Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

mercoledì 24 dicembre 2014

Recensioni Narrativa: TUTTO QUEL BLU di Cristiana Astori


Autore: Cristiana Astori.
Genere: Thriller.
Anno: 2014.
Editore: Mondadori, collana Il Giallo Mondadori.
Pagine:257.
Prezzo: 4,90 Euro.

Commento di Matteo Mancini.
Terzo capitolo della mini saga che vede per protagonista la cacciatrice di pellicole Susanna Marino, personaggio creato dalla scrittrice piemontese Cristiana Astori in occasione dell'uscita del romanzo Tutto quel Nero (2011) e riproposto nel romanzo Tutto quel Rosso (2012).
Il volume qui oggetto di esame, uscito come i precedenti per la collana Il Giallo Mondadori, costituisce il terzo e, per ora, ultimo capitolo della serie. L'autrice ce lo presenta quale sequel ideale dei precedenti sforzi, prendendo le mosse proprio laddove si chiudeva il secondo episodio. Assistiamo infatti alla laurea della protagonista, con tutti i problemi connessi al difficile sbocco nel mondo del lavoro. L'inizio è lento, quasi teso a tracciare un profilo della società moderna. I giovani non riescono ad affermarsi come vorrebbero, non godono della comprensione dei genitori tanto che la protagonista viene rimproverata per aver studiato una materia (lo studio del cinema), all'apparenza, non spendibile sul mercato: "Te l'avevo detto io che non ti conveniva studiare" sbuffano i genitori della Marino che avrà modo di commentare in modo graffiante e comprensibile: "La classica saggezza retorica del genitore che ha sempre consigli da impartire per trasformarti in un clone a sua immagine e somiglianza." Sorte pressoché analoga si riscontrerà pure nella situazione di un giovane adolescente, che non conosce il padre, soffocato da una madre con un passato libertino ma passata agli ideali propri di un integralismo religioso che limita le forme di libertà. Il giovane si troverà così costretto a interloquire con un fantasma, il cantante degli AC/DC (Bon Scott) deceduto nel 1980 e ritornato dal Paradiso (o dall'Inferno) per compiere una missione (forse per riscattare i peccati di una gioventù bruciata): aiutare il ragazzo a ritrovare suo padre. Quindi assistiamo a due giovani in fuga dalla realtà. La Marino trova la sua pace nella ricerca di pellicole perdute, sogna il cinema e diviene parte integrante dello stesso in un gioco bizzarro dove il reale diviene fantastico e il fantastico diviene reale (eloquente, da questo punto di vista, Tutto Quel Rosso, ma anche questo numero, dove si verificano fatti identici a quelli mostrati nella finzione cinematografica); l'adolescente, invece, è proiettato in una realtà parallela che, allo stesso modo di quella della finzione, interagisce e determina la realtà.
Un altro tema trattato nella prima parte del romanzo è quello del problema del lavoro. Per lavorare, sembra suggerire la Astori, occorrono aiuti, spinte politiche, infatti la nostra verrà avvicinata da assessori e personaggi che le prometteranno un posto in un'istituzione pubblica a condizione di essere eletti. Insomma, un quadretto generale a immagine e somiglianza della nostra società, in particolare di quella contemporanea, caratterizzata dalla corruzione e da inflitrazioni, più o meno, mafiose negli organi di governo.

I tre capitoli della serie.

In questa cornice la Astori va a delineare l'intelaiatura del romanzo strutturato su tre livelli inizilamente l'uno indipendente dall'altro, ma che poi andranno a convergere e a intersecarsi verso la parte finale. Così abbiamo la nostra Marino che viene incaricata, da un detective privato a sua volta assoldato da un cliente sconosciuto, di recuperare la VHS del film L'Autuomo (1984) del regista Marco Masi. Naturalmente si tratta della traccia principale sviluppata parallelamente alle vicessitudini di un giovane adolescente, in fuga dalla madre, alla ricerca del padre potenzialmente minacciato da un assassino che uccide tutti coloro che si chiamano come quest'ultimo. Il giovane vaga dalla Lombardia al Piemonte protetto dal fantasma di Bon Scott. Le due tracce sono tenute unite dagli omicidi, sporadici, di un killer che uccide scimiottando il modus operandi del killer di Terminator (1984), uscito, guarda caso, proprio lo stesso anno del film di Masi. Seguiranno inoltre altri eventi strani (pirati della strada, topi di appartamento, pestaggi) su cui si innesteranno una serie di colpi di scena funzionali a depistare le indagini degli inquirenti (ancora una volta abbiamo poliziotti ottusi e pasticcioni) e dei lettori.
La Astori gioca molto sulle coincidenze, chissà forse fa parte di quelle persone secondo le quali la realtà non è mai frutto del caso e che credono che dietro a ogni coincidenza si nasconda un filo invisibile orchestrato da chi sta oltre la cortina del sensibile (da qui l'interferenza, come già avvenuto nel primo romanzo, di persone che non sono più tra noi). Di fatti è curioso, ma non certo casuale nella scelta operata dall'autrice, che Bon Scott sia nato lo stesso giorno di Soledad Miranda (il nove luglio), ovvero l'attrice tributata nel primo capitolo, e che lo stesso interferisca, proprio come aveva fatto la Miranda, nei fatti della vicenda.
Compaiono poi altre coincidenze come, a esempio, la citazione di un Marco Masi, omonimo del regista, che faceva il calciatore nel Pisa. Curioso poi notare come l'autore della colonna sonora di Terminator (peraltro citata in parte nel volume, il riferimento va a Bad to the Bone), Brad Fiedel, sia quasi omonimo dell'ex portiere della nazionale di calcio statunitense che si chiamava Brad Friedel. In una sorta di scambio di pedine che ricorda le battute di una partita di dama giocata da due scacchisti intrepidi e burloni. Per chi non ha letto il romanzo potrebbero sembrare aspetti marginali, ma non è così. Si tratta di elementi che diventano centrali data la presenza di un assassino che uccide tutti coloro che hanno un nome determinato, legato peraltro a un personaggio storico della trilogia e che, chiaramente, non corrisponde a Sarah Connor.

Cristiana Astori in assetto T 1000.

Il ritmo è meno sollecito rispetto ai due precedenti capitoli. Cala la componente orrorifica, ma anche il giallo subisce un ridimensionamento. Il tema centrale è quello del primo volume, la ricerca della VHS scomparsa (in luogo della pellicola), cambiano però le ragioni che stanno alla base di questa ricerca, anche se la protagonista ne è all'oscuro. Questa volta non ha a che fare con collezionisti malati e fanatici, sotto c'è qualcosa di più bieco e spiccio che non svelo per ragioni di opportunità.
L'attenzione principale dell'autrice, più che all'intreccio, è dedicata alla caratterizzazione psicologica dei personaggi. Lo abbiamo già detto a inizio articolo, e poi all'atmosfera generale che pervade il romanzo. Lo stile è fortemente visivo, asciutto, privo di fronzoli. Sembra quasi di leggere una sceneggiatura finalizzata a un'ipotetica messa in scena dominata da una fotografia dalle tonalità blu e fredde. Molte, inoltre, le citazioni di canzoni che gravitano attorno al blu, a sottolineare un gusto musicale assai sviluppato nell'autrice e che funge da commento sonoro della vicenda.
Un altro aspetto che traspare, ma non è certo una novità, è l'amore verso il cinema visto nell'ottica del fruitore finale, ovvero dello spettatore. La Astori regala spaccati che sembrano usciti dalla penna di Quentin Tarantino (mi riferisco a sequenze come quella presente in Bastardi senza Gloria quando si parla di come venivano materialmente realizzate le vecchie pellicole). Nell'ocassione ci si sofferma sulle abitudini illegali che negli anni '80 dominavano il mercato nero dei videonoleggi, periodo che ricordo bene anche io. Per mezzo del racconto del gestore di un videonoleggio chiamato Videodrome, in omaggio all'omonimo film di Cronenberg (nome peraltro del videonoleggio di un critico cinematografico di Livorno che furoreggia in internet ovvero il ferrato appassionato Federico Frusciante; chissà se la Astori abbia voluto omaggiarlo...), viene descritto come venivano "piratate" le vhs di film ancora distribuiti nelle sale e quindi prima che uscissero per il mercato home video. Nel mio piccolo ricordo quando, verso la fine degli anni '80, di ritorno dagli allenamenti della scuola calcio, mi fermavo in compagnia dello zio al videonoleggio a vedere la sterminata pila delle cassette vuote ammasate in ordine negli scaffali. Ricordo che avevo la fissa per la locandina de Il Replicante, film che poi riuscii a farmi noleggiare. Ebbene, rammento sempre come venissi preso in disparte da parte del gestore che mi diceva: "lascia perdere quelle, ho qui gli ultimi arrivi da Napoli. Ne ho visti un paio che sono una forza...!" Così venivano smerciate una serie di videocassette "sotto banco", perché pirata. Ricordo di aver visto in questo modo film come Leviathan, Predator e Terminator il Giorno del Giudizio, tempi che mi sono tornati alla memoria con grande nostalgia durante la lettura, perché una volta recuperare certi film non era a portata di click come oggi. La Astori è brava a rendere centrale questa pratica, con uno sviluppo decisivo ai fini della risoluzione del giallo. Ancora una volta abbiamo un omicidio avvenuto all'interno di una saletta cinematografica, sviluppato in modo tale da dar vita a una scatola cinese fondata su una matrice metacinematografica. Non posso dire di più onde evitare di svelare aspetti troppo rilevanti.

Una foto metacinematogfrafica, tra sceneggiatori, scrittrici, critici cinematografici,
presentatori Tv e organizzatori di Festival.
Foto de LA SERRA TREMA 2014.

Bello e sentito, nonché condiviso dal sottoscritto, il ringraziamento che viene fatto a fine romanzo, in un'ottica circolare dove nel momento dei saluti si innesca un nuovo inizio, alla stregua di un'avventura che non ha un vero epilogo così come è priva di un vero prologo, in un panta rei di eraclitiana memoria in cui tutto scorre, si trasforma, si modifica ma non termina mai il proprio corso. "Questa storia è nata non solo dalla mia passione per i film degli anni ottanta, ma anche e soprattutto dal desiderio di riprodurre lo sguardo con cui in quel decennio si vedevano certi film... storie dai personaggi "grandi" e dagli effetti speciali pionieristici, ma che ti facevano venir voglia di provarci, e di sognare almeno per un istante di diventare come James Cameron o John Carpenter. Ed è questo cinema che ringrazio, insieme alla possibilità di averne potuto godere proprio in quegli anni, quando particolari film erano introvabili e ogni visione era una conquista, e da ragazzina tutto ti colpisce, ti meraviglia..." 
In questo ringraziamento risiede lo spirito della trilogia, il manifesto che ne sta alla base e che la rende degna di un grosso plauso. E se Tutto quel Blu è forse inferiore rispetto ai precendeti capitoli (soffre di un pizzico di dejà vù e spinge più sul lato romantico/sentimentale, piuttosto che sul brivido), sono certo che quel mondo che la Astori va a ringraziare (quello dei vari Masi, Cavallone, Jess Franco, Mattei, Lenzi, Margheriti fino a Dario Argento e Lucio Fulci) è altrettanto grato a un'autrice che ha regalato tre volumi di pregevole livello, pubblicati, peraltro, in una collana storica e "mainstream" come Il Giallo Mondadori. Non a caso nei volumi dell'Astori, in veste di personaggi, fanno la comparsa individui reali, legati al mondo del cinema e della musica; in questo numero abbiamo critici del calibro di Steve Della Casa, lo stesso Masi e Bon Scott, uomini che, con la loro presenza, rendono più affascinante la lettura. Si può pertanto dire che, per una volta, l'underground è salito in superficie a far sentire la propria voce, in barba a quelle critiche, giustamente riportate a inizio romanzo, avanzate da accademici con la puzza sotto il naso e che si rispecchiano nella battuta messa in bocca al relatore della tesi della Marino: "Argento è un autore di genere, e quindi il suo contributo di regista è limitato all'arte dell'intrattenimento. Non ha nulla a che spartire con la cultura cinematografica." Un'analisi che, in certi ambienti, riguarda anche la letteratura di genere, sempre snobbata a favore di quella definita autoriale.

La dedica di cui Cristiana mi ha fatto dono in Tutto Quel Nero.

E adesso, visto che la Astori è attenta alle coincidenze, pubblico alcune considerazioni personali che mi hanno fatto sorridere (di divertimento) nel corso della lettura. La prima riguarda il giorno di uscita del romanzo, il 5 dicembre, che è la data del compleanno di mio padre.
La seconda considerazione è legata al volume che ho comprato subito dopo Tutto Quel Blu, cioè 1984 di George Orwell. Data quest'ultima su cui si regge l'intero romanzo, essendo la stessa dell'uscita dei film L'Autuomo e Terminator. Curioso poi notare come lo stesso 1984 ruoti attorno al tema delle telecamere e delle riprese.
La terza e ultima curiosità, la più succosa, che, forse, sorprenderà anche una maestra del giallo come Cristiana Astori, è legata a un fatto avvenuto molti anni fa. Si può dire che ho quasi vissuto una situazione analoga (chiaramente non estremizzata come nel romanzo) a quella in cui si viene a trovare uno dei personaggi principali del romanzo, senza chiamare in causa Piano 17 dei Manetti Bros (dove c'è un personaggio con il mio stesso nome e cognome). Nel 2001, mentre me ne stavo a tavola a pranzare, il telegiornale se ne venne fuori con una notizia che mi ghiacciò, almeno per un secondo. Sentii infatti proferire dal giornalista la seguente frase: "Assassinato, a Foggia, il giovane ventenne Matteo Mancini. Ucciso con venti colpi di pistola...". Ebbene, non solo il tipo era mio omonimo, ma era nato anche il mio stesso anno!? Non pubblico il commento (un po' opportunista) che feci all'epoca, subito dopo aver appreso la morte del ragazzo... Qua l'articolo:

 http://archiviostorico.corriere.it/2001/settembre/03/Agguato_davanti_bar_Ucciso_operaio_co_8_010903799.shtml

L'omaggio inverso con cui si chiude TQB.

Chiudo con un momento di romanticismo, di cui Tutto quel Blu tende a far sfoggio rispetto ai due precedenti capitoli, che pone fine alla storia quasi a voler far scendere una lacrimuccia sul volto dei lettori più sensibili e legati ai ricordi passati. Percepisco in questo una Astori meno "cattiva" e più protettiva (si veda anche gli atteggiamenti del padre del ragazzo o della coppia di protagonisti verso quest'ultimo). A parlare, con fare paterno, è Bon Scott, prima di congedarsi dal suo giovane amico e tornare da dove è arrivato (un po' come il Terminator del Giorno del Giudizio): "Lo vuoi sapere quale è stato il mio ultimo pensiero mentre collassavo nella Renault 5 in Overhill Road? Be'... non ho pensato alla mia musica, né agli amici e alla tournée, e neanche a quanto ero stato coglione per andarmi a rovinare in quel modo. Il mio ultimo pensiero è andato a quella ragazza dai capelli rossi che stava nel banco davanti al mio in prima superiore, a quello che avrei voluto dirle e non le ho mai detto... e al fatto che se le avessi parlato forse sarei stato una persona diversa  e non mi sarei ridotto a quel modo... Addio, Bad Boy, e ricorda, sii perfezionista, sempre.

sabato 13 dicembre 2014

Recensione narrativa: L'ISOLA DEL DR.MOREAU di H.G. Wells


Autore: Herbert George Wells.
Anno: 1896.
Editore: Newton
Pagine: 96
Prezzo: 1.000 lire.

Commento di Matteo Mancini.
Capolavoro, datato 1896, firmato dal più grande pioniere tra gli autori di fantascienza vissuti a cavallo tra il 1800 e il 1900: Herbert George Wells.
Nato nel Kent, in Inghilterra, nel 1866 nel giorno corrispondente all'equinozio d'autunno, si tratta di uno dei primissimi lavori dell'autore, preceduto dal famosissimo La Macchina del Tempo (1895). All'epoca Wells ha da poco deciso di dedicarsi a tempo pieno all'attività di scrittore, dopo che la madre aveva fatto di tutto per convincerlo a intraprendere il lavoro di impiegato in un grande magazzino. Appartenente a una famiglia di modesti commercianti, dimostra fin dall'adolescenza una fragilità d'animo e una timidezza che lo porta a isolarsi e a rifugiarsi nella lettura di racconti di stampo avventuroso. In particolare, come gran parte dei grandi scrittori dell'epoca, rigetta la società in cui vive che definisce "sordida": come può l'umanità affrontare l'era della scienza con un bagaglio di idee sulla vita, sul sesso e sulla morale che risalgono al medioevo? 
Si specializza in materie scientifiche, soprattutto in biologia, botanica e matematica, studi che si riveleranno determinanti per la stesura delle successive opere e per la sua adesione alle teorie evolutive di Darwin e Spencer che diventeranno i suoi veri e propri cavalli di battaglia. Il suo fine principale è quello di far emergere dalla sua produzione narrativa un messaggio volto a spingere l'umanità ad abbattere la cristallizzazione in cui versa per ricostituire una nuova aristocrazia retta dalla scienza. Così commentano gli autori del volume Maestri della Letteratura Fantastica, edizioni Edipem: "Niente si salva da questa penna diabolica, che elimina, in una prospettiva onirica e scientifica, i conformismi e le pesantezze di una società retriva".

Herbert G. Wells.

Quando Wells scrive L'Isola del Dr. Moreau (Island of Doctor Moreau), ha appena trent'anni, eppure è proprio in questa fase che firma i suoi maggiori capolavori, sebbene la sua carriera si estenda per ulteriori sessanta anni. Non a caso l'anno dopo l'uscita del romanzo qui oggetto di esame pubblicherà L'Uomo Invisibile (1897) e La Guerra dei Mondi (1897) che, insieme ai due romanzi già citati e a Nei Giorni della Cometa (1906), andranno a costituire il quintetto base della sua opera. In quegli anni furoreggia il francesce Jules Verne, vero e proprio anticipatore del c.d. romanzo scientifico che Wells andrà a sviluppare ulteriormente, eppure la penna del Kent si ispira ad altre due opere: Frankenstein (1818) di Mary Shelley e Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde (1886) di Stevenson. Dal primo viene ripreso il concetto dei corpi assemblati, con porzioni provenienti da creature diverse, per creare una creatura nuova; dal secondo invece arriva la figura del c.d. mad doctor, che viola le più elementari norme etico-deontologiche, alla ricerca della scoperta che possa sconvolgere l'umanità. Aumenta inoltre l'impatto violento-crudele anche perché il protagonista, che da origine al titolo, conduce esperimenti non su cadaveri e e nemmeno su se stesso, bensì su animali. Il romanzo avrà fortissimo successo al punto da giungere in Italia fin dal 1900 col titolo L'Isola delle Bestie, influenzerà altresì un altro romanzo di grande successo ovvero Il Pianeta delle Scimmie (1963) del francese Pierre Boulle, il quale riproporrà il tema del confronto tra la difficile convivenza tra le bestie umanizzate e l'uomo.

Una foto tratta dalla trasposizione cinematografica del 1977.

Il soggetto è molto semplice sebbene l'autore lo vada a infarcire di profondi contenuti sociologici, fantascientifici e soprattutto filosofico/religiosi. Vede un biologo impegnato in ricerche che lo hanno portato a essere escluso dall'ordine dei medici per aver praticato esperimenti disumani. Rifugiatosi con alcuni collaboratori in un'isola del Pacifico, il dottore farà importare una serie di animali di diversa specie al fine di compiere operazioni sugli stessi per umanizzarli. Una storia all'epoca pazzesca (in parte premonitrice di quanto sarebbe poi successo con la chirurgia plastica) che però Wells narra con grande tatto metaforico. "Le creature che voi avete visto non sono altro che animali plasmati in nuove forme... Cominciate a rendervi conto che è possibile trasportare il tessuto da una parte all'altra in uno stesso individuo o da un individuo a un altro alterando così anche la sua reazione chimica e il suo metodo di sviluppo, modificare l'articolazione delle sue membra e, infine, cambiarlo nella sua più intima struttura?"

La struttura è quella del racconto narrato in prima persona da un naufrago finito, suo malgrado, nell'isola del dottor Moreau a causa delle bizze del comandante ubriacone che lo aveva salvato dal mare in cui era naufragato per poi scaricarlo sull'isola in questione insieme a un puma e a un bastimento di conigli. Naturalmente, come si conviene a una storia del genere, la natura prenderà il sopravvento sull'illusione umana di poter controllare le mutazioni indotte dalla scienza e scoppierà il caos finale, con il ritorno alle vecchie origini. Tematica, quest'ultima, che sarà ripresa anche da Michael Crichton per il suo Jurassic Park.

La storia viene preceduta da una premessa piuttosto classica per l'epoca, ovvero il racconto parte da un nipote del protagonista della vicenda il quale dichiara di pubblicare il resoconto del parente ormai defunto e rinvenuto per mera coincidenza. Curiosamente chi afferma di aver rivenuto la storia si firma Edoardo Prendick, mentre il protagonista dei fatti è Eduardo Prendick, in un'assonanza di nomi che rievoca lo scherzo radiofonico che nel 1938 organizzerà Welles (all'epoca imegnato anche in spettacoli di magia e illusionismo) il quale leggerà brani de La Guerra dei Mondi di Wells convincendo buona parte della popolazione di essere sotto attacco dei marziani. In questo scioglilingua generale, risulta assai buffo notare come il nome di Welles sia Orson ovvero un nome che richiama i personaggi oggetto degli esperimenti di Moreau.

Questa, in sintesi, la premessa citata: "Eduardo Prendick, un modesto gentiluomo che doveva essersi imbarcato a bordo del Lady Vain a Callao e che si credeva perduto a 5'3' di Latitudine Sud e 101' di Longitudine Ovest, fu raccolto da un canotto il cui nome era illeggibile... Fece un racconto così strano che lo si suppose demente. Il suo caso era stato classificato dai fisiologi del tempo come un curioso caso di mancanza di memoria cagionato da sforzi fisici e mentali. Il racconto che segue, fu trovato fra le sue carte dal sottoscritto, suo unico nipote ed erede; esso però non era accompagnato da nessuna nota che accennasse a un desiderio di pubblicazione. La sola isola che esista nella regione dove mio zio fu raccolto, è l'Isola di Noble, una piccola isola vulcanica, disabitata. Fu visitata nel 1891 da Lord Scorpion."

Omaggio della Bonelli al romanzo.

La prima parte del romanzo è dedicata al naufragio della nave in cui si trova mister Predick e al salvataggio dello stesso operato per caso da una nave di passaggio. L'uomo, ormai senza cibo da giorni, viene curato e messo in condizione di tornare a muoversi. Sul cargo viaggia una strana ciurma che risponde agli ordini di un comandante pazzo che urla e sbraita come un ubriaco isterico. Oltre a questi ci sono una serie di animali in gabbia con conigli, cani e un puma. Il tutto verrà  scaricato su un'isola semi-deserta dove padroneggia un uomo un tempo molto rinomato in Europa ma allontanato per le sue pratiche barbariche. Qua Prendick scoprirà la presenza di strane creature parlanti che vagono per l'isola e che, inizialmente, danno la sensazione di essere uomini deformi o comunque bizzarri scherzi della natura. L'uomo, attirato dai latrati e dai lamenti del puma, farà irruzione in quella che viene chiamata "La Casa del Dolore" e vedrà il dottor Moreau impegnato nel compiere strane operazioni e a infliggere strane torture agli animali. In realtà il biologo sta trasformando gli animali in bizzarre caricature umane, lavorando addirittura sulla mente delle stesse per portarle a ragionare, a parlare e persino a rispettare un abbozzo di regolamento dell'isola.

All'innegabile taglio avventuroso, senz'altro prevalente sugli altri, Wells inizia a poco a poco a colorare la storia con evidenti schizzi horror (per lo più inseguimenti, in una foresta che sembra una giungla, operati da alcune creature ribbelli che hanno saggiato il sapore del sangue), anche perché il Dr. Moreau, come il Dr. Hammond di Jurassic Park, non si fa mancare nulla e oltre alle pecore, alle scimmie, alle volpi e alle iene, utilizza, nel suo giocare a essere Dio, orsi, cani, tori e infine un puma, creando inoltre delle creature ibride frutto dell'unione di più animali. Proprio come per i dinosauri di Crichton questi esseri, inizialmente, sembrano non in grado di procreare e finché resta in vita il Dottore riescono anche a essere tenuti sotto controllo, pur vivendo allo stato brado, scimmiottando gli usi dell'uomo e camminando tutti su due gambe. Si tratta di un'evoluzione della storia, per l'epoca, già di per sé spettacolosa, ma ecco che Wells dimostra di essere non un buon scrittore, bensi un grande maestro della narrativa fantastica. Lo scrittore del Kent, infatti, inserisce un substrato sociologico che viene ad assumere il significato di fondo dell'opera, mostrando la condizione dell'uomo comune della società dell'epoca (ma sara solo di quella?). Pubblico qui di seguito alcuni passaggi che aiutano a comprendere: "La loro relativa sicurezza era dovuta al limitato livello intellettuale di quelle bestie. Nonostante la loro accresciuta intelligenza e la tendenza degli istinti animaleschi a risvegliarsi, avevano alcune idee fisse impiantate da Moreau nelle loro menti, che condizionavano assolutamente la loro volontà. Erano realmente ipnotizzate: era stato detto che certe cose non si potevano fare, che altre non si dovevano fare, e tali proibizioni si erano impresse tanto bene nei tessuti del loro cervello, da togliere ogni possibilità di disubbidienza e di contestazione... Montgomery e Moreau avevano una cura costante nel mantenerli nella più completa ignoranza del gusto del sangue, poiché temevano la inevitabile suggestione di quel sapore."

Dal passaggio di cui sopra appare evidente la critica di Wells al mondo in cui vive. L'autore inglese vuole sottolineare la necessità di rompere gli schemi, di liberarsi dai preconcetti e di perseguire la vera libertà interiore, sottolineando allo stesso tempo come chi detenga il potere abbia tutto l'interesse a non permettere ai controllati (da leggersi quali cittadini) a estrensicare la loro vera natura (di qui il significato metaforico del sangue quale diritto da perseguire per certi animali costretti qua a torture psichiche e fisiche, fino a dover mutare comportamenti e usi a discrezione del loro padrone).

Herbert G. Wells.

La parte finale del romanzo vede la morte del Dr. Moreau, impegnato ad abbattare l'uomo puma fuggito per far man bassa di prede. A questo punto, proprio quando il lettore inizia a pensare che la storia vada a scemare, Wells piazza un altro spunto da grande scrittore. Le Bestie umanizzate, a tal riguardo segnalo un altro romanzo che ha attinto da qui ovvero Le Catene di Eymerich del grande Valerio Evangelisti, rompono il loro blocco iniziale e iniziano ad assumere comportamenti animali. Perdono l'uso della parola, tornano a quattro zampe e iniziano a cacciare. Allo stesso modo, come in una sorta di disturbo post-traumatico da stress (Wells antiicipa anche questo) alla stregua di quanto colpirà i soldati americani dal ritorno dal Vietnam, Prendick verrà influenzato dalla situazione disumanizzandosi e trovando poi assai difficoltoso il rientro nella società. "E' curioso sapere come mi fossi abituato presto agli usi di quei mostri e come avessi acquistato fiducia in me stesso. Ebbi le mie lotte e potrei mostrare le tracce dei loro denti; ma ben presto essi acquistarono un totale rispetto per il mio modo di lanciare pietre e per quello di maneggiare la scure... Trovai che il sentimento d'onore di quegli esseri era basato solo sulla capacità di infliggere ferite profonde... Uno o due che in qualche scontro avevo ferito, mi portavano il broncio, ma questo me lo dimostravano solo con delle smorfie dietro le spalle e a una distanza che li metteva al sicuro dalla mia portata". Ebbene, quanto appena scritto da Wells non è che la perifrasi di uno stato di guerra. 
Oltre agli scontri, per tenere sotto controllo gli animali, timorosi dei comandamenti imposti da Moreau pena punizioni corporali, Prendick farà cenno a una sorta di occhio che scruta dall'altro, un eye in the sky, anticipando in questo George Orwell (il riferimento va al capolavoro 1984).
Il passaggio in questione nel testo:

«Lui non è morto! Anche adesso vi guarda!Queste parole li fecero trasalire: venti paia di occhi mi guardarono.
«La casa del dolore è finita» continuai «ma essa risorgerà di nuovo. Voi non potete vedere il padrone, ma anche adesso egli vi ascolta.»
«E' vero, è vero!» disse l'uomo cane.
"Tutti rimasero scossi dalla mia sicurezza. Un animale può essere furbo e feroce abbastanza, ma occorre che sia un vero uomo per poter mentire."
«L'uomo dal braccio fasciato dice cose assai strane!» mormorò uno di quegli individui.»
«Vi dico che è così» aggiunsi «Il padrone e la Casa del Dolore risorgeranno... Guai a chi disubbidisce alla legge.»


L'epilogo è una chiusura circolare del romanzo, con il protagonista che riesce a scappare dall'isola, in un coast to coast da Apia a San Francisco, pur trovandosi costretto a non esternare quanto gli è successo perché tutti, altrimenti, lo prenderebbero per matto.
"Nessuno mi credeva; io sembravo agli uomini quasi tanto strano quanto lo ero sembrato alle bestie umanizzate. Forse avevo conservato in me qualche cosa della naturale selvatichezza dei miei vecchi compagni...", qua Wells anticipa un principio cardinale che sarà costituito dagli studiosi di criminologia e cioè che la vittima porta su di sè sempre qualcosa della scena del delitto e che lo stesso avviene sulla scena del delitto dove rimane quasi sempre qualcosa del soggetto agente. Parafrasando, il concetto è lo stesso. Dunque Wells si dimostra, anche per queste cose, un grandissimo. E lo è ancor di più nelle ultime battute dove evidenzia il disagio del fuggiasco: "Il mio malessere assumeva le forme più strane. Non riuscivo a persuadermi che le donne e gli uomini che incontravo non fossero un altro popolo di animali passabilmente umani, plasmati con l'immagine esterna della nostra specie, ma che sarebbero presto regrediti fino a mostrare ora questo e ora quel segno bestiale." Dunque una chiusura in cui Wells diviene psicologo e abile conoscitore di sociologia. CAPOLAVORO.

La locandina del film che è stato tratto dal libro nel 1977.

I Comandamenti del Dottor Moreau:
Non andare a quattro gambe, questa è la legge;
Non lappare per bere;
Non mangiare né carne né pesce;
Non scorticare la corteccia degli alberi;
Non dar la caccia gli altri uomini;
Gravi sono i castighi di coloro che infrangono la legge. Nessuno le sfugge.
Sua è la Casa del Dolore, Sua la mano che opera, Sua la mano che ferisce, Sua la mano che guarisce.



La copertina dell'album musicale della colonna sonora
della trasposizione cinematografica di Sergio Martino
ispirata al romanzo di Wells.


Una scena del film di S. Martino.


lunedì 1 dicembre 2014

Recensione Saggio ALDO LADO & ERNESTO GASTALDI - Due Cineasti, Due interviste di Jan Svabenicky


Autore: Jan Svabenicky.
Genere: Libro Intervista.
Editore: Il Foglio Letterario.
Anno: 2014.
Pagine: 170.
Prezzo: 14 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Debutto in Italia dell'accademico Jan Svabenicky, studioso e appassionato di cinematografia italiana abitante in Rep. Ceka, a Pribor, città natale del padre della psicanalisi Sigmund Freud. Dopo aver pubblicato nel 2009 una monografia per conto dell'Università di Olomuc dedicata al cinema western italiano, Svabenicky approda nella nostra penisola all'età di trentatre anni, subito ingaggiato da Gordiano Lupi e dal suo Il Foglio Letterario, casa editrice particolarmente sensibile a certe tematiche. Lo studioso ceko, che sarà ospite nel mio terzo volume sullo Spaghetti Western con tre gustosissimi articoli, raschia dal suo corposo campionario di interviste effettuate nel corso degli anni e propone una duplice intervista a due cineasti assai importanti della cinematografia nostrana: Aldo Lado & Ernesto Gastaldi.

Il volume, preceduto da due rapidi saluti di Sergio Martino e di Pino Donaggio, è un vero e proprio libro intervista. L'autore rivolge una serie di domande ai due personaggi scelti, sviscerando la loro produzione a partire dalle prime collaborazioni (in veste di aiuto registi) per poi proseguire fino a coinvolgere l'intera produzione. A tal riguardo, in calce al volume sono elencati tutti i film che hanno visto per protagonisti Lado e Gastaldi, con tanto di schede comprensive dei dati relativi al cast tecnico e a quello artistico. 

Sono circa cinquanta pagine a testa quelle che Svanenicky utilizza per chiedere spiegazioni e dettagli sui vari film curati dai due professionisti. L'opera va avanti a suon di domanda e risposta. Gli argomenti cadono soprattutto sui soggetti e sui membri dei vari cast tecnici, con richieste relative alla personalità e ai modi di lavoro dei vari montatori, addetti alle colonne sonore, registi e direttori della fotografia. Stranamente si tende a soprassedere sugli attori, che vengono lasciati un po' sullo sfondo. L'intento perseguito dall'autore è nobile e dichiarato. Si vuol dare un contributo alla storia del cinema italiano facendo da filtro e da spunto per innescare i ricordi di Lado e Gastaldi e salvarli grazie alla magia della carta stampata. L'autore ceko si dimostra inoltre assai interessato alla storia nel nostro paese, non perdendo occasione per chiedere se i copioni dei vari film siano stati più o meno ispirati dalla cronaca dell'epoca e se avessero delle sotto trame di natura politica.

Tra le gustose curiosità che emergono nel corso del testo si segnala la rivelazione di Aldo Lado relativa alla collaborazione con Dario Argento nel 1969, col regista veneziano che afferma di aver scritto, insieme a Dario Argento, il copione de L'Uccello dalle Piume di Cristallo, ma di esser poi stato convinto, dietro pagamento di denaro, a rinunciare a mettere il proprio nome nei credit.  Non di secondaria importanza è il racconto delle vicessitudini patite da L'Ultimo Treno della Notte nel corso dell'esame per il visto censura (si parla di esaminatori costretti, dalla violenza delle immagini, a vomitare).

Interessante la storia di Gastaldi che parla di come riuscì a entrare al Centro Sperimentale Cinematografico, ma anche di come nacque l'idea di girare il giallo Libido, prodotto per scommessa con Mino Loy e Luciano Martino che si interrogavano su quali caratteristiche avrebbe dovuto avere un regista di gialli.
Lo sceneggiatore biellese rivela inoltre di aver avuto il rammarico di non aver potuto girare un suo vecchio copione che anticipava di svariati anni Ritorno al Futuro. La colpa ricadrebbe su produttori poco ferrati in sci-fi, tanto da irritare Gastaldi anche per le modifiche volute da Petri rispetto al suo adattamento da Sheckley de La Settima Vittima poi girato negli stabilimenti cinematografici di Tirrenia (dietro casa mia) col titolo La Decima Vittima.

Questo, in definitiva, il primo lavoro italiano di Svabenicky, che scorre velocemente e senza annoiare, con gustosi annedoti tutti legati alla produzione cinematografica dei due personaggi intervistati. Lettura spassosa indicata ai soli appassionati di cinematografia italiana.
Jan Svabenicky è comunque un nome che saprà farsi notare e che dimostra, fin da questo suo debutto, una grande competenza e passione per il cinema di genere e non solo per quello. Sono certo che passerà presto a volumi in cui dar briglia sciolta ad analisi e ricostruzioni personali sui film o sui generi che riterrà opportuno trattare. Tenete allora in mente questo nome, non ne rimarrete delusi.

venerdì 28 novembre 2014

Intervista al regista Mario Caiano, a cura di Matteo Mancini.


INTERVISTA A MARIO CAIANO

A cura di Matteo Mancini.

Ho il piacere di ospitare sulle pagine del mio blog un grande regista italiano che ha fatto la storia del cinema di genere, soprattutto nell'ambito dello spaghetti-western e del “poliziottesco”. Sto parlando di Mario Caiano, regista classe '33 con circa trenta pellicole all'attivo, girate tra il 1962 e il 1977, precedute da un'esperienza decennale da aiuto regista al servizio soprattutto di Sergio Grieco (dieci collaborazioni) e Carlo Ludovico Bragaglia (quattro collaborazioni) e culminata con una serie di tv-movie diretti a partire dai primi anni '80 fino alla meritata pensione.
Quale formato migliore di un'intervista per ripercorrere la lunga carriera del nostro? Aneddoti e ricordi raccontati direttamente dall'interessato, che mi ha gentilmente offerto una parte del suo tempo libero per rispondere ai quesiti di seguito riportati. Peraltro sottolineo subito che Caiano è fresco dalla redazione dell'autobiografia MARIO CAIANO – Autobiografia di un regista di B-Movie, uscita nel luglio del 2014 per le Edizioni Il Foglio Letterario di Piombino. Inutile sottolineare che le risposte alle domande che vi apprestate a leggere costituiscono parte integrante del volume, che vi consiglio pertanto di acquistare per saperne di più e per conoscere una parte di Caiano che, forse, non emerge dalla visione dei singoli film e neppure da questa intervista.

AVVERTENZA: CHI LEGGE QUESTA LUNGA INTERVISTA è INVITATO A EVITARE DI CADERE NELL'ERRORE DI PENSARE DI AVER AVUTO DELLE ANTICIPAZIONI SUL TESTO DELL'AUTOBIOGRAFIA DI CAIANO, IL CUI CONTENUTO è CONCENTRATO SU TEMATICHE ULTERIORI RISPETTO A QUELLE SOTTO RIPORTATE.

1. 
Veniamo adesso all'intervista, innanzi tutto grazie per aver concesso la sua disponibilità così da poter compiere un lungo viaggio indietro nel tempo. Prima però di rispolverare il passato, parliamo dell'autobiografia che ha pubblicato da pochi mesi e che ho letto e recensito qui sul blog.
Quando è maturata l'idea di scriverla e quali sono state le ragioni che l'hanno portata a compiere questo passo?

M.C.:
L’idea di scrivere qualche ricordo della mia attività è nata forse un anno dopo la mia decisione di non lavorare più. Forse mi annoiavo, forse i ricordi esondavano…Le ragioni? Sempre le stesse: mi è sempre piaciuto raccontare, anche a me stesso.


2. 
A differenza di altre autobiografie, ho notato una struttura molto personalizzata, quasi come se volesse redigere un romanzo sui viaggi compiuti e sulle esperienze di vita maturate grazie al suo lavoro di regista, piuttosto che concentrarsi sugli aneddoti cinematografici legati alla produzione e alla realizzazione dei suoi film o ai rapporti con i singoli attori. Del resto lo stesso percorso espositivo che ha seguito non è poi così strettamente legato a uno sviluppo storico-cronologico, ma è più connesso alle sensazioni, ai sapori e alle emozioni vissute nel corso della sua carriera. Ho avuto quasi l'impressione che tale decisione sia il frutto di un approccio molto umile, un po' come se lei non amasse la maggior parte dei suoi film. C'è qualcosa di vero in questa mia ultima frase oppure ci sono altre ragioni che l'hanno guidata in questo modo?

M.C.:
E’ vero, non ho mai amato la maggior parte dei miei film, anche se ho amato molto il mio lavoro. Poi, nel ricordo di un film c’è sempre molto altro: persone, paesaggi, atmosfere, stati d’animo. E’ questo che mi piaceva raccontare, non la tecnica delle riprese, il rapporto con gli attori e i produttori e noiosaggini del genere.


3.
Come è giunto a scegliere le Edizioni Il Foglio Letterario di Piombino e che rapporti ha avuto con l'editore Gordiano Lupi?

M.C.:
Giordano Lupi lo conosco solo per e-mail, mi sembra un’ottima persona tanto più che è stato lui a propormi di pubblicare il libro. Forse su suggerimento di un giornalista del “Manifesto”, Castellano.


4.
Ha presentato il volume o conta di fare delle presentazioni nei prossimi mesi? Come hanno reagito i suoi fan all'uscita del testo?

M.C.:
Non so se ho fan oltre a due fratelli falegnami di Vicenza che mi telefonano spesso per comunicarmi che hanno trovato un’edizione giapponese di Una Bara per lo Sceriffo o cose del genere. Sono stupendi. Un certo signor Pallanch, di un qualche organo istituzionale del cinema, mi ha detto che vorrebbe fare una presentazione del libro il prossimo inverno.

La copertina dell'autobiografia del regista.

5.
Bene. Veniamo ora a ripercorrere la sua carriera. Compiamo un balzo nel passato, quando il cinema italiano era in grado di sfidare quello americano. Naturalmente non gli farò domande su questioni su cui si è soffermato nel volume, perché non voglio rovinare la sorpresa di chi lo acquisterà, spero anche grazie a questa intervista.
Dunque, dopo esser entrato nel mondo del cinema e aver fatto un lungo apprendistato alla corte soprattutto di Grieco e di Bragaglia, quale aiuto e assistente (come ha ben spiegato nel testo), debutta giovanissimo come regista con un poker di peplum girati tra il 1962 e il 1964, dirigendo attori simboli del genere come Gordon Scott o Richard Harrison ovvero come l'emergente Claudio Undari che sembrava potesse diventare un attore simbolo del western all'italiana. Ha lavorato anche con Giuliano Gemma nell'avventuroso Erik il Vichingo. Anche se si tratta di pellicole, forse, non particolarmente idolatrate, che ricordi ne conserva?

M.C.:
Ho un ottimo ricordo di quando facevo l’aiuto, era tutto molto più facile e avevo meno responsabilità. Per esempio, ricordo con grande piacere Il Barbiere di Siviglia con Mastrocinque, un gran signore, un intellettuale. Grieco poi è stato quello che mi ha insegnato tutto, un amico, un maestro e un esempio di come si sta sul set. I peplum ( o si dovrebbe forse dire pepla) mi divertivano, soprattutto il primo, Ulisse contro Ercole perché è stato il film del mio debutto come regista e potevo inventare quello che volevo. E poi all’università ho fatto filologia classica e archeologia, quindi una certa attinenza c’è. Di fare l’archeologo avrei ancora voglia, forse se potessi ricominciare tutto daccapo…


6.
Al di là dei debutti con il peplum, lei è anche il primo regista italiano a cimentarsi con lo spaghetti-western. Collabora inizialmente con gli specialisti spagnoli, scrivendo il soggetto di Cavalca e Uccidi di Borau e de I Tre Implacabili, quest'ultimo poi elaborato dallo specialista Josè Mallorquì e diretto da Joaquìn Romero Marchent (un regista, a mio avviso, da rivalutare) per la coproduzione costituita dalla PEA di Alberto Grimaldi e dalla Copercinese di Eduardo Manzanos. Si tratta, per l'epoca, dell'elite, anche perché Marchent è l'unico a fare western di un certo livello tra il 1961 e il 1963. Pressoché con il medesimo cast tecnico dirige Il Segno del Coyote, terzo episodio di una mini-saga ricalcata sul personaggio di Zorro e ideata a metà anni '50 dall'accoppiata Mallorquì-Marchent. Quest'ultima è una pellicola di difficile reperibilità che non andò bene al botteghino tanto che si dice di un certo diverbio tra lei e Grimaldi, con quest'ultimo insoddisfatto degli incassi. Cosa ricorda di questi specialisti spagnoli e di questi film.

M.C.:
Mallorqui non l’ho mai conosciuto. Marchent era bravo ma si sentiva bravissimo e alla Copercines era considerato una specie di padreterno. Il Segno del Coyote è andato male perché era una scopiazzatura sfacciata di Zorro. Il protagonista era un ex torero messicano, Fernando Casanova olè, la protagonista era l’amichetta del produttore, lo scenografo era il fratello dell’amichetta e così via ma non ricordo di aver mai litigato con Grimaldi che di cinema, almeno all’inizio, non sapeva niente, gli ha insegnato tutto mio padre. Il suo primo ufficio era una stanza in subaffitto dalle parti della stazione Termini. Odorava sempre di soffritto (la stanza, non Grimaldi) e veniva ad aprire la porta la padrona di casa in pantofole e vestaglia.

La locandina del primo Spaghetti Western realizzato.

7.
Dopo l'episodio burrascoso legato alla co-regia de Il Segno di Zorro, ben descritto nel testo, giunge forse la sua grande occasione. Il duo Papi & Colombo, della Jolly Film, in difficoltà nel gestire lo spagnolo Ricardo Blasco in netta crisi nel dirigere le scene di azione di Duello nel Texas, la chiama per risolvere l'impasse del regista affidandole il compito di girare alcune sequenze. Ne esce fuori uno dei più interessanti western pre-leoniani, peraltro con una sotto trama gialla abbastanza originale e un incasso che lo eleva a terzo spaghetti-western più visto nella stagione 1963. Nel cast compare ancora una volta Richard Harrison, anche se a mio avviso non ancora a suo agio col western.
C'è chi elenca questa pellicola tra i suoi film, come si legge nella quarta di copertina della sua autobiografia, chi invece, come Roberto Poppi, lo omette del tutto non indicandolo nella sua produzione. Cosa può dirci in merito e quanto del suo c'è in questo film?

M.C.:
Mio padre era il distributore del film e consigliò a Papi e Colombo (due personaggi gelidi) di chiamarmi per girare le scene che Blasco (chissà perché) non aveva girato. Girai tre o quattro giorni, forse venti minuti di film, per questo non deve entrare nella mia filmografia.


8.
In questa prima parte di carriera, credo di poter dire, suo padre Carlo ha un ruolo determinante. Quanto l'ha aiutata e come lo ricorda, cinematograficamente parlando?

M.C.:
Era un idealista esperto ma un po’ ingenuo. Mi ha introdotto nel cinema facendomi fare l’assistente volontario con Grieco in “Non è vero ma ci credo” . Poi sono andato avanti per conto mio.


9.
L'ottimo lavoro in Duello nel Texas e soprattutto un indubbio talento nel dirigere le scene di azione, tanto da esser considerato all'epoca forse il migliore regista in circolazione in Italia, portano Papi & Colombo a promuoverla loro regista di punta. I due la preferiscono a Sergio Leone, e non sono i soli a pensarla alla stessa maniera (anche Domenico Palmara rifiuta il ruolo di Ramon offerto da Leone per fare il suo film), che viene anch'egli prodotto, ma con un budget assai inferiore rispetto a quello che viene messo a disposizione per il suo film. Esce così Le Pistole non Discutono, western che nasce con la speranza di sbancare i botteghini e che lei porta in scena con grande talento, avvalendosi di professionisti di primo livello come Carlo Simi alla scenografia, Enzo Barboni alla fotografia, Ennio Morricone alla colonna sonora, tanto da realizzare, a mio avviso, uno dei tre migliori spaghetti-western pre-leoniani in assoluto. Non vorrei sbilanciarmi, ma secondo me potremmo indicare questo film tra i suoi cinque più riusciti tanto che meriterebbe di essere rivalutato a dovere.
Nel suo volume ha già parlato del protagonista Rod Cameron e di come fu scelto, vengo qua a chiederle invece un pensiero su Horst Frank che fornisce un'intensa performance alla Kinski nei panni dell'antagonista. Lo scelse direttamente lei o gli fu imposto dai coproduttori tedeschi?
Un'altra curiosità è legata alla scelta del titolo adottato, che trovo molto avanti nel tempo rispetto ai più banali titoli in voga in quegli anni, almeno prima dell'avvento di Leone. A chi è riconducibile la scelta?
Curioso infine trovare tra i nomi degli autori della sceneggiatura quelli di Castellano & Pipolo, che faranno poi la fortuna del cinema comico. Cosa può dirci del rapporto avuto con loro.

M.C.:
Il nome del film si deve a Castellano e Pipolo, due amici con i quali ho collaborato senza problemi. Che il budget fosse superiore a quello di Leone non sono sicuro, mi sembra che fossero alla pari. Andammo insieme, Sergio e io, a Monaco a scegliere gli attori dei rispettivi film, lì conobbi Horst Frank, un Kinski più bravo e meno scemo.
Palmara ha raccontato molte sciocchezze come, per esempio, che fosse stato lui a scegliere il ruolo nel mio film: probabilmente Sergio non si decideva, non era convinto e Mimmo voleva stringere. Ha raccontato pure di essere andato da Colombo, scontento dei giornalieri di Sergio, per convincerlo a non interrompere le riprese. Sciocchezze, Colombo non lo avrebbe nemmeno ricevuto. Ma si sa, gli attori…


10.
Che tipi erano Papi & Colombo? Si legge di un loro pessimo rapporto con Sergio Leone, tanto che lo volevano cacciare prima che terminasse le riprese de Per un Pugno di Dollari, perché troppo rivoluzionario nella messa in scena. Alla fine finiranno anche per farsi causa a vicenda in tribunale. Hanno creato problemi anche lei, visto che poi ha cambiato produttori?

Non ho avuto problemi con i due, semplicemente sono rimasti delusi dal fatto che il mio film, pur avendo avuto ottime recensioni, non ha incassato un mare di soldi. Erano due persone aride e piuttosto scostanti, si capisce come Leone, un colosso al loro confronto, non ci andasse d’accordo.


11.
A questo punto la sua carriera è quasi a una svolta, anche se il successo improvviso di Leone forse la penalizza. Che sensazioni ha provato quando a visto Per un Pugno di Dollari avere il successo che ha avuto? Ne è stato felice o gli è venuta un po' di amaro alla bocca? Come si comportò Le Pistole non Discutono ai botteghini?

L’invidia è uno dei pochi difetti che non mi riconosco e poi volevo molto bene a Sergio. Le Pistole... ebbe buone recensioni ma non incassò molto, allora. Ma dai dati della Siae si evince che lavora bene nel tempo, tanto è vero che lo replicano con una certa frequenza in TV.

Rod Cameron e Domenico Palmara in azione.

12.
Siamo arrivati al 1965, in Italia sta prendendo piede, grazie soprattutto a Mario Bava, Riccardo Freda e Antonio Margheriti, un nuovo genere: il gotico all'italiana. Si tratta di horror molto legati alla tradizione narrativa dei primi dell'ottocento, molto apprezzati all'estero soprattutto dopo il successo internazionale ottenuto nel 1960 da La Maschera del Demonio di Bava.
Decide anche lei di tuffarsi in questa avventura scrivendo e auto producendosi Amanti d'Oltretomba. Il film non ha un successo paragonabile a quello dei western, mi risulta 154 milioni di incasso, però si rivela di grande qualità, al punto da poter essere inserito in alta posizione in un'ipotetica classifica dei migliori gotici. Propone come attrice protagonista la la star queen del genere ovvero l'irlandese Barbara Steele. Come si trovò a lavorare con lei e come arrivò a sceglierla?

M.C.:
Ho avuto una precoce attrazione per l’horror fin da quando, nel ’43, durante le lunghe ore del coprifuoco, lessi d’un fiato i racconti de E.A.Poe. Poi m’è passata. B.Steele era un’ottima professionista, con lei ho avuto un buon rapporto e mi dicono che ancora si ricorda con piacere di me.


13.
Il soggetto del film invece è incentrato sul tema del doppio, vero e proprio sottogenere horror legato al tema delle bellezze perdute, particolarmente in voga in quegli anni. Un genere quasi a confini della fantascienza, sulla scia de Il Diabolico Dottor Satana di Jess Franco a sua volta debitore di pellicole francesi e tedesche, caratterizzato da esperimenti scientifici condotti da medici pazzi e con un certo gusto necrofilo. Barbara Steele, per questo, è chiamata a ricoprire due ruoli ed è affiancata da un altro grande del cinema bis: Paul Muller, attore feticcio proprio di Jess Franco. Che rapporti ha avuto con Muller e ha mai conosciuto Jess Franco, visto che ha collaborato con i suoi due maestri (Mallorquì e Joaquìn R. Marchent)?.
Come elaborò la sceneggiatura, si ispirò a fonti narrative e che rapporto ha con la narrativa del terrore?

M.C.:
Ero un cinematografaro, non un cinefilo, perciò di Jeff Franco non sapevo nulla. Ho amato cose come Il Monaco di Lewis, Il Manoscritto Trovato a Saragozza, e poi Il Castello d'Otranto e, su un altro versante, Lovecraft, S.King, la celeberrima antologia di Fruttero e Lucentini ecc. C’erano tante letture dietro la sceneggiatura di “Amanti d’oltretomba”. Muller era una persona gentile, triste, che per anni mi telefonò una volta al mese, così come Marino Masè, altra persona triste e gentile.


14.
Nonostante il buon lavoro con Amanti d'Oltretomba non si è più interessato al genere horror, fa eccezione il film Ombre Roventi che subì però l'onta dell'arresto di William Berger e della sua compagna, tanto da essere semisconosciuto. È frutto del caso oppure si trattava di un genere che non sentiva troppo nelle sue corde?

M.C.:
Semplicemente, il genere cessò di attrarmi. Bill Berger era un amico, forse rovinato da Leary e dal Living Theatre. Comunque l’arresto suo e della moglie fu uno scandalo. La storia di Ombre Roventi è strana: fondamentalmente si trattò di una rapina fatta da un organizzatore senza scrupoli a un giovanotto sprovveduto. Basti pensare che fino a un’ora prima dell’inizio delle riprese il protagonista doveva essere un grosso attore americano che sparì nel nulla e fu sostituito da Beger che si trovava al Cairo per un altro film.

Il primo horror firmato da Caiano.

15.
Tenta di percorrere anche la via delle spy story, altro sottogenere che cerca a metà anni '60 di affermarsi, ma con un successo e una riscoperta odierna non ancora maturata a dovere, complice, probabilmente, un legame troppo marcato con la serie James Bond. Si approccia persino alla commedia. Il suo contributo si sostanzia con Per Favore... non Sparate col Cannone e con Le Spie Uccidono in Silenzio, due pellicole non di grande successo, assai poco, ma che le danno modo di lavorare con quello che ha definito uno degli attori con cui ha fraternizzato di più, cioè Frank Wolf. Nella seconda pellicola invece schiera tra gli attori il legnoso canadese Lang Jeffries.
Che risposta dette il pubblico a questi film? Il secondo fu anche esportato in molti paesi anche se oggi in pochi lo ricordano quando parlano della sua produzione.

M.C.:
Le Spie… mi fu commissionato a Giorgio Venturini. Lo scrissi pensando soprattutto alla storia del Vecchio della montagna e alla setta degli haschashin, poi lo spunto si perse per strada.
Per Favore non Sparate… era un’idea mia che mi piaceva, ma Continenza non aveva più voglia di lavorare e Mondello, il produttore, non aveva una lira.


16.
Torna al cinema western, forse per gli incassi che era capace di garantire. Era insoddisfatto dei risultati ottenuti con gli altri generi?
Fatto sta che si scatena dirigendo una pellicola sull'altra. In tre anni gira cinque western non sempre disponendo di budget all'altezza e, a mio avviso, quasi tutti inferiori rispetto a Le Pistole non Discutono. Il primo è Una Bara per lo Sceriffo (1965) dove fa debuttare nel genere l'indolente brasiliano Anthony Steffen che poi diverrà un vero e proprio mattatore (interpreterà più di 20 western in circa sette anni). Che ricordo ne conserva e come era sul set?
Il copione lo scrive il regista Guido Malatesta, assai più indicato per peplum e cinema di avventura, e non compare il suo nome sulla sceneggiatura: è uno di quei film su commissione voluti da Manzanos e girati con poco coinvolgimento personale come dimostra il copione piuttosto ricalcato sui canovacci del revenge movie e del pistolero che vuole entrare in una data banda per sterminarla dall'interno?

M.C.:
Il più delle volte non si sceglieva quale film fare. I produttori sceglievano in base alle richieste dei distributori, cioè del botteghino. Malatesta era un amico di Mondello, il produttore, glielo avrà scritto per poche lire, così andavano allora le cose. Avevamo tutti bisogno di soldi, ne giravano pochi e quei pochi venivano dagli esercenti, gente poco raffinata.
Steffen era un bravo ragazzo, andava bene a cavallo ma amava la sua immagine riflessa dallo specchio sopra ogni altra cosa.


17.
I due western successivi sono, se vogliamo, persino meno noti di Una Bara per lo Sceriffo, ma sempre con attori specialisti del genere. Si tratta di Ringo il Volto della Vendetta (1966) e Sette Pistole per un Massacro (1967). Il primo è un apocrifo che ripropone Anthony Steffen come protagonista, sempre prodotto da Manzanos ma questa volta il copione porta la sua firma e persino quella di Duccio Tessari, eventualità quest'ultima che mi pare alquanto strana. Si ricorda di un coinvolgimento di Tessari?
La sceneggiatura è più elaborata rispetto a quella di Una Bara per lo Sceriffo, propone una lotta fratricida per la conquista di un tesoro di cui i rivali di Steffen, i grandi Fajardo e Armando Calvo, possiedono parte della cartina tatuata sulla schiena. Tutto ruota attorno ai temi dell'avidità, del tradimento e della lussuria, eppure qualcosa non va come dovrebbe e il film non ha il successo che ci si poteva prefigurare tanto che non viene amato neppure dai fan.
Anche Sette Pistole per un Massacro prende la via dell'apocrifo con un titolo, forse voluto ancora una volta da Eduardo Manzanos, che strizza l'occhiolino a Sette Pistole per i MacGregor che Papi & Colombo avevano appena distribuito per la regia di Giraldi. Ancora una volta il cast artistico vede coinvolti gli specialisti del genere, al posto di Steffen subentra Craig Hill nel ruolo di protagonista, c'è anche Piero Lulli, eppure il risultato è persino meno riuscito rispetto a Ringo il Volto della Vendetta, tanto che Marco Giusti si dimentica di menzionare il film nel suo volume Il Dizionario del Cinema Western. Lei però parla bene di questi due western in alcune interviste rilasciate, come li valuta rispetto ai suoi altri western?

M.C.
Ringo il Volto della Vendetta era una storia mia, mi piaceva l’idea della mappa tatuata, dell’altro ho un ricordo molto vago, mi ricordo che Craig Hill era piuttosto incolore.


18.
Per i due western successivi cambia la produzione. Passa al produttore di tortellini Bianco Manini (rafforzato dalla compartecipazione di Ferdinando Felicioni ed Emilio Giorgi), produttore di Quien Sabe? di Damiani. Il livello sale piuttosto notevolmente, nel primo film, Il Suo Nome Gridava Vendetta, lo supporta nello sforzo creativo, stando alla lettura dei credits, Tito Carpi (storico collaboratore di Enzo G. Castellari), nel secondo invece, Un Treno per Durango, viene coinvolto persino Duccio Tessari. Come venivano concepite queste sceneggiature, le scrivevate insieme oppure lei interveniva a lavoro completato per correggere ciò che non gli andava a particolare genio?
Oltre ai nomi di cui sopra, torna ad avere Enzo Barboni alla fotografia e soprattutto dispone di un cast di attori di grande pregio. Nel primo abbiamo il cavallo di ritorno Anthony Steffen, affiancato da William Berger, Claudio Undari, Ida Galli (alias Evelyn Stewart), Raf Baldassarre, Mario Brega e l'acrobata Alberto Dell'Acqua; mentre nel secondo, al fianco del confermatissimo Steffen, abbiamo un cast di primo livello con Mark Damon, Enrico Maria Salerno, Domenique Boschero, José Bodalo e Aldo Sambrell. Dunque dei gran bei cast, sia tecnici che artistici. In particolare, con Un Treno per Durango, ebbe modo di anticipare la piega comica e parodistica che avrebbe preso di lì a poco il genere, dando vita a un tortilla western (una sorta di parodia di Quien Sabe?) altamente spettacolare e divertente come pochi altri sapranno fare. Davvero una primizia che si segnala tra gli spaghetti-western, a mio avviso, più riusciti e forse il suo film di genere migliore. Bellissima, tra l'altro, la girandola di colpi di scena finale... semplicemente wonderful come direbbero gli americani.
Che differenze riscontrò tra questi western e quelli di Manzanos e come furono accolti dagli spettatori?

M.C.:
A proposito di Un Treno per Durango, io scrissi il soggetto, poi con Duccio Tessari elaborammo una scaletta della sceneggiatura e ci dividemmo i compiti. Poi Duccio dovette subappaltare la sua parte a Fernando Di Leo (che non ho mai incontrato), il quale Di Leo andò raccontando in giro di aver salvato il film che faceva acqua da tutte le parti, riscrivendo tutto. Roba da matti, i miei colleghi, tranne Leone e Giraldi, non erano un gran che. Comunque è il mio western preferito. Allora non incassò molto, ma ancora gira in Tv, segno che è vitale.

Il miglior western di Caiano.

19.
Dopo esser ritornato su buoni livelli, nei quattro anni successivi tenta di prendere nuove strade, quasi sperimentali, con film tutt'oggi non facili da vedere e che hanno avuto un successo contenuto. Escono nell'ordine Lovebirds – Una Strana Voglia d'Amare (1969), il già citato Ombre Roventi (1970) e L'Occhio nel Labirinto (1971). Del primo ha ampiamente parlato nella sua autobiografia per cui non le chiedo ulteriori chiarimenti, del secondo abbiamo già detto nel corso dell'intervista, non mi resta allora che parlare del terzo. Si tratta di un giallo psicanalitico, come andavano di moda in quegli anni ormai in periodo di piena esplosione spaghetti-thriller, di coproduzione italo-tedesca e da lei sceneggiato. Cast tecnico e artistico mi sembrano più poveri dei suoi film western anche se ritrova Horst Frank e dispone di Adolfo Celi e Alida Valli. Protagonista è la carinissima, ma poco convincente Rosemarie Dexter. Che ricordo ha di questa attrice?
Il film non di distingue per originalità e mutua il finale didascalico tipico del genere. In seguito, salvo qualche rara contaminazione penso a ...A Tutte le Auto della Polizia, non si confronterà più con il giallo. C'è un motivo particolare o è frutto del mero caso? Quale fu la genesi del film?

M.C.:
Nello Santi, un grande del nostro cinema, voleva fare un film nella sua villa all’Elba e io e Ninì Suriano scrivemmo soggetto e sceneggiatura. Non era male ma la Dexter era debolina. Quanto a Lovebirds, preferisco non parlarne, è stato una somma di errori.


20.
Dopo questo breve periodo, dedicato agli esperimenti e ai tentativi di saggiare nuovi generi cinematografi, ritorna al western e lo fa con quello che è forse il suo film più noto: il pazzesco e originale Il Mio Nome è Shangai Joe (1973). Sulla scia di Luigi Vanzi e di Terence Young che, con Lo Straniero di Silenzio (1968) e Sole Rosso (1971), avevano per primi tentato di miscelare il western alla storia orientale dei samurai, e approfittando del concomitante successo dei film con Bruce Lee protagonista, confeziona quello che è considerato il miglior esempio del c.d. spaghetti-kung fu e che sarà subito imitato dai vari Bruno Corbucci, Tonino Ricci e Antonio Margheriti. Si tratta di film dove, sia per i momenti situazionali estremizzati all'inverosimile (un po' come farà Quentin Tarantino in Kill Bill) sia per l'impiego delle arti marziali, gli stilemi della scuola cinematografica di Hong Kong vengono quasi per fagocitare il taglio tipicamente nostrano. Quale fu il suo pensiero quando gli proposero di scrivere e di dirigere una storia, sulla carta, pazza e coraggiosa come questa? Non temeva di poter cadere nel ridicolo?
Sul protagonista è già stato esaustivo nel suo volume, mi preme ora sottolineare come, a corollario della presenza di questo attore giapponese, vi sia un lotto di attori chiamati a compiere dei piccoli ma gustosi cammei. Si susseguono infatti Klaus Kinski, Claudio Undari, Gordon Mitchell e Giacomo Rossi Stuart tutti chiamati, uno dietro l'altro, a sfidare il personaggio cinese che predilige il karate all'impiego delle armi (presumo il notevole lavoro di coreografie che dovette compiere il maestro d'armi Nando Zamperla). Che rapporti ebbe con questi attori? Per causa di Kinski, circa un ventennio dopo, in occasione delle riprese di Nosferatu a Venezia, si troverà a dover abbandonare il set, si dice addirittura che gli lanciò uno specchio contro, immagino che in questa occasione si comportò bene...

M.C.:
Il protagonista di Shangai Joe non era attore, era un insegnante di arti marziali. L’idea venne a un piccolo produttore, un certo Alfieri e il produttore esecutivo fu Renato Angiolini.
La storia dello specchietto deve essersela inventata Kinski, l’ho già letta da qualche parte e ha raccontato pure che l’ho inseguito sul set con un bastone. Non ho parole e non vale la pena cercarne.
Comunque fare il film è stato divertente, come lo è stato rivederlo a Venezia dove è stato presentato in una rassegna sponsorizzata da Tarantino, che mi aveva invitato in occasione della presentazione del suo ultimo film, ma io stavo male.


21.
Abbiamo parlato de Il Mio Nome è Shangai Joe film davvero pazzesco e divertente, Come andò al botteghino? Oggi lo conoscono praticamente tutti, Tarantino lo ama in modo particolare, probabilmente per la forte componente pulp. Ha mai incontrato il regista americano o ci ha mai parlato? In caso positivo come si è comportato e cosa le ha detto? Qual'è il film di Tarantino che preferisce?

M.C.:
Il film di Tarantino che preferisco è Pulp Fiction ma anche l’ultimo (Django Unchained n.d.r.) è fortissimo.

Antesignano degli Spaghetti Kung-Fu.

22.
Dopo questa breve parentesi a stelle e strisce, torniamo a noi. Il western ha esaurito i propri spunti ed è prossimo a esalare gli ultimi respiri, soppiantato dal poliziottesco. Così dopo un breve assaggio di tardo decamerotico con I Racconti di Viterbury (1973), stringe un accordo con Renato Angiolini della Capitolina Prod.ni Cin.che e si lancia con decisione nella nuova avventura, sposando le mode del momento. Dirige in due anni quattro film di ottimo livello e con grande senso per la spettacolarità, mettendo in scena, tre volte su quattro, copioni altrui (scelta per lei piuttosto inusuale) scritti da sceneggiatori sempre diversi (Pittorru & Felisatti, Clerici & Mannino, Barberio, Longo & Petacco). Probabilmente si tratta del lotto, nel suo complesso, più qualitativo: preferiva il poliziottesco oppure per lei non c'era grande differenza, potendo definire il poliziottesco quale inevitabile evoluzione dello spaghetti-western? C'è un motivo se questi film non li ha quasi mai sceneggiati lei?

M.C.:
(Risposta non data).


23.
Il primo poliziesco che gira, ...A Tutte le Auto della Polizia, è un ibrido molto curioso e particolare, piuttosto distinto rispetto agli altri prodotti facenti parte del filone. Peraltro è il suo primo film che ho visto, registrandolo in orario assurdo in televisione. A una prima parte poliziesca si aggiunge una seconda dai contorni gialli, incentrata sul tema della pedofilia e con forti venature erotiche. Protagonista è il siciliano Antonio Sabato supportato da Enrico Maria Salerno, i quali formano una coppia ben assortita e piuttosto in forma. Alla fine non ne esce fuori un capolavoro, ma è di sicuro uno tra i poliziotteschi che si ricordano per la sua originalità. Le musiche sono di Lallo Gori, cosa può dirci di lui?

M.C.:
A Tutte le Auto… lo considero un film più che dignitoso, andò molto bene. Gli autori della storia, Felisatti e Pittorru erano abili giallisti. Lallo Gori era un cultore di jazz, come me.


24.
Grazie al discreto successo del suo primo poliziesco, gira Napoli Spara!(1976), strutturato su un copione di due specialisti del cinema di genere: Clerici e Mannino. Ebbe dei rapporti con loro o il copione gli fu presentato senza avere possibilità di voce in capitolo?
Il plot è quello collaudato, prende spunto da Napoli Violenta (1976) e ne costituisce una sorta di sequel. Sono collaudati anche i due attori chiamati a fronteggiarsi: da una parte l'italo-americano Leonard Mann (Leonardo Manzella) dall'altra la faccia di cuoio Henry Silva. Che tipi erano?
Al di là del duo di primi attori, il film si segnala per l'aumento dell'azione, il montaggio serrato e una crudeltà fastidiosa con punte di splatter e un epilogo tra i più tristi del genere, un po' sulla scia de La Polizia Incrimina, La Legge Assolve (1973) e antesignano della sceneggiata napoletana con cui farà fortuna il suo ex collaboratore Alfonso Brescia. Che ricordo ha di questo regista che, se non sbaglio, gli ha fatto da aiuto a inizio carriera?
Tornando al film, Napoli Spara! è l'opera dove, forse, si è sbizzarrito di più nella scelta delle inquadrature tanto da rendere la visione decisamente accattivante, pur se penalizzata da uno script che non aggiunge nulla di nuovo se non l'idea della “storia nella storia” con un bimbo protagonista (l'ottimo Massimo Deda) che farà una brutta fine. È il poliziottesco che ha ottenuto il maggiore successo tra i suoi?
Le musiche sono di un altro grande passato dal cinema western: De Masi. Ha un ricordo particolare su di lui?

M.C.:
Allora: Clerici era un mio amico, abbiamo lavorato insieme molte volte. Leonard Mann era un bravo ragazzo con una bella faccia ma senza personalità. Henry Silva un bravo attore e un gran signore. Brescia un onesto mestierante, lontanissimo dal mio mondo.
La crudeltà era niente in confronto a Gomorra e fu voluta da Edmondo Amati che era il produttore. Anche De Masi era un mio amico, non so più quante colonne sonore mi ha fatto. Il film gira ancora spesso sulle TV commerciali.


25.
Il terzo film del genere che esce è, probabilmente, il suo preferito, vuoi per la presenza del suo amico Claudio Cassinelli vuoi perché lo ha completamente scritto lei; di certo è quello che io ritengo il migliore. Sto parlando di Milano Violenta (1976). Ancora una volta, un po' come per il suo primo poliziesco, tenta di dar vita a un prodotto diverso, contaminato. Questa volta si pende dalla parte del noir, avendo a modello di riferimento Fernando Di Leo. Non a caso il protagonista non è un poliziotto, ma un bandito in cerca di vendetta. Quale fu lo spunto di ispirazione che la spinse a confezionare una sceneggiatura come questa?
Angiolini, probabilmente, riduce i capitali, con ripercussione sulla scelta del cast artistico che subisce una flessione qualitativa (a parte Cassinelli, si sente la mancanza di attori carismatici) anche se appare l'ottimo inglese John Steiner con cui poi farà anche il successivo film. Il copione però è il migliore dei quattro polizieschi da lei diretti e Claudio Cassinelli è in gran forma, tanto che alla fine esce fuori uno dei suoi migliori cinque film in assoluto. La regia è dinamicissima, il ritmo sollecito, con un punto di vista di narrazione che, per una volta, porta a simpatizzare per il bandito e non per i poliziotti, aspetto non da poco. Punto di forza sono inoltre le squallide scenografie e la fotografia (Pier Luigi Santi) cupa che contribuiscono a ricreare un'atmosfera malsana. A mio avviso davvero un prodotto di primissima fascia nonostante i limiti di budget, ma che ebbe curiosamente meno successo degli altri (mi risulta un incasso inferiore, di poco, ai cento milioni in Italia). Come è valutato dagli appassionati contemporanei e lo reputa anche lei tra i suoi film più riusciti e perché?


M.C.:
Non ho mai visto niente di Di Leo, perciò non mi sono ispirato a lui, so solo che è un bugiardo. Nel cast c’era un altro bravo attore, prematuramente scomparso, Vittorio Mezzogiorno. Irene Bignardi, allora compagna di Cassinelli, che lesse la sceneggiatura, mi disse che faceva pensare a Melville. E’ tra i miei polizieschi quello che ho amato di più.


26.
L'ultimo poliziesco che gira per conto di Angiolini è La Malavita Attacca... La Polizia Risponde (1977). Torna Leonard Mann, questa volta contrapposto a John Steiner, nei panni dell'eroe solitario, che usa la violenza per reprimere la violenza, calpestando la legge per il bene comune. Il film è il più truce del quartetto, sia per i dialoghi che per gli sviluppi narrativi (poco verosimili), ma è anche il meno inventivo sotto il profilo registico e soprattutto recitativo. Per ovviare tenta di ricreare un contorno fumettistico, sia nella caratterizzazione dei personaggi (ricordo penne/pistola in formato tascabile, personaggi che si esprimono in romanesco coatto e cose del genere) sia nelle interpretazioni. Steiner tende al sopra le righe, Mann invece pecca di espressività.
Come se questo non bastasse, è anche il film con cui esce dal mondo del cinema per entrare in quello della televisione, aspetto che forse glielo farà ricordare con minore simpatia. Cosa può dirci su questo ultimo film?

M.C.:
Ricordo solo che è il film girato più in fretta in assoluto tra i miei e che letteralmente non c’era una lira. La concorrenza della TV si era fatta spietata, era inutile girare un filmetto di quel genere dal momento che ogni sera se ne potevano vedere a decine sui canali privati.

Claudio Cassinelli in Milano Violenta.

27.
Ultimo film su cui le faccio qualche domanda è La Svastica nel Ventre (1977), un'opera piuttosto aliena rispetto alla sua produzione. Nasce sulla scia della moda forgiata da Tinto Brass con Salon Kitty (1975) e da Pasolini con Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), preceduti da Il Portiere di Notte (1973) della Cavani e poi scivolata in erotici altamente perversi con i gerarchi nazisti protagonisti. Pellicole assai estreme, spesso insostenibili nel loro voler indugiare su sesso e nefandezze di ogni specie. Il suo è considerato uno tra i migliori del genere, scritto con la collaborazione di Clerici, sebbene abbia un budget minimalistico e un cast di attori povero. Oggi è divenuto un cult, sorte che penso mai avrebbe pensato all'epoca. Quando glielo proposero accettò con entusiasmo? A chi venne l'idea di girare questo nazi-erotico, ricorda qualcosa di particolare legato alla sua produzione?

M.C.:
Probabilmente fu un’idea di Venturini che commissionò il soggetto a Clerici. Ricordo che girai la Germania a Dobbiaco e il lager al vecchio mattatoio di Testaccio. Poi so che hanno aggiunto delle scene hot per l’estero. La protagonista si chiamava Shirpa Lane, era finlandese e si diceva che fosse stata l’anima di una lussuosa casa chiusa parigina. Mah…

Altro Cult firmato Caiano.

28.
Bene, abbiamo ripercorso in lungo e largo tutta la sua carriera che poi, come ha ben spiegato nella sua autobiografia, proseguirà in RAI. Ha rimpianti particolari su qualcuno dei film di cui abbiamo parlato, magari un attore che avrebbe voluto avere ma che non gli è stato preso oppure una sequenza che avrebbe voluto girare ma che le è stato impedito ovvero la delusione per non aver avuto un po' più di tempo, un po' come era solito dire Jess Franco?

M.C.:
Sì, avrei voluto avere più tempo ma non ci ho fatto una malattia. Gli attori in generale, a parte quei tre o quattro dei quali sono diventato amico, mi mettevano in imbarazzo, appartengono a un genere a parte che ho sempre sentito un po’ estraneo.
Storie nel cassetto? Ce n’è una che mi sarebbe piaciuto fare per la Tv perché è di largo respiro, si chiama La Città e gli Anni e racconta la vita di una famiglia dagli anni trenta ai sessanta e dell’Italia e del cinema. Ma è un rimpianto moderato, chissà forse sarebbe venuta una cosina esangue.


29.
Dalla lettura della sua autobiografia percepisco un certo amore per la narrativa. È lei stesso a dirlo quando fa riferimento a quell'occasione letteraria che sperava potesse presentargli. Ha mai scritto romanzi o racconti? Recentemente mi è capitato di leggere degli ottimi gialli di Umberto Lenzi, uno persino ambientato nella mia Tirrenia (abito proprio davanti al luogo dove aveva sede gli stabilimenti cinematografici Cosmopolitan costruiti da Giovacchino Forzano e rilevati da Ponti), pensa di poterne pubblicare qualcuno? E in caso di risposta positiva, che tipo di romanzi gli piacerebbe scrivere e quali sarebbero le sue fonti di ispirazione?

M.C.:
Ho lavorato a Tirrenia come aiuto di Grieco in Le Notti di Lucrezia Borgia con Belinda Lee. Era un posto magico, fuori dal mondo, sembrava di vivere negli anni trenta. Bellissimo.
Ho scritto qualche cosuccia: un romanzetto di avventure che si chiama “Forse un giorno a Kandhipur”, puro divertimento di atmosfera vittoriana, poi una raccolta di racconti più o meno noir e una biografia di B.Traven, l’autore del Tesoro della Sierra Madre, un lavoro di due anni, faticosissimo perché Traven ha passato la vita a nascondere le sue tracce. Tutto inedito.
Ho anche conosciuto il figlio di Forzano, un tipo tristissimo che faceva produzione in RAI.


30.
La casa editrice che ha scelto, Il Foglio Letterario di Piombino, vanta un catalogo molto corposo in materia di cinematografia italiana. Oltre alla sua autobiografia è uscito da pochissimi giorni un ottimo volume del giovane ceko Jan Svabenicky caratterizzato da una duplice intervista al regista Aldo Lado e allo sceneggiatore Ernesto Gastaldi. Ha letto qualcuno di questi volumi, come gli sono sembrati e cosa pensa del lavoro di promozione operato da Il Foglio Letterario?

M.C.
Le scelte della casa editrice sono lodevoli, come tutta la sua politica, ma non si può pretendere che mi interessi una biografia di Aldo Lado, con tutto il rispetto.



31.
Quale è il film che gli ha dato maggiore soddisfazione, a livello internazionale? L'hanno mai invitata all'estero o dedicato citazioni particolari che ha riconosciuto in un film straniero?

M.C.:
In Francia apprezzano molto certi miei film, ci sono quei cinefili intellettuali che hanno sviscerato scena per scena roba come Napoli Spara!


32.
L'ultima domanda, cosa sognava di diventare il piccolo Mario Caiano quando era bambino? Dalla lettura della sua autobiografia si deduce che mai avrebbe pensato di fare regista, sebbene lei fosse un figlio d'arte (il riferimento va alla settima arte)?

M.C.:
Prima volevo fare il marinaio, poi, più concretamente, l’archeologo, ma ringrazio il caso, o l’istinto o chissà che che mi hanno spinto verso il mestiere più bello del mondo.

Cinque volumi della Scuderia de Il Foglio Letterario. 
I miei due Spaghetti Western insieme all'autobiografia di Caiano,
al primo volume sulla Storia del Cinema Horror a cura di G.Lupi
e al libro intervista del ceko Jan Svabenicky.

Un grande grazie a Mario Caiano, regista umile e tra i migliori nell'ambito del cinema d'azione italiano, in primis per aver scelto, suo malgrado, di fare il regista regalandoci così almeno una dozzina di prodotti di grande intrattenimento. Un secondo e doveroso ringraziamento, più grande del primo perché personale, per avermi onorato di intervistarlo e di divertirmi nello scrivere le domande e soprattutto nel leggere le risposte, mia vera passione, perché, come dice l'amico Svabenicky: “Per chi scrive di cinema (e non solo di questo, aggiungo io) e non ha esperienza diretta con la realizzazione di un film, è fondamentale tenere di conto del lavoro di chi il cinema lo fa. Molte delle figure professionali coinvolte, a vario titolo, nel mondo del cinema possono fornire la propria testimonianza in maniera tale da dare un contributo autentico alla storia del cinema.”