetti. Il primo, quello più evidente, è costituito dal ribaltamento che Serling si diverte a scandire, pian pianino, tra i personaggi o, più in particolare, tra i rapporti che gli stessi instaurano con gli altri. Così vediamo situazioni che si capovolgono o uomini che passano da un atteggiamento all'esatto contrario, sia nel bene che nel male, a seguito dell'elemento inusuale che si manifesta nella loro vita di tutti i giorni. Il secondo aspetto che emerge è l'attenzione all'animo umano. Serling mette alla berlina le debolezze e i cattivi approcci caratteriali dell'uomo. Egoismo, ipocrisia, spavalderia, avidità sono i temi centrali delle varie storie che portano a evidenziare quanto l'uomo sia un animale imperfetto e, a suo modo, maligno. Punto debole di svariati racconti è una certa ingenuità di fondo, a cui si può ovviare sospendendo certi giudizi sulla concreta verificabilità di certe condizioni (tipo auto che vengon rimesse in modo dopo cento anni senza che la batteria non si sia scaricata, oppure uomini che si risvegliano dopo cento anni e non hanno alcun problema a stendere gli arti o ancora personale diplomatico internazionale che tratta con un venditore di auto obsolete e via dicendo). 

Almeno quattro i racconti degni di esser letti. Su tutti spicca Il Sole di Mezzanotte (The Midnight Sun, 1962), il più fantascientifico del lotto. Serling immagina, senza darne spiegazione, un improvviso cambio dell'orbita ellittica della Terra che assume un movimento che la porta sempre più vicina al sole. Racconto dai tratti post atomici, cadenzato dal continuo incrementarsi delle temperatura e dal sempre più crescente disco solare che gravita in cielo. Nonostante l'inferno pronto a manifestarsi con temperature prossime agli ottanta gradi, due donne decidono di restare nelle loro abitazioni, mentre tutti gli altri emigrano verso il Canada. Spettacolare finale dove Serling, usando l'artificio del sogno, ribalta la situazione in modo tanto beffardo quando ironico. E' stato tutto un incubo: la Terra non brucerà, perché il nuovo movimento ellittico sta portando la stessa ad allontanarsi dal sole...!?

Si passa al grottesco con Resa dei Conti per Rance McGrew (Shodown with Rance McGrew, 1962) in cui un tronfio quanto impacciato attore hollywoodiano, impegnato in un serial western, si trova costretto a fronteggiare il vero Jesse James, in veste di rappresentante della categoria pistoleri imbufalita per le brutte figure mostrate sui piccoli schermi da chi è stato chiamato a personificarli. Curioso notare come il passaggio dalla realtà all'immaginazione si verifichi sul set cinematografico alla stessa maniera di quanto mostrato in Dragon, film sulla vita di Bruce Lee, col protagonista che guardando uno specchio capisce di esser finito in un'altra dimensione. Serling gioca qua sulle debolezze e sulla falsità propria del mondo del cinema, ribaltando la figura dell'attore che è l'esatto contrario del personaggio a cui da corpo, dimostrandosi codardo e piagnucoloso anziché temerario e austero. Il vero Jesse James, che si palesa in modo misterioso e al solo protagonista, metterà a nudo le debolezze dell'attore facendo emergere la sua vera natura. Possiamo dunque interpretare il testo con una chiave che apre lo scrigno dell'apparenza per mettere a nudo la vera natura.

Bello poi Tutta la Verità (The Whole Truth, 1962) incentrato su un truffaldino e manipolatore commerciante di auto a cui viene affibbiata una vecchia carcassa affetta da un'originale maledizione: chi la possiede è costretto a dire la verità. L'acquisto costringerà così il commerciante a rivelare a tutti i clienti i numerosi vizi delle auto che lo stesso rifila alla clientela, determinando così un brutto periodo di magra. Nessuno compra più le auto del commerciante. Serling inserisce evidenti frecciate satiriche alla categoria dei politici con un assessore che cercherà di comprare la macchina per dare una dimostrazione di umiltà ai propri elettori, rinunciando però solo quando sarà informato della particolare maledizione legata al mezzo: “Non potrei più tenere un discorso politico! Non potrei più puntare a una sola carica!” Finale, in verità un po' forzato, propagandistico col commerciante che riuscirà a rifilare l'auto ai sovietici convincendoli di poter così dimostrare, in quel di Mosca, quando sia fallace il sistema capitalistico americano (l'auto in questione è un vero e proprio rottame). Sottintesa, anche se non troppo, la trappola letale per il governo Urss.

Commovente e un po' fiabesco La Notte degli Umili (The Night of Meeks, 1962) ambientato la notte di Natale. Protagonista è un vecchio ubriacone ingaggiato da un titolare di un centro commerciale per intrattenere i bambini nei panni di Babbo Natale. Licenziato per essersi fatto sorprendere in stato in ubriachezza, il vecchio trova tra i rifiuti un vecchio sacco che gli permette di esaudire qualunque richiesta di doni. Invitato a chiedere lui stesso un regalo, l'uomo chiede di poter beneficiare ogni anno della felcità provata nel poter consegnare doni alle persone. La richiesta viene accolta, col vecchio che viene trasformato nel vero Babbo Natale, con tanto di accompagnatore e renne volanti. Anche qua non mancano frecciate di stampo sociale come critica al consumismo e alla scarsa sensibilità nei confronti delle categorie meno abbienti.

Il Rifugio (The Shelter, 1962) non è un racconto fantastico ma un'esplicita metafora sull'egoismo umano e sulla critica dell'ipocrisia e del perbenismo di facciata delle persone comuni. L'allarme circa un imminente attacco missilistico nucleare ai danni degli Stati Uniti scatena gli istinti di sopravvivenza dei cittadini che dimenticano i rapporti di amicizia e di affetto per salvare le proprie vite e quelle dei propri familiari. Fulcro della vicenda un bunker antiatomico che viene conteso dagli abitanti di un quartiere, senza più considerare l'istituto della proprietà privata e il sacro diritto di difendersi da una minaccia tanto letale. Colpisce dritta all'obiettivo la frase che dirà il protagonista, una volta scoperta la falsità dell'allarme: “I danni di cui parlo sono quelle maschere che questa notte ci siamo strappati con le nostre mani. L'odio che è venuto a galla e che non immaginavo di avere dentro. Dio mio come è stato rapido a venire fuori! Quanto poco ci abbiamo messo per diventare animali!”

Prevedibile Un Salto alla Rip Van Winkle (The Rip Van Winkle Caper, 1962), chiaro omaggio fin dal titolo al celebre racconto di Washington Irving (da cui si riprende l'idea del lungo letargo). Qua arriva la condanna al materialismo e all'avidità umana, con un gruppo di malviventi che compiono una spettacolare rapina ai danni di un treno e trafugano una serie di lingotti d'oro per un valore di due milioni di dollari. Anziché spartirsi il tutto, decidono di utilizzare degli speciali gas per addormentarsi e risvegliarsi a distanza di cento anni, così da non poter destare sospetti e vivere da milionari. Passato il periodo di riferimento i quattro si faranno guerra tra loro così da non spartire quanto rubato, ignari però che l'oro non è più un materiale prezioso e che, pertanto, quanto hanno in mano non ha più valore. Serling chiude mostrando come questo attaccamento all'oro, ingiustificato, porterà i quattro a morire.

Questo il contenuto del testo, scritto in un modo agevole e scorrevole. Serling si rivela abile nel caratterizzare i personaggi e soprattutto a stendere i dialoghi, dando il là a una nuova forma di narrativa fantastica che ispirerà, tra gli altri, anche Stephen King. Non mancano i contenuti di fondo con i racconti che si fanno veicoli di messaggi di critica sociale, talvolta di satira, o comunque portatori di valori che è sempre bene ricordare e stimolare. Divertente, ma a tratti ingenuo.

Rod Serling.


"C'è una quinta dimensione oltre a quelle che l'uomo già conosce. È senza limiti come l'infinito. È senza tempo come l'eternità. È la regione intermedia tra la luce e l'oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l'oscuro baratro dell'ignoto e le vette luminose del sapere. È la regione dell'immaginazione, una regione che si trova ai confini della realtà."