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martedì 31 ottobre 2017

Recensione Narrativa: IL TREDICESIMO ZODIACO di Alessandro Pugi.




Autore: Alessandro Pugi.
Anno: 2014.
Genere: Giallo - Serial Killer.
Editore: Edizioni Il Foglio.
Pagine: 203.
Prezzo: 14,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Quarto romanzo nel carniere dell'ispettore di Polizia Penitenziaria Alessandro Pugi, qua alle prese con un thriller che definirei atipico. Lo scrittore elbano, classe '72, confeziona un'opera ambiziosa che miscela generi diversi ruotando attorno a una struttura gialla orchestrata su due piani temporali. Il Tredicesimo Zodiaco, dato alle stampe dalle Edizioni Il Foglio nel 2014, prende le mosse come un thriller convenzionale con un'indagine a carico di un serial killer rituale il cui modus operandi suggerisce un movente a sfondo esoterico. Lo spunto iniziale diviene sempre più affascinante e coinvolgente al procedere della lettura. Pugi dimostra maturità e stile nel veicolare il narrato, tocca temi come il destino già scritto, la magia e l'occultismo come dati di fatto di una realtà che sfugge alla scienza in cui viene dato per assodata l'esistenza di un aldilà che consente alle anime dei defunti di entrare in relazione con i medium. In questo contesto muove i suoi passi un sanguinario e sadico killer che uccide e mutila le sue vittime (non si vede mai in azione, sappiamo solo dei suoi delitti dall'analisi dei cadaveri rinvenuti), incidendo sui corpi dei segni che si scopriranno poi essere la riproduzione delle costellazioni dello zodiaco (da qui il nome di Killer dello Zodiaco, niente a che vedere con lo Zodiac Killer di fine anni '60 di San Francisco). Ogni omicidio è caratterizzato da una mutilazione diversa connessa alla tipologia della costellazione raffigurata, a sua volta coincidente con un segno zodiacale. Pugi in realtà, lo scoprirete alla fine, è un po' disonesto col lettore. Fa capire che il killer sceglie le proprie vittime in funzione del loro segno zodiacale, sempre diverso, così da ricreare l'intera scala dei dodici segni necessaria a completare il rito legato a un fine di carattere esoterico. In realtà questa soluzione non è in linea con la natura delle vittime designate e la cosa non può non emergere al procedere delle indagini (il perché di questa mia osservazione lo capirete terminato il romanzo), ma nel romanzo questa elementare considerazione passa in secondo piano e non viene evidenziata dagli indagatori (che tutte e tredici le vittime fossero di segni zodiacali diversi sembra praticamente impossibile).
Grazie anche a questi artifici necessari per le esigenze letterarie, si respira per lunghi tratti aria di narrativa fantastica a sfondo esoterico, cosa che innalza le aspettative. Immaginatevi una Bologna, città in cui si svolgono i fatti, assimilabile alla città in cui è ambientato il film Seven di David Fincher, piovosa, densa di traffico. Ed immaginatevi un commissario di polizia che fa ricerche sui misteri astrologici, su antiche leggende e in particolare su quella che vorrebbe esistenti tredici segni dello zodiaco, in luogo dei dodici convenzionali, in cui si parla di illuminati e di poteri in grado di anticipare le vicende del futuro. Una situazione che ricorda abbastanza da vicino il caso del Mostro di Firenze, con la differenza che le vittime sono singole e tutti uomini. Fate poi passare trent'anni, con un secondo poliziotto che si mette a indagare sul caso chiuso, perché pungolato da un spirito che si manifesta sottoforma di possessioni mostrandogli visioni di una vita passata e perché la vicenda continua ad avere molti punti oscuri, tanto da dar l'idea di esser stata chiusa con l'arresto e la successiva morte di un capro ispiatorio (cosa vi ricorda?).
Pugi tira in ballo persino un libro riportato nell'Apocalisse biblica, in grado di offrire a chi compierà una serie di sacrifici umani il potere di leggere il futuro, il dono del c.d. terzo occhio ovvero il segno degli illuminati (il fantomatico tredicesimo segno dello zodiaco). La componente fantastica, ai limiti dell'horror, viene rafforzata dalla presenza di esperti di astrologia, medium e soprattutto di un'entità ectoplasmatica (evocata anche grazie a delle sorte di sedute spiritiche) che sembra perseguitare i due agenti che si troveranno, in epoche diverse, a condurre le indagini. Grande costruzione iniziale dunque a suggerire una via su cui sarebbe stato bene proseguire, ma Pugi, volendo ricercare l'originalità, cerca di evitare lo scontato e la prevedibilità di sviluppo ricorrendo a elementi fantascientifici (programmi virtuali in cui muoversi alla ricerca di notizie del passato) e a una serie di soluzioni funzionali a mettere in contatto il futuro col passato (e non viceversa), un po' sulla scia del film Frequency - Il Futuro è in Ascolto (2000) di Gregory Hoblit, con ripercussioni conclusive che ricordano molto alcuni racconti di Ray Bradbury. Questa scelta determina un effetto non proprio vantaggioso. Ne viene a risentire la componente fantastico-esoterica, tanto che il modus operandi del killer si traduce in una macchinosa montatura atta a celare la vera natura degli omicidi (movente classicissimo che nulla ha a che fare con l'esoterismo). Peraltro Pugi pecca di un pizzico ingenuità, dal momento che sussiste un fortissimo legame tra le vittime e se è vero che questo è difficilmente ricostruibile dagli agenti indagatori lo stesso non può dirsi per le vittime. Queste ultime si conoscono tra loro, vien da se intuire la conseguenza di ciò al susseguirsi degli omicidi con la polizia che verrebbe di certo imbeccata dai superstiti ricevendo così un forte aiuto per la risoluzione del caso.

Da un punto di vista stilistico, di gestione della storia e dei personaggi, Pugi si rivela uno scrittore molto interessante e da seguire. Peccato che non abbia, a mio avviso, sfruttato appieno la componente esoterica della storia (resta uno specchietto per le allodole atto a sviare le indagini), perché sarebbe potuto venir fuori un romanzo notevole. Editing perfetto.
Resta una lettura a lunghi tratti coinvolgente che non fa staccare facilmente il lettore dal libro. Finale un po' deludente e tendente al fracassone, almeno per i miei gusti.

L'autore ALESSANDRO PUGI.


"C'è chi dice che per essere felici bisognerebbe avere il corpo di un ragazzo e la mente di un vecchio."

lunedì 23 ottobre 2017

Recensione Narrativa CALCIO E ACCIAIO di Gordiano Lupi.



Autore: Gordiano Lupi.
Anno: 2014.
Genere: Sportivo - "Vita reale".
Editore: A Car Edizioni.
Pagine: 190.
Prezzo: 12,50 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Questa sarà una recensione lievemente diversa da quelle canoniche, un'analisi dove i miei commenti personali e le mie valutazioni andranno a pari passo con gli aneddoti e i processi formativi del testo che hanno portato l'autore, Gordiano Lupi, all'ideazione e poi alla stesura di quello che reputa, probabilmente non a torto, la sua migliore opera di scrittura creativa. Ho deciso anche io di prendere le mosse di questa recensione con una prefazione musicale. Lupi utilizza la sognante e famossissima La Leva Calcistica della Classe '68, ascoltata milioni di volte anche dal sottoscritto quando da ragazzino inseguivo i palloni nell'improbabile ruolo di centravanti (processo opposto a quello del protagonista del romanzo), per tratteggiare l'ideale cornice in cui andrà a incastonarsi il testo che si dipanerà nelle pagine successive. A mio modo cerco di fare altrettanto, con il testo di una canzone cantata da uno storico portiere di serie A scomparso qualche anno fa, che decise di autoprodursi un album senza grandi speranze di riconoscimento, così per sfizio e per passione, semplicemente perché gli amici gli avevan detto che proprio male non era alla chitarra e che, guarda caso, il suo stile somigliava proprio a quello di Francesco De Gregori. Una pubblicazione destinata a finire nel nulla, penserete voi, o al massimo nelle collezioni di qualche tifoso nostalgico. E invece no, perché i sogni, come racconta Lupi, si devono coltivare sempre, anche quando sembran impossibili e anche quando il crepuscolo inizia a cancellare i colori all'orizzonte. Quell'album autoprodotto da un cantante, verrebbe da dire "improvvisato" o comunque non professionista (neppure dilettante, in verità), è arrivato a ricevere il riconoscimento e il premio da un certo Mogol. Scusate se è poco. Il Cantante e Calciatore (che è pure il testo di una sua ulteriore canzone) di cui sto parlando è Andrea Pazzagli, storico portiere di Perugia, Ascoli e Milan, ma anche della nazionale italiana Beach Soccer capitanata dal capitano della squadra in cui, io che vi scrivo, ho debuttato nei campionati nazionali di Calcio a 5 a Pisa. E allora spazio alle note della canzone (notevole tanto quanto quella di De Gregori), per poi tuffarsi nelle atmosfere di Calcio e Acciao - Dimenticare Piombino..

PREFAZIONE MUSICALE

Rettangolo Verde
di Andea Pazzagli.
Colonna sonora calcistica

Per tutti è iniziata alla stessa maniera, dietro un pallone a primavera, 
poi con gli amici in mezzo alla strada, che bello sentirsi una squadra, 
la prima maglietta col numero dietro, il tiro e il rumore di un vetro, 
e i tuoi scarpini fatti di cuoio l'odore di canfora d'olio, la tua squadretta la prima partita ma quant'è bella la vita,

tuo padre e tua madre sempre scontenti quei libri non li hai mai aperti, 
il primo torneo il primo rigore perdere è un grande dolore, 
e la finale il goal vittoria e finalmente l'odore di Gloria, 
la prima squadra e quell'esordio incacellabile dolce ricordo, 
tante persone tu al centro del prato la vita che hai sempre sognato,

 poi sul più bello quell'infortunio e tutto diventa più buio, 
ma la tua forza il tuo grande amore presto ritorni a giocare, 
gli amici veri e quelli finti adesso di soldi ne hai tanti, 
e la tua donna seduta in tribuna fra tanta gente ma sempre più sola,
i suoi gioielli il suo visone l'invidia di tante persone,

passano gli anni gli allenatori i primi acciacchi e i primi dolori, 
dopo trent'anni ti senti già vecchio è brutto guardarsi allo specchio, 
l'ultimo triste allenamento i tuoi anni migliori sono nel vento, 
alla tua età la gioia arriva ma tu ti senti alla deriva, 
e vedere quel campo dovere andar via nel cuore ti scoppia la nostalgia, 

ma non disperare c'è sempre tuo figlio a cui puoi dare qualche consiglio, 
ma non disperare c'è sempre tuo figlio a cui puoi dare qualche consiglio.

LA RECENSIONE DI MATTEO MANCINI
Calcio Acciaio è un romanzo che Gordiano Lupi, l'autore, ha covato per lungo tempo e che ha iniziato a prendere forma con un vecchio libro intitolato Lettere da Lontano (1997), pubblicato anche da Il Foglio di Piombino. Un'opera quest'ultima che non riscosse grande successo, ma che ha giocato un ruolo importante sia per la realizzazione del volume che ci accingiamo ad analizzare sia del "gemello" Miracolo a Piombino. Pubblicato nel febbraio del 2014 dalle Edizioni A. Car srl di Lainate, provincia di Milano, Calcio Acciaio costituisce una delle opere di maggior cuore, se mi concedete l'espressione, di Gordiano Lupi. Non c'è dunque da stupirsi nel leggere che è il libro che l'autore ama di più, dato che la cosa è facilmente percebile anche nella lettura.
Autore classe 1960, ex arbitro di calcio e appassionato di cinema di genere, Lupi abbandona la via della narrativa fantastica, talvolta truculenta - si pensi a Una Terribile Eredità (2009) - per confezionare un romanzo tributo alla sua Piombino, ma soprattutto al rimpianto tempo perduto, il tempo dell'adolescenza, gli sfumati anni in cui ognuno di noi cullava i propri sogni guardando al futuro con gli occhi tipici di un bimbo che non si pone limiti di sorta.
Ne viene fuori, sotto la forma del romanzo dalle forti attinenze sportive, un'opera molto particolare che definirei dai toni crepuscolari e agrodolci. Il "calcio" da una parte come evasione dalla triste realtà, l'acciaio dall'altra come il presente costituito dal lavoro in fabbrica che debilita ma garantisce il pane con cui tirare avanti. Lupi usa lo strumento della finzione narrativa per plasmare un qualcosa che non è proprio un romanzo. La storia diviene marginale, secondaria. Si parla di un ex campione della serie A che, appese le scarpette al chiodo, decide di ritornare nel paese di infanzia nei panni di allenatore di calcio dopo alcune esperienze negative sulle panchine della C1. Il suo è un ritorno che sa più di necessità di ritornare alle origini, a un tempo scomparso troppo presto e che mai più ritornerà. Un bisogno fisiologico che potremmo paragonare alla necessità di un pesce di riprendere la via del mare. Il ritorno alle origini non vuole dunque essere la ricerca di un trampolino per il rilancio verso nuovi traguardi, ma più una sorta di fuga da un presente non accettato e alla ricerca della sicurezza che solo il ricordo di una sana infanzia può rievocare. "Rincorrere il passato è una soluzione, quando il presente non possiede niente di magico, non profuma di sogni ma porta con sé un acre sapore di sconfitta."
L'ex campione abbandona i palcoscenici del calcio che conta per tornare in provincia, nei campionati di promozione ed eccellenza, a battersi nei polverosi campi dei dilettanti in onore di una cittadina, la Piombino città natale dell'autore, che attraversa una crisi profonda e versa in una situazione di decadenza. Lupi è chiaro nel caratterizzare con aggettivi e immagini decrepite sia le fabbriche che costituiscono la fonte di reddito della cittadina sia le strutture che vi gravitano attorno. "Vuol guidare la sola squadra che conseva un posto nel suo cuore, in uno stadio che non è più lo stesso, che l'incedere degli anni ha modificato, distrutto, logorato, ma che resta il suo stadio."

Lupi decide così di usare la storia di questo cinquantenne, che ha raggiunto la notorietà a sacrificio della vita privata, per rendere omaggio ai valori che dovrebbero costituire la base della vita genuina ma che troppo spesso sono diametralmente opposti all'arrivismo sociale e persino alla conquista della felicità. Il suo Giovanni è, di fatto, un fallito pur essendo un idolo delle folle. La scalata al successo, alla notorietà, si è trasfomata in un allontanamento da quella semplicità, talvolta sofferta e faticosa, in cui risiede la vera felicità e in cui trova terreno fertile la vera amicizia e il vero amore. Giovanni, con i suoi soldi e i suoi trofei, non è riuscito a costruirsi una famiglia (cosa che gli rimprovera di continuo la madre), vive di rimpianti e soprattutto di ricordi, rintanato in un passato di cui non trova più corrispondenza nella nuova Piombino, vuoi per la speculazione edilizia, vuoi per i tempi che cambiano. La storia dell'allenatore e delle gesta del Piombino Calcio diventano così strumento per parlare di altro. Un'occasione per veicolare emozioni e sensazioni, operazione che Lupi conduce molto bene in virtù di un romanticismo struggente assimilabile alla figura di un gabbiano che plana al tramonto liberando sopra le onde l'ultimo canto della giornata.
Lupi pizzica dunque le corde emotive dei lettori, specie quelli legati a un certo contesto (vuoi che siano sognatori o sportivi passionali), e lo fa non tanto facendo immedesimare gli stessi con i personaggi, ma portandoli a misurarsi con la propria infanzia, i propri ricordi del paese di origine e le vicende scolastiche, perché, in fondo, se è vero che non c'è più la Piombino degli anni settanta, non ci sono più neppure le altre realtà di provincia, con i loro cinema di seconda visione, i loro bar e gli innocui passatempi di una volta. Persino io che sono nato nel 1981 ricordo molte delle cose che Lupi racconta nel romanzo e che oggi, ahimè, non ci sono più.

Il romanzo pecca forse di una certa ripetitività. Lupi ritorna spesso sulle sue riflessioni, concentrandosi più sulla parte introspettiva dei personaggi che sull'azione vera e propria, tuttavia l'opera è ricchissima di passaggi e dialoghi notevoli, conditi da una malinconia e da una tristezza tipica dei bei tempi che non ci son più. Calcio e Acciaio commuove, genera una sorta di stretta al cuore, per il suo far rivivere i ricordi personali sepolti nel passato dei lettori. A mio avviso, infatti, parlando del contesto sociale e delle abitudini dei cittadini della Piombino degli anni settanta, Lupi confeziona un cocktail di emozioni e situazioni in cui i lettori finiscono col rispecchiarsi con la diretta conseguenza di innescare i propri ricordi. Qualcuno, il solito con la puzza sotto il naso, potrebbe parlare di "retorica" e "luoghi comuni" invece non è vero. In Calcio e Acciaio Lupi apre il proprio cuore, dispensa omaggi ai propri amori (cinematografici, calcistici e musicali) e confeziona un sentito tributo alla sua città, ma anche e soprattutto a una società, senz'altro più familiare e umana dell'attuale, che si è estinta.
Ecco che la storia raccontata, in sé e per sé, diviene secondaria, funge da background, mentre il contesto ambientale, che di solito è esso il background di una storia classica, diviene la parte centrale del romanzo. Ciò si verifica nonostante i personaggi siano ben caratterizzati e siano essi stessi strumenti per mettere in scena problematiche attuali (l'immigrazione dall'Africa, il calcio scommesse, la disoccupazione e la chiusura delle fabbriche). Mi pare inoltre di intuire, in alcuni personaggi, l'introduzione di forti componenti autobiografiche. Si veda i ricordi del nonno del protagonista, appassionato di lettura e fondamentale per la formazione del futuro campione per il suo spingerlo a sognare a occhi aperti; oppure il personaggio dell'arbitro che trova a Cuba la propria futura moglie, proprio come fatto da Lupi, e via dicendo.

Un romanzo dunque che suscita tenerezza per la sua sensibilità e che è profondamente diverso da altri lavori di Lupi. Traspare una certa dose di sano pessimismo verso il futuro e il voler sottolineare che il periodo più bello della vita è quello dell'infanzia ovvero prima che la disullusione venga a presentare il materiale volto della cruda realtà. Ma forse, in fin dei conti, la realtà è un'altra, è un qualcosa di molto più soggettivo, e Lupi ha ragione quando scrive che se "il tempo passa e i sapori cambiano" è pur vero che  "siamo noi che cambiamo le medeleines della nostra vita per fermare il tempo, sapori e odori che non torneranno, ricordi confusi nella memoria, sogni di bambino."

A completamento della recensione c'è da dire che Calcio e Acciaio ha avuto una buona accoglienza da parte dei lettori e della critica. E' stato presentato allo Strega ed è stato premiato a Trani (Premio Bovio, ironia della sorte il protagonista del romanzo è un ex calciatore che ha lasciato a Trani il cuore e l'amore della sua vita) e a Massa (Premio Città di Massa). Considerazioni e soddisfazioni che hanno spinto Lupi a valutare l'opportunità di dar corso a un sequel e persino a realizzare una trasposizione cinematografica (a mio avviso non facile da fare per la natura prevalentemente introspettiva del romanzo).

Lettura consigliata soprattutto agli amanti di storie malinconiche. Mi è piaciuto molto, anche perché sono io stesso un malinconico a cui piace parlare del passato con una punta di sana nostalgia.

L'autore GORDIANO LUPI
e un articolo sul suo romanzo.

"Ci sono stati tempi duri. Non ho fatto altro che sognare"
"E hai realizzato quei sogni?"
"No. E neppure vorrei."
"Perché, nonno?"
"Non potrei vivere senza sogni."

giovedì 19 ottobre 2017

Recensioni Narrativa: L'OCCHIO DEL PURGATORIO di Jacques Spitz.



Autore: Jacques Spitz.
Titolo Originale: L'Oeil du Purgatoire.
Anno: 1945.
Genere: Fantastico / Surreale.
Editore: Mondadori, collana Urania (n.987).
Pagine: 114.


Commento a cura di Matteo Mancini.
Torniamo con L'Oeil du Purgatoire, edito nel 1945 e pubblicato in Italia nel 1973, sulle sempre gradite pagine dell'Urania per presentare un romanzo che mi è stato segnalato dall'amico Cesare Buttaboni. Vero e proprio classico della narrativa surreale francese, più volte proposto dalla Mondadori nella collana Urania e anche in edizioni in vendita nel tradizionale campionario destinato alle librerie.
Romanzo molto particolare, che si presta a diversi piani di lettura e che fa sfoggio di un'ironia nera al servizio di una storia paradossale a metà strada tra il surrealismo kafkiano e l'onirismo degli scrittori di genere. 
Dietro al narrato c'è il franco-algerino Jacques Spitz, un autore ingiustamente dimenticato del primissimo novecento, morto solo e in povertà in quel di Parigi nel 1963. Autore sarcastico, ai limiti della satira, solito dileggiare i militari da una parte, gli accademici dall'altra e non da ultimi i poteri forti che incarnano il demone dalla politica con la P maiuscola. Era solito miscelare la narrativa di genere a elucubrazioni di carattere filosofico-religioso, giocando agli estremi. 

L'Occhio del Purgatorio è il suo capolavoro insieme a La Guerre des Mouches (1938), in italia Le Mosche, in cui immagina la terra impegnata contro un aggressore molto particolare: sciami di mosche contrapposte agli eserciti dei vari Mussolini, Hitler e Stalin. Gli insetti, ovvero le creature più microscopiche tra quelle percebili a occhio nudo, contro i grandi politici chiamati a spartirsi il mondo. Palese la verve satirica, del resto è ben noto intorno a chi danzino le mosche. L'Occhio del Purgatorio non si discosta da tale visione dissacrante, pur se innalzata a valori trascendenti, assai superiori alle vicende politiche. Ciò nonostante è un romanzo consigliato a tutti, compresi i lettori popolari, per il suo mostrare una storia che dietro all'apparenza del racconto di genere cela profondi livelli di lettura. Lo stile brioso, veloce e leggero, rende il romanzo digeribile a tutti i palati, così come la sua lunghezza contenuta ne fa un libro terminabile in poche ore, ciò non va tuttavia di pari passo con i contenuti, che sono tutt'altro che di pronta soluzione, rivelandosi aulici e colti. Evidente, fin da subito, la critica all'uomo della società contemporanea (figurarsi quello del nuovo secolo, rimbambito dalle pubblicità e da quanto proposto dai mass media) tratteggiato come un essere inconsapevole della propria natura, addirittura non pensante, una vera e propria marionetta assimilabile a quella risultante dai racconti degli odierni Thomas Ligotti e Laird Barron. “Nella vita ho scelto di pensare. Gli uomini, animali pensanti, pensano telmente poco che chi non accetta tanta parsimonia fa sicuramente la figura dell'eccentrico“ afferma uno dei due principali personaggi del romanzo.
Spitz intesse una prima traccia di storia proponendo le sorti di un pittore indolente, stanco della vita e giunto all'orlo del suicidio, che si trova, suo malgrado, inconsapevole cavia di un atipico mad doctor (più filosofo che scienziato) convinto che gli animali vivano un tempo accellerato rispetto al nostro per ragioni di sopravvivenza. Così, per effetto di uno speciale bacillo isolato in laboratorio, lo scienziato infetta il nervo ottico del pittore con la scusa di offrirgli una pastiglia per l'emicrania. Ha così inizio un viaggio nell'irreale di macheniana memoria come suggerito dal celebre Il Gran Dio Pan, in cui verranno a sovrapporsi due realtà in cui il protagonista si troverà invischiato lottando continuamente col rischio di esser rinchiuso in manicomio e ben attento a non rivelare il suo segreto. "Penetro nei segreti dell'alidilà, attraverso la fessura di una porta misteriosa... E tutto l'invisibile che mi è dato di vedere s'intreccia come un immenso gioco di carte, per giocare Dio solo sa che gioco!" Così, da una mattina all'altra, il nostro si troverà testimone di un processo degenerativo che lo porta a scindere la realtà fenomenica visiva da quella percepibile con gli altri sensi. In altre parole la realtà gli appare, progressivamente, evoluta rispetto a quella contemporanea così che gli oggetti, gli uomini e tutto ciò che si trova nella realtà, si presentano nei primi giorni come saranno qualche anno dopo, poi, col procedere delle settimane e l'intensificarsi della vista, come saranno qualche decennio dopo, infine qualche secolo dopo. “Vedo le cose nel posto in cui sono, ma nello stato in cui saranno più tardi“ si rende presto conto il protagonista che si vede vomitevoli poltiglie nei piatti, al posto di succulente bistecche, che tuttavia mantengono il gusto originario.

L'eloquente copertina di una recente
edizione della Mondadori.

Viene così a delinearsi una sorta di diario con Poldonski, questo il nome del protagonista, che narra le sue vicende e come la realtà gli appare via via intorno. Immutata per quattro sensi, stravolta per il quinto: la vista. Il genere del romanzo diviene così molto vicino a quel surrealismo alla Perutz, o alla Kafka (seppure di stile assai più leggero), in cui trovano spazio riflessioni sulla caducità delle cose materiali, sulla conservazione a scadenza dell'uomo sia come singolo che come razza (una nullità al cospetto dell'universo), mostrato dapprima in carne ossa, poi aggredito dalla putrefazione, quindi nelle forme di scheletri che camminano per la strada per giungere a trasformarsi in cenere e da questa a forme ectoplasmatiche che vivono nel mondo ma vagano senza capacità di interelazioni, non solo con i vivi, ma anche tra loro (in una solitudine finale di livello cosmico).

Spitz è divertente e sa regalare sorrisi (si veda il rapporto freddo e sarcastico del protagonista con la fidanzata), ma lo fa con un fortissimo retrogusto di tristezza. Il suo è un taglio pessimista, amaro, senza speranza. La bellezza della natura che ci circonda ci viene mostrata per quella che sarà la sua sorte finale, in un processo di decomposizione che arriverà a decretare la morte stessa del mondo. Poldonski, proiettato simultaneamente su due livelli sfalsati di esistenza, riesce così a vedere il tutto senza comprenderne le ragioni. Solo le conseguenze, i risultati finali dell'azione del tempo, saltano agli occhi del pittore che intuisce cosa succederà nel futuro, senza però carpirne i misteri che ne stanno alla base. Situazione che lo stimola a formulare decine e decine di congetture sul mistero della vita, ragionamenti che lo porteranno sempre più ad allontanarsi dai concittadini, a rinchiudersi in un isolamento che lo ridurrà allo stato di barbone, rinunciando alla propria professione di pittore e all'amore, per interrogarsi sul grande mistero della morte. Un mistero che riuscirà a comprendere, parzialmente, solo alla fine scoprendo la sua vera anima in un parallelismo che evoca Il Ritratto di Dorian Gray (in entrambi i casi tutto parte da un soggetto che si rende modello di un ritratto). Se Wilde usava l'elemento artistico del ritratto per mostare la vera realtà, Spitz usa la macchina fotografica (che riesce a immortalare l'aspetto attuale delle cose che appaiono decrepite agli occhi di Poldonski) ma ribalta il rapporto, poiché a differenza del padrino dell'estetismo Spitz vede nel mondo la prigione e nell'arte la fuga. “Cosa significa essere un pittore, un poeta, se non sottrarsi all'aspetto quotidiano del mondo per tentare altri approcci alla realtà? Anziché abbandonarsi alle attrattive del mondo, bisognerebbe invece provare un'intensa repulsione per esso“ Ecco così che la vita (ovvero la morte) diviene un quadro (il grande quadro della morte, ben rappresentato dall'opera realizzata da Poldonski in cui degli scheletri marciano al funerale di un uomo) da cui l'uomo superiore, l'artista, è chiamato a fuggire per conquistare il paradiso perduto, alla stregua di un'anima condannata alla perdizione fin dalla nascita per sconfiggere la morte e trovare in essa la vita. Un vero e proprio ribaltamento della filosofia che sta alla base dell'epicureo atteggiamento dell'estetismo e che si avvicina più alla filosofia stoica. “Volevo vedere le cose da un punto di vista originale, e l'ho ottenuto“ dice Poldonski che all'inizio, un po' come il suo correlato artista nato dalla pena di Oscar Wilde, finisce col fare un patto diabolico implicito con un individuo che si definisce Il Genio (da notare come nel testo appaia poi un omaggio esplicito a Le Mille e una Notte, fate voi l'uno più uno) per poi, a poco a poco, condurre una vita dissoluta (pur di farsi notare dagli altri uomini e dunque accettare) fino ad ammettere di essersi macchiato di furti e delitti e di aver così perduto la propria anima che pure gli danza attorno con un ghigno malefico e omicida al punto da esser irriconoscibile persino ai suoi occhi (cosa vi ricorda?). Dunque processi opposti ma epiloghi simili, che si sintetizzano assai bene nell'epilogo comune alle due opere. La condanna di Poldonski sarà quella di vedere il nuovo come sarà al momento della sua fine, con la conseguenza di veder sparire dalla realtà visiva tutto quello che costituisce la bellezza e la giovinezza della vita (l'incubo, guarda caso, degli estetisti decantati da Wilde), una situazione che arriverà assai presto a non sostenere pur evitando la fuga nel dolce mare della follia.

Forse le forme (leggisi le anime) sono soltanto un miraggio, mentre voi (i gioielli, leggisi il denaro), con la vostra realtà, sfidate i secoli e il mondo diventa cenere solo per mettervi meglio in risalto, voi unici oggetti preziosi in questo scrigno di rovine.“ Quale più tremenda constatazione per commentare la deriva materialista che domina la società moderna e che, da sempre, ha condotto le sorti della razza umana? Un motivo molto forte per evidenziare come il potere e la ricchezza siano i valori che sopravvivono nei secoli, menando il mondo verso la sua stessa rovina, forse le uniche certezze di un'esistenza che sembra priva di sbocchi e destinata allo sbaraglio finale.
Il dono della terza vista, chiamiamola così, conduce al paradosso kafkiano il nostro Poldonski che diventerà, in buona sostanza, cieco al progredire della “malattia“ (la realtà attorno a lui gli apparirà come sarà alla fine dei tempi, cenere e dunque invisibile ai suoi “nuovi occhi“ che lo rendono incapace di muoversi nel mondo) riuscendo a vedere maggiormente nel più profondo dei misteri dell'umanità. Unico cosciente in un mondo di ignoranza o di soggetti che fuggono dalla vera realtà delle cose illudendosi di essere immortali per godersi le flebili droghe della quotidianità, emozioni effimere che altro non sono che lo spettro che cela un futuro di perdizione e di solitudine. Spitz, a livello metaforico, richiama, non so quanto volontariamente, massime esoteriche sulla natura del c.d. terzo occhio dando così una sottotraccia al narrato che eleva il romanzo a capolavoro del genere. Un'opera dunque che sa intrattenere diverse categorie di lettori, ma anche stupire, deliziare con il suo essere visionaria ma soprattutto riflettere. Un romanzo che trasmette ai lettori la complessa personalità del suo autore, uno scrittore che merita di esser riscoperto e apprezzato. un vero e proprio maestro del fantastico, troppo ignorato e non inserito neppure nel volume francese Grandi Maestri della Letteratura Fantastica dell'Edipem, Recupereremo presto altre opere di Jacques Spitz, tradotto in diverse copie Urania anche di recentissima pubbliczione, è una promessa.

L'autore JACQUES SPITZ

"Sono le donne che tessono l'arazzo del mondo. Le donne riuniscono il gregge umano, l'avviliscono, fanno in modo che resti nella mediocrità, inculcandogli le loro sordide preoccupazioni di letto o di stalla."

martedì 17 ottobre 2017

Recensione Narrativa: IL MISTERO DELLA SCELTA di Robert W. Chambers.




Autore: Robert W. Chambers.
Anno: 1897.
Genere: Antologia Fantastico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2011.
Pagine: 290.
Prezzo: 24,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Due anni dopo il celeberrimo The King in Yellow (1895), famoso per aver dato lo spunto a Lovecraft per l'ideazione del Necronomicon, il newyorkese Robert William Chambers da alle stampe la sua terza antologia di racconti fantastici, probabilmente la meno riuscita. Pubblicata a New York, The Mistery of Choice è stata distribuita per la prima volta in Italia solo nel 2011 per merito della piccola Edizioni Hypnos di Andrea Vaccaro.
Si tratta di una raccolta di sette racconti di genere, per lo più, fantastico, con contaminazioni poliziesche a sfondo naturalistico, impreziosita da una serie di componimenti poetici.
Più ancora che ne Il Re in Giallo, emerge la forte componente romantica di Chambers, il quale da ampio spazio a una visione, se vogliamo, moralista, tutta incentrata sul ruolo della famiglia vista quale baluardo eretto contro ogni avversità, ivi comprese quelle di stampo paranormale. Giuseppe Lippi ha parlato per ciò di "Amore matrimoniale quale fermo contraltare delle potenze oscure, secondo la morale vittoriana che vede nella moglie e nel marito i nemici giurati dell'instabilità sociale, i guardiani della salute pubblica, i persecutori del vizio."
Lo scrittore americano diverge poi da molti suoi colleghi di settore per un ottimismo di fondo che trapela da ogni narrazione, anche quando i fatti sembrano volgere al peggio. Il male non vince, viene piegato, ridimensionato, così come gli assassini vengono scoperti e assicurati alla giustizia. Alla fine arriva sempre la pace e la conquista dell'amore.
Lo stile è molto melodioso, anche troppo, al punto da risultare penalizzante per il ritmo. Chambers dimostra di avere gran passione per le descrizioni naturalistiche, pittura a parole dei veri e propri quadri in cui insetti, vegetazione, mare e vento diventano elementi aggiuntivi a corredo delle sorti dei vari protagonisti. In un racconto, Pompe Funebre, sono proprio gli animaletti e le vicende giornaliere del bosco ad assurgere al rango di protagonisti. Chambers si rivela bravissimo a trasformare in narrativa quella che pare essere una fotografia dinamicizzata che immortala i processi di vita e di morte di insetti e farfalle. Una quadro in cui la morte dona la vita (ancora il punto di vista ottimista e positivo).
Un altro difetto, a mio avviso, è l'esagerato indugiare sulle situazioni amorose, spesso mielose, portate troppo per le lunghe fino a risultare non un qualcosa di caratterizzante bensì di principale e stucchevole, col fantastico che finisce per essere mero pretesto di narrazione ridotto a un qualcosa che sta al margine della vicenda. Ne è un esempio calzante Un Argomento d'Interesse, in cui la caccia a una fantomatica creatura preistorica (il fantasioso Termosauro) si riduce alle ultime sei pagine di un racconto di circa 60. Un racconto, quest'ultimo, che ha il merito di anticipare Il Mondo Perduto di Doyle, ma che è assai meno omogeneo (a livello di ritmo) e non privo di vuoti narrativi dovuti alla presenza di creature di valenza criptozoologica che si materializzano e scompaiono nel nulla. Poco comprensibile anche la verve ironica rappresentata da un collaboratore affetto da una bizzarra forma di compulsivismo: incolla per divertimento annunci pubblicitari perché è convinto di rendere più estetico e colorato l'ambiente (!?). Umorismo poco calibrato e nun funzionale al narrato. Peccato perché in questa storia Chambers tratteggia una lotta tra i vari mostri di sicuro impatto, purtroppo però non supportata dal resto, a delineare un racconto delle lunghe attese. 

Assai più incisivi, ma tutt'altro che memorabili (per la portata innovatrice), L'Imperatore Viola e Il Messaggero. Si tratta di due racconti che, uniti a Pompe Funebre, costituiscono una trilogia di storie che costituiscono un mini ciclo ambientato in Bretagna, alle porte della città di Quimper, con medesimi personaggi. Nel primo racconto si assiste a una faida tra due collezionisti di farfalle (vero e proprio leit motiv di tutta l'antologia, in quasi tutti i racconti Chambers propone una diversa farfalla a vario titolo citata) che si sfidano a chi ha la collezione più bella fino a giungere a uccidersi per il primato. Bello l'epilogo con doppio colpo di scena e Chambers che risolve il tutto grazie a una trovata alla Edgar Allan Poe (per l'epoca bell'idea).
Il Messaggero è l'unico vero racconto del terrore del lotto. Chambers riduce la componente romantica, comunque presente, e intesse una storia di maledizioni e di vendette che vengon da lontano e che hanno in un prete nero ritornante (sotto forma ectoplasmatica) il catalizzatore finale. Bella l'atmosfera e la grandguignolesca soluzione che pone termine al tutto.

Ne L'Ombra Bianca un giovane caduto in coma vive in sogno una vita parallela, incentrata ovviamente sull'amore per una cugina, venendo poi rapito sul più bello dai dottori che lo riportano in vita, cancellando il menzognero vissuto. Nella fattispecie Chambers gioca sul modo di dire secondo il quale, nell'ultimo secondo di vita, un uomo rivive tutta la propria vita passata  per modificarlo spostando dal passato al futuro le ultime elucubrazioni mentali. "In quell'anima il magico secondo brilla e indugia, dilatandosi fino a trasformarsi in minuti, ore, giorni; si, giorni e giorni, finché, se la magia resiste, anni tranquilli si accumulano l'uno dopo l'altro; eppure si tratta solo di un secondo: di quel momento magico che venne a me e fu preso dal vortice della mia vita mentre cadevo, precipitando giù, tra cielo e terra."
Bello per il contesto ambientale, uno specchio di mare tempestoso e nebbioso, il breve Passeur dove un vecchio, convinto di sentire la voce dell'amata donna perduta, viene traghettato sull'altra sponda da un uomo che in realtà è emblema della morte. Chambers trasforma così il trapasso donando a esso un significato ottimista, rappresentato dal richiamo dell'amore perduto pronto a ripresentarsi per riprendere quanto è stato interrotto in vita.
Parte bene L'Isola del Dolore con un uomo che sfugge da un'esecuzione e si nasconde, stile Robinson Crusoe, in un'isola incontaminata dove scopre una donzella che lo renderà padre. Forzata la conclusione.
Da notare il tema dell'ombra bianca che ritorna in più racconti, ivi comrpeso in quest'ultimo (ma anche ne L'Ombra Bianca e Pompe Funebre), a simboleggiare una vita in sospeso destinata a imminente morte.

Mi congedo da questa antologia di Chambers, un po' deludente in verità, per sottolineare il grandissimo romanticismo messo al servizio di storie dotate di un forte gusto per il macabro, ma che si rivelano molto moraliste, con descrizioni caratterizzate da un tocco poetico che sfiora il pittorico, e prive di risvolti filosofici e/o esoterici (chiavi di lettura ridotte). Un Chambers in formato Dario Argento, mi verrebbe da dire, per il suo portare in scena falene, farfalle e scarabei e farli diventare i protagonisti che svelano delitti o li anticipano o che, ancora, giungono a dare inizio a processi di putrefazione o a introdurre entità malefiche (si veda la farfalla Sfinge Testa di Moro ne Il Messaggero). The Mystery of Choice mostra però anche un Chambers che "mena fin troppo il can per l'aia", diluendo oltre il lecito storie che potevano esser trattate con maggiore senso del ritmo e dell'azione. 
Antologia non consigliata ai lettori medi (c'è molto di meglio), indicata solo, a mio avviso, ai fanatici di fantastico e ai collezionisti quale completamento di un autore che deve la sua fortuna (in Italia) al solo Il Re in Giallo (antologia di ben altro spessore rispetto a questa). Si può tralasciare.

Robert W. Chambers.

"La morte dovrebbe esser benvenuta per coloro che amano Dio."

lunedì 9 ottobre 2017

Recensione narrativa: PASQUA NERA di James Blish.



Autore: James Blish.
Titolo originaleBlack Easter.
Anno: 1972.
Edizione: Editrice Nord, 1972.
Genere: Fantastico/Esoterismo.
Pagine: 180.

A cura di Matteo Mancini.
Opera curiosa nella produzione di James Blish, autore americano proveniente dal New Jersey, poi trasferitosi in Inghilterra, maestro indiscusso della fantascienza, premio Nebula e Hugo (fregiato inoltre di una lunga serie di nomination) e adattatore delle sceneggiature di alcuni episodi di Star Trek per farne dei romanzi cartacei.
Classe 1921, Blish ha preso le mosse quale ricercatore scientifico laureato in biologia, ma ha da sempre nutrito una grande passione per la letteratura e soprattutto per la poesia, al punto da diventarne un sapiente critico. Definito un hard science fictioner per la sua caratteristica di dar vita a romanzi fantascientifici rigorosi, giustificati su un piano materiale piuttosto che fantastico, si è concesso solo delle rare escursioni da tale approccio per sconfinare addirittura nel genere esoterico abbracciando (solo su carta stampata) il mondo dell'occultismo.
Ateo dichiarato ha da sempre mostrato un profondo e intelligente interesse per la religione e lo ha trasposto nelle sue opere, a partire da Guerra al Grande Nulla (Premio Hugo, nel 1959); opera che proietta il problema religioso su un pianeta alieno, visto quale ideale Eden, abitato da esseri che rigettano l'idea di un Dio, così da alimentare il clima di sospetti da integralismo religioso rappresentati da un prete gesuita inviatovi per vederci chiaro in quella che potrebbe essere una grande illusione orchestrata da Satana. Insomma, un futuristico processo alle streghe teso a vedere il male anche dove non c'è, come cantava Ivan Graziani in Maledette malelingue. Si intuisce dunque la poca simpatia da parte di Blish nei confronti dei processi mentali adottati dalle autorità religiose costituite per trattare la questione religiosa, a plasmare così un atteggiamento da spiccato provocatore al punto da farne, a sua volta, un inquisitore che ricerca gli anelli deboli delle argomentazioni che si discostino dai fatti nudi e crudi per dare interpretazioni soggettive (anziché oggettive). La scelta di Blish di non convertirsi mai a una religione è probabilmente il risultato di un voto (o meglio credo, a sua volta, ferreo) per la scienza e la ragione, un modo di pensare razionale che mal può coinciliarsi all'effimero e sospensivo atteggiamento di chi, gioco forza, si trova costretto a ricorrere a dogmi, miracoli e misteri della fede pur di superare quelle falle non arginabili, per questo non prese in considerazione dai sostenitori delle tesi sofiste (gli agnostici), e darvi una spiegazione trascendente. Blish però, a differenza dei grandi pensatori greci, si pone il problema di chi sia l'architetto dell'Universo, sempre che ve ne sia uno, e cerca di affrontare la questione nei suoi lavori che vanno così ad assumere valenza filosofico-allegorica, forse peccando, si potrebbe dire, di arroganza. Dopo il suo citato romanzo di punta, ideale anello conclusivo di una trilogia dedicata al tema, scrisse il romanzo storico (inedito in Italia) Doctor Mirabilis (1964) incentrato sulle vicende biografiche magico-alchemiche di Bacone, frate francescano illuminato ritiratosi a vita monastica dopo aver visto un suo allievo ardere vivo al cospetto di una fiamma levatasi dal nulla a seguito di un'invocazione demoniaca non riuscita. Non ancora sazio, nel 1967 prese a pubblicare, in tre puntate, sulla rivista IF il romanzo Faust Aleph Null (ovvero Faust all'Infinito) poi successivamente intitolato Pasqua Nera e strutturato in due romanzi collegati, il secondo dei quali (sequel, a mio avviso, da intendersi quale parte integrante del primo volume), L'Apocalisse e Dopo, pubblicato su Galaxy Magazine nel 1970. Ecco allora formarsi un ideale e dichiarato triangolo "magico" chiamato da Blish After such knowledge, cioè "il problema della conoscenza", che cronologicamente parlando prende le mosse con Doctor Mirabilis, prosegue con Pasqua Nera e il suo sequel, e si chiude con Guerra al Grande Nulla (A Case of Conscience). Una trilogia composta da romanzi, l'uno indipendente dall'altro, tutti orientati a riproporre, spostandola nel tempo (dal medioevo, al presente fino al futuro), la questione della "conoscenza secolare" e, più specificatamente, se essa costituisca un male. Blish muove i suoi ragionamenti da una considerazione: "una parte considerevole della tradizione mistica medievale sostiene che l'acquisizione, l'impiego, lo stesso desiderio di conoscenze secolari sia in sé un male." Sulla base di tale tesi, lo scrittore muove i suoi passi inserendovi un'ulteriore considerazione che ha in William Butler Yeats, possiamo dire, uno dei più illustri ispiratori. Il premio Nobel per la letteratura scriveva che "Se Dio è buono non è Dio, perché se Dio è Dio non è buono". Blish sviluppa il concetto con Pasqua Nera e fa proporre ai suoi protagonisti la seguente domanda, alquanto tentatrice e demoniaca mi verrebbe da aggiungere, per voler ascendere (da tipico razionalista) ai misteri del creato: "Se Dio è onnipotente e benevolo, perché allora esiste il male? E se invece Dio non fosse onnipotente, se il male avesse una sua esistenza positiva (in contrapposizione paritetica al bene) cosa potrebbe succedere?" Queste le premesse che stanno alla base dell'opera che ci accingiamo a presentare.

Copertina dell'edizione americana.

Pasqua Nera è dunque un romanzo fantastico ma ha una costruzione e un background che diverge da un classico romanzo appartenente al genere. Non siamo alle prese col weird o con quei testi tipici dei grandi maestri figliocci dei vari Bradbury, Leiber e Matheson. Blish plasma un qualcosa di molto diverso, assai personale. Il suo è uno studio sulla magia o, meglio ancora, sulla demonologia proposta però in chiave scientifica, quasi come evoluzione della pseudoscienza un tempo denominata alchimia. E' lo stesso Blish ad avvertire il lettore, a specificare fin da subito di aver dato vita a un'opera che parla della magia "come essa stessa è nella realtà". "Questo libro evita di romanzare la magia e non la tratta come un gioco" spiega l'autore, che caratterizza fin troppo il romanzo pescando direttamente dagli scritti e dai breviari di uso pratico dei maghi. E' proprio questa componente, insieme alle caratterizzazioni dei personaggi, la parte fondamentale del romanzo, al punto da far risultare di secondo piano la storia in sé per sé, peraltro molto semplice e lineare. Protagonista è infatti un mercante di armi americano che cova un'idea alquanto bizzarra, ma per vederla realizzata ha bisogno di mettere alla prova un mago che si è rintanato a Positano per ragioni fiscali (simpatica la descrizione del diverso approccio dello stato italiano e di quello americano sulla professione dei maghi). Quest'ultimo, tale Theron Ware, è un mago che pratica la magia nera e che vuole acquisire "la conoscenza"; vuole, in altri termine, assurgere al rango di onniscente su tutti i misteri del mondo. Non si tratta quindi di un materialista o di qualcuno che ricerca piaceri spicci di dominio e controllo, né di soddisfazione sessuale, ma di un vero e proprio intellettuale avanzato che ricerca il trascendente. "Questa conoscenza riguarda la costituzione dell'universo e le leggi che lo governano, ed è un genere di conoscenza che nessuna scienza esatta può offrire, poiché le scienze non accettano il fatto che alcune forze della natura siano entità." Il mondo viene così visto come una duplice realtà popolata da una parte dalle creature viventi e dall'altra dagli spiriti. I componenti di questa seconda realtà possono esser piegati, mediante rituali ben definiti, ai voleri dei maghi per perseguire scopi precisi. Per raggiungere i suoi obiettivi, Ware si rende disponibile quale sicario occulto, in altre parole accetta dietro pagamento incarichi che prevedono rituali finalizzati a chiamare in causa gli angeli caduti per ordinar loro la morte della vittima indicata dal cliente ("si paga per avere, in cambio, una morte; e una morte si ha"). Ware, quindi, che ambisce a uno scopo nobile, svende la propria anima per perseguirlo, si trasforma in mercenario, sceglie la via della scorciatoia e chiede ausilio agli angeli caduti, costringendoli a sottostare alle proprie richieste. Un modo come un altro per recuperare i fondi necessari per finanziare gli esperimenti necessari ad avanzare nello studio propedeutico ad acquisire la conoscenza ultraterrena e, allo stesso tempo, ricevere considerazione nell'ambiente magico. Blish caratterizza il suo mago non quale essere dotato di poteri paranormali o iniziato da chissà quale ordine esoterico, no, niente di tutto questo. Blish si conferma razionalista e scrive che chiunque con i giusti libri, una grande dose di pazienza e un briciolo di talento può diventare mago. "In una ventina di anni, con i libri e il talento, anche lei potrebbe diventare un mago." La magia, spiega nel testo, non è un dono ultraterreno, poiché non nasce dall'uomo che ne è, invece, mero interprete e conduttore. La magia parte sempre dagli esseri dell'altrove, dall'intervento di esseri superiori debitamente solleticati e costretti a scendere a patti. "La magia dipende dall'autorità che si può esercitare sui demoni."
Così vediamo questo mago, attorniato da splendide succubi che usa quali assistenti e altari umani (bello il capitolo del rapporto sessuale tra una succube e un cliente del mago), vivere nel suo studio campano alla stregua di un libero professionista, con una sala dotata di strumenti più scientifici che cialtroneschi. Ware è un amante della bella vita, ma non è un dissoluto alla Crowley che ricerca il piacere fisico. Non pratica la magia rossa, essendo addirittura casto un po' sulla scia dei manichei. La sua caratterizzazione è monastica, contrapposta per i fini a quella del suo rivale Domenico Garelli (omonimo di uno scrittore di fantascienza italiano) ma assai simile nel modo di vivere. Quest'ultimo è un monaco praticante magia bianca proveniente dalla confraternita di Monte Albano (in Toscana), che tuttavia non è dotato di facoltà tali da inerferire nel lavoro di Ware, pur prendendone parte passiva quale osservatore mandato dalla Chiesa. Se il mago nero infatti ha libertà di azione, lo stesso non è concesso ai maghi bianchi (abili ricercatori di tesori nascosti), bloccati da un antico patto di non belligeranza con i "colleghi" che proibisce ai monaci, pena dannazione, di interferire con le vicende orchestrate dai "rivali". Blish non spiega il perché di questo fatto, ma ne evidenzia le conseguenze in modo pessimista.

Questi i tre grandi protagonisti dell'opera con il mercante di armi che verifica, mediante la richiesta di due uccisioni di personaggi di spicco (tra cui il governatore della California), i poteri di Ware e come questo riesca a materializzare dal nulla le entità mostruose costrette a eseguire i suoi ordini. Il superamento delle prove in questione da parte del mago porta il mercante a svelare il suo vero fine ovvero "lasciare uscire dall'inferno, per una notte, tutti i maggiori diavoli, sguinzagliarli per il mondo senza ordini o restrizioni, tranne quello di tornare all'alba." Il motivo di ciò...? Semplice, vedere quello che fanno i demoni, né più nè meno. Blish evita di cadere nel semplicistico e nel ridicolo dando ai due soggetti in questione un fine inconscio ulteriore che si rivela spiccato e dannatamente egoistico. Se il mercante d'armi, infatti, ricerca di soddisfare un sadico desiderio di distruzione che superi quello perseguibile col semplice commercio delle armi convenzionali (così da esser firmato direttamente dalla sua mano, anziché da quella degli eserciti clienti), Ware ha l'occasione, più che di incamerare ingenti somme di denaro, di entrare nella storia della magia quale artefice del più grande esperimento mai realizzato nell'ambito della magia nera, così da entrare nella storia. Potete già immaginare quali saranno le conseguenze di questo incontro, in un epilogo che vale davvero la pena di esser letto per il suo impatto onirico, dopo aver assistito alla comparsa, uno dietro l'altro, di una vera e propria legione di demoni. Da una parte avremo il mercante di armi incollato alla radio per sentire le ultime notizie dal mondo, dall'altra il monaco intento a osservare dalla finestra i bagliori che suggeriscono l'imminente catastrofe nucleare (tema sempre di moda pur dopo cinquant'anni, nel testo si parla degli esperimenti nucleari della Cina) e nel mezzo il mago che se ne dorme tranquillo, poiché è sicuro di aver realizzato una protezione magica che rende immune dai danni tutti coloro che si trovano nel suo studio di Positano.
Finale cattivissimo all'insegna del pessimismo, con i tre coinvolti che scoprono di esser stati protagonisti dell'avvio dell'Armageddon e Satana in persona che rivela loro che la figura dell'anticristo, non ancora visto materializzarsi nel mondo e dunque garanzia di sicurezza per la sopravvivenza del mondo, non è stata necessaria e che pertanto l'uomo ha bruciato persino le tappe dell'apocalisse di San Giovanni, accelerando la distruzione del proprio mondo in vista non si sa di che quale grande conquista.

Fortissima la componente simbolica, la scelta di compiere i riti in date religiose (il rito finale si tiene per Pasqua), con attenzione maniacale alle formule e alle sostanze utilizzate, il tutto raccontato nei minimi particolari a discapito dell'azione. Blish ripete gli ordini, gioca con i nomi dei protagonisti (scelti non a caso ma collegati a personaggi storici, si veda Adolph Hess, o della letteratura), descrive i vari demoni e il modo in cui essi vengono evocati rispettando i profili proposti dai manuali demonologici. La narrazione è dunque lenta, essenziale, mi verrebbe da dire strumentale a raccontare i riti e i profili filosofico-religiosi che stanno a cuore dell'autore più della storia in sé e per sé. Blish condanna l'atteggiamento pacifista dei maghi bianchi che porta indirettamente alla distruzione del mondo, quando questi avrebbero i mezzi per contrastare la parabola discendente che vede il mondo stesso finire nelle mani dei demoni. Un comportamento che mi verrebbe da considerare egoistico, in quanto volto a preservare la propria anima a costo della vita degli altri. Franco Piccinini scrive, a ragione, che in Pasqua Nera "il bene è concepito come limite, come inazione, come rispettare le regole frenandosi dal compiere determinate azioni, mentre il male è definito come libertà di infrangere le regole a propria discrezione e una lotta fra bene e male che si svolga in tal senso non può che finire in un solo tragico modo". Di fatti, in questo primo volume, mentre i demoni si rivelano sensibili alle chiamate dell'uomo (violandone poi gli ordini finali, condanna dell'arroganza umana e dell'illusione di poter controllare l'incontrollabile) lo stesso non può dirsi per Dio e i suoi angeli. Questi ultimi infatti sono assenti e, quando chiamati in causa per un consulto dai maghi bianchi, disinteressati alle vicende della Terra. Un atteggiamento che può tuttavia esser visto anche come verifica della purezza dei cuori dei propri rappresentanti, messi al cospetto della catastrofe e dunque chiamati a prendere una qualche decisione. Questi ultimi invece scelgono la via dell'inerzia, il rispetto della procedura, e lo fanno perché così sta scritto per preservare la propria anima. Un modo alquanto facile da scegliere che si riflette negativamente sull'interesse collettivo dell'intero creato di Dio.

Una lettura dunque di nicchia, poco consigliabile agli amanti di storie di mero intrattenimento, interessante invece per chi sia orientato a uno studio di carattere esoterico e anche occulto, i primi per la portata filosofico esistenziale, i secondi per la cura nella descrizione dei riti. Narrazione non particolarmente complicata, lettura veloce (si legge in un paio di giorni), pecca un po' nella costruzione della trama, piegata ai contenuti sottintesi. Finale visivamente spettacoloso e di gran lunga superiore al resto della trama. Interessante anche se, a fine lettura, si ha la sensazione di aver letto un romanzo troncato proprio sul suo nascere dopo aver letto i preparativi che fungono da premessa alla narrazione. L'Apocalisse e Dopo diviene così, più che il sequel, la prosecuzione necessaria per comprendere l'intero progetto quale parte integrante di un unico volume.

L'autore JAMES BLISH.

"Tutta la magia dipende dall'autorità che si può esercitare sugli angeli ribelli ovvero i demoni."



lunedì 2 ottobre 2017

Recensione Narrativa: NERI ARALDI DELLA NOTTE di Fritz Leiber.



Autore: Fritz Leiber.
Titolo originaleNight's Black Agents.
Anno: 1947.
Edizione: Casa Editrice La Tribuna, 1979.
Genere: Fantastico/Fantascienza.
Pagine: 232.

A cura di Matteo Mancini.
Neri Araldi della Notte, ovvero Night's Black Agents, è l'antologia di debutto di uno dei più grandi autori di narrativa fantastica, in senso ampio, della seconda metà del novecento, quanto meno per l'importanza evolutiva (o involutiva, a seconda dei punti di vista) del genere horror. Uscita nel 1947, raccoglie dieci racconti (otto nell'edizione italiana curata dalla Casa Editrice Tribuna nel 1979, più uno di Williamson) scritti tra il 1939 e il 1947 che avranno l'onore di riplasmare gli stereotipi gotici rimodulandoli e adattandoli alla nuova società del secondo dopo guerra, vista come “architettonicamente e moralmente corrotta” (parole di Gianni Montanari). Dietro al progetto spicca l'estro visionario e poliedrico di uno scrittore di Chicago di origini tedesche, che entrerà nell'immaginario collettivo fungendo da maestro dei vari Richard Matheson e Stephen King, ma anche del regista George A. Romero. Stiamo parlando di Fritz Leiber, un vero e proprio artista a 360 gradi con ispirazione creative multidisciplinare sospese tra horror, fantascienza e fantasy. Una carriera che ha molto in comune con quella di Robert Bloch e soprattutto di Ray Bradbury, a partire dall'età anagrafica e dall'aver preso le mosse grazie alla corrispondenza con Howard Philips Lovecraft. 

Classe 1910, vanta una produzione sterminata resa tale da una longevità che si è arrestata con la dipartita verso altri lidi astrali avvenuta nel 1992, alla sonora età di ottantadue anni. Figlio d'arte, cresce in una famiglia di attori shakesperiani ed è introdotto dal padre (star di Hollywood) nel mondo del cinema in veste d'attore e anche in teatro. All'interpretazione però predilige la creazione ed è nel ruolo di scrittore che scala il mondo dell'arte. Si laurea in filosofia, intraprende svariate professioni, dal predicatore al giocatore professionista di scacchi (si aggiudica persino il Campionato della California), dilettandosi inoltre nella scherma, nella matematica e nelle materie scientifiche. Una personalità dunque complessa, adattabile a svariate discipline con un background da genio & sregolatezza che sfocerà negli anni '50, dopo la morte della moglie, nell'alcolismo. 

Dimostra fin da subito, proprio con Neri Araldi della Notte, la volontà di manlevarsi dai generi convenzionali, di ammodernarli, per imprimere un proprio messaggio e una nuova direttiva su cui battere, quasi a voler evadere da quel progresso urbano che i suoi racconti sembrano ricusare in favore di un passato naturalista ormai perduto. È proprio lui uno dei padri del sottogenere definito Urban Gothic, un diverso modo di concepire il terrore, che andrà, a poco a poco, a soffocare gotico classico scuola Radcliffe ma anche il terrore esoterico legato al periodo vittoriano inglese (tenuto in alto dai simpatizzanti Golden Dawn) e/o al teosofismo di impronta teutonica. Con Leiber l'orrore arriva e nasce nelle città, un male generato dalla nuova condizione frenetica di vita. Il terrore si libera sia dall'interno dell'uomo che prende coscienza del proprio stato (di marionetta), sia dall'inquinamento sonoro e atmosferico che gli gravita intorno e alimenta un vero e proprio cancro. A questo contesto si aggiunge poi il pericolo insito negli oggetti della vita di tutti i giorni (King svilupperà questa sotto branca) che diventano ricettori di maledizioni o veicoli di ingresso di forze ultra dimensionali o addirittura legate ad altri mondi. Molto importante inoltre l'elemento onirico, il sogno/incubo inteso come canale di accesso che permette ai mostri di irrompere nella realtà o all'uomo di esser espulso nell'ignoto. Cosa vi ricorda questa base che ha nell'incubo la via di uscita dei mostri...? A me fa saltare alla memoria Nightmare di Wes Craven, che di certo era un ammiratore di Leiber. 

Nonostante la spinta innovativa, resta (per fortuna) un certo retaggio di quel cosmic horror sdoganato da Lovecraft. Ne è un'evidente estrinsecazione I Sogni di Albert Moreland (1947) in cui un giocatore di scacchi professionista, solito giocare con chiunque intenda sfidarlo, vive un incubo ricorrente e progressivo all'interno del quale sfida, ai confini dell'universo, un'entità interspaziale di cui non riesce a veder forma. In palio c'è la sorte del mondo in un parallelismo che vede Leiber giostrare tra la realtà e la fantasia, proponendo, se vogliamo, la seconda guerra mondiale in un'ipotetica partita a scacchi con un gigante occulto (forse lo stesso Dio) che minaccia la pace muovendo pedine che uccidono a distanza in una scacchiera delineata alla stregua di un vero e proprio campo di battaglia. Emblematici, in chiave subliminale, l'inizio e la pedina che innesca il finale di partita. Leiber inizia così il racconto: “Considero l'autunno del 1939 non come l'inizio della seconda guerra mondiale, bensì come il periodo nel quale Albert Moreland sognò il suo sogno”. Non può essere un caso l'aver avviato l'elaborato in questo modo, così come non lo è la pedina su cui ruota l'intera partita, rappresentata quale arciere (collegamenti al mitico racconto bellico dal titolo omonimo di Arthur Machen?) dotato di un'arma che da "l'impressione di poter colpire a distanza." Leiber rincara la dose facendo dire a Moreland, in relazione a questa pedina: "Dio solo sa perché la mia mente ha sfornato un essere così osceno, cinquecento anni fa, avrei detto che era stato il Diavolo a metterlo là". A mio avviso questa pedina simboleggia l'evoluzione della guerra, sempre più distruttiva e comandata a distanza (aerei, incrociatori e altre soluzioni che hanno poso termine alla guerra di posizione, quella nelle trincere, in favore di una globale su tutto il territorio che oltre ai soldati uccide anche i liberi cittadini), mentre l'incubo di cui il protagonista ne è parte attiva può ben considerarsi una profezia di quanto sarebbe successo di lì a poco nello scacchiere dell'Europa. Non a caso Leiber, nel racconto successivo, L'Uomo che non Divenne Mai Giovane (1947), parla proprio di Hitler e dell'umanità con un protagonista che vivrà un percorso a ritroso, col mondo e la storia che prendono a marciare all'indietro in un ritornare alle origini, che non può aver altro senso se non delineare il cammino intrapreso per la conquista di quell'Eden smarrito da cui l'unico uomo immortale, ovvero l'Adamo delle antiche scritture sacre, e i suoi figli sono stati scacciati.

Se i due racconti sopracitati li potremmo definire i trascendenti, ci sono almeno tre elaborati che costituiscono il manifesto dell'Urban Gothic. È lo stesso Leiber, nel testo, a imprimere la propria concezione della nuova frontiera del genere. Ne Il Cane (The Hound, 1942) specifica come gli “esseri soprannaturali” modificano la propria sostanza al modificarsi dei tessuti sociologici inerenti all'ambiente in cui vive l'uomo. “Ogni cultura crea i suoi fantasmi. Il Medioevo costruì le cattedrali, e ben presto apparvero alcune forme grigie che scivolavano qua e là di notte per parlare con i mostri gotici di pietra. La stessa cosa dovrebbe accadere a noi, con i nostri grattacieli e le fabbriche del giorno d'oggi... Allo stesso modo la nostra cultura genera all'improvviso una schiera di demoni.” Così vediamo come dalla sfera onirica del sogno notturno del protagonista un licantropo moderno assume forma e sostanza fino ad attaccare il protagonista che sembra non adeguarsi alla città e cerca, vagamente, di fuggirvi in una folle corsa verso la campagna. Testo dotato di grande pathos con un bellissimo finale che esorcizza la follia del singolo a favore della concretezza del fantastico. Più emblematico è tuttavia Fasantma di Fumo (1941) che vede lo smog cittadino assumere la consistenza di un fantasma cosciente capace di impossessarsi delle persone, per condurle alla sottomissione. Evidente quindi la condanna dell'autore dell'edificazione incontrollata e dell'urbanizzazione selvaggia in un epilogo che mette alla berlina il materialismo che guida la condizione umana: “Ti obbedirò. Tu sei il mio Dio. Hai pieni poteri sull'uomo e sui suoi animali e sulle sue macchine. Tu governi questa città, e tutte le altre” così si piega il protagonista al cospetto del Dio occulto che governa la città e che è il risultato indiretto dell'azione del denaro. Di certo un racconto molto interessante, specie per l'epoca, ricordato in tutti le analisi dedicate a Leiber.

Ne La Pistola Automatica (1940), il racconto più vecchio del lotto, si assiste al tentativo di modernizzare il genere. Leiber parte dalla tradizione parlando di stregoneria e “familiari”, ovvero quelle creature (di solito gatti neri, cani o rospi) che il diavolo consegnava a una strega quali suoi aiutanti dotati di poteri paranormali, per mutarle in oggetti apparentemente inerti costruiti non si sa bene da chi (direi il diavolo). Così abbiamo un contrabbandiere di alcool che, in età di proibizionismo, ha un rapporto morboso con la sua pistola automatica, con cui parla in una lingua misteriosa, e che si scoprirà esser munita di vita propria. Leiber, ancora una volta, arriva a spiegare che pure l'esoterismo e l'occultismo si modernizzano al modernizzarsi della società: “i tempi e gli stili cambiano... e con essi possono essere cambiate anche le caratteristiche dei Familiari.” Si tratta di un celebre racconto che farà scuola e proseliti, basti pensare a svariati racconti di Stephen King o di Richard Matheson. 

Di natura diversa, ma di ragionamento similare, è il più fascinoso Il Diario nella Neve in cui uno scrittore in cerca di ispirazione si reca, in compagnia di un collega, in una casetta immersa nel nulla e avvolta da una bufera di neve per stimolare la propria creatività. L'edificio è isolato da tutto ed è difficilmente raggiungibile da persone esterne. A poco poco, cercando di scrivere la sua storia con il compagno che batte a macchina ogni sera, la follia rapirà la sanità mentale dei due che finiranno per scontrarsi con tanto di ascia. Cosa vi ricorda? Esatto, direi anche io Shining. Leiber tuttavia, anziché mettere in scena dei fantasmi, resta legato alle reminiscenze lovecraftiane costituite da un epilogo ambiguo che sembra suggerire, più una spiegazione da cronaca nera, l'intervento di creature aliene capaci di materializzarsi (un tormentone a quanto pare per Leiber) grazie all'influsso mentale del protagonista stimolato dalle onde emesse da trasmissioni radio controllate, all'insaputa dei due protagonisti, dallo spazio per mezzo di bizzarri raggi violetti. Testo un po' prolisso, ma dotato di un'atmosfera molto qualitativa e di un gran bel finale.

Completano il testo due racconti, a mio avviso, meno personali ovvero L'Eredità e La Collina e il Buco. Nel primo, grazie al solito sogno (questa volta risolutore), un vagabondo che ha ereditato un contratto di locazione di una stanza da un zio defunto scopre che il suo dante causa era un serial killer squartatore mai arrestato. Belle le descrizioni di Leiber che mette in scena una dissociazione tra spirito e corpo col primo che si invola in alto, alla stregua di un attuale drone, e impedisce al secondo di commettere i delitti reclamati dalla cattiva influenza della divisa da poliziotto (di nuovo gli oggetti che assumono portata orrorifica) con cui l'assassino era solito approcciare le vittime e che è stata, anch'essa, ereditata insieme alla stanza. Nel secondo racconto, meno interessante, due scienziati impegnati nelle misurazioni di una collina scoprono che la sommità della stessa è in realtà una depressione sotto la quale vivono scheletri umani pronti a far sprofondare i malcapitati. Questi ultimi però, anziché scomparire sotto terra, cadono al suolo per improvviso soffocamento con i vestiti sporcati proprio come se fossero stati ricoperti di terra.

La Tribuna Edizioni ha infine deciso, piuttosto incomprensibilmente (ma per fortuna), di aggiungere, in luogo dei due racconti tagliati (in quanto fantasy legati al ciclo Fafhrd), I Lupi delle Tenebre di Jack Williamson. Si tratta di un gioiellino, datato 1931, che anticipa, a suo modo, sia La Notte dei Morti Viventi (1968) di Romero sia L'Invasione degli Ultracorpi (1956) di Don Siegel. Tutto è incentrato su due scienziati che hanno costruito un macchinario in grado, attraverso la variazione della velocità delle vibrazioni della materia e della luce, di allineare la dimensione terrestre con le altre infinite dimensioni esistenti. “Il nostro universo non è semplice. Mondi e mondi sono a fianco, come pagine di un libro... e ogni mondo è ignoto a tutti gli altri... strani mondi che si toccano, girano affiancati, eppure sono divisi da mura difficili da abbattere.” La scoperta porta la Terra ad allinearsi con un mondo oscuro popolato da “cose striscianti e appiccicose” che finiscono col rubare i corpi di uomini e animali, sostituendosi alla guida dei relativi cervelli, al fine di conquistare il mondo penetrando nell'organismo alla stregua dei parassiti de Il Demone sotto la Pelle di Cronenberg o del successivo Slither. L'uomo e gli animali divengono così meri involucri, delle macchine, da guidare e orientare secondo la nuova coscienza più evoluta, l'aliena, dal corpo vermiforme (altra variante metaforica che farà scuola in epoca moderna con il new weird dei vari Ligotti e Barron). Un racconto, lo si intuisce già da questa breve descrizione, avanti anni luce rispetto a quanto sarebbe stato scritto e prodotto negli anni a seguire, ivi compreso al cinema, penso alla serie X-Files con l'entità aliena che si vede scivolare negli occhi degli infettati o sotto la loro cute nell'episodio guida che lega i vari episodi. Un grandissimo racconto dunque che ha qualche similitudine con Il Diario nella Neve di Leiber per il suo essere ambientato tra i ghiacci e per il suo esser caratterizzato da creature aliene intenzionate a conquistare la Terra, sfruttando la buona fede umana. Da ricordare le descrizioni dei cadaveri (ivi compresi cavalli e lupi) che riprendono vita, sotto l'influsso dei parassiti, e se ne vanno in giro con corpi sviscerati proprio come poi, svariati decenni dopo, faranno gli zombie cinematografici. Quanto basta per elevare il pezzo di Williamson al rango di grande classico e salvare La Tribuna da una decisione alquanto incomprensibile.

Chiudo con la calzante osservazione esternata in prefazione da Gianni Montanari, il quale scrive: “Leiber inizia con queste sue storie un'esame spesso impietoso dei mali e delle alienazioni causate direttamente dalla metropoli e da un ritmo di vita al limite dell'innaturale... dove la sopravvivenza fisica dell'individuo viene aggredita dalla facciata esterna della società moderna non appena un'oncia di coscienza fa capolino nella mente del singolo.”
Un'antologia in definitiva che non può mancare nelle biblioteche di ogni studioso del genere fantastico e della narrativa del terrore moderna.

L'allievo del GRANDE MAESTRO
HPL
appassionato di scacchi e figlio di attori del cinema
FRITZ LEIBER.

"Era un giocatore professionista che guadagnava le sue scarse entrate in una saletta da gioco accettando di misurarsi contro chiunque.... l'appassionato che trovava uno stimolo particolare nel suo tentativo di battere un esperto, l'uomo solitario che si dedicava agli scacchi come a una droga o il fallito che veniva tentato dall'acquisto di mezz'ora di dignità intellettuale per un quarto di dollaro.
Era un giocatore molto migliore di quanto gli sarebbe bastato essere per il suo lavoro in quella sala. Aveva vinto partite contro maestri di fama internazionale e un paio di circoli scacchistici di Manhattan avevano cercato di associarselo per i grandi tornei, ma la mancanza di ogni ambizione induceva Moreland a restare nell'anonimato, quasi alla deriva."