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mercoledì 15 dicembre 2010

Recensione film: "Le Colt Cantarono la morte e fu... Tempo di Massacro (Lucio Fulci)




Produzione: Italia 1966

Produttore: Oreste Coltellacci, Ugo Santalucia e Lucio Fulci.

Regia: Lucio Fulci

Soggetto e Sceneggiatura: Fernando Di Leo.

Interpreti Principali: Franco Nero, Nino Castelnuovo, George Hilton, Giuseppe Addobbati (John McDouglas), Tchang Yu, Janos Bartha, Romano Puppo.Musiche: Lallo Gori

Durata 90 min.

Giudizio: ***


La trama

Tom Cobett (Nero) viene richiamato al paese di origine da Carrdine, un vecchio amico di famiglia (Bartha), per essere messo a conoscenza di una notizia segreta. Giunto in paese, Tom scopre che un signorotto locale (Castelnuovo) e suo padre (Addobbati) hanno messo sotto il loro totale controllo la città, ma non riesce a parlare con Carradine perché lo stesso viene assassinato da una banda di criminali. Aiutato dal fratello (Hilton), un pistolero con la passione per la tequila, Tom riuscirà a liberare il paese dall’oppressione e a conoscere quel segreto per cui era stato contattato.


Commento

Film di discreto successo (20° classificato nella graduatoria dei film più visti del ‘66) assai importante per il genere e soprattutto per la carriera di un regista che avrebbe fatto la storia del cinema di genere nostrano. I critici dell’epoca individuarono la caratteristica preponderante del film nell’alto tasso di violenza sadica, anche se, tengo a precisare, non raggiunge mai i livelli di “Django”. Visto con gli occhi di oggi giorno, infatti, “Tempo di massacro” non è un western violentissimo; lo stesso regista girerà nel 1975 un western molto più crudo e cupo dal titolo “I quattro dell’apocalisse”, nonostante ciò fu oggetto di censure e di scelte commerciali che portarono alcune case di produzione spagnole a declinare l’offerta di collaborazione per la produzione del film. Dietro alla mdp troviamo Lucio Fulci, un regista straordinario oggi ricordato, un po’ in modo stretto perché capace di girare anche capolavori impegnati quali “Beatrice Cenci”, per i suoi horror di fine anni ’70 primi anni ’80 capaci di concorrere con i capolavori del suo “avversario” di sempre, cioè Dario Argento, con perle del calibro de “L’Aldilà”, “Zombi 2”, “Paura nella città dei morti viventi” e “La squartatore di New York”. Memorabili, al riguardo, gli scontri tra i due registi che si placarono solo poco prima della morte di Fulci (quando Argento produsse l’horror “M.D.C. – Maschera di cera”, poi girato da Sergio Stivaletti per l’improvvisa dipartita del nostro) e che iniziarono prima superficialmente, per la scelta di Fulci di cavalcare il successo ottenuto da Argento presentando dei thriller dai titoli contenenti nomi di animali (“Una lucertola dalla pelle di donna”, “Non si sevizia un paperino”) e poi con delle vere e proprie dispute legali con Argento – distributore del film “Zombi” di George Romero – che accusò Fulci di plagio in occasione dell’uscita di “Zombi 2” (film, in realtà, totalmente diverso da quello di Romero).Al di là di quanto sopra ricordato, nel 1966 Fulci era poco più di un regista di film comici (molti dei film di Franco e Ciccio e prima di Totò sono stati portati in scena proprio da Fulci) e di testi di canzonette popolari, come “Ventiquattromila baci” di Adriano Celentano, che mai si era cimentato con il cinema d’azione o con opere cruente di cui poi sarebbe diventato un maestro come dimostrano il giallo “Sette note in nero” o il fantasy bizzarro “Conquest” o il terrificante noir “Luca il contrabbandiere”. Nonostante i successi ottenuti al botteghino per merito della comicità dell’accoppiata Franco e Ciccio, la volontà del regista di staccarsi da un filone commerciale che non gli permetteva di dare lustro al suo genio visionario divenne un qualcosa di sempre più ossessiva. Così Fulci decise di autoprodurre un progetto che gli permettesse di confrontarsi con un qualcosa di diverso. La scelta ricadde sul western, perché all’epoca era l’unico genere che offriva una qualche garanzia di successo, e su una sceneggiatura di quel Fernando Di Leo di cui abbiamo già a lungo parlato. “Tempo di massacro”, poi rinominato “Le colt cantarono la morte” perché il titolo era già stato registrato per l’uscita di un romanzo, è dunque il primo film in cui Fulci sperimenta quel gusto per la violenza che lui stesso non perdeva occasione di definire “artaudiano”, citando Antonin Artaud. Tuttavia siamo alle prese con un Fulci ancora embrionale, che si approccia a un cinema che non aveva mai fatto e su cui tornerà solo qualche anno dopo, preferendo girare un altro pugno di film comici prima di approdare, nel 1969, al thriller con “Una sull’altra” subito seguito da due capolavori, “Non si sevizia un paperino” e “Una lucertola con la pelle di donna”, in cui si assiste al Fulci più puro. In “Tempo di massacro” la regia non porta ancora le stigmate del regista, mancano quasi del tutto quelle manie che il “terrorista dei generi”, così definito per la sua caratteristica di deflagrare un genere predeterminato introducendovi elementi atipici, palesava nei suoi film (l’indugiare sugli occhi dei protagonisti, l’ossessione per il tempo che scorre, l’uso abbondante dello zoom, l’amore per la nebbia e via dicendo). Tuttavia, al di là di quanto detto, emerge in modo chiaro e netto un innegabile gusto per quel macabro che, nel corso degli anni, diventerà un vero e proprio marchio di fabbrica della filmografia di Fulci portandolo a essere considerato il padrino del gore italiano. Un ulteriore punto in comune tra “Tempo di massacro” e i successivi lavori di Fulci, soprattutto gli horror, si riscontra nella scelta di proporre un prologo, che precede i credit, caratterizzato da una crudeltà che anticipa i contenuti del film. Nella circostanza si parte con una sequenza tanto disturbante da rendere necessario l’intervento della censura che ha eliminato parte della scena. Abbiamo infatti un gruppo di pastori tedeschi lanciati, in un lungo inseguimento in un bosco, alle spalle di un messicano che finisce sbranato e divorato dagli stessi, con la telecamera che indugia sulla pozzanghera in cui cade la vittima mentre l’acqua si colora di rosso. Una sequenza per l’epoca terribile e mai vista in un western. Come già anticipato, a battezzare il debutto di Fulci nel western, e più in particolare nel cinema di genere, è la sceneggiatura di Di Leo. Lo sceneggiatore, e poi regista pugliese, sforna un soggetto non trascendentale ma ben sviluppato (si parla di un figlio illegittimo che torna, suo malgrado, a rivendicare ciò che gli spetta, suscitando le ire del fratellastro). Rispetto ad altre sceneggiature di Di Leo, lo script è meno impegnato e non sfoggia quei magnifici dialoghi che caratterizzavano i suoi primi western; a fare la differenza, quindi, è lo sviluppo e le caratterizzazioni dei personaggi. Riuscitissimi i personaggi interpretati da Nino Castelnuovo e George Hilton, grazie anche alle ottime interpretazioni dei due attori. Il primo è un bullo che, armato di frusta, compie ogni sorta di nefandezza (fino a ordinare l’uccisione di due bambini e a far crocefiggere un uomo di fiducia del padre su due pali di legno); memorabile, al riguardo, il duello con le fruste tra Castelnuovo e Franco Nero con quest’ultimo ridotto a una piaga, con il volto sfigurato dalle frustate. Più guascone il personaggio di Hilton: un ubriacone che va pazzo per la tequila e che gioca con le piattole, ma anche letale come pochi con la colt che usa solo dopo aver attirato l’attenzione dei rivali proferendo la battuta “Hey, gentleman?”Molto simpatico, anche se già riproposto da Di Leo in altri film, il becchino del paese che qui si contraddistingue per esser un cinese (con immancabile “erre moscia”) amante delle citazioni di Confucio rielaborate in una visione personalizzata e adattata ai tempi moderni. Paradossalmente a essere debole è la caratterizzazione del personaggio protagonista che ha poco o nulla di diverso rispetto alla massa dei pistoleri dello spaghetti western. Il ritmo, seppur calando nella parte centrale, è discreto, grazie a un’attenta regia di Fulci che offre il meglio di sé nella mattanza finale (bella la scena con Nero che sale le scale e la mdp che riprende in primo piano gli stivali che salgono i gradini), dove Hilton e Nero si lanciano le pistole a vicenda scambiandosi i bersagli. Bello l’epilogo dalle atmosfere horror, in parte citato in “Non si sevizia un paperino”.Le interpretazioni, come anticipato, sono buone. Star del cast artistico, per l’epoca, era un Nino Castelnuovo reduce da film di Vittorio De Sica, Nanni Loy e Visconti e soprattutto dalla mini serie tv “I promessi sposi” dove, con grande successo di critica e pubblico, aveva impersonificato Renzo. Castelnuovo, da uomo più pagato del cast, fu inviato a scegliere quale ruolo intendesse accettare; curiosamente optò per il figlio crudele, in quanto stufo di ricoprire ruoli da bravo ragazzo. Nonostante i precedenti trascorsi in film di autore o con soggetti classici, la performance dell’attore lombardo, in una delle sue rare prove in un film di genere - lo rivedremo nel western “Un esercito di cinque uomini” del 1969 e nel thriller dai contenuti erotici “Nude per l’assassino” del 1975 di Andrea Bianchi – si rivelerà molto positiva e mostrerà l’alta attitudine di Castelnuovo nel ricoprire personalità molto diverse tra loro.Per il ruolo di co-protagonista, invece, fu scelto, dopo svariati provini, l’uruguayano e all’epoca sconosciuto George Hilton. Il film per Hilton ebbe un grande impatto positivo e lo lanciò nel cinema italiano. Pagato con poco più di due milioni di lire, Hilton vide crescere l’interesse attorno a sé proprio grazie a questo film, al punto da diventare uno degli attori più richiesti per lo spaghetti western (erediterà persino da Gianni Garko il ruolo di Sartana, con il film “C’è Sartana… vendi la pistola e comprati la bara”) e poi per il thriller (celebri le sue partecipazioni nei primi thriller di Sergio Martino, tra i quali vale la pena di ricordare “Lo strano vizio della signora Wardh”, “Tutti i colori del buio” e “La coda dello scorpione”). La prova di Hilton, nonostante le continue liti con Fulci, è a dir poco maiuscola, addirittura azzarderei a definirla la sua migliore interpretazione di sempre. Nei panni di protagonista, invece, dopo la rinuncia di George Martin, saltato insieme ai produttori spagnoli che rinunciarono al film perché giudicato troppo violento, fu scelto Franco Nero. Decisiva, al riguardo, fu la sorprendente prova offerta dall’attore in “Django”. Franco Nero però non fornisce una prova convincente e, di sicuro, si vede rubare la scena da Castelnuovo e soprattutto da un Hilton in grossa vena. Completano il cast alcuni caratteristici storici del cinema italiano, tra cui un Romano Puppo con un ruolo un po’ più ampio del solito.Ottima la confezione, sia per quel che concerne la fotografia di Riccardo Pallottini, le scenografie e la colonna sonora di Lallo Gori. Eccezionale e trascinante la main theme “A man alone” cantata da Sergio Endrigo, capace di inserirsi in prima posizione nella hit parade giapponese.


Per gli amanti delle citazioni:

1) “Confucio oggi direbbe: in cielo sarà ripagato chi seppellisce i morti gratuitamente in terra, ma Confucio non viveva in questa città. I morti sono tanti che se li seppellissi gratis finirei con il morire anche io. Confucio quindi mi vorrà perdonare se ai Carradine l’eterno riposo costerà tre dollari a testa”

martedì 30 novembre 2010

Recensione: "La signora dalla maschera d'oro" - G.Buzi



Autore: Giovanni Buzi

Anno di uscita: 2009

Casa editrice: Il foglio letterario

Pagine: 176

Prezzo: 15.00


Commento

Romanzo piuttosto atipico per l’ottima collana “Fantastico e altri orrori” delle edizioni il Foglio. Nell’occasione, infatti, il duo Lupi-Spasaro abbandona ogni tematica fantastica e presenta un thriller crudo (si parla di cannibalismo e di una setta pagana) dalle fortissime contaminazioni erotiche.

La storia verte su un truculento assassinio perpetrato, sui monti vicino Viterbo, all'interno di un convento dove vengono celebrati riti orgiastici. Le vittime vengono adescate, in una chat per incontri a sfondo sessuale, da una misteriosa e bellissima ragazza che indossa una maschera color oro.

Autore del libro è Giovanni Buzi, scrittore scomparso alcuni mesi fa e che si contraddistingueva per un grande coraggio (per rendersene conto, basta vedere chi sono i componenti della setta) e un talento visivo sopra alla media, tanto da vedersi accostato a maestri del calibro di Clive Barker.Nella circostanza Buzi abbandona l’horror, anche se le atmosfere che dipinge sono quelle tipiche del racconto dell’orrore, e affonda deciso nell’erotico.“La signora dalla maschera d’oro”, infatti, offre il meglio di sé proprio quando Buzi spinge sul pedale dell’erotismo (e lo fa subito con il primo capitolo), con un’attitudine al genere che ha quasi del fenomenale. Non mancano alcuni difetti (l’eccessivo impiego di alcune parole volgari, a esempio, a mio avviso stona con la cura del testo che lo scrittore è stato capace di offrire), a ogni buon conto la parte erotica è senz’altro ottima.Meno brillante, invece, è l’anima thriller del romanzo, a causa del fatto che Buzi scopre subito le carte in tavola facendo capire chi siano gli adepti della setta. Al lettore, quindi, non resta che domandarsi chi sia “la signora dalla maschera d’oro” poiché ogni altra cosa è già stata svelata. Anche dal punto di vista dell’identità della protagonista femminile le cose non vanno meglio. Il lettore, difatti, viene spinto a credere di trovarsi al cospetto di una sorta di dea diabolica dagli occhi felini, ma alla fine il mistero si risolverà con una soluzione decisamente terrena.Elegantissime le descrizioni ambientali, piuttosto noiosette e ripetitive, invece, quelle in cui vengono descritte le ricerche via internet eseguite dal gruppetto di amici.In conclusione un romanzo che scorre via bene, ma che alterna eccellenti momenti con altri fiacchi. Indicato a chi apprezza narrativa erotica. Voto: 7

mercoledì 10 novembre 2010

Recensione cinematografica: DEMO per futuro progetto dedicato allo spaghetti western


Produzione: Italia-Spagna-Germania, 1964

Regia: Sergio Leone (Bob Robertson).

Soggetto: Sergio Leone d Duccio Tessari

Sceneggiatura di Sergio Leone, Duccio Tessari, Fernando Di Leo, Tonino Valerii, Jaime C. Gil, Victor A. Catena.

Interpreti Principali: Clint Eastwood, Gian Maria Volonté (John Wells), José Calvo, Marianne Koch, Sieghardt Rupp, Margarita Lozano, Antonio Prieto, Josef Egger, Bruno Carotenuto (Carol Brown), Mario Brega (Richard Stuyvesant)

Durata 100 min.

Giudizio: ****1/2


La trama

Un pistolero americano (Eastwood), in sella a un mulo, arriva in un paesino di frontiera messicano in cui due bande si contendono il controllo della città. Una, la più animalesca, è comandata da Ramon (Volonté), un delinquente abile nell’utilizzo del fucile; l’altra, la più borghese, è guidata da una donna autoritaria (Lozano) che tiene sotto scacco figli e marito e si rivolge allo straniero con la frase “sono una donna abbastanza ricca per apprezzare gli uomini che si possono comprare”.Il pistolero, aiutato da un locandiere (Calvo) e dal becchino del paese (Egger), sfrutta l’occasione per mettere le due fazioni l’una contro, strappando soldi in cambio di informazioni relative a circostanze dallo stesso messe in scena.


Il commento

Come abbiamo visto in sede di introduzione, nonostante quanto si dica in giro (ovviamente non sui libri o alle rassegne di settore), “Per un pugno di dollari” non è il primo western italiano in senso assoluto. Tuttavia è innegabile sostenere che si tratti del film pilota del futuro “Spaghetti western”. Al di là del soggetto, che come vedremo è tutt’altro che originale, a fare la differenza tra questo film e i precedenti, sia italiani che europei, è la regia e la sfumatura malinconica, condita da un’ironia cinica e da scene intrise di una violenza fino a quel momento aliena al panorama western. In altri termini, rispetto ai western americani e ai primi western europei che cercavano di ripercorrere i sentieri tracciati da registi come John Ford o John Sturges, tanto per citare i più rappresentativi, qui si assiste a un qualcosa di rivoluzionario e molto coraggioso che va a scardinare i limiti in cui si era sempre mosso il genere, per dar vita a un prodotto diverso. L’impostazione di Leone fu quindi una sorta di azzardo che sulle prime non piacque a molte persone, anche per via del flop al botteghino ottenuto dal regista nel 1961 con il peplum “Il colosso di Rodi” (opera di suo debutto). Diversi attori, tra i quali Rory Calhoun (protagonista de “Il colosso di Rodi”) e Mimmo Palmara (preferì lavorare sul set de “Le pistole non discutono”), rifiutarono di partecipare al progetto; i produttori, Arrigo Colombo e Giorgio Papi, destinarono a Leone un budget limitato concentrando i loro sforzi sul western “Le pistole non discutono” che Mario Caiano stava girando in contemporanea a Leone e che veniva considerato il western di punta della Jolly Film (casa che distribuiva anche “Per un pugno di dollari”). Lo stesso Leone (che per ragioni commerciali si firma Bob Robertson, anglicizzando il nome d’arte del padre, Roberto Roberti, anch’esso regista negli anni ’20), terminato il film, non immaginava come avrebbe reagito il pubblico, tanto che alla prima uscita, temendo che la pellicola potesse esser ritirata dal circuito cinematografico per scarso successo, decise di acquistare una cinquantina di biglietti per fare in modo che il film potesse restare il più a lungo in programmazione. “Per un pugno di dollari”, in sostanza, nasce come un’avventura lavorativa che riunisce un manipolo di giovani autori che in seguito sarebbero diventati i maggiori rappresentanti del genere e che direttamente o indirettamente hanno contribuito al successo del film.Come abbiamo già anticipato, il soggetto non è originale. Leone, su consiglio pressante del futuro regista de “Lo chiamavano Trinità”, cioè Enzo Barboni - all’epoca operatore di macchina - e si dice anche di Sergio Corbucci fu invitato a vedere il film “La sfida del Samurai” uscito in Italia nel 1963 per la regia di Akira Kurosawa. Barboni si diceva convinto che il soggetto del film giapponese sarebbe potuto diventare un eccellente base per un western, un genere che in Italia tutti sognavano di realizzare a partire dallo stesso Leone ma che in pochi si azzardavano a proporre. La visione del film fu così elettrizzante per Leone che, memore del successo ottenuto in Italia da “I magnifici sette” anch’esso ispirato da un’opera di Kurosawa (“I sette samurai”), decise subito di lavorare sul soggetto, badando però a non stravolgere la trama. È in questa fase di scrittura che intervengono tre autori che metteranno una forte impronta nella cinematografia di genere italiana, cioè Duccio Tessari, Fernando Di Leo e Tonino Valerii (che collaborerà anche come aiuto regista) all’epoca rispettivamente di 38, 32, 30 anni.Tessari, in modo particolare, intervenne anche sul soggetto, conferendogli quel taglio ironico-farsesco (stupendi, al riguardo, il finale - con il becchino che prende le misure per preparare le bare, mentre lo straniero se ne va lasciandosi alle spalle un’infinità di cadaveri – e la scena del cimitero con il locandiere che, in risposta alla disposizione da parte dello straniero di due cadaveri messi ai lati di una tomba per farli sembrare vivi, commenta: “e inoltre non mi piace che tu li abbia sistemati proprio lì, c’è sepolto l’unico morto di polmonite di questo maledetto paese!”) che sarà dallo stesso portato alle estreme conseguenze con il suo successivo “Una pistola per Ringo” e che caratterizzerà, salvo qualche eccezione, tutta la sua produzione. Senz’altro determinante, in chiave drammatica, è l’apporto di Fernando Di Leo che da questo film in poi metterà il c.d. zampino in molti capolavori del genere quali “Navajo Joe”, “Django”, “I lunghi giorni della vendetta”, “Le colt cantarono la morte” fino a debuttare alla regia dando la vita a dei noir che sarebbero diventati autentici gioielli della cinematografia mondiale (“Milano calibro 9”, “La mala ordina”, “Il boss”). Gli sceneggiatori, inoltre, sono stati molto bravi a presentare nel corso della narrazione tutti quegli elementi che si riveleranno determinanti nel magistrale finale. Viene infatti mostrato a circa metà film la passione e la cura ossessiva con cui Ramon spara col suo fucile, mirando sempre al cuore di un’armatura che utilizza come bersaglio. Viene anche proposto un quesito, che vede protagonista e antagonista non concordare tra di loro circa la maggiore efficacia del fucile sulla pistola in un ipotetico duello tra due uomini diversamente armati, che troverà risposta proprio nell’epilogo. Quindi, in definitiva, nonostante un budget limitatissimo che impedisce di utilizzare scenografie diverse da quelle del minuscolo paese teatro dei fatti, gli sceneggiatori riescono a intessere una storia che cattura dal primo all’ultimo minuto lo spettatore, grazie a dialoghi ben studiati e di effetto.Ma il pregio del cast tecnico non si limita a questo poker di professionisti, ma può contare almeno altri due grandi personaggi del nostro cinema: Ennio Morricone che, dopo quasi un decennio di gavetta nel mondo del cinema, esplode in modo prepotente proprio con questa opera confezionando una colonna sonora che sarebbe diventata intramontabile; e Massimo Dallamano, sottovalutato ma già esperto addetto alla fotografia, che riuscirà a imporsi, prima di trovare la morte in un tragico incidente stradale, anche alla regia con perle quali il poliziesco con elementi thrilling “La polizia chiede aiuto” e il giallo “Cosa avete fatto a Solange?”.Premesse queste importanti e dovute segnalazioni, veniamo alla regia di Sergio Leone. La prima cosa che salta alla mente è il ritmo e la cura dei dettagli, con primissimi piani (sugli occhi, sulle pistole, sugli speroni, sulle gocce di sudore) e zoomate che, fino a quel momento, non si erano mai viste nei prodotti hollywoodiani. Un’altra trovata del regista è costituita dalla proposizione di inquadrature dove viene ripreso un duello senza mai staccare la telecamera (aspetto invece caratteristico dei film americani). Il genio di Leone, però, va alla grande sensibilità di saper sfruttare le musiche di Morricone per combinare sequenze intrise di una poetica leggendaria, in questo viene anche aiutato dall’eccellente montaggio di Roberto Cinquini e dall’ottimo lavoro eseguito dietro alla macchina da presa da un altro professionista che poi debutterà nella regia e offrirà il meglio di sé nel poliziottesco (“Squadra volante” e “Mark il poliziotto” i suoi masterpiece): Stelvio Massi.Il film parte subito in quarta con dialoghi che fanno dell’ironia la loro arma vincente e con un personaggio protagonista totalmente sopra le righe e guascone. Un personaggio che non è un vero e proprio eroe (è un materialista che non mantiene la parola data), anzi è una canaglia dal passato misterioso e sofferto che lo porta, in qualche momento, a simpatizzare per i più deboli come dimostra il momento in cui libera la donna, interpretata dalla Koch, tenuta segregata dalla banda di messicani rispondendo alla sua domanda “perché fate tutto questo per noi?” con la frase “è una storia troppo lunga da raccontare”. Ma non è solo l’ironia a catturare l’attenzione dello spettatore, bensì i duelli e le sparatorie che si aprono dopo appena 4 minuti con un memorabile duello uno contro quattro, con il protagonista che ordina al becchino di preparare tre casse (correggendosi dopo la sparatoria con la frase: “volevo dire quattro casse”) prima di andare a provocare i quattro bulli locali che lo avevano importunato al suo arrivo in paese. Farà scuola, al riguardo, la scelta registica di Leone di riprendere il tutto posizionando la telecamera di lato alla fondina da cui Eastwood estrarrà la sua colt.Nel film sono poi presenti almeno altre tre sequenze memorabili. La prima è l’imboscata che i messicani, travestiti da Yankee, organizzano ai danni dei soldati messicani sul Rio Bravo. Sequenza che diventerà una specie di firma di Leone e che, in un modo o nell’altro, tenderà a riproporre un po’ in tutti i film in modo particolare in “Il buono, il brutto e il cattivo” e “Giù la testa”. Particolarmente interessante, poi, soprattutto sotto il profilo della fotografia (Dallamano non ricorre a filtri, ma sfrutta il fuoco come elemento per far luce sugli attori) è lo sterminio dei Baxter, con la casa che va completamente a fuoco e il protagonista che osserva l’esecuzione dei Baxter dall’interno di una bara, sputando commenti al vetriolo (“Ferma, non voglio perdermi lo spettacolo” dice al becchino che lo sta trasportando fuori paese, per sottrarlo alla banda di messicani che lo sta cercando per ucciderlo). È infine straordinario l’epilogo con Eastwood che, in mezzo ai fumi dell’esplosione di un carico di dinamite e con una soundtrack da brivido, avanza sfidando il narcisismo dell’antagonista (“Beh che ti succede, Ramon, ti trema la mano o forse hai paura. Al cuore Ramon, se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore. Sono parole tue, no? Al cuore, Ramon, al cuore…altrimenti non riuscirai a fermarmi!”), rialzandosi a ogni colpo di fucile sparato dal messicano grazie a una lastra metallica che lo protegge dai colpi e che tiene nascosta sotto il poncho. Innovativo inoltre il ricorso alla soggettiva finale, con mdp che oscilla a simulare gli ultimi istanti di vita di un uomo sul punto ormai di morire. Questo espediente, da Leone in poi, diventerà un marchio di fabbrica del cinema italiano di genere in generale e più in particolare del thriller e dell’horror, con registi come Dario Argento e Lucio Fulci che ne diventeranno i principali specialisti.Un’ultima segnalazione merita anche la scena con le mdp che cerca Eastwood nascosto sotto l’asse di legno su cui si muove un Ramon inferocito che lo cerca per ucciderlo (escamotage che sarà citato miriade di volte, come avvenuto di recente nell’ultimo film di Tarantino “Bastardi senza gloria”, quando un gerarca nazista cerca un manipolo di ebrei nascosti nella casa di un contadino francese).Veniamo al cast artistico. Nei panni del protagonista troviamo un giovanissimo Clint Eastwood, all’epoca conosciuto solo per aver ricoperto ruoli di protagonista per film wesrtern destinati al circuito televisivo americano. Eastwood fu indicato a Leone da un agente, dopo che vari autori avevano rifiutato il ruolo. Al regista non convinceva (dirà in seguito: “Eastwood aveva due espressioni, con il cappello o senza cappello”), ma il suo onorario era basso e visto il budget non si sarebbe potuto fare altrimenti. Per il doppiaggio dell’attore viene scelta l’ottima voce dell’attore Enrico Maria Salerno e la professionalità di Salerno ha senz’altro contribuito a impreziosire la granitica interpretazione dell’attore Californiano, comunque il linea con la freddezza del suo personaggio. Peraltro questa figura del pistolero straniero che vaga con un poncho marrone e un cigarillo e alla cui base c’era anche il titolo originario del film “Il magnifico straniero”, poi modificato con il meno pertinente “Per un pugno di dollari”, sarà mantenuta anche per i due western successivi di Leone; inoltre fungerà da ispirazione per il primo western che - nel 1973 - vedrà dietro alla mdp proprio Clint Eastwood ovvero l’eccezionale “Lo straniero senza nome”, opera che citerà lo spaghetti western e più in particolare “Per un pugno di dollari” (abbiamo uno straniero apparso dal niente che crea scompiglio in città) e “Django il bastardo” di Sergio Garrone (da cui riprende l’elemento del pistolero morto che ritorna in una forma spettrale per vendicarsi). Notevole, invece, Gian Maria Volonté. Volonté, chiamato all’ultimo a sostituire Mimmo Palmara, all’epoca era un promettente attore sia teatrale che di cinema di critica sociale. In entrambi casi, il fato ha voluto che i problemi nell’ingaggio degli attori abbiano avuto un peso che anziché rivelarsi negativo si è rivelato un autentica manna dal cielo. Infatti, a partire da questo film, sia Eastwood che Volonté riusciranno nella loro carriera a ritirare un’infinità di premi e riconoscimenti.Completano il cast un gruppo di caratteristi italiani, spagnoli e tedeschi non di grande valore artistico, ma comunque funzionali alla causa. Tra questi mi preme ricordare il simpatico Josef Egger (sarà riconfermato nel successivo “Per qualche dollaro in più”), nei panni del becchino del paese (eccellente il doppiaggio), il grande Mario Brega, mitico attore feticcio di Leone, e José Calvo che ritroveremo anche in altri western quali “I giorni dell’ira” ma anche in film di Dino Risi e Luigi Comicini.Per concludere, “Un pugno di dollari” introduce tutti quegli elementi che faranno la fortuna dello spaghetti western ossia la violenza (vedere le torture cui vengono sottoposti il protagonista e il locandiere, con pestaggi e bruciature di sigaro), l’ironia e quel tocco poetico e malinconico che Hollywood raramente è riuscita a eguagliare.

Le citazioni:

1) “Devo ancora trovare un paese dove non c siano padroni”

2) “Fate male a ridere. Al mio mulo non piace la gente che ride, ha subito l’impressione che si rida di lui, ma se mi promettete di chiedergli scusa, con un paio di calci in bocca ve la caverete”

3) “Quando uno che ha quella faccia fa quel mestiere, vuol dire due cose: che è veloce ma anche intelligente, quindi troppo pericoloso per voi”

4) “La vita di un uomo, da queste parti, è spesso legata al filo di un’informazione”

5) “Quando un uomo con una pistola incontra l’uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto”.

martedì 26 ottobre 2010

"Anteprima demo" da inserire nell'eventuale saggio sullo "Spaghetti western" che conto di pubblicare probabilmente per le edizioni "Il Foglio"

UNA PISTOLA PER CENTO BARE

Un film di Umberto Lenzi.
Con Piero Lulli, Peter Lee Lawrence, John Ireland, Franco Pesce, Andrea Scotti, José Jaspe, Raf Baldassarre, Calisto Calisti, Consalvo Dell’arti
Durata 95 min.
Italia 1968.
Jim Slade (Lee Lawrence), soldato pacifista sudista, dopo aver scontato una condanna ai lavori forzati per essersi rifiutato di combattere sul fronte, scopre che la sua famiglia è stata sterminata da un gruppo di quattro delinquenti. Il ragazzo, del tutto inabile nel maneggio delle pistole a causa della sua fede religiosa (è testimone di Geova) che lo porta a ricusare armi e alcol, decide di imparare a sparare e di mettersi sulle tracce dei quattro. Nel giro di poco tempo, trova e uccide tre dei quattro elementi, mentre del quarto sa solo che si chiama Corbett (Piero Lulli). Determinato a uccidere anche l’ultimo uomo, Slade vaga di paese in paese per consultare le foto segnaletiche mostrate dagli sceriffi. Nessuno però sembra conoscere Corbett, finché un giorno, casualmente, mentre si trova a bere un bicchiere d’acqua in un saloon, il ricercato appare alla guida di una banda intenzionata a rapinare la banca del paese. Il proposito criminale non va in porto, perché il bottino (200.000 dollari) che Corbett pensava di poter rubare non è stato ancora depositato presso la banca. Il delinquente decide così di rinviare il colpo, non prima però di aver ucciso lo sceriffo locale. Slade, intenzionato a completare la sua vendetta, coglie al volo l’occasione. Si fa assoldare dal sindaco per proteggere la banca e, aiutato da un predicatore forestiero (John Ireland) e da un vecchio becchino (Franco Pesce), si prepara per la resa dei conti finale. Le sorprese per Slade però sembrano non finire, perché in realtà a sterminare la sua famiglia sono stati cinque uomini e il quinto è qualcuno di cui il giovane si fida ciecamente…
Presentato con un titolo poco appropriato (può erroneamente lasciar pensare che il protagonista debba uccidere cento persone), “Una pistola per cento bare” è una pellicola che analizzata superficialmente sembrerebbe non aggiungere niente a quanto già offerto dal panorama western.Sceneggiata da XXX, la storia propone un’idea di base piuttosto classica (tema della vendetta) e inserisce personaggi e scene già viste soprattutto nei film di Sergio Leone, ma anche in “Django” (epilogo in un cimitero in mezzo alle croci) e “I giorni dell’ira” (il protagonista è un giovane inabile alle armi, ma che vuol imparare a usarle e alla fine diventa un abile pistolero paladino della giustizia).Più in particolare viene citato “Per un pugno di dollari” (verso l’epilogo, il protagonista si mette a fare il doppio gioco; in più abbiamo la simpatica figura del vecchio becchino del paese che gioisce a ogni morte, perché potrà così lavorare), “Per qualche dollaro in più” (protagonista pestato dalla banda dei criminali che ridono come forsennati, finché il loro capo non sospende il pestaggio; il bottino della banca viene sottratto dalla sua cassa all’insaputa dei criminali e nascosto dal protagonista all’interno di una tomba) e “Il buono, il brutto e il cattivo” (delinquente salvato dall’impiccagione con la corda tagliata da colpi di pistola).Nonostante quanto detto, il film acquisisce una valenza degna di nota, pur non segnalandosi tra i masterpiece del genere. Prima di tutto vede dietro alla macchina da presa uno dei maggiori registi di azione (e non solo) del cinema italiano di genere, cioè Umberto Lenzi. Classe 1931, Lenzi era reduce da film (prevalentemente “spy story”) non di grande successo e valore artistico, a parte il film di guerra “Attentato ai tre grandi”, ed è proprio dopo aver diretto i suoi due unici western (l’altro è il fiacco “Tutto per tutto” con John Ireland), entrambi prodotti nel 1968, che il regista grossetano dette inizio a una serie di film che lo avrebbero fatto decretare maestro prima del “thriller borghese”, quindi del cinema di guerra e infine del “poliziottesco”.In seconda battuta, vengono introdotte alcune idee che potremmo definire embrionali, per non essere state sfruttate a dovere. Infatti, forse introdotte per un mero scopo dilatatorio e senz’altro poco coordinate al tema principale, vengono proposte una serie di scene che vedono protagonisti un gruppo di matti rinchiusi in un carcere/manicomio. Il gruppo, nel corso della storia, riuscirà anche a evadere dalla cella e a mettere a ferro e fuoco il paese, con momenti che rievocano atmosfere horror (con atti incendiari e uccisioni provocate da colpi di accetta). Da questo punto di vista, è interessante il finale dove si assiste a una sorta di resurrezione del leader dei pazzi (il bravo Eduardo Fajardo) che si avvinghierà al collo di uno dei due protagonisti (scena che da “Halloween” di John Carpenter in poi diverrà un classico del cinema slasher movie, ma che qui era già stata introdotta seppure in forma confusa e poco calibrata).Al di là di quanto ricordato e di una girandola di colpi di scena finali, resta poco altro da segnalare se non le bizzarre caratterizzazioni del protagonista e del co-protagonista. Il primo è un testimone di Geova che lotta contro i suoi ideali per vendicare la famiglia, fino a stravolgere la sua stessa personalità (amara la battuta finale, quando Slade dirà: “Ormai non posso più bere acqua”). Davvero bizzarri i momenti in cui al saloon, anziché ordinare whisky come tutti i pistoleri degni di rispetto, beve bicchieri di acqua. Il secondo è un falso predicatore che va in giro a leggere passi della bibbia, per poi uccidere senza tanti ripensamenti (soggetto precursore, anch’esso in forma molto embrionale, del Jules Winnfield interpretato da Samuel L. Jackson in “Pulp Fiction” di Quentin Tarantino).Da un punto di vista tecnico, Lenzi gira con mano sicura pur non evitando una certa frammentazione nella prima parte (troppe scene di raccordo) e qualche inverosimiglianza verso l'epilogo attribuibile a un difetto di sceneggiatura (il modo in cui il protagonista finge di passare dalla parte dei banditi è, per come è stato messo in scena, del tutto inverosimile).Qualitativo il cast artistico con un trio di attori (Lulli, Ireland e Lee Lawrence) non di primissimo piano, ma abili caratteristi del genere. Colonna sonora non tra le migliori, fotografia non eccelsa ma neppure mediocre. Nel complesso un western poco originale, ma con idee embrionali che saranno sviluppate in altri contesti fino a diventare dei veri e propri tormentoni (il pazzo che, una volta creduto morto, riappare con tutta la sua violenza in un estremo tentativo di averla vinta nei confronti del protagonista).
Per gli amanti delle citazioni, segnalo la seguente battuta:
Che significa “una pistola”? Si dice Colt, Smith & Wesson, Derringer. Chiedere “una pistola” è come chiedere “un quadrupede”: può essere un cane, un gatto, un cavallo…

mercoledì 20 ottobre 2010

Recensione narrativa: HSF(M.Milani)




Autore: Marco Milani
Anno di uscita: 2005
Casa editrice: Prospettiva Editrice
Pagine: 168
Prezzo: 8.00
Commento Matteo Mancini
Antologia prevalentemente di genere horror che porta la firma di Marco Milani. Nato nel 1964 in quel di Como, ma residente nella provincia di Rovigo, Milani dimostra con questo testo di possedere un indubbio talento nel descrivere situazioni oniriche al limite del grottesco. Alcuni racconti propongono degli squarci visionari davvero eccezionali descritti con cura nella scelta delle parole.Se questo è l’aspetto positivo che emerge dalla lettura, non mancano, tuttavia, alcuni punti dove – ad avviso di questo recensore – si dovrebbe intervenire per migliorare l’opera.In prima battuta, dei tredici racconti proposti solo sette o otto hanno un’impronta tale da renderli omogenei per esser inseriti in un’antologia comune, i restanti, invece, sono delle sorte di freddure o delle fulminee riflessioni mascherate da racconto.In secondo luogo, salvo alcune eccezioni, molti racconti hanno delle prime parti notevoli in cui ci si aspetta chissà che cosa e poi evaporano via via che si giunge all’epilogo.Dopo queste premesse di carattere generale, passiamo ai singoli racconti.L’antologia si apre con quello che ritengo il miglior racconto del lotto: “In Nomine Patris”. Si tratta di un’opera che rievoca le atmosfere dell’Eymerich evangelistiano (conquistadores spagnoli portano il cattolicesimo nel Messico degli indio), ma lo fa con un'impronta personale da cui trapela una sfumatura dissacrante nei confronti della Chiesa cattolica. Tale sfumatura tocca il suo apice nell’ottimo finale in cui si assiste a un ribaltamento dei ruoli grazie all’intervento di un archetipo del genere prettamente fantastico. Un testo davvero ben congegnato e articolato, con un Milani generoso di scene altamente crudeli(terribile quella del soldato che uccide un neonato) mirate a sortire un effetto ben centrato (che non è meramente quello di scioccare il lettore, ma di farlo riflettere su certe incongruenze perpetrate nella storia da chi professava con fanatismo un certo credo).Si prosegue con il racconto più lungo della serie, quasi cinquanta pagine, cioè “Chi ha paura del gatto nero?”. Qui Milani offre delle visioni intrise di una poetica onirica unica, con un gatto nero che si siede sulla luna e poi, via via, la fa a fette con ripercussioni negative sul protagonista della storia. L’idea è a dir poco geniale, ma messa disposizione di un soggetto poco originale (siamo alle prese con il classico patto diabolico con un protagonista che si è arricchito grazie a esso e si trova costretto a offrire la preziosa contropartita tanto cara agli dei degli inferi). Quest’ultima riflessione penalizza un testo che ha dei margini per evolvere in un qualcosa di notevole.Seguono due racconti che non mi sono piaciuti molto e che hanno in comune una prima parte molto bella che poi evapora in un epilogo non all’altezza delle premesse.Primo dei due racconti è l’onirico “Tanti auguri”, in cui un uomo di ritorno da una festa si ritrova catapultato in un contesto che sembra appartenere a un’altra dimensione. La prima parte del testo tiene incollati nella lettura, con descrizioni dal grande impatto visivo. Nel secondo frangente si scivola nel grottesco più assurdo con ripercussioni anche sullo stile che diventa sporco e poco seducente.Discorso simile vale per “Ho visto una nuvola che somigliava a un’ala di un angelo”, anche se in questo testo emerge una certa ironia (potrebbe pure sembrare una critica al vetriolo) sul modo in cui gli scrittori di genere sviluppano le loro idee, ciò nonostante l’epilogo non è paragonabile all’affascinante inizio.L’antologia si risolleva con i due successivi lavori, in modo particolare con il folle (in senso positivo) “Il tema di Pierino”. In esso si assiste agli effetti provocati da un meteorite caduto su Stienta, con bizzarre mutazioni comportamentali nei cittadini. Più classico, invece, “La casa vicino a Firenze” che omaggia esplicitamente Lovecraft e il Necronomicon. Piccolo neo di quest’ultimo testo, comunque più che godibile, sta in un epilogo in cui serpeggia un velo di confusione.Seguono tre mini racconti che paiono scritti di getto e non hanno molto da offrire, se non riflessioni travestite in forma narrativa.Si giunge poi all’ottimo “Il canto della sirena” che ripropone quel Milani tanto bravo nel dipingere l’onirismo poetico. Testo che ricorda vagamente un racconto di Conan Doyle (mi pare che il titolo fosse “La stella polare”), si tratta di un testo fantastico che chiama in causa la figura della sirena e si chiude in modo eccezionale avendo come scenario i mari del nord. Davvero un ottimo racconto.Meno qualitativo, ma comunque con buone descrizioni è “Notte chiara”; anche in questo caso l’intera costruzione onirica tende a non sbocciare in un qualcosa di unico causa un escamotage finale già stato letto e riproposto con piglio poco personale.Gli altri due racconti sono uno una specie di breve gioco di parole, l’altro affronta il tema del suicidio.In definitiva una raccolta che svela un interessante talento dell’autore nel districarsi col genere fantastico, con due o tre perle, diversi testi di completamento e altri promettenti ma ancora acerbi (in genere a causa di finali deludenti). Voto: 6+

domenica 10 ottobre 2010

Recensione narrativa: La reliquia (J.Herbert)




Autore: James Herbert
Anno di uscita: 1978
Casa editrice: Urania/Mondadori
Pagine: 222
Commento di Matteo Mancini
Romanzo scritto nel 1978 dal prolifico autore inglese James Herbert - conosciuto per thriller dalle atmosfere orrorifiche (“Nebbia”, “Il Superstite”) – e pubblicato in Italia nel 1980 sulle pagine della collana Urania (n.862).Nonostante sia stato inserito nella collana sci-fi della Mondadori, il romanzo non può dirsi fantascientifico, difatti siamo alle prese con una spy story strutturata come giallo e impreziosita con venature horror (si parla di magia, di resurrezione dei cadaveri con un certo gusto per il macabro).Protagonista del libro è un detective privato, con trascorsi nei servizi segreti israeliani, impegnato nel gettare luce sulla scomparsa di un agente segreto del Mossad e sui misteri che gravitano attorno alla figura di un fabbricante di armi da guerra.Il detective resterà così coinvolto in una serie di omicidi che vedono come mandanti i membri di un’organizzazione segreta, retta da personaggi influenti, avente come finalità la ricostituzione del reich nazista. Ma i fatti non si limitano a questo, perché tale organizzazione, votata alla magia nera e alla filosofia della razza superiore, è in possesso dell’antica lancia che trafisse il costato di Gesù e questa avrebbe permesso al cadavere di Himmler di risorgere attingendo l’energia vitale dai corpi di uomini rapiti.Come si evince dalla breve sinossi, si tratta di una storia con una scheletratura forte (per intenderci, l’autore non scrive di getto ma segue uno schema ben chiaro) che anticipa di qualche decennio i romanzi di Dan Brown. Interessanti alcuni personaggi con l’introduzione, persino, di un transessuale.Ciò che è però chiaro fin dai primi capitoli, e costituisce limite del libro, è che Herbert punta a vendere il maggior numero di copie e lo fa sacrificando lo stile. Ne deriva un testo essenziale e poco virtuoso che, tuttavia, non riesce a evitare qualche battuta a vuoto. Herbert, infatti, propone alcuni capitoli in cui eccede con le descrizioni degli scontri fisici che coinvolgono i vari personaggi (capitoli dilatati in pagine su pagine di descrizioni). Non manca qualche colpo a sorpresa, ma, alla “fine della fiera”, tutto si sviluppa come sarebbe stato lecito attendersi.Ne deriva un romanzo di mero intrattenimento che segue una via ben tracciata, ma lo fa senza cuore. Sufficiente. Voto: 6

giovedì 7 ottobre 2010

Pubblicazioni di ottobre di Matteo Mancini

L'APPETITO VIEN MANGIANDO







Il mese è appena iniziato, ma cominciano ad arrivare le buone notizie sul fronte della narrativa. In breve, a oggi, è successo questo:


1. "Bunker 15" racconto fantascientifico ambientato nei lager nazisti è finalista alla seconda edizione del concorso Fantastic Zen indetto dalla Edizione Diversa Sintonia (Rovigo);


2. La mia antologia "Sulle Rive del crepuscolo" ha subito l'ultimo editing e dovrebbe esser prossima all'uscita per la GDS Edizioni (Milano).


3. La mia intervista a Sergio Martino, con relativa recensione al film "Tutti i colori del buio" è prossima a uscire sulla rivista telematica "Braviautori - Il Foglio letterario".


4. Il mio racconto iper blasfemo intitolato "I Signori del grande Inganno" è stato selezionato per l'antologia "Orrori Sepolti" edita da Il Foglio Letterario (Piombino). L'opera sarà presentata al Pisa Book Festival. Nella foto la copertina dell'amico e bravo Jean Louis Foddai.


5. Il racconto "Miraggio Tropicale", giunto tra i finalisti del concorso "Streghe e Vampiri" è stato selezionato per l'antologia "La Notte di Valpurga" che sarà presentata dalle edizioni Giovane Holden (Viareggio) al prossimo Pisa Book Festival.


6. Il racconto "Terribili Lucertole" è finalista del concorso "Il Signore delle Isole" indetto da Del Bucchia Editore e sarà inserito nell'omonima antologia che forse sarà anch'essa presente al Pisa Book Festival.
7. Il racconto "Omicidio senza assassino" è stato selezionato per la votazione finale per decretare il vincitore del concorso "La sindrome di Stoccolma".


Sono sempre in attesa dell'esito di altri concorsi...

mercoledì 29 settembre 2010

Recensione narrativa: Il Mondo Sommerso / aka Deserto d'acqua (J.G.Ballard)




Autore: James Graham Ballard

Anno di uscita: 1963

Casa editrice: Feltrinelli

Prezzo: euro 7.50


Commento di Matteo Mancini

The drowned world” segna il debutto dello scrittore inglese James Graham Ballard (i più lo ricorderanno per “L’impero del sole” e per “Crash”, opere portate sul grande schermo rispettivamente da Steven Spielberg e David Cronenberg) nella stesura di romanzi.

Prima di scendere nel merito del libro qui oggetto di attenzione, ritengo opportuno ricordare che James G. Ballard è un autore con la "A" maiuscola, uno dei pochi del secolo passato. Inglese, con un'adolescenza turbolenta, Ballard era solito ricorrere alla fantascienza come mero pretesto per confezionare opere profonde dall'alto contenuto metaforico e simbolico. Starordinari molti suoi racconti che sono recuperabili nella trilogia edita dalla Fanucci dedicata alla sua intera "opera breve".

"The drowned world" ha visto la luce nel 1963 ed è arrivato in Italia sulle mitiche pagine della collana Urania col titolo “Deserto d’acqua”. Di recente, per la “Feltrinelli editore”, è stato riproposto col titolo “Il mondo sommerso”.

Ci troviamo al cospetto del primo dei quattro romanzi apocalittici proposti da Ballard (“Il Vento dal nulla”, “Terra bruciata” e “Foresta di cristallo” sono gli altri tre). Si tratta di un’opera non adatta a un lettore che cerca il mero intrattenimento o la pura azione. Ballard, infatti - come suo solito - intesse un soggetto metaforico (il mare come memoria del pianeta, l’acqua quasi come sangue organico portatore di ossigeno al cervello, il sole come impulso che richiama gli uomini allo stato originario da cui erano partiti, liberi da preconcetti e da vincoli) infarcito di passaggi scenografici prodigiosi per la loro poetica decadente. Sotto quest’ultimo punto di vista, memorabili e avveniristiche (per la predizione relativa al costante surriscaldamento della Terra, con relativo scioglimento dei ghiacciai) le molteplici descrizioni relative a una Londra sommersa da paludi infernali (le temperature superano i 50 gradi) e regredita, per le particolari radiazioni solari, a uno stato preistorico (i rettili sono tornati i padroni incontrastati delle giungle tropicali che avvolgono gli edifici in rovina).Interessante il continuo riferimento alle paure “genetiche” di cui l’uomo e le altre creature sembrano essere, inconsciamente, portatrici dall’alba dei tempi (vedi il terrore per i rettili). Certo, il ritmo con cui si susseguono i fatti è molto lento e, in taluni punti, pesante, tuttavia non è al divertimento a cui punta l’opera. Per quanto sopra premesso, consiglio la lettura, ma vi avviso di prepararvi a vivere una storia allucinata dove ogni aspetto è funzionale a un’analisi psicologica dell’uomo. Non adatto ai lettori amanti delle opere di genere commerciale. Voto: 6.5

venerdì 17 settembre 2010

Recensione narrativa: Le Lune Nere (Lucio Fulci)




Autore: Lucio Fulci
Anno di uscita: 1992
Casa editrice: Granata Press
Pagine: 146
Prezzo: acquistabile, con un po' di pazienza nella ricerca, ai mercati dell'usato o su e-bay (il prezzo di copertina è 16.000 lire).
Commento di Matteo Mancini
Chi non conosce Lucio Fulci come regista di film di genere? Giusto coloro che non si interessano minimamente ai c.d. B-Movie, gli altri non sarebbero giustificati. Ma quanti tra coloro che apprezzano i B-Movie hanno letto i racconti di Fulci? Credo in pochi.
Ebbene eccomi qui per cercare di invogliarvi a colmare questa vostra lacuna.“Le Lune Nere” è la prima delle due antologie pubblicate dal “terrorista dei generi”. Edita nel 1992 dalla ormai fallita Granata Press di Bologna, l’opera di Fulci è pervasa da una grossa componente ironica che sconfina spesso nel grottesco volontario. I racconti raccolti sono dieci e sono tra loro assai diversi, sia come temi che come stile. Alcuni sono scritti da vero autore di narrativa, altri, invece, sembrano provenire dalla mano di un principiante. Probabilmente il tutto risente dal fatto che i testi sono stati redatti in un diverso periodo di tempo.
Dopo questa brevissima premessa, passo subito ad analizzare nello specifico i racconti meritevoli di attenzione. Tra tutti almeno cinque sono di ottima fattura.
Il migliore del lotto, ad avviso di questo recensore, è “Contestazione”. Si tratta di un elaborato che richiede una certa apertura mentale del lettore, perché Fulci mette in scena un feto pensante che riesce a comprendere le voci del mondo esterno alla sua placenta e a indispettirsi per essere trattato senza che nessuno prenda in considerazione i suoi pensieri. Superata questa base di partenza, che potrebbe far storcere il naso a coloro che sono strettamente ancorati alla realtà, il testo assume una valenza altamente metaforica e dissacrante. Fulci critica con intelligenza quel materialismo di certe persone (i genitori del bimbo parlano continuamente di soldi e di bellezza fisica) che spazza via ogni forma poetica che dovrebbe impreziosire la vita e trasforma in mostri le persone. Da quest’ultimo punto di vista, è magistrale l’epilogo del racconto con il bimbo che mentre prende la prima poppata dal seno della madre… beh, conoscete Fulci, credo che non occorra che vada avanti.
Assai claustrofobico è “Porte del nulla” (dal racconto sarà tratto l’omonimo film), con un automobilista ossessionato da un carro funebre che gli ostruisce continuamente il suo passaggio. Se fosse un film si potrebbe definire un c.d. road movie, con una tensione sempre più crescente, perché il protagonista scopre, via via, particolari che lo legano sempre più alla bara presente nel veicolo. Insomma, un testo che rievoca atmosfere di bradburiana memoria (penso al racconto “La folla”).
Assolutamente provocatorio, fin dal titolo, è “In assenza di Dio”. Qui un immigrato slavo, sfuggito alla polizia doganale, viene raccolto da una giovane e portato in una struttura dove viene servito e riverito. Il ragazzo non sa però che è stato arruolato per ricoprire il ruolo di Gesù in una sorta di rappresentazione della Passione di Cristo. La particolarità della recita, però, è che la medesima viene eseguita senza trucchi scenici… Da segnalare l’inserimento di qualche elemento eretico (rapporto sessuale tra Maddalena e Gesù).
Forse un po’ inferiori, ma comunque buoni sono “Voci dal profondo” e “Buoni sentimenti”. Il primo (anch’esso trasposto su pellicola) è una storia un po’ malinconica, con Fulci che utilizza un paio di frasi d’effetto (“i morti possono camminare con noi solo attraverso il ricordo e l’amore”) degne della mano di un grande scrittore. L’opera è incentrata sul rapporto tra i morti e le persone care rimaste in vita. Più in particolare, siamo alle prese con un omicidio perpetrato per ragioni economiche e svelato solo grazie alla caparbietà della figlia del defunto, guidata dai sogni in cui il padre parla del destino dei morti.
Col secondo racconto, invece, si ritorna a quell’ironia tanto cara a Fulci, con un testo che è una chiara protesta contro l’atteggiamento di una certa critica che demonizza i film horror, ma lascia che i bambini vengano “rincitrulliti” da certi cartoni animati (al giorno d’oggi questo aspetto sarebbe ancora più amplificato, a mio parere). La bambina protagonista della storia, infatti, finisce preda di incubi originati dai cartoni e da antiche fiabe, fino a un epilogo drammatico.
Se questi cinque racconti fanno dell’antologia un ottimo prodotto, gli altri cinque non sono all’altezza della situazione. Qualcuno ha degli aspetti positivi ma è scritto in modo non ottimale, come il visionario “I Testimoni” (cliente di un albergo vede riflessi sugli specchi fatti successi nel passato); qualcun altro ha una geniale idea di partenza ma si perde con una narrativa poco coinvolgente, come l’ironico “Uomo di guerra” (stratega militare in pensione simula le guerre nel suo salotto); “Trio” (donna ama personaggio della tv senza neppure conoscerlo) è carino ma non brilla per originalità e si chiude in modo prevedibile; gli altri due, entrambi incentrati su rapporti di famiglia (“Gourmet” e “Attesa”), sono, a mio avviso, grezzi e non sviluppati a dovere.
Nel complesso un’antologia con buoni momenti e qualche racconto che si sarebbe potuto sostituire con qualcosa di più incisivo. Non siamo al livello del Fulci super onirico dei film (né tanto meno furioso fino agli eccessi), ma è comunque un’antologia che, nel complesso, raggiunge la sufficienza e presenta una cinquina di racconti tra il buono e il discreto. Consigliabile. Voto: 6.5

sabato 11 settembre 2010

Recensione narrativa: In Principio era il Male (AA.VV)




Autore: AA.VV.
Anno di uscita: 1990
Casa editrice: Oscar Mondadori
Pagine: 346
Commento di Matteo Mancini
In principio era il male” credo sia l’antologia che ho letto più volte tra tutte quelle che fanno parte della mia piccola biblioteca privata.Questo potrebbe far pensare che io abbia gradito in modo speciale questa fatica messa in piedi dal curatore Douglas E. Winter e invece non è così. Ho impiegato molti mesi per terminarla, perché dopo ogni racconto mi deprimevo al punto da accantonare il libro preferendogli altre antologie. Convinto, poi, di non aver compreso appieno il contenuto di vari elaborati, mi sono costretto a rileggerli sforzandomi di rivalutarli, ma questo non è avvenuto quasi mai.Eppure gettando uno sguardo nell’indice si leggono nomi (King, Barker, Etchison, Straub, Campbell) che dovrebbero garantire una qualità eccelsa, ma nell’occasione diversi mostri sacri deludono oltre ogni più pessimistica previsione. Tra l’altro, non di secondaria importanza, è la constatazione che in molti testi l’atmosfera orrorifica latita a vantaggio di un umorismo nero (penso ai racconti di Hazel e Etchison) o di una valenza esclusivamente drammatica e perversa, con decisi elementi erotici piuttosto che fantastici (Harrison e Straub).
Ciò premesso, ci sono alcuni racconti interessanti come enucleerò qui di seguito.
Il libro parte in quarta con “Il succhiatore volante” per la firma di Stephen King. Pur non essendo un grosso ammiratore del Re, l’opera (che verrà riproposta nell’antologia “Incubi e Deliri”) è di gran lunga la migliore del lotto. Propone una detective story profondamente horror con un reporter di una rivista dedicata all’occulto che cerca di scoprire l'identità del serial killer che, a bordo di un Cessna, vola di aeroporto in aeroporto mietendo vittime. La firma dell'assassino è costituita dalla presenza di due fori, grandi come se fossero stati inferti da una zanna, sul collo dei defunti. L’approccio con cui l’omicida abborda le vittime è così amichevole da lasciar pensare che le abbia affascinate. Epilogo da vero maestro del genere.
Dopo una partenza al fulmicotone, giusto per invogliare il lettore, Winter spara due colpi fiacchi: “Una donna a pranzo” del semi sconosciuto Paul Hazel e “Bacio di sangue” dell’apprezzato Dennis Etchison. Nel primo caso abbiamo un soggetto che fa dell’umorismo e dell’ambiguità la sua unica arma, con qualche strizzatina d’occhio, seppur velata, all’erotismo. L’idea che sta alla base del tutto, però, è troppo povera e si limita nel mettere in scena una donna, assunta in un consiglio di amministrazione di soli uomini, che cerca di farsi accettare da un manipolo di colleghi maschilisti. Gli sforzi della poveretta falliscono miseramente e, dopo alcune imbarazzanti uscite a pranzo con i nuovi compagni di avventura, sfoceranno in un omicidio da risvolti cannibalici.
Non riesce meglio il prodotto di Etchison (che peraltro lo riproporrà, tre anni dopo l’uscita di “In principio era il male”, anche nell’antologia “Il ritorno degli zombi”). L’autore Californiano tenta di montare una storia che abbia al suo interno un’altra storia, legando il tutto tracciando un parallelo tra il rapporto tra i personaggi di entrambe le storie (che sono sempre un regista e una donna che in un caso ricopre il ruole di attrice di un film, mentre nell'altro di sceneggiatrice). Etchison punta sugli equivoci e riserva per il lettore un duplice finale beffardo. Se dunque i colpi di coda di Etchison convincono, la narrazione avanza senza coinvolgere a dovere e, al di là, delle sorprese finali c’è ben poco.
Delude anche Clive Barker con il suo kinghiano “Addio al passato” (di sicuro il peggior racconto che mi sia capitato di leggere dello scrittore inglese), tutto incentrato sui ricordi di una donna ritornata nel paese natale per partecipare al funerale della madre. A inquietare la donna è un lungo sentiero sospeso su un dirupo delimitato da un fragile muretto. Al di là del muro pare vi sia un’entità che invita i passanti a gettarsi nel vuoto.
Qualche sprazzo interessante nel racconto “Cibo” di Thomas Tessier. Anche qui però la narrazione è troppo diluita e tutto si concentra sull’onirico e folle (in senso positivo) finale. Protagonista della vicenda è un cinquantenne che si innamora di una ventenne bulica, condannata a starsene a letto 24 ore su 24. L’uomo cerca di far di tutto per convincere la giovane a sottoporsi a una dieta restrittiva, ma ogni tentativo fallisce. Infine, una notte, la disgraziata si trasforma in una sorta di verme gigante che assorbe l’uomo, prima di scomparire sotto terra lasciandosi alle spalle una lunga striscia di bava. In definitiva Tessier spende quindici pagine per un soggetto che ne avrebbe necessitate poco più di cinque.
Si piomba nel mediocre, invece, con “Il grande Dio Pan” di M. John Harrison (altro autore che non vanta, per lo meno in Italia, schiere di fan). Il titolo potrebbe evocare ricordi di macheniana memoria, ma in realtà la storia si sviluppa in modo tutt’altro che fantastico. Il ruolo di protagonista viene affidato a un’epilettica ossessionata da disagi che paiono connessi a un evento oscuro ancorato a un passato lontano; un episodio in cui quattro ragazzi hanno evocato una sorta di Dio, per avanzare delle richieste non specificate da Harrison. L’elemento fantastico è limitato ai minimi termini e costituito da due creature di colore bianco, dall’aspetto umanoide, che appaiono fuori dall’abitazione della donna, come prede della ragnatela di un ragno. Epilogo frettoloso e deludente.
Con David Morrell e il suo “L’angoscia è arancione, la follia è blu” si torna a respirare un può di sana narrativa dell’orrore con la “o” maiuscola. Non che il soggetto brilli per originalità, ma si rivela ben gestito e offre spunti filosofici / narrativi interessanti. Il tema base è l’estro geniale dei pittori e, più in particolare, di Van Dorn (leggi Van Gogh). A cercare di far luce sull’argomento è un critico d’arte convinto che i quadri di Van Gogh nascondano un segreto che rende, a livello subliminale, più inquietanti le raffigurazioni. L’idea diviene presto un’ossessione che porta l’uomo a isolarsi e a vivere disinteressandosi della propria persona. Pare che tutti i critici, attenti ai particolari non convenzionali della produzione di Van Gogh, siano impazziti e si siano strappati gli occhi a colpi di forbice per cercare di risolvere il mistero. Piano piano, il critico inizia a capire. Scoprirà che nei 38 quadri originali dell’ultimo anno di attività di Van Gogh, celati in modo metaforico, ci sono dei volti urlanti che paiono anime dannate dell’inferno. Deciso a verificare l’intuizione, il critico parte per La Verge, cittadina francese in cui Van Gogh ha vissuto il suo ultimo anno di carriera. L’ossessione porta il critico a ripercorrere l’esperienza del pittore, emulandone abitudini e comportamenti. Scoprirà così, a prezzo della propria salute mentale che l’estro di Van Gogh non era dovuto a una genialità innata, ma a un episodio paranormale connesso alla caduta di un meteorite. Il corpo celeste, da quel che si dice, avrebbe aperto una falla nell’inferno e sarebbe proprio la visione di questa falla ad aver fatto impazzire Van Gogh e tutti coloro che hanno cercato di scoprire il mistero dei suoi quadri. La vista dei dannati, infatti, renderebbe i malcapitati schiavi di forti emicranie che si placano solo attraverso il disegno, un disegno compulsivo in cui vengono riprodotte le immagini dell’orrore vissuto, come se tale esperienza si sovrapponesse a qualunque soggetto di vita reale. In definitiva un testo che, al di là dello stile, rievoca i più brillanti lavori del solitario di Providence.
A metà antologia, dunque, si inizia a sperare in un finale in crescendo anche perché scorrendo le pagine si incontra niente meno che Peter Straub (conosciuto soprattutto per le sue collaborazioni con Stephen King) e il suo “Il ginepro”. La speranza evapora subito. Straub propone una storia di pedofilia con marcatissimi riferimenti erotici, ma lo fa dando vita a una mattonata senza capo né coda, dando l’idea di scrivere di getto senza bussola alcuna. La prima parte, iper drammatica, è interessante e si lascia leggere con curiosità (seppure assai cruda nei particolari). In tale frangente vengono narrati gli incontri sessuali tra un bambino di sette anni, appassionato di cinema, e un vecchio. Teatro dell’oscenità è un vecchio cinema di quarto ordine. Straub regala citazioni cinematografiche a go go e descrizioni puntigliosi di masturbazioni e altre perversità, poi, d’un tratto, il testo si disunisce, con uno sbalzo temporale di circa quaranta anni, per capitolare con un finale del tutto scollegato al resto. Ancora una volta, infine, si registra la quasi assenza degli elementi fantastici.
La delusione prosegue con il fiacco “Raccontami una storia” di un altro autore che avrebbe dovuto garantire una certa qualità, cioè Charles L. Grant. Grant dimostra grande talento nel narrare i fatti, ma stringi stringi la sua storia è vuota e pare esser stata scritta in mezza giornata. Abbiamo un uomo che racconta una serie di storie assurde che vedono per protagonisti personaggi della storia o delle narrativa, ma nonostante questo il nostro pretende di venderle al figlio come se fossero vere. Alla fine si scopre che l’uomo cerca di imparare a convincersi della veridicità di fatti che non sono mai accaduti, per superare un trauma terribile. In definitiva buona l’idea di base, noioso lo sviluppo.
Non invertono il trend negativo Thomas Ligotti (“L’ultima avventura di Alice”) e il veterano Ramsey Campbell (“Imparerete a conoscermi”). I due, infatti, presentano altrettante storie anonime (specie quella di Ligotti).
Gli ultimi due testi (Whitley Striber con “La piscina” e Jack Cady, con il romanzo breve “La nemesi delle tenebre”), invece, si guadagnano il diritto di essere letti con piacere, ma ormai è troppo tardi per salvare l’opera da un giudizio estremamente negativo. In particolare “La piscina” di Strieber ha il notevole pregio di inquietare il lettore e di restare impresso nella mente. Strieber mette in scena un bambino particolarmente dotato che vede, all’interno degli specchi d’acqua, i volti delle persone defunte e fa di tutto, alla fine riuscendoci, per suicidarsi. Il bambino afferma, infatti, che i morti vogliono il suicidio delle persone altrimenti scateneranno le forze della natura per punire l’uomo.
Per concludere non posso che esprimere un giudizio negativo dal momento che su tredici racconti solo quattro posso definirsi buoni, mentre gli altri vanno dal mediocre al pessimo. Davvero deludente. Voto: 4.5

domenica 5 settembre 2010

Recensione narrativa: Five Fingers - Cinque Dita (L. Barbieri)



Autore: Luca Barbieri

Anno di uscita: 2008

Casa editrice: Il Foglio Editore

Pagine: 180

Prezzo: 15.00 euro


Commento di Matteo Mancini

Five Fingers”, inutile girarsi intorno, è un’altra perla curata da Vincenzo Spasaro per la casa editrice “Il Foglio Editore”.Si tratta di un’antologia con ambientazioni western dalle forti contaminazioni horror. Luca Barbieri, genovese classe 1976, dimostra a livello tecnico un talento portentoso (certificato anche dal primo posto nel Premio Rill nell’edizione 2009) che non ha niente da invidiare a quello dei più famosi scrittori professionisti del nostro panorama (anzi, ci sarebbe da dire l’opposto). Attento nella scelta delle parole e nell’utilizzo di termini ad hoc, Barbieri proietta il lettore in contesti lontani, non appartenenti alla nostra cultura, e lo fa con la disinvoltura di uno scrittore d’oltreoceano. Piuttosto che dalla filmografia western italiana (come paventato da altri recensori), Barbieri attinge dalla narrativa pulp e dal fumetto. Le cinque storie proposte sono molto dure e in alcuni frangenti crudeli come proiettili che spezzano le ossa del lettore (penso allo stupro presente ne "L'Antico credo", ma anche ai macabri particolari dell’impiccagione di "Cicatrici" con il condannato che perde gli escrementi sulla folla, e infine allo sbranamento di un pistolero a opera di un gruppo di cani randagi in "Vivere da uomini, morire da topi”). I racconti sono spesso crepuscolari, intrisi di un background malinconico che pervade il narrato e che nasconde un pessimismo che lascia l’amarezza nell’animo del lettore sensibile.

Prima di passare a una breva analisi dei cinque colpi che Barbieri ha inserito nella sua colt dalla forma di libro, occorre segnalare che ciascun testo è preceduto da una pagina dedicata a un dito della mano a cui viene attribuito un significato metaforico sviluppato dal racconto che lo segue.

Polvere di legno nero” è l’elaborato che apre l’antologia. Si tratta di una sorta di revenge movie – come si direbbe al cinema – con un pistolero a caccia di una vendetta che cova da 11 anni e che ha in un uomo dal volto sfigurato il suo punto di arrivo. È probabilmente il testo meno graffiante del lotto, seppur qualitativo e con un finale ben calibrato.

Segue “L’antico credo degli insepolti” che propone una storia all’interno di un’altra storia (aspetto che trovo affascinante e che, personalmente, ho sfruttato anche in qualche mio testo). Qui siamo alle prese con un soggetto forse un po’ troppo diluito che ha nel suo prologo e nell’epilogo i suoi punti di forza. La trama vede un cow boy solitario entrare all’interno di un cimitero, in cerca di un posto dove riposare. Qui viene avvicinato da un becchino (ancora una volta col volto sfigurato) che lo invita a raccontare una storia per placare lo spirito dei morti che vagano nel luogo maledetto.La storia che il cowboy narra è una storia terribile fatta di stupri e smembramenti di rara crudeltà. Dietro a simili delitti c’è un indiano, braccato da un manipolo di soldati che faranno una brutta fine.

La lettura scorre con il testo più crepuscolare e ironico (un’ironia nerissima) dell’antologia, ovvero “Vivere da uomini, morire da topi”. Il titolo è esemplificativo della storia che si andrà a leggere, con un guerriero indiano e un celebre pistolero alle prese con la vecchiaia e i malesseri del corpo. Il cancro che corrode i due, però, non risparmia neppure la città: il progresso avanza implacabile a cancellare il romanticismo del west. Notevole la parte finale del racconto, un po’ troppo diluita la parte centrale. A mio avviso, con qualche taglio il racconto acquisisce un effetto ancora superiore, perché più concentrato.

Cicatrici di roccia sopra l’anima di un assassino” ruota attorno a un’idea piuttosto semplice. Tutto è incentrato sull’impiccagione di un delinquente e sulla triste consuetudine di accaparrarsi i feticci del condannato da parte dei presunti civili. Un ragazzo povero, che fa la conoscenza del figlio di un giudice, riesce a infiltrarsi in questo assurdo mercato e strappa un macabro cimelio.

L’antologia si chiude con il racconto che più ho preferito, una storia che non avrebbe sfigurato nella celebre rivista weird tales. Mi riferisco a “Ciò che banshee porta con sé”, senz’altro il racconto più fantastico del lotto.Qui veniamo catapultati in un fortino militare che cade vittima di una maledizione preannunciata dallo spirare del vento del nord. I soldati, a poco poco, finiscono preda di un grosso lupo e della morsa del vaiolo scatenato da una partita di coperte infette. Notevoli le caratterizzazioni dei personaggi, perfetta la gestione del racconto. Davvero una perla rara nella narrativa underground. Eccellente.

Per chiudere non posso che ripetere che ci troviamo al cospetto di un’antologia graffiante e violenta, capace di conferire prestigio qualitativo alla casa editrice e alla sua sezione “fantastico e altri orrori” che vanta nel suo catalogo, peraltro, un’antologia come “L’incrinarsi di una persistenza” di Maurizio Cometto (gli editori di blasone farebbero meglio a sfogliarla).Consigliabile l’acquisto per gli amanti del pulp e della narrativa horror (nonché western, è implicito). Per volere individuare un film della nostra filmografia western che più si avvicina all'animo di questa antologia citerei, senza dubbio, "I quattro dell'apocalisse" di Lucio Fulci. Qui si riscontra la stessa violenza e la stessa atmosfera crepuscolare e folle del film del compianto artigiano del terrore. Buona lettura. Voto: 7

I film migliori che ho visionato in questa estate

Ecco il lotto di film migliori che mi è capitato di vedere, questa estate, per la mia prima volta. Non ho fatto scorpacciate però i film sotto elencati, pur non essendo dei capolavori, meritano la visione.

JUSTINE OVVERO LE DISAVVENTURE DELLA VIRTU'

Produzione: Ita-Ger
Anno: 1968
Regia: Jess FrancoGenere: Drammatico/erotico
Interpreti Principali: Klaus Kinski, Romina Power, Jack Palance

Il mio commento: http://www.film.tv.it/opinioni.php/film/opinione/496930/justine-ovvero-le-disavventure-della-virta-1969/

MORTE SOSPETTA DI UNA MINORENNE

Produzione: Ita
Anno: 1975
Regia: Sergio Martino
Genere: Poliziesco
Interpreti Principali: Claudio Cassinelli, Mel Ferrer.

Il mio commento: http://www.film.tv.it/scheda.php/film/38769/morte-sospetta-di-una-minorenne/

IL POLIZIOTTO DELLA BRIGATA CRIMINALE

Produzione: Fra
Anno: 1975
Regia: Henri Varneuil
Genere: Poliziesco
Interpreti Principali: Jean Paul Belmondo, Adalberto M.Merli

Il mio commento: http://www.film.tv.it/opinioni.php/film/opinione/487038/il-poliziotto-della-brigata-criminale-1975/

AMORE, PIOMBO E FURORE

Produzione: Ita-Spa
Anno: 1978
Regia: Monte Hellman
Genere: Western
Interpreti Principali: Fabio Testi, Warren Oates

Il mio commento: http://www.film.tv.it/opinioni.php/film/opinione/486199/amore-piombo-e-furore-1978/

AVATAR

Produzione: Usa
Anno: 2009
Regia: James Cameron
Genere: Fantascienza/Fantasy
Interpreti Principali: Sigourney Weaver, Michelle Rodriguez

Il mio commento: http://www.film.tv.it/opinioni.php/film/opinione/482533/avatar-2009/

ROMANZO CRIMINALE

Produzione: Ita-Fra-UK
Anno: 2005
Regia: Michele Placido
Genere: Gangster movie
Interpreti Principali: Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi, Claudio Santamaria...

Il mio commento: http://www.film.tv.it/opinioni.php/film/opinione/480948/romanzo-criminale-2005/

sabato 28 agosto 2010

Recensione narrativa: Vedremo Domani (AA. VV.)




Autore: AA.VV.
Anno di uscita: 1970
Casa editrice: Urania - Mondadori
Pagine: 142
Commento
Antologia curata dai direttori del periodico Urania e uscita in edicola nel lontanissimo 1970.Al lettore vengono proposte sette storie che portano la firma di tre autori di prestigio (Dick, Leiber e Reed) e altre quattro di autori di “seconda fascia” (se mi concedete la definizione).Nel complesso si tratta di un’opera che per taluni versi risente dell’epoca in cui sono stati scritti i racconti (periodo della guerra fredda), ma per altri si dimostra molto avveniristica e capace di anticipare temi che solo di recente, a esempio, sono stati sfruttati da film di grande successo come “Matrix” o “The Cube”.
Neanche a farlo a posta, i tre racconti più qualitativi (ad avviso di questo recensore) sono quelli proposti dai tre autori di maggior prestigio. Tra di essi Philip K. Dick, con “Le Formiche Elettriche”, offre al lettore – come suo solito - un autentico gioiello narrativo. Protagonista della vicenda è un robot organico (sullo stile del primo “Terminator” per fare paragoni cinematografici) che scopre di non essere un umano. Tale circostanza lo induce a interrogarsi sul proprio stato di autodeterminazione e sulla realtà soggettiva e oggettiva che lo circonda. Reso paranoico da tutti questi ragionamenti, il robot giungerà a scoprire che la realtà che ha attorno non è affatto tale ma è il risultato di congegni elettronici montati su di un nastro che scorre nella sua testa. La conoscenza di ciò porta alla morte del modello, ma anche delle persone – che tali non erano – che gli stavano intorno. Gli amanti di cinema potranno ravvisare in questa opera molti punti in comune con perle come “Matrix”, “Blade Runner” (non a caso nato dalla penna di P.K.Dick) e “Nirvana”.
Geniale (per come da un’idea si estragga un racconto metaforico) e tutt’altro che votato al mero intrattenimento è “La Bomba ai giovani” di Kit Reed. Qui ci troviamo catapultati in un futuro post-atomico dove gli Stati Uniti sono divisi in città dominate da bande di giovani teppisti che si suicidano o vanno incontro a morte eroica prima di compiere i venti anni (tema ripreso da King con “I figli del grano”). Chi non entra nelle bande (un c.d. matusa) è costretto a vivere una vita di duro lavoro e a invecchiare al servizio dei giovani. La chiave però per riequilibrare gli istinti bellici dei giovani e permettere ai matusa di riacquistare prestigio sociale è l’introduzione della bomba atomica. La paura dell’esplosione dell’ordigno, infatti, voluto da ogni banda, porta a rendere meno baldanzosi i giovani e a dare spazio ai saggi. Evidenti i riferimenti al periodo storico dell’epoca (cioè la guerra fredda e alla politica utilizzata per evitare che scoppiasse la terza guerra mondiale).
Di pregevolissima fattura è “Problema di Esame” (“Black Corridor”) di Fritz Leiber, anzi posso aggiungere che tra i racconti che ho letto dell’autore questo è uno dei suoi migliori. Qui siamo alle prese con un testo che mira a creare un’angoscia onirica e a immedesimare il lettore nel protagonista della vicenda. Abbiamo, infatti, un uomo intrappolato all’interno di uno stretto corridoio in cui due porte laterali sono le uniche vie di fuga da una parete mobile che avanza, restringendo sempre di più il corridoio. Sulle porte è presente un’etichetta che indica la natura del pericolo che si celerà oltre la porta. La scelta è fondamentale perché ne va della vita dell’intrappolato. A ogni porta aperta, il disperato si ritroverà in un nuovo corridoio al cospetto di una nuova scelta da fare fino al finale. Possiamo quindi sostenere che con “Black Corridor” Leiber ha gettato il seme da cui sarebbe poi nato “The Cube”.
Meno brillanti gli altri quattro racconti con comunque due storie abbondantemente sopra la sufficienza. Mi riferisco al bizzarrissimo e originale “Bruco Express” di Robert E. Margroff e a “Città Madre” di Ray Banks.
Nel primo racconto ci troviamo in un futuro in cui la terra è contaminata dalle radiazioni della quinta guerra mondiale. In tale contesto, gli uomini si trovano costretti a utilizzare come mezzi di locomozione degli immensi bruchi venusiani operati chirurgicamente e dotati di una corazza refrattaria alle radiazioni. Delle microscopiche creature dalla forma di scarafaggio, però, iniziano a sabotare i bruchi. Due rappresentanti delle forze governative cercano di risolvere l’imprevisto.
Meno originale, ma di sicuro valore, è la seconda storia. Qui voliamo in una città di un pianeta alieno da cui un umano, dopo aver acquisito la cittadinanza, cerca di organizzare il viaggio di ritorno sulla stazione di Saturno per riferire le scoperte sociali dallo stesso effettuate. L’uomo, però, viene boicottato dai politici e dagli amici terrestri presenti sul pianeta, perché mai nessuno si è allontanato dalla città e ciò è un vanto per la stessa in quanto sponsorizzata come la città perfetta. In realtà non sono i politici a controllare i cittadini, ma un elaboratore totalitario che prevede i pensieri degli uomini e interviene per assecondare i loro piaceri, se ritenuti meritevoli di tutela, oppure per sopprimerli e rinchiudere i disgraziati in delle specie di manicomi. Il protagonista riuscirà a decollare, contro il volere anche dei militari, solo dopo esser riuscito a convincere l’elaboratore centrale. Ancora una volta, quindi, il contesto sociale degli anni ’70 (denso di regimi totalitari) funge da scintilla per la nascita di un racconto intelligente.
Piuttosto lento, ma con idee interessanti, è “Roboscuola” di E.G. Von Wald che vede al centro della vicenda una scuola dove gli studenti vengono abituati ad agire come macchine prive di sentimenti. L’educazione impartita è talmente dura e opprimente che una volta liberati dalla loro prigionia gli studenti non saranno più in grado di agire autonomamente, ma si comporteranno come schiavi. In definitiva un altro racconto strettamente legato all’epoca in cui è stato redatto, ma mai quanto “Problema ospedaliero” di Tom Purdom. Purdom propone una spy-story (decisamente superata dall’evoluzione storica) che coinvolge scienziati sovietici contrapposti a quelli statunitensi, in una corsa di intelligence per evitare che la guerra fredda diventi guerra a tutti gli effetti.
Tutto sommato, “Vedremo Domani” pur proponendo alcuni racconti “poco futuribili” (se letti con l’ottica dei giorni nostri) è un’antologia piacevole che ha il pregio di raccogliere più di un racconto di ottima fattura capace di imprimersi nella mente del lettore. Consigliato. Voto: 7

sabato 21 agosto 2010

Recensione narrativa: NERO TROPICALE (Gordiano Lupi)



Autore: Gordiano Lupi

Anno di prima pubblicazione: 2003

Editore: Il Foglio Edizioni

Pagine: 255


Pubblicato per la prima volta nel 2003 dal “Terzo Millennio Editore” e riproposta, nei mesi scorsi, da “Il Foglio Editore”, “Nero Tropicale” è una delle primissime antologie firmate Gordiano Lupi. Composta da quattro racconti più un romanzo breve, l’opera avrà un suo seguito con l’antologia “Orrori Tropicali”. A differenza di questa seconda antologia però, nella fattispecie abbiamo un lotto di testi qualitativamente più omogenei e tutti ambientati a Cuba. In molti casi a farla da padrone sono le pratiche esoteriche del posto (si assiste a possessioni diaboliche, riti di Santeria, spiriti assassini e leggende popolari) che, spesso (ma non sempre), stanno alla base delle catene dei delitti.Penso di poter dire che “Nero Tropicale” sia l’antologia più cruenta di Lupi. In molti racconti emerge nettamente l’amore per l’horror e Lupi non tira indietro il braccio dopo aver scagliato il sasso, con descrizioni minuziose di mutilazioni e violenze di ogni tipo (sessuali comprese). L’autore però non si limita a questo, dietro a storie che oscillano tra l’horror puro e il noir, pittura – come suo solito – un contesto socio-politico con personaggi che vengono trasformati in assassini dalla povertà o che comunque bramano di conquistare una libertà che nel loro paese – che comunque amano – si rivela essere una chimera irrealizzabile.
Assai qualitativo, anche se (al sottoscritto) da un po’ l’idea di esser stato eccessivamente ampliato con episodi che tendono a ripetersi (vedi l’interminabile catena di omicidi che si susseguono spesso con le stesse modalità o il protagonista che tutte le volte ci tiene a precisare che ha fatto l’amore con la propria ragazza), è il romanzo “Nella coda del caimano”. In circa 200 pagine, Lupi parla degli amori di un ragazzo di una piccola località che sorge sulla punta estrema di Cuba - lato Haiti - sulle sponde di un fiume. Gli amori di cui parla Lupi sono amori messi a dura prova dal contesto socio-politico, ma anche da un spirito malvagio che dimora all’interno del fiume a protezione di un tesoro d’oro di cui in pochissimi sono a conoscenza. Molti sono coloro che perderanno la vita, per effetto delle lame fantasma dello spirito, ma anche di un serial killer eremita che si nasconde nella foresta tropicale e che sarà arrestato dai reduci della guerra di Angola.A tratti malinconico e romantico, il romanzo prende le mosse come un racconto horror e poi evolve sempre più verso l’avventura, con un epilogo apparentemente felice ma che in realtà, sotto la mia chiave di lettura, appare doppiamente triste, perché gli amori del ragazzo si riveleranno in entrambi i casi (compreso l’amore della ragazza che si preoccupa dei budget economici) chimere soffocate dalle regole del contesto sociale.
Di grande spessore e, giustamente ampliato con il romanzo “Una terribile eredità” (di cui si consiglia caldamente la lettura), è “Il Sapore della carne”. Si tratta di una storia drammatica che narra le vicende di un reduce della guerra di Angola che soffre di quello che si potrebbe definire un disturbo post-traumatico da stress. L’ex militare infatti è ossessionato da un tarlo, alimentato dai terribili ricordi di guerra, che lo spinge a commettere atroci delitti. Niente riesce a fermare la fame di sangue dell’assassino, neppure l’amore di un figlio. Ancora una volta, dietro al mostro, si nasconde la mano di un regime totalitario, ma anche, più a 360 gradi, la follia della guerra.
Molto bello e con un epilogo da maestro dell’orrore è “La vecchia ceiba”. Qui siamo alle prese con un albero (la ceiba, appunto) che cela dentro di sé un mistero esoterico: pare raccogliere all’interno del proprio fusto le anime dei morti. Chi cerca di abbatterlo o di sradicarlo va incontro a un triste destino, così come accadrà a un gruppo di zingari molestatori di una ragazza del posto protetta dallo spirito della ceiba. Gli uomini, infatti, finiscono sbranati da una belva che pare tutto tranne che un comune animale. Il racconto è strutturato sullo stile che Lupi riproporrà per “Il mistero di Encrucijada” (inserito in “Orrori tropicali”), con particolare caratterizzazione degli amori di una giovane protagonista e il ricordo di vecchi racconti narrati sottoforma di favole nere che si rivelano poi tristi realtà.
A mio avviso, i restanti due racconti sono meno qualitativi dei tre esaminati. “Sangue tropicale”, che è il testo di apertura, propone una catena di delitti perpetrati da un italiano trapiantato a Cuba; non si tratta però di semplici stupri che finiscono con la morte della donna di turno, ma di atti propiziati da uno spirito maligno da cui l’uomo, suo malgrado, è posseduto a seguito di una fattura lanciatagli da una vecchia compagna respinta. Il soggetto è senz’altro affascinante, tuttavia il taglio drammatico che assume la vicenda pare, ad avviso di questo recensore, non sviluppare appieno le potenzialità come invece avrebbe garantito un taglio giallo. Il lettore non viene sfidato a scoprire chi sia l’assassino, ma tutto ruota sul motivo per cui questo uccide e sui riti esoterici caratteristici di Cuba.
Parto di sangue”, invece, è il racconto che chiude la raccolta e propone una storia all’insegna dello splatter con un epilogo terribile e folle, ma prevedibile. Ancora una volta, la povertà e il senso di disadattamento sociale contribuiscono a creare mostri.
Nel complesso dunque un’antologia di livello che merita senz’altro una lettura, specie per chi non conosce l’humus della vera Cuba. Voto: 7