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mercoledì 22 aprile 2015

Recensione Saggi: L'IMPORTANTE è PERDERE di Nicola Roggero.


Autore: Nicola Roggero.
Anno: 2010.
Edizioni: FBE Edizioni.
Pagine: 170.
Prezzo: 14,00 euro.

Prefazione di Matteo Mancini.
Se si potesse commentare questo volume facendo un parallelo cinematografico la memoria correrebbe indietro nel tempo, quando ancora i film uscivano in bianco e nero e poi dopo si provvedeva a colorarli per dar loro un tono capace di far miglior presa negli spettatori, quanto meno a livello visivo. Più nello specifico, quasi a voler chiamare in causa Wells, non Orson ma Herbert, si premerebbe il pulsante della macchina del tempo per tornare a quel lontano 1944, quando la quasi sconosciuta Elizabeth Taylor, poco più che bambina, viene chiamata a interpretare il ruolo principale di National Velvet, da noi, in Italia, Gran Premio. In Europa soffiano ancora i venti di guerra, anche se il peggio è ormai alle spalle. Non è così negli States, dove la produzione cinematografica corre via senza intoppi. In Italia, manco a dirlo, gli stabilimenti cinematografici sono bloccati, come ha avuto ben modo di raccontare il regista Umberto Lenzi nella sua serie di romanzi dedicati al detective Astolfi. Gli stabilimenti Pisorno di Tirrenia, addirittura, sono finiti prima nelle mani dei nazisti, poi degli americani che ci hanno imprigionato i tedeschi più riottosi. Ma non divaghiamo e torniamo a bomba sul film. Lo dirige Clarence Brown, un veterano sulla cinquantina scappato da una carriera da ingegnere e sposato all'epoca con la Joyce (non l'autore di Gente di Dublino, ma Alice una star del muto). Ha al suo attivo svariati film, ma a far presa sui produttori è la sua passata carriera da assistente di Maurice Torneur e una serie di film girati a cavallo tra le due guerre con star quali Rodolfo Valentino, la Garbo o cult quali Anna Karenina e Maria Walewska. Quando la MGM, casa di produzione che lo ha sotto contratto, gli propone il copione di Theodore Reeves e di Helen Deutsch, Brown quasi sbuffa non sapendo che sta per ottenere un successo talmente forte da valergli la quinta nomination all'Oscar con un incasso tra i più alti dallo stesso ottenuti e che riuscirà quasi a bissare due anni dopo con The Yearling, un nome di per sé alquanto evocativo in certi ambienti...

DEVON LOCH nel 1956 è a pochi metri dal palo del GRAND NATIONAL.
Lo ha praticamente vinto per la gioia della REGINA ELISABETTA di
INGHILTERRA che ne è la proprietaria, ma accade qualcosa
che lo consegna alla leggenda più di una vittoria.

Sta per vedere la luce quello che è un'opera in cui risiede l'intera summa e tutta la poesia de L'Importante è Perdere, che il giornalista SKY Nicola Roggero darà alle stampe quasi 70 anni dopo. C'è il dramma di un fantino, interpretato da Mickey Rooney (un cognome che evoca una leggenda inglese che sarebbe stata bene nel testo, relativa alla scommessa dello zio dell'altro Rooney, l'attuale capitano della nazionale di calcio di Inghilterra), che si è ritirato dalle competizioni perché rimasto coinvolto, in una corsa in hurdle a Manchester, in un groviglio dove è deceduto un suo collega. Si tratta di un disilluso, ancora giovane di età ma ormai spento nel cuore, che gira con coppola in testa e che vive di espedienti, persino qualche furtarello. Non sa però che sta per presentarsi l'occasione di una vita, quella del riscatto, quella che ti fa passare dal fondo alla gloria. C'è il sogno di una ragazzina un po' mattarella che vive solo per i cavalli, al punto da sostituire i primi amori adolescenziali che vivono le amiche e la sua sorella più grande, con l'amore per questi animali a quattro zampe. E c'è, soprattutto, la storia di un cavallo pazzo, Pie, che il proprietario vuol vendere perché non fa altro che compiere danni a destra e a manca, scappando in giro per la città. Lo vorrebbe persino macellare, alla fine però opta per una lotteria, sperando di toglierselo di mezzo. Quel cavallo però ha una caratteristica, se ne è accorto l'unico che, nella storia, ha un certo occhio: il fantino decaduto. Lo vede balzare, con la disinvoltura di un grillo, al di là di un muretto preceduto da una sorta di terrapieno. "Non è possibile" abbozza metro alla mano, prendendo subito le misure manco fosse un sarto, lui che invece ha visto un salto... "Sai cosa ha fatto quel cavallo? Ha saltato il becher's brook! " Accanto a lui c'è la giovane Velvet, la ragazza cui da corpo la Taylor. Occhi celesti, lei direbbe viola, capelli di un nero corvino, se ne sta con la testa inclinata su un lato, a dipingere con la mente ameni scenari di gloria tra una nube e l'altra del firmamento. "Cos'è il Becher's Brook?" inizia a pressarlo. "Lascia perdere, non ho mai detto quel nome..." si pente il ragazzo. Solo che la curiosità lo si sa, è materia di elezione delle donne. Velvet inizia a documentarsi. Nasce così un'idea folle, facilitata dal destino che le fa vincere il cavallo, alla lotteria, dopo che la prima estrazione è andata in bianco (il numero estratto non ce l'aveva nessuno).
Da perfetto sconosciuto, Pie viene iscritto alla corsa più imporante del mondo: il GRAND NATIONAL, una prova in ostacoli infernale, nella periferia di Liverpool, trenta ostacoli disseminati su un tracciato di circa 7.200 metri. E' un'idea folle e come direbbe Roggero "solo dei pazzi possono credere che un cavallo che non ha mai corso possa terminare una prova tanto massacrante, figurarsi vincerla... Dei pazzi o forse degli utopisti o forse ancora dei sognatori..." Decisiva è la madre di Velvet che ha persino una giubba in soffitta, fucsia con maniche oro. La conserva lassù da anni, all'insaputa del marito che è un ottuso pragmatico (alla fine scommetterà anche lui sulla corsa, perchè a farlo è tutto il paese di campagna, persino il vecchio proprietario di Pie, che scommette sull'ultimo cavallo del campo... quota astronomica). E' lei a pagare il prezzo dell'iscrizione perché, in fondo, i sogni si devono pur vivere anche se la realtà consiglierebbe di fare in modo diverso. E quello che cerca di spiegare il fantino che Velvet e Rooney hanno ingaggiato per la corsa. "Vincere con quel broccaccio?" manco a pensarci, sentenzia il professionista. "Lui sì che una volta aveva avuto un cavallo con chance, ma è rimasto in pista, deceduto dopo una caduta. Adesso corre solo per i soldi, perché il National non è una corsa di provincia, ma un demone da esorcizzare". Velvet si riprende subito l'ingaggio e lascia di sasso il fantino. Chi parte pensando già ai compromessi o non crede nel successo non è degno di partecipare al sogno. Sarà lei a cavalcare Pie nel Gran Premio, proprio quando il personaggio di Rooney stava accarezzando l'idea di ritornare in sella. Si, lui, proprio lui, che odia i cavalli dal giorno di quell'infausto episodio innescato da un suo errore di valutazione. Velvet però, regolamento alla mano, non potrebbe correre. Le sciocche regole imposte dai direttori di gara, un po' come quelle che costeranno la fine della carriera al gallese GARETH EDWARDS (reo di aver violato le regole del dilettantismo del rugby per aver pubblicato la propria autobiografia), vietano a una donna di correre. Allora lei si spaccia per un fantino lettone, si fa radere la folta chioma, sta a bocca cucita e prende avvio alla gara, col numero 28. "Non conosce l'inglese ed è un po' tonto" si giustifica Rooney con i colleghi, lui che nel film si chiama curiosamente Taylor (simpatico ribaltamento di ruoli). Dopo aver accompagnato i sogni in pista, se ne resta lungo le steccato, sommerso dalla folla, proprio come se fosse un tappeto. Non vede praticamente nulla e sta a rompere l'anima a un lord inglese che ha scommesso sul favorito e che vede la gara dall'alto del suo binocolo. Contro ogni pronostico Pie non solo termina il percorso, ma vince anche la gara. Velvet, per l'emozione, sviene dopo il traguardo e cade a vittoria conseguita. Intervengono i medici, viene portata al pronto soccorso. Non si è fatta niente di male, solo che c'è un grosso problema: non è un uomo!
Pie viene subito squalificato dall'ordine di arrivo, ma al rientro a casa non importa a nessuno, neppure agli scommettitori che pure hanno dovuto rinunciare a una cospicua somma, data la quota fissata dai bookmakers. Sono Pie e la giovane Velvet ad aver vinto la corsa e che corsa... Questa è l'anima del volume di Roggero che mi sono preso la libertà di introdurre con questa breve storia, un po' come del resto ha fatto lui nell'introduzione parlando della maratona di Dorando Pietri alle olimpiadi di Londra del 1908, quando fu squalificato perché caduto cinque volte tanto da ricevere l'aiuto di un commissario. Un episodio da me sottolineato sabato di due settimane fa quando Aintree si preparava a ricevere il meeting del Grand National. Una sconfitta quella di Pietri, nello stadio di White City, che gli valse però la riconoscenza ben più importante della regina di Inghilterra, come avviene per Velvet, la quale su suggerimento dell'asso Conan Doyle (si, quello di Sherlock Holmes, questa volta avete indovinato) conferì a Pietri una coppa di ristoro. Proprio lei (quanto meno per il ruolo, visto che non era Alexandra), che qualche anno dopo, nel 1956, vedrà sfumare il successo nel Grand National di un suo cavallo, Devon Loch, che salterà un ostacolo immaginario in dirittura di arrivo, cadendo goffamente a terra quando ormai aveva vinto. L'evento fu tanto famoso da coniare, un po' come avverrà per STEVEN BRADBURY alle Olimpiadi di Salt Lake City del 2002, l'espressione "To Do a Devon Loch".

La locandina del film di BROWN.

Qualcuno, il solito materialista privo di poesia, dirà: "Beh, ma Velvet è un film... figurarsi se una cosa del genere può succedere davvero..." Uomini di poca fede, aggiungo io: "può succedere di tutto!!!" A esempio nel 1981, proprio nel Grand National, si verificò una fiaba vera e propria che ispirerà un secondo film sulla corsa di Aintree, a quaranta anni dal primo: Champions, diretto nel 1984 da John Irvin, con l'attore inglese John Hurt a incarnare il ruolo del protagonista. E' un film meno noto di quello di Brown, tanto che per vederlo ho dovuto fare delle acrobazie paragonabili a quelle di certi atleti sul trapezio. Alla fine però l'ho recuperato, quasi per caso, su una rete regionale. Certo, non ha il ritmo e il taglio del più famoso epigono, però la storia che ne sta alla base è degna della penna di Roggero e soprattutto è vera! Tutto ruota su due soggetti dati per spacciati che compiono un'impresa titanica. Da una parte il fantino BOB CHAMPION, capace di vincere la battaglia con la morte e di debellare un cancro giudicato dai medici inguaribile; dall'altra Aldaniti, cavallo di undici anni rimasto vittima di un brutto incidente e di una zoppia che avrebbe dovuto chiudergli la carriera persino in piano, figurarsi nelle prove in ostacoli dove i traumi, anche per le continue ricezioni dopo i salti, sono continui. I due non solo riuscirono a tornare in pista, ma vinsero proprio quella corsa tanto esaltata dal sogno di Velvet, un sogno che, a volte, può trasformarsi in realtà quando scendono in campo quei folli che sono tanto pazzi da credere all'impossibile e di realizzarlo come diceva Dario Fo in un famoso spot pubblicitario.
Ironia della sorte? Aldaniti è una perfetta copia di Pie, sauro con lista bianca sul muso... manco a voler fare un remake sarebbe venuto tanto preciso.

ALDANITI e BOB CHAMPION
vincono il GRAND NATIONAL del 1981.

Commento di Matteo Mancini
Antologia sportiva a base biografica quella realizzata dal giornalista Sky Nicola Roggero. Cinquanta anni suonati, ma in melodia, per lui che confeziona un volume in salsa SFIDE. Il riferimento va al volume di Simona Ercolani, uscito quattro anni prima sulla scia dei successi della trasmissione RAI dalla stessa diretta (una delle più belle in ambito sportivo). Si tratta in sostanza di un'opera che si propone di raccontare storie avvincenti che abbracciano attività sportive più disparate, dal rugby all'ippica, passando per atletica, calcio, ciclismo, sci e baseball. Roggero arriva alla pubblicazione dopo una lunga trafila, dapprima in redazione stampa poi inviato negli impianti sportivi, sempre con un occhio di riguardo per il mondo anglo-sassone. Ha anche pubblicato un precedente volume, anch'esso un'antologia a base biografica legata al mondo dello sport: Anarchico Testabalorda. Una storia di Vino e Sportivi Controcorrente (2009). E' però con questo L'Importante è Perdere che si segnala al grande pubblico, poiché è al passaggio al mondo della libreria che può permettere una conoscenza più variegata e non settoriale. Il suo è un volume tutto sommato semplice, che raccoglie ventitré capitoli più un'introduzione da intendersi come un capitolo aggiuntivo piuttosto che una prefazione, ma è scritto dannatamente bene e soprattutto ha due grandissimi pregi. Il primo è quello di ricercare storie il più possibile meno note o di riscriverle sotto una diversa chiave di interpretazione, certo ci sono alcuni capitoli dedicati a personaggi conosciutissimi (Ribot, Peterson, Grande Torino, finale Benfica vs Manchester Utd), magari risalenti all'inizio del '900, proponendo al pubblico italiano personaggi culturalmente lontani come i giocatori del rugby neozelandese piuttosto che gallesi ovvero episodi legati ai giochi del Commonwealth. Potrebbe sembrare una cosa di poco conto e invece non lo è. Rispetto a Sfide, Ruggero cerca la primizia, ha voglia di sollevare dalla polvere dell'oblio personaggi che in Italia nessuno si sognerebbe di andare a ridestare, perché, come direbbe qualche editore, "a chi potrebbero interessare le storie del rugby gallese?". Lui invece lo fa e lo fa alla grande, meritandosi i mei, seppur poco gratificanti, complimenti.. 
Il secondo motivo, ancor più importante, è la volontà di far emergere il vero significato dello sport, portando avanti una vera lotta contro ogni forma di discriminazione e razzismo, ma anche sottolineando l'importanza del sogno, dell'impresa da leggenda che sta più nell'averci provato piuttosto che dall'aver conseguito il risultato finale, un aspetto fondamentale per chi guarda gli albi d'oro, ma che qua diviene meramente accessorio. Lo si capisce fin dall'introduzione, quando Roggero, chiamando in causa il premio Nobel Rudyard Kipling (quello de Libro della Giungla, ma che io ricordo per altrir racconti di genere fantastico) scrive: "Non fatevi mai ingannare dagli albi d'oro, dalle vittorie e dalle sconfitte. Lo sport, come la vita, non può limitarsi solo agli albi d'oro. Si può scegliere: vincere da arroganti o perdere da gentiluomini. Non ho dubbi: sto con i secondi. Questi sono i veri fuoriclasse, quasi sempre."

Ed ecco che il volume prende le mosse con il sogno, all'apparena irrealizzabile, di NELSON MANDELA, il quale, divenuto Presidente del Sud Africa dopo 27 ingiusti anni di carcere, spera di riunire il paese usando come veicolo il simbolo più emblematico della divisione: la nazionale di rugby del Sud Africa, da sempre odiata dai colored. Una vicenda di cui non anticipo niente, se non che Clint Eastwood l'ha ritenuta talmente speciale da dedicargli un film: Invictus - L'Invincibile (2009).

Andare avanti a menzionare tutti i capitoli diverrebbe noioso, in questa occasione, dico solo che sono uno meglio dell'altro e che dimostrano che il vero assioma dell'attività sportiva agonistica non sta tanto nel concetto ipocrita decoubertiano de "l'importante è partecipare" né in quello arrogante e machiavellico del "bisogna vincere con ogni mezzo", bensì nel rispettare sé stessi, nel far emergere la propria personalità con rispetto e lealtà sul campo, ma con dei limiti riconducibili all'attività che si sta facendo. Se si gioca a rugby non si può pretendere di fare le signorine in campo, se si corre in macchina l'avversario deve sputare sangue (chiaramente metaforico) se vuol passare. In mezzo a tutto questo subentrano altri messaggi di carattere universale, che vanno ben oltre a un rettangolo di gioco o a una pista dove si inscena una corsa di cavalli piuttosto che di formula 1. Ragioni come apartheid e il contrario dell'apartheid (atleti bianchi sudafricani esclusi dai giochi per provvedimenti contro il loro stato), atleti che disputano gare con la morte nel cuore (commovente il dramma di Vilfort che vince un Europeo pazzesco con la Danimarca, che neppure doveva partecipare, mentre ha a casa la figlia di otto anni che lotta con la leucemia), altri che cercano il riscatto da una serie di ingiustizie, chi rinuncia a un oro perché riconosce la superiorità di un avversario che perde sul campo solo per una sfortuna imprevedibile e poi ancora sogni che diventano realtà come quello già citato di Mandela, record impossibili, mezzifondisti improvvisati sciatori a coronamento di un bizzarro esperimento e che terminano la gara ultimi, a pezzi e bocconi, pur realizzando un'impresa riconosciuta anche da chi ha vinto la medaglia d'oro. 

Roggero confeziona così un volume che fa bene, che insegna la vera cultura sportiva e che si dovrebbe mutuare con altre uscite, anche perché porta l'attenzione su sport spesso dimenticati dal grande pubblico, un massa interessata sempre ai soliti argomenti perché bombardata in tal senso dalle televisioni e dai gruppi di sponsor. Personaggi così sconosciuti vengono quindi messi sotto la luce dei riflettori, una luce che funge da lente di ingrandimento proiettata in quei vasti volumi che costituiscono la storia dello sport e da cui emergono grandi storie fatte da grandi uomini, soggetti talvota dimenticati ma capaci di gesti ben più importanti del semplice calciare un pallone in porta o della gloria di alzare una coppa al cielo. Gesti che inducono gli sportivi veri ad alzarsi dalle gradinate e applaudire a scena aperta, a prescindere da chi abbia vinto, come successe a Milano nel lontano 15 luglio del '39, dopo una corsa pazzesca sugli 800 metri con l'idolo di casa, Lanzi, battuto negli ultimi metri da un tedesco assoggettato ad allenamenti definiti da matti e che invece segneranno un'epoca (i quattro in pista segneranno tutti il loro record personale, il primo il mondiale). Una corsa quest'ultima bissata, qualche anno dopo, ai giochi del Commonwealth e che mi prendo la libertà di riscrivere in questa sede, perché in fondo un blog non è un articolo di giornale, perché in fondo io non sono un critico, perché in fondo sono un appassionato di lettura e di scrittura, ma anche soprattutto un cultore di sport e di cinema.

Chiudo definendo L'Importante è Perdere, titolo chiaramente provocatorio, una sinfonia per gli amanti dello sport tout court.

Chi mai è, questo?
E' una leggenda dell'automobilismo inglese, ha vinto tre volte su tre
sul circuito di Chimay ed è stato insignito per alto valore dalla Regina di Inghilterra.
Eppure in F1 ha fatto la meteora, ma una meteora luminosissima senza essersi mai piazzato.
Così si rivolse a sua maestà LAUDA: "Se sei davvero un campione, 
non dovresti avere problemi a sorpassare uno che guida una LEC, senza finire in testacoda come un pivellino."
PROSSIMO PERSONAGGIO PER ROGGERO?

Capitolo 9 del volume, secondo MATTEO MANCINI: LA PAZZESCA CORSA DI CHRISTCHURCH.

CHRISTCHURCH, Nuova Zelanda, Giochi del Commonwealth del 1974. Una corsa che sembra fare il verso ai famosi 800 metri di Milano, 15 luglio del '39, ma corsa sui 1500 e in corrispondenza del preciso punto opposto. Se provate a infilare con un ago un mappamondo, vedrete che le due località sono quasi coincidenti. Pazzesco anche in questo e pazzesche le due andature di testa, roba da far scoppiare i polmoni. Un po' simile agli schemi di calcio di JACKIE CHARLTON, da osservare a occhi sbarrati e non chiusi, come quelli del fratello Bobby, davanti alla pantera nera pronta a battere Stepney nella famosa finale di Best: palla lunga e pedalare a tutta birra... lui che l'irlanda l'ha allenata davvero. "Quella sporca dozzina...!" avrebbe sbuffato ad Aldridge, guardando i temibili avversari di turno, con le sue inconfondibili guance rosse. La punta con i baffetti, guardando Cascarino, l'italiano prestato alla nazionale dell'Eire, avrebbe detto: "Ci risiamo, ha ricontato l'arbitro proprio come faceva il paron Rocco!"

In pista, visto che abbiamo iniziato col National, ci sono anche siepisti passati e siepisti futuri, oggetti misteriosi provenienti dagli altopiani, altri invece che arrivano dai confini del mondo. Davanti un pazzo scatenato cresciuto nella regione dai laghi, ma che ha vinto a LAGOS l'oro da juniores, senza che questa città abbia a che fare con i laghi. E' BAYI, quasi a voler fare dell'ironia sul mantello che sfodera in pista e che contrasta con la divisa linda che fa volare sulla pista neozelandese. Gli avversari lo guardano come un pazzo... "Ma dove crede di andare quello? Povero sciocco, non sa che in pista c'è il creme de la creme" come direbbe Trenkwalder da Merano, uno che con gli anglaise ci sta preciso e poi aveva colori giallo-verdi e uno Scotch in rosa, meglio di così... 
A metà gara però qualcuno comincia a farsi delle domande... Tipo: "Meno male era un brocco quello là...Sarà il caso di muoversi, perché sennò ci vogliono i binocoli a fine gara...!" Roggero è implacabile dall'ipotetica cabina di regia: "Ottocento metri alla fine. MAI SI ERA VISTA UNA 1.500 (gli inglesi non sono d'accordo sulla distanza perché sono schiavi delle consuetudini, sono ancora troppo legati al miglio... n.d.r) CORSA ALLA MANIERA DEI 400". 
"Non ci saranno mica anche gli americani" abbozza qualcuno vispo, viste certe andature, loro che nel Commonwealth certo non guasterebbero, se non agli avversari.

E' Dixon allora che mette mano alla riserva, lui che con le siepi avrebbe anche una certa predisposizione. Sposta a largo e muove alla caccia di Bayi. E' un atleta mica da ridere... Bronzo alle Olimpiadi di Monaco, non di Montecarlo (eliminati proprio ora mentre scrivo dalla Juventus, n.d.c) ma di Baviera, due anni prima. E' il compagno di colori della rivelazione dei giochi: il ventiduenne WALKER, fresco bronzo sugli 800 metri della sessione una volta denominata I GIOCHI DELL'IMPERO BRITANNICO.

"Alè, Alè, Alè" pensa Walker che può sfruttare il lavoro degli avversari, senza tirare mai l'andatura, anche perché c'è anche il primatista mondiale delle siepi che si è stancato e muove deciso all'inseguimento... "Questi me li mangio in un sol boccone" pensa BEN JIPCHO che allunga e supera Dixon. Walker è lì in agguato. "Li mortacci vostri" urlerebbe se fosse romano il quarto, che invece è CROUCH, non il pennellone attaccante inglese (visto che abbiam parlato di ROONEY a inizio articolo, qua completiamo con la sua spalla), ma il giallo-verde australiano che non tiene il passo, imitato dal britannico Brendan FOSTER, "un inglese in realtà più competitivo su distanze maggiori" come dice Ruggero e che quel giorno ha finito la birra in corpo.



Si attacca l'ultimo giro, risuona la campanella della ricreazione, visto che stiamo reinterpretando il testo di Roggero. Bayi gioca la carta dell'elastico, manco lo chiamassero "Call me the Breeze", di certo è un osso particolarmente duro per i suoi avversari. JIPCHO, il siepista, gli ha ormai messo gli occhi addosso. "Maledetta lepre, adesso non mi sfuggi!". Il keniota sembra un levriero pronto ad agguantare l'impazzito front-runner... Ora mi domando io dell'intelligenza dei levrieri che inseguono una falsa preda, mah.... "Dove vai... Dove vai...? Tanto ti prendo!". Solo che dietro al secondo colored, anche lui in bianco, muovono i due neozelandesi, tatticamente più concreti e che, pur essendo vestiti di nero, caricano come se vedessero rosso, loro che prendono tutto alla lettera essendo figli degli ALL BLACK. Ed è WALKER, il bimbo, ad andare in seconda posizione. Passa anche Dixon, più indietro, CROUCH continua a maledire gli avversari..."Mortacci vostri, non ho mai corso tanto in tutta la carriera..."

Bayi sembra aver detto tutto quello che doveva dire, tanto che Walker mette la freccia, spostando di corsia. Forse pensa di essere un indiano ed ecco infatti che BAYI, ridacchiando in cuor suo, replica la cadenza dell'avversario. "E tanto sei Mano Gialla...!"
Dirittura di arrivo. Walker insiste nello scatto, ma l'altro gli copia l'andatura... 50, 40, 30, 20 metri all'arrivo non cambia più nulla, nel boato di tutto lo stadio, che resta basito ad assistere a quella che è la prova sui 1.500 più pazzesca di tutte le storie dell'atletica. BAYI stampa, sull'ipotetico filo di lana, un 3'32''2 che gli vale il record del mondo; 3'33 per WALKER che si consola con il record dell'oceania. JIPCHO è terzo con il record keniota in tasca a consolarlo per la delusione per la vittoria mancata, ma lui viene dalle siepi ed è già una clamorosa vittoria questa. Per DIXON c'è la beffa, piazza il quarto tempo in assoluto al mondo che però non gli vale niente, neppure il record nazionale (ha davanti Walker, uno che suona di beffa già dal nome essendo per lui più appropriato un RUNNER, come il motorino che dovrebbero avere gli inseguitori per riprenderlo). Ma mica è finita eh... Arriva pure il giallo-verde CROUCH che aveva avuto un'ottima impressione, durante le sue imprecazioni in gara, perché ha ottenuto il record australiano. Alla fine della fiera sono stati registrati il primo, il secondo, il quarto, il quinto e il settimo tempo della storia.

BAYI finirà in siepi qualche anno dopo, Walker sarà più longevo con un record numerico di corse sul mezzo fondo.

Roggero trae al riguardo delle ottime considerazioni. Il sottoscritto rinvia, chi è giunto fino a qui, alla lettura del testo L'IMPORTANTE è PERDERE, FBE Edizioni... "Storie di chi ha vinto senza arrivare primo".

Testo di Matteo Mancini, ispirato dal testo di Nicola Roggero che, spero, perdonerà questa mia digressione in chiave ironica-citazionista che credo avrebbe divertito i diretti interessati, autori di qualcosa di sportivamente mostruoso e da applaudire dal primo all'ultimo.

PERSONAGGI PER IL PROSSIMO LIBRO DI NICOLA ROGGERO?
STEVEN BRADBURY, vince l'oro sui 1.000 metri dello Short Track 
delle Olimpiadi invernale di SALT LAKE CITY, 2002.




sabato 18 aprile 2015

Recensioni Narrativa: LAGGIU', NELL'ABISSO di Joris-Karl Huysmans.


Autore: Joris-Karl Huysmans.
Titolo Originale: Là-bas.
Anno: 1891.
Genere: Atipico, tra il saggio, il fantastico, il rosa e il drammatico, ma con forte alone nero.
Edizione: Internos.
Traduzione: Goffredo Feretto.
Progetto grafico e impaginazione: Ester Feretto, 2009.
Pagine: 350.
Prezzo: 18 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Commentare un romanzo come Là-bas, pubblicato in Italia negli anni '80 (a oltre cento anni dalla sua uscita in Francia) a cura di Goffredo Feretto col titolo Laggiù, nell'Abisso, non è affatto facile. Si tratta di un'opera complessa, atipica, difficilmente ascrivibile alla categoria dei romanzi essendo caratterizzata dall'incontro di tre diverse strutture narrative. Da una parte abbiamo il saggio puro, dall'altra una fortissima componente autobiografica mascherata da opera di fantasia, quindi una storia amorosa centrale che funge da sottotrama. A fine lettura si capisce come la componente narrativa sia pretestuosa, non essendo individuabile né un vero inizio né una vera fine, bensì l'esperienza maturata dal protagonista in una data parte della sua vita. Fondamentale, per comprendere il tutto, è la vita dell'autore che andiamo quindi ad analizzare.

JORIS-KARL HUYSMANS.

Huysmans nasce a Parigi nel 1848 da padre olandese, a differenza di molti suoi futuri colleghi non è uno studente brillante. Così a diciott'anni entra nel mondo del lavoro con un ruolo di funzionario al Ministero degli Interni che lo porta ad abbandonare gli studi in giurisprudenza senza conseguire la laurea. Huysmans accetta l'impiego più per necessità alimentare che per passione, definendo il proprio lavoro "quel maledetto ufficio". La sua vera passione è la letteratura e la produzione narrativa. Si diletta nello scrivere articoli di critica, poi passa alla produzione personale entrando nelle grazie di Emile Zolà. Quest'ultimo è ben impressionato dalla prosa di Huysmans tanto da ammetterne il racconto Sac au dos nell'antologia Le Soirèes de Medan. Si tratta di un passaggio fondamentale nella carriera di Huysmans che ha iniziato a scrivere da appena quattro anni, nel 1876. Lo è perché le Soirèes de Medan diviene il manifesto della corrente naturalista di cui Huysmans verrà giudicato quale esponente principale assieme ai blasonatissimi Guy de Maupassant, Emile Zolà, Gustave Flaubert ed Edmond de Goncourt. Il carattere del franco-olandese però è molto labile, lo porta a passare di continuo da un estremo all'altro. Il suo è uno spirito inquieto, indolente, che lo porta di continuo a porsi domande sulla vita e su ciò che si nasconde oltre la morte. "Le conversazioni che non trattino di religione o d'arte sono così volgari e inutili." Qualcuno inizia a pensare che sia affetto da disturbi di carattere psicologico che hanno nel c.d. male di vivere la diagnosi più frequente. In realtà Huysmans è un'artista a tutto tondo e, specie nella Francia di quegli anni, di artisti maledetti non ne mancano certo. Frequenta contemporaneamente uomini timorati e ballerine da night, uomini da salotto e briganti da strada. Non esiste ambiente in cui non si possa trovare Huysmans, l'importante è che non ci si annoi e che si ricerchino, in un modo o in un altro, emozioni forti, vuoi che siano spirituali vuoi che si orientino per altre vie.
I suoi personaggi iniziali sono individui pietosi, finché non rompe con i naturalisti. Dopo aver pubblicato In Famiglia (En Ménage, 1881) e Alla Deriva (A Vau-l'eau, 1882) Huysmans è stanco. Sente di dover cambiare registro e nel 1884 pubblica Controcorrente (A Rebours). Si tratta di un passaggio centrale nella vita dell'autore ma anche della letteratura. Huysmans getta le basi per la nascita del decadentismo di cui viene considerato il padre fondatore. Oscar Wilde e Gabriele D'Annunzio diverranno allievi indiretti del franco-olandese. In questo romanzo si registra quel distacco dalla società che pervaderà Là-Bas, emerge cioè per bocca del protagonista la delusione dell'autore per il suo mondo visto come una sorta di kali yuga che è impossibile ribaltare. Vi è dunque un atteggiamento arrendevole, da cui ci si può liberare solo con una vita assimilabile quasi agli effetti provocati dalla droghe, ovvero con la fuga intellettuale. Inoltre Huysmans inizia a inserire esperienze autobiografiche e usa la narrativa, quale strumento meta-narrativo, per parlare delle sue opinioni e della sua visione del mondo (il cui contenuto porterà subito la critica bigotta ad attaccarlo in modo duro), plasmando un unicum che Wilde giudicherà senza intreccio. La visione è pessimista, resa ancor più nera dal ritorno in società che il protagonista dovrà fare, suo malgrado, ormai malato e isolato in una realtà parallela votata esclusivamente al bisogno egoistico di soddisfare i propri piaceri. Eloquente e calzante il commento che ne farà lo scrittore Barbey d'Aurévilly: "Dopo un libro tale non resta altro all'autore di scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce." Invece Huysmans sceglie la via dell'esoterismo e dell'occultismo, legando amicizie con personaggi vicini al mondo delle sette segrete, comprese le sataniche, e dei Rosacroce. Inizia a frequentare gruppi di occultisti e organizza riunioni di spiritisti, al punto da restarne infatuato e subirne effetti diretti nella propria psiche. Se da un lato acquisisce informazioni e notizie legate all'occultismo, partecipando in prima persona anche a messe nere, dall'altro va incontro a strane sensazioni (ma saranno state solo sensazioni?) sostenendo di ricevere pugni fluidi, di subire palpeggiamenti e di essere circondato da qualcosa di invisibile. Arriverà a credere di esser stato assoggettato a una sorta di fattura di morte ordinata dai Rosacroce. Quest'ultimo aspetto lo porterà, per l'ennesima volta, a passare da un estremo all'altro, affermando: "E' attraverso la visione del sovrannaturale del male che ho avuto la prima percezione del sovrannaturale del bene. Questo derivava da quello. Con la sua zampa adunca il demonio m'ha condotto verso Dio." E' sempre la continua lotta tra gli estremi a guidare Huysmans, la moderazione, forse a ragione, altro non è che una mediocre media da cui sottrarsi alla ricerca della giusta via che non può mai essere una soluzione intermedia, in quanto imbastardita dai due elementi massimi che sono il bene e il male; stare nel mezzo vuol dire tenere qualcosa dell'uno e qualcosa dell'altro e dunque macchiare la purezza vuoi che sia benigna vuoi che sia maligna (come potrebbe annuire Arthur Machen). Da queste esperienze giunge la linfa per la genesi dell'opera forse più famosa nella produzione dell'autore e che è il libro qui oggetto di esame, un vero best seller dell'epoca capace di scioccare i benpensanti con parti eretiche e crude, ma anche di fornire una certa luce in grado di liberarsi da quell'abisso di perdizione evidenziato dal sottotitolo all'opera. Huysmans arriva a condannare ogni forma di magia, compresa la bianca e a trasformarsi in un paladino del cattolicesimo, seppure senza peli sulla lingua o meglio senza giri di parole sulla carta. Curiosissimo sarà il fatto che questo testo diverrà un cult degli estremisti di entrambe le posizioni, sia i simpatizzanti del satanismo sia di quelli votati al cattolicesimo estremo. Lo scrittore Robert H. Benson, cultore dell'occulto, dopo la lettura del testo si convertirà subito al cattolicesimo e userà Là-Bas quale bussola orientativa per portare alla luce certe pratiche nere. Ci sarà persino chi sosterrà che Huysmans, dopo aver dato vita al decadentismo, ha creato un ulteriore genere di apologetica teso a evidenziare la bellezza della Chiesa soprattutto nell'arte, nella vita monastica e nella liturgia. Insomma, un risultato finale tipico per un autore sempre al limite, dalla lettura delle cui opere poteva succedere tutto e il contrario di tutto... Chissà, forse è la forza della croce come ebbe modo di commentare il pittore Raffaelli nella più famosa raffigurazione di Huysmans finalizzata proprio a sottolineare una conversione innescata da una fase mistico-religiosa degenerata in fanatismo.


Là-Bas esce a puntate sul giornale l'Echo de Paris, nel 1891, e due mesi dopo in volume. E' un'opera consigliata solo a una stretta cerchia di lettori (intellettuali, soggetti alla ricerca di spunti riflessivi che vadano oltre al materialismo), poiché la maggior parte si stancherebbe dopo le prime trenta pagine. Huysmans inzialmente vorrebbe scrivere un saggio su un personaggio che non può non interessarlo: il nobile Gilles de Rais. Un soggetto che passa da essere un eroe, combattendo al fianco di Giovanna d'Arco, e poi si trasforma in un sanguinario pederasta completamente votato al male, un po' per lussuria un po' per la fissa per i processi alchemici. Infine, in punto di morte, torna a convertirsi nella speranza dell'espiazione delle pene consumate nella vita terrena. Un continuo mutare di situazioni che rispecchia, seppur in chiave assai più tragica, le evoluzioni e involuzioni dello stesso Huysmans. "Ci troviamo di fronte a un uomo la cui anima è per metà di rozzo soldato e per metà di monaco."
La passione per gli estremi di Huysmans trova così un prototipo perfetto per esternare la propria opinione: "Visto che è molto difficile essere santi, non resta che darsi al satanismo... o un estremo o l'altro. Esecrazione dell'impotenza, odio della mediocrità: non potrebbe essere forse questa una delle definizioni più indulgenti del diabolismo?" In questo passaggio c'è tutto della personalità di Huysmans, uno scrittore più filosofico che esoterico e per questo non amato da autori quali Machen o altri avvezzi al mondo dell'esoterismo, che non tarderanno nello sconfessare certi passaggi in cui Huysmans prova a dare sfondo esoterico alla propria opera.
Ma a chi potrebbe interessare un lavoro del genere, cioè un saggio storico su De Rais? Di certo non a molti, o quanto meno non a un pubblico variegato. Decide allora di dar vita a un progetto ibrido che prenda le mosse da Gilles de Rais e che si sviluppi su un canovaccio atto ad attirare un maggior numero di lettori e che ha nella storia centrale dell'amore clandestino che vive il protagonista il suo elemento scatenante e fondamentale per la prosecuzione dell'opera. In mezzo a tutto questo c'è ciò che, a mio avviso, interessa veramente all'autore ovvero la critica secca alla società a lui contemporanea, una vera e propria condanna con la rivalutazione del medioevo visto come epoca assai più evoluta rispetto al becero consumismo e materalismo della Francia di fine secolo (immaginiamoci del mondo d'oggi). Ecco la genesi di La-Bàs che curiosamente però va ad acquisire, nella storia della letteratura, un certo peso per essere il primo romanzo in cui viene narrato lo svolgimento di una messa nera. Addirittura il testo è tutt'oggi considerato quale romanzo del moderno satanismo e dell'immaginario demoniaco, definizione che il sottoscritto non condivide affatto.

Raffigurazione di Henry Chapront

Lo scrittore franco-olandese, pur se elegantissimo e colto, realizza un lavoro di ricerca, riporta nozioni e spiegazioni non sempre precise (anche se potrebbero sembrarlo) filtrando quanto gli interessa da notizie e spiegazioni che gli giungono da soggetti che vivono ai margini delle sette segrete o del mondo del satansimo. L'impressione è che il tutto gli serva per lanciare un monito contro certe pratiche e per prendere le distanze a beneficio di una via libera da ogni forma di magia, ma comunque orientata allo sviluppo spiriturale da perseguire con il ricorso dell'arte.

Protagonista è un vero e proprio alterego dell'autore, tale Durtal. Si tratta di uno scrittore che non crede alla magia (si ricrederà) e che sta raccogliendo una serie di dati per completare un saggio sulla figura del maresciallo Gilles de Rais. Come il protagonista di Controcorrente, ha abbandonato il proprio mondo vivendo quasi da eremita, in compagnia di un gatto. "Era diventato rarissimo l'angolo tranquillo dove si potesse, con qualche artista, conversare a piacimento, senza promiscuità da cabaret e da salotto, senza secondi fini sleali o fraudolenti, dove si potesse occuparsi solo d'arte, al riparo dalle donne!" Per bocca di quest'ultimo e grazie a una serie di dialoghi orchestrati dai pochi personaggi (d'elite culturale) con cui il protagonista è solito interloquire, Huysmans si abbandona a una serie di prese di posizione che costituiscono, malgrado quanto si dica, la vera essenza dell'opera. L'autore, già nella prima pagina del romanzo, prende le distanze da quel movimento di cui faceva parte: "Ciò che rimprovero al naturalismo...è di aver incarnato il materialismo nella letteratura, d'aver glorificato la democrazia dell'arte... respingere il sovrasensibile, negare il sogno, non comprendere che la ricerca dell'arte incomincia proprio laddove i sensi non servono più!"

Sono bellissimi alcuni passaggi dove vi è una netta condanna della società moderna ("In tutti i tuoi libri ti sei scagliato contro questo scorcio finale di secolo") che porterà, appunto, all'esaltazione dei tempi che furono. "Il denaro diventa veramente mostruoso quando si fa chiamare capitale. Allora la sua azione non si limita più a istigazioni individuali ma si estende all'umanità intera. Il capitale decide i monopoli, edifica le banche, accaparra le sostanze, dispone della vita e può, se gli pare, far morire di fame migliaia di creature! E intanto lui si nutre, s'ingrsssa, si moltiplica da solo dentro una cassaforte, e i Due Mondi, in ginocchio l'adorano, muoiono di desiderio davanti a lui, come davanti a un Dio. Ebbene, se il denaro può essere a tal punto padrone delle anime, o è diabolico o è inesplicabile." E' questo il vero demonio di cui parla Huysmans, ad avviso di chi scrive, poiché tutto parte dal desiderio di ricchezza e di dominio. Il diavolo non è da ricercare nella goffa rappresentazione della messa nera, pur se descritta con grande cura e blasfemia, da cui tutti, tranne i satanisti, prendono le distanze, bensì è da individuare nello strumento che da concreto potere e su cui tutti si affrettano a mettere le mani, magari vendendosi per pochi spiccioli. Il diavolo non ha forma di caprone, ma di moneta da spendere sul libero mercato. C'è una visione dell'uomo alla Thomas Hobbes. La creatura umana viene vista alla stregua di una creazione maledetta dal peccato originario dell'egoismo e della prepotenza. "Guardatevi intorno e cosa vedete? Una lotta incessante, una società cinica e feroce, i poveri e gli umili insultati, calpestati dai borghesi arricchiti, dai pescicani! Dappertutto è il trionfo degli scellerati o dei mediocri, dappertutto l'apoteosi dei furfanti della politica e delle banche! E voi credete che si potrà risalire una corrente simile? No, mai l'uomo non è cambiato; la sua anima era putrida al tempo della genesi e oggi non è meno marcia né meno fetida. Varia solo la forma dei peccati: il progresso è l'ipocrisia che genera vizi più raffinati" E' in questo, e nella critica che andremo poco oltre a sottolineare, che sta la grandezza di questo meta-romanzo. Ragioni per cui Là-Bas è tutto fuorché un romanzo fantastico, seppur caratterizzato dall'esperienze maturate dall'autore che hanno però la sola ragione di dare verosimiglianza a una storia capace di attirare curiosità per la sua componente blasfema e cruenta, ma che, secondo me, altro non è che un background che funge da specchietto per le allodole. Verrebbe da dire che Huysmans, in questo, è stato davvero diabolico, un po' come lo è il protagonista occulto del suo romanzo che altro non fa che nascondersi per convincere tutti quanti della propria inesistenza.


Huysmans non risparmia niente e nessuno, sovrapppone la componente narrativa con capitoli che sono delle vere e proprie parti di un saggio su De Rais. Si tratta di bei passaggi che, tuttavia, rallentano non poco il ritmo. L'autore non risparmia niente, va giù di mano pesante, raccontando con macabra puntigliosità le pratiche omicidiarie che si consumavano nel castello del nobile. Si tratta di capitoli che gli costeranno non poche polemiche, così come certe sue esternazioni (tutt'altro che infondate): "pensa quanto sia orribile il clero dei giorni nostri, non c'è vero satanismo senza preti sacrileghi... I moderni satanisti sono superiori di ordini missionari, confessori di comunità, prelati e badesse, alti dignitari della curia romana che è il centro della magia contemporanea. I laici invece sono reclutati  nelle classi elevate e ciò spiega come certi scandali siano soffocati se per caso la polizia li scopre!" Sono affermazioni che dimostrano grande coraggio e che creerebbero orde di proteste persino ai giorni nostri, magari con il sequestro del volume. Attenzione però a non cadere in errore, Huysmans non fa di tutta un'erba un fascio e nel testo faranno la loro presenza dei veri e propri "esorcisti", anche se non sono chiamati tali, che lottano contro gli anatemi lanciati dai "preti neri" facendo tornare indietro le maledizioni ai diretti interessati (c.d. legge del ritorno).

Sono molti gli spunti di riflessione che vengono offerti nel testo, Huysmans cerca di spiegare la pratica dell'alchimia, del simbolsimo (specialemnte delle campane), persino di certi rituali di magia nera e del succubato, ma anche di malefici a distanza e di larve (gli spiriti volanti), andando però talvolta incontro a ricostruzioni parziali o comunque suscettibili di critiche da parte dei più ferrati. Si tratta di passaggi, a mio avviso, marginali rispetto alla vera natura dell'opera e che servono a corredare la componente saggistica non incidendo direttamente sui fatti narrati che rimangono sempre piuttosto terreni. E' bellissima, da questo punto di vista, la condanna conclusiva al mondo politico che rappresenta la società di oggi giorno, con un popolo di ciechi che credono a quanto vien loro detto senza cercare la rielaborazione personale, senza sviluppare un proprio pensiero, ma annullandosi in schieramenti fagocitanti e diretti a uniformare le masse per controllarle meglio.
"Ecco la gente che proclama sbraitando i risultati delle elezioni di fronte al municipio... E' il popolo d'oggi! Non acclamerebbe così un sapiente, un artista e nemmeno un santo, che pure sarebbe un essere soprannaturale". Passaggi che non possono che farmi apprezzare questo autore il quale dice una verità innegabile, lasciando intendere che questo avviene poiché i soggetti indicati non portano vantaggi diretti ed economicamente apprezzabili prima facie. Il popolo, la massa, vuol accrescere la propria ricchezza e ha bisogno di sentirsi coinvolta in un nucleo omogeneizzato di idee e costumi, andare al di là di questo (come farebbero le tre categorie di soggetti menzionati) comporterebbe la rottura della cultura e dunque la certezza di avere a che fare con un reietto o il rischio di smarrirsi in un mondo privo di riferimenti, un po' come un naufrago che non sa nuotare e che si trova immerso in mezzo all'oceano. "Basti pensare che questo secolo di positivisti e di atei ha travolto tutto meno il satanismo, questo perché il satanismo o è ignorato o è sconosciuto e la maggior forza del diavolo è quella di esser riuscito a farsi negare!"

Huysmans in giovane età.

Interessante è anche la piega amorosa che smuove il protagonista dalla sua vita da eremita per ricondurlo alla stessa, poiché in fondo non si può sfuggire dalla propria personalità. Huysmans prende spunto, ancora una volta, dall'esperienza personale. Fa incontrare il proprio personaggio con una donna che gli invia delle lettere di elogio e che è la moglie di uno scrittore cattolico. Durtal non ha un buon rapporto col gentil sesso, quanto meno a livello affettivo: "la donna è sempre fonte di dispiaceri e seccature... Le sole donne gradevoli sono quelle che non si hanno". Alla fine però cede, perché quelle lettere gli generano un'ossessione che, alimentata dalla curiosità, lo portano a incontrare l'estimatrice misteriosa (eccellente l'ambiguissima caratterizzazione del personaggio che passa, anche questo, da atteggiamenti da alta classe a esplosioni da prostituta vera e propria, così come passa da esser dolce a cinica e crudele) e a intrattenere un focoso rapporto con la stessa (inferiore però a quello frutto dell'immaginazione precedente, aspetto questo che evidenzia la precoce caducità dei desideri in Huysmans, al punto dal non volerli trasformare in realtà per non rovinarli). Ecco che subentra la componente erotico/sentimentale che funge da ponte per immettere il personaggio nel mondo delle sette sataniche. La donna, infatti, è in contatto con uno di quei preti neri e, su richiesta (il motivo è compiere uno studio sul satanismo per meglio spiegare la parabola di De Rais), porta il suo amante a partecipare a una messa nera. Qua Huysmans introduce alcune scene al limite tra il macabro e il feticismo malato, con la donna che seduce il protagonista constringendolo a un rapporto blasfemo e che porterà lo stesso a prenderne le distanze nei successivi giorni. Vi è poi la famosa descrizione della messa nera che però non produce effetti ultraterreni, se non quello di sconfinare in un'allucinata orgia di sesso e di bestemmie.

La condanna e la presa di distanza dal satanismo non è mai in discussione nel corso della lettura, poiché come successo a Gilles de Rais e a tutti coloro che si vendono al demonio (si vedano i personaggi della messa nera come sono caratterizzati) non può che esserci perdizione. "Il maligno inganna tutti coloro che si danno a lui o in lui confidono". Ne emerge la figura di un leviatano che disprezza i suoi stessi adepti e che li conduce alla decadenza, perché il demonio è un nemico dell'uomo. Un'immagine che, contrariamente all'impostazione data al testo e a certe frasi in grado di suscitare un'infinita polemica, dovebbre essere in sintonia con gli insegnamenti cattolici, per di più che arriva la condanna a ogni forma di magia, ammettendo comuque l'esistenza del soprannaturale ("negarlo è sguazzare nel truogolo del materialismo, nella risciacquatura dei liberi pensatori"), in quanto la medesima si estrinsecherebbe sempre per mano demoniaca.

Ed ecco che si arriva al vero amore dell'autore, la dichiarazione votata alla letteratura che ha il solo scopo di salvare chi se ne occupa dal disgusto di vivere e di alleggerire la pena di quei pochi che ancora amano l'arte. Un numero che va diminuendo sempre più. La nuova generazione non si interessa che ai giochi d'azzardo e alle corse dei cavalli. Oggi gli uomini non leggono più, sono le donne di mondo che comprano libri e ne determinano il successo o il fiasco. E così è alla dama, come la chiamava Schopenhauer, o all'oca, come la definirei io, che dobbiamo quell'infornata di romanzi tiepidi e mucillagginosi di cui possiamo proprio andar fieri! Per l'avvenire si sta preparando davvero una bella letteratura, poiché, per piacere alle donne, bisogna naturalmente esporre, in uno stile semplificato, idee predigerite e sempre stagionate. I rari artisti rimasti non devono più preoccuparsi del pubblico; vivono lontani dai salotti, lontano dal codazzo dei titolari di sartorie letterarie alla moda e il solo dispetto che possono onestamente provare è di vedere la propria opera, dopo la stampa, esposta alla degradante curiosità della folla! L'arte dovrebbe essere come la donna amata, fuori portata, aerea, lontana... giacché solo con la preghiera si può avere un'eiaculazione dello spirito veramente pura!" Cosa vi leggete in tutto questo se non una condanna dell'editoria contemporanea, votata a fare cassa piuttosto che a favorire l'arte? E' in questo che si cela la vera natura del romanzo, aspetto che però viene quasi del tutto ignorato da certe critiche che si fanno prendere dalla componente esoterica/occulta che è marginale alle vere intenzioni dell'autore che vuol invece condannare il suo mondo, troppo "idiota" per andare oltre le apparenze e troppo ozioso per porsi le domande giuste ("il popolo invece di migliorare, con l'andar dei secoli peggiora sempre più, scende sempre più in basso, diventa più stupido"). "L'ignomia di questi tempi può essere cancellata solo dall'intervento di un Dio, poiché non saranno certo il socialismo e le altre illusioni di operai ignari e pieno d'astio a modificare la natura degli esseri e a riformare i popoli. Sono cose di là dalle forze umane..."

Un pessimismo davvero marcato che però non è stato sconfessato dal decorrere di oltre un secolo, basti vedere il mondo odierno. La conclusione del romanzo costituisce la natura dello sforzo di Huysmans che ormai ha perso ogni speranza "collettiva" per poter destare la società dall'atteggiamento dormiente che la caratterizza, non resta che rifugiarsi in uno studio personale, di lì a poco si convertirà al cattolicesimo, in una lotta per acquisire quei valori necessari alla scalata del paradiso. "Questo secolo se ne infischia del Cristo glorioso, insozza il soprannaturale e sull'aldilà ci sputa. Come dunque sperare nel futuro, come immaginare che saranno puliti i marmocchi partoriti dai fetidi borghesi di questo lercio tempo? Allevati come sono, mi domando che cosa potranno mai fare nella vita? Si riempiranno la pancia ed evacueranno l'anima attraverso il ventre." Un epilogo che lancia Huysmans nell'olimpo dei più grandi scrittori, anche se il suo Laggiù, nell'Abisso è più un saggio, non tanto sul satanismo, ma sul declino della società occidentale ormai entrata da tempo in quello che gli orientali chiamano il kali yuga.

Grandissimo romanzo dunque adatto però a un pubblico di nicchia e da leggere oltre le mere apparenze, quale condanna della società moderna e spunto per gettare nuove basi di sviluppo contro l'arroganza di chi tesse i fili del gioco (che non è il diavolo, bensì l'uomo assetato di potere e di denaro).

  HUYSMANS nel famoso dipinto di Raffaelli.

"Solamente i santi, gli scellerati e i folli sono persone interessanti da conoscere: i soli con cui possa valere la pena di conversare. Le persone di buon senso sono tutte nullità che ripetono l'eterna solfa d'una vita banale: sono folla, più o meno intelligente, ma folla, e non le posso sopportare!"