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lunedì 29 aprile 2024

Recensione Cinema: CHALLENGERS (2024) di Luca Guadagnino.

Regia: Luca Guadagnino.
Anno: 2024 (Stati Uniti).
Genere: Sentimentale / Sportivo.
Soggetto e Sceneggiatura: Justin Kuritzkes.
Attori Principali: Zendaya, Mike Faist e Josh O'Connor..
Montaggio: Marco Costa.
Fotografia: Sayombhu Mukdeeprom.
Musiche: Trent Reznor e Atticus Ross. 
Durata: 131 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Luca Guadagnino, cultore di horror - si pensi all'interpretazione personalizzata di Suspiria (2018) - ma anche regista di film dai forti risvolti erotici - si veda il discusso Melissa P (2005) – si conferma ad Hollywood e lo fa con un duello sportivo/sentimentale destinato a lasciarsi ricordare. Questo, infatti, è Challengers, un duello che, in verità, si chiude con un happy-end dai retrogusti western (penso a film come Amore, Piombo, Furore di Monte Hellman) e all'insegna della vera amicizia. Il tema è così classico che più non si può e verte sul mai sbiadito plot della “ragazza in due” innestato su un copione alla Borg vs McEnroe (2017). Tashi Duncan (la sexy e sensuale Zendaya), una giovane promessa del tennis, viene contesa da due ragazzi amici di infanzia, anch'essi validi tennisti caratterialmente molto diversi tra loro. Da una parte abbiamo il tamarro e tenebroso Patrick Zweig (che passa da una ragazza all'altra) contrapposto al bravo ragazzo e monogamo Art Donaldson. Nel mezzo, tra i due, la seducente e grintosa Tashi Duncan, una ragazza non proprio raccomandabile. Justin Kuritzkes, alla sceneggiatura, destruttura la storia di questo ménage à trois e lo fa, grazie all'eccellente montaggio di Marco Costa, seguendo una linea narrativa fatta di continui sbalzi temporali tenuti uniti dalla finale di un torneo minore dove i due grandi amici/nemici, ormai trentenni, si contendono la coppa sotto l'occhio vigile della donna che li ha divisi in un lontano passato (oltre dieci anni prima). Uno di questi cerca il rilancio per tornare sui palcoscenici più importanti; l'altro, invece, ha l'opportunità di esibirsi al cospetto della vecchia fiamma dopo essersi perso nel cammino della vita.

Guadagnino pecca (ma al sottoscritto piace) di leziosità tecnica, utilizzando in tutti modi immaginabili la macchina da presa, fino ad arrivare a proporre la soggettiva della palla da tennis presa a “martellate”, da una parte e dall'altra del campo, dalle racchette. In questo si respira l'amore del regista per gli sperimentalismi alla Dario Argento prima maniera. Alcune inquadrature sono particolarmente riuscite (le soggettive dei giocatori durante il match), ma altre infastidiscono (l'inquadratura ribaltata dal terreno di gioco che da l'idea che i due si sfidino su un campo di vetro). Dettagli dei gocciolii di sudore, dei muscoli in evidenza e un linguaggio a tratti sporco (la scena dove si parla della masturbazione si poteva anche evitare) completano il quadro. Piacciono, invece, molto le caratterizzazioni dei personaggi e i rapporti, in perenne evoluzione, che vengono a delinearsi tra questi. Allo stesso modo è quadratissima la scrittura. Sebbene destrutturata e rimodulata secondo esigenze narrative, lo sceneggiatore chiude tutte le parantesi aperte nel corso della storia (compreso il grido finale della Duncan, che arriva a coronamento di una metafora di rapporto sessuale a tre). Interessante il personaggio di Zendaya (già apprezzata in Dune), che incarna assai bene un contrasto psicologico che cela, sotto un'apparenza di certezza, un'indecisione di fondo dovuta sostanzialmente a un'incapacità di innamorarsi davvero delle persone ("pensi che io voglia veramente qualcuno innamorato di me?"). Il suo personaggio è provocante, materialista, orientato a sfruttare a proprio favore chi ha intorno (finirà per essere manovrata da chi, per punizione o vendetta, intenderà solo portarsela a letto, in realtà in uno squallido accoppiamento in auto). Da antologia erotica (piacerà soprattutto alle ragazze) la sequenza dei tre attori che limonano, con Zendaya che si defila lasciando i due ragazzi a baciarsi tra loro senza che se ne accorgano.

Oltre al personaggio affidato a Zendaya, è molto ben caratterizzato il “genio & sregolatezza” Patrick Zweig (il valido Josh O'Connor), nei panni del golden boy che non ha saputo far fruttare il proprio talento giovanile e che, tra un vizio e l'altro, si trova ora da declassato a giocare la partita che potrebbe dimostrare a tutti che non è affatto un fallito. Più debole e meno spontaneo Art Donaldson (interpretato dal biondo Mike Faist), un soldatino agli ordini di Tashi Duncan che, pur di stare con la donna che ama, si fa manovrare senza accorgersi di essere sfruttato per ragioni psicologiche. Tashi Duncan infatti lo utilizza per soddisfare il proprio ego, così da poter continuare a sentirsi coinvolta dal tennis (dopo un grave infortunio al ginocchio), da allenatrice, per interposta persona. 

Sebbene la pellicola duri oltre le due ore, l'intrattenimento è costante; non c'è un attimo di tregua, garantendo una continuità che fa del ritmo una delle armi di forza della pellicola. Ruolo imporante è inoltre recitato dal marcatissimo uso della musica, proposta in stile bombardamento ipnotico/disco, con Costa, al montaggio, che ricorre al rallentatore per amplificarne l'effetto.

Alla fine il film piace e piace parecchio (ci sono comunque alcune ripetizioni comportamentali, tipo i richiami disciplinari ai giocatori da parte dell'arbitro e i tennisti che distruggono di continuo le racchette quasi a voler fare il verso a Medvedev). Piacerà soprattutto alle ragazze per effetto di un ruolo femminile dominante e manipolatore. Ottimo i riscontri al botteghino, che evidenziano come Challengers, nella prima settimana d'uscita, si sia già issato al primo posto della classifica settimanale degli incassi.  Guadagnino: talento da tutelare e vanto per l'Italia cinematografica.

Sequenza simbolo del film.

"Giocare a tennis è come una relazione."

giovedì 25 aprile 2024

Recensione Saggi: MEZZANOTTE A CERNOBYL

Autore: Adam Higginbotham.
Titolo Originale. Midnight in Chernobyl
Anno: 2019.
Genere: Storico.
Editore: Mondadori.
Pagine: 552.
Prezzo: 18.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
PROSSIMAMENTE
 
L'autore Adam HIGGINBOTHAM
 
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mercoledì 24 aprile 2024

Recensione Narrativa: PAURA NELLA CITTA' DEI RABBIOSI di Alessandro Falanga.

Autore: Alessandro Falanga.
Anno: 2023.
Genere: Horror.
Editore: PAV Edizioni.
Pagine: 84.
Prezzo: 12,00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.  

2023 Fuga da Potenza, questo sarebbe potuto essere il titolo alternativo della novella con cui il potentino Alessandro Falanga rafforza un percorso creativo avviato nel 2020 dal romanzo breve Far from Dead e proseguito da Chi non Terrorizza si ammala di Terrore e, nel 2021, dall'antologia Bolidi. Il minimo comune denominatore tra tutti questi lavori è evidente e ben definito: la violenza di una società destinata a regredire agli istinti primordiali. Falanga, giornalista, recensore di cinema e scrittore classe 1985, è legato agli insegnamenti dell'horror sociale vedendo nel genere un veicolo per parlare attraverso metafore della contemporaneità. Ecco quindi la necessità di garantire continuità ai temi dei suoi precedenti lavori, rappresentati da batteri che trasformano le persone in famelici predatori, dalla regressione in un sistema sociale imbarbarito - in balia dei desideri più reconditi degli uomini - e retto da rigide divisioni in classi sociali, dove soprusi perpetrati da coloro che dovrebbero garantire l'ordine e violenze di ogni genere sono all'ordine del giorno. Un girone dantesco da cui si tenta di evadere, poco interessandosi delle conseguenze generali, per ricostruirsi altrove una vita all'insegna della speranza. Paura nella Città dei Rabbiosi si inserisce nel solco di queste narrazioni, presentando la novità di inscenare la follia nella città di Potenza.

Un improvviso morbo, di cui Falanga non specifica l'eziologia, rende i cittadini di Potenza delle creature idrofobe (occhi iniettati di rosso e schiuma alla bocca) che distruggono tutto quanto si pari loro di fronte. Sebbene il titolo del romanzo rimandi al primo capitolo della cosiddetta “Trilogia della Morte” di Lucio Fulci avviata nel 1980 da Paura nella Città dei Morti Viventi, i riferimenti arrivano da altri prodotti cinematografici quali The Crazies (“La Città Verrà Distrutta all'Alba”, 1973) di George A. Romero, Incubo sulla Città Contaminata (1980) di Umberto Lenzi e 28 Days Later (“28 Giorni Dopo”, 2002) di Danny Boyle. Non troviamo in azione degli zombi, bensì degli uomini, vulnerabili come qualsiasi comune mortale, plagiati e resi ingovernabili da un morbo che si trasmette con lo scambio di fluidi organici. Il contagio è esteso e fuori controllo. Manifesta i suoi sintomi nell'arco di pochi secondi dalla contaminazione, annullando la parte razionale degli uomini a totale beneficio di quell'animale e istintiva. I contaminati corrono, si nutrono di alimenti ordinari (aspetto innovativo), si aiutano tra loro, dormono e sono dotati di una forza abnorme al punto da rendere non consigliabile all'uomo di intraprendere un confronto corpo a corpo con loro.

L'autore procede per cenni, preferendo sfumare i dettagli e lasciare ai lettori il compito di intuire cosa sia successo. Scopriamo infatti all'epilogo che l'epidemia di rabbia si è verificata nella sola Potenza, debitamente isolata dal resto del mondo da un cordone di militari e dalla totale disconnessione da reti televisive, internet e circuiti telefonici. Non è dato saperne i motivi. Quello che è certo è che Potenza, quale novella Pripjat, è stata dimenticata dall'intera nazione. La soluzione ricorda un po' il film inglese Doomsday (2008) di Neil Marshall, sebbene il tutto si articoli in circa due anni di narrazione.

Lo sviluppo è dunque poco approfondito e avrebbe meritato una lunghezza superiore. Falanga sottovaluta inoltre il motivo per cui gli abitanti di Potenza tardino a comprendere di essere al centro di quello che pare essere un esperimento sociale (soluzione preferibile rispetto all'insorgenza di una vera e propria epidemia, vista la stanzialità della vicenda). Il protagonista, pur essendo inizialmente dotato di auto, non tenta di fuggire dalla città, ma persiste a vagarvi da vero e proprio randagio incarnando, in parte, lo spirito anarchico (in quanto non schierato in nessun gruppo sociale) tipico dei personaggi di John Carpenter (gli manca un pizzico di tamarraggine). Una scelta, quella di restare in città, mutuata anche da tutti gli altri superstiti che accettano quanto successo, cercando di riorganizzarsi al punto da espropriare un intero quartiere per ricollocarlo ai più facoltosi. Vengono per tale via a formarsi quattro grandi gruppi destinati a spartirsi il controllo territoriale della città,in nome della legge del più forte. Il concetto filosofico dell'homo homini lupus domina dunque senza compromessi, polverizzando secoli di insegnamenti giuridici. Militari degeneri, burocrati votati alla soddisfazione dei bisogni fisiologici, e futuristiche amazzoni combattono per le strade cercando di evitare i massivi attacchi dei rabbiosi, facendo degli stessi un ludico passatempo per vincere la noia (rimando ai redneck di Night of the Living Dead).

In questo contesto, Falanga cala una co-protagonista quasi kinghiana (penso alla bimba di Firestarter) dotata di una sorta di potere parapsicologo in grado di controllare e indirizzare i rabbiosi (vago rimando a L'Invasione degli Ultracorpi). La piccola sembra inoltre aver sviluppato una resistenza al morbo. Un vero e proprio portatore sano che, a livello subliminale, rievoca le problematiche del periodo di covid-19 (a cui forse si ricollega anche la decisione di strutturare la storia su un arco temporale di due anni). Quest'ultimo riferimento è peraltro sottolineato dall'egoismo generale che sottende alle scelte dei singoli (protagonista compreso).  Nessuno, in una situazione emergenziale, sembra valutare l'interesse collettivo focalizzandosi, piuttosto, sui propri fabbisogni calpestando tutto e tutti.

Pesa sul ritmo e sulla capacità di rapire l'attenzione dei lettori, ad avviso di questo recensore, la decisione di non ricorrere ai dialoghi. Falanga narra, riassume gli eventi, fa luce sul passato con un stile quasi saggistico, piuttosto che mettere in scena gli accadimenti. Fanno eccezione alcuni spostamenti da un quartiere all'altro e alcune avventure che hanno in comune l'assoluta assenza di spirito di solidarietà verso chi non è riconosciuto quale proprio simile. Il sospetto, i giudizi sommari e la pratica della tortura completano il quadro.

Punto di forza dovrebbe essere la scenografia urbana. L'autore intende omaggiare Potenza e, per questo, cita quartieri, vie, negozi e quanto possa essere utile a innescare nella mente dei lettori una sovrapposizione tra quotidianità e “apocalisse zombi”. La cosa è destinata a funzionare su chi effettivamente conosca le zone citate, ma si presta meno a solleticare la fantasia dei “forestieri”. Si ha infatti l'impressione che si dia per scontato che il lettore conosca Potenza, aspetto questo tutt'altro che ovvio. In altre parole, mancano delle pennellate che possano suggerire la fatiscenza o la decadenza dei luoghi, descrivendone le peculiarità e quanto prima li caratterizzasse, dando invece campo a una  visione d'insieme sprovvista di quell'emotività in grado di trasmettere il quid in più necessario a lasciare traccia nella memoria.

Sul versante formale si notano qualche refuso e alcuni periodi che, forse, sarebbe stato preferibile alleggerire. Niente di grave, sia chiaro. La lettura rimane sufficientemente scorrevole.

Dunque un'opera più cinematografica che letteraria, con dei limiti dovuti soprattutto a un plot ultra collaudato che innovativo certo non è. Evidente la passione di Falanga per una certa tipologia di cinema anni settanta e ottanta, quei cult che hanno in maestri quali George A. Romero e John Carpenter le maggiori figure di riferimento. Un po' di tamarraggine nel delineare il protagonista avrebbe elevato la storia, così come avrebbe potuto aiutarla un approfondimento sui motivi a fondamento dell'epidemia. Da non perdere per i cittadini di Potenza anche perché Paura nella Città dei Rabbiosi è stato definito "il primo horror zombie ambientato in Basilicata".

 
L'autore ALESSANDRO FALANGA a dx,
a sx la sua antologia BOLIDI.
 
"La chiave di tutto era Speranza; grazie al suo potere avrebbe potuto creare un varco in quel recinto e scappare, anche se questo avrebbe messo a rischio l'intera specie umana ma, in quel momento, a Luca non interessava ciò che sarebbe potuto capitare nel resto della nazione."

domenica 21 aprile 2024

Recensione Narrativa: INVASIONE di Massimo Gardella.

Autore: Massimo Gardella.
Anno: 2023.
Genere: Fantascienza.
Editore: Delos Digital.
Pagine: 192.
Prezzo: 16,00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.  
Facciamo oggi la conoscenza di Massimo Gardella, milanese classe 1973 noto soprattutto in veste di traduttore di Alan Moore e di Gene Wolfe. Maurizio Cometto lo seleziona per tenere a battesimo la neonata collana “Frattali” della Delos Digital, puntando su un romanzo meno originale di quanto potrebbe apparire a un primo contatto. Gardella torna alla sci-fi dopo circa quindici anni, da quando nel 2009 dette alle stampe Il Quadrato di Blaum. Lo fa cercando di cucire tra loro mainstream e narrativa di intrattenimento, con uno stile leggero e fluido sotto il quale si cela un contenuto sociologico. Il fantastico infatti, inizialmente, resta ai margini della vicenda, fungendo da trait d'union di una serie di storie di vita comune in cui i protagonisti sono, per lo più, dei perdenti. Al centro dell'interesse è il comune vivere di individui che persistono a fare la loro vita nonostante a orizzonte troneggino delle misteriose astronavi discese dallo spazio. L'autore porta avanti la narrazione attraverso una suddivisione del romanzo in una serie di racconti tra loro non collegati, che spostano, di storia in storia, il periodo di riferimento secondo una scansione temporale progressiva così da aggiungere dettagli maggiori sulla bizzarra fenomenologia che avvolge l'intero pianeta. Si tratta, a parte lo spiazzante finale, di nove mesi avviati dall'arrivo delle astronavi e conclusi dalla partenza delle medesime, aprendo la via a un mondo destinato a estinguersi. Così la storia si apre con un safari in Kenya finito nel sangue, sul modello di film quali Prey – La Caccia è Aperta (2007); si prosegue con un bandito incapace di ricucire il rapporto di fiducia con la madre e che decide di compiere un'ultima rapina buttando alle ortiche la chance offertagli dalla riconquisata salute; quindi è la volta di un ragazzino che scopre di disegnare il medesimo soggetto tratteggiato da tutti i compagni di classe; troviamo poi un ubriacone che perde il lavoro e nonostante questo non fa niente per porre fine alla sua parabola decadente, seguito dalla storia di un vedovo costretto ad ascoltare i ricatti dei figli che vorrebbero venderne le proprietà nonostante navighino in buone acque, fino ad arrivare a una fotografa di animali alle prese con la dipartita di tutte le creature della Terra. Al di là delle varie sfumature, il tema resta sempre lo stesso ovvero le reazioni umane al cospetto dello straordinario.

Gardella prende le mosse dall'esperienza covid, da cui mutua le iniziali reazioni dei governi del mondo chiamati a far fronte a una fenomenologia a dir poco straordinaria, per inserirsi nel solco dei romanzi alla The War of the Worlds (“La Guerra dei Mondi”, 1897) ma con un'impostazione pessimista. Il ritmo è piuttosto lento e cadenzato da una struttura che, ogni volta, interrompe la curiosità dei lettori per resettare il tutto e riprendere la questione da una diversa prospettiva. C'è da riconoscere a Gardella di esser riuscito, per tale via, a rendere credibile la componente fantastica, al punto da farla apparire come un qualcosa di verosimile incastonando la vicenda in un quadro di insieme ordinario. A ogni passaggio, inoltre, vengono forniti dettagli nuovi che, a poco a poco, riconducono la narrazione verso un fantastico (quasi di valenza religiosa) destinato a scardinare il mainstream. I personaggi sono molto caratterizzati, forse troppo visto che vengono abbandonati dopo appena un capitolo, portando - in alcune parti del testo - i lettori a sorvolare sul loro passato. Ecco che viene plasmata una struttura corale che procede lasciando il tema principale sullo sfondo. Al centro della narrazione, in apparenza, sono le storie di uomini, per lo più ai margini della società, e le loro reazioni (disinteressate) al cospetto dell'evento straordinario. A parte l'estraniamento iniziale, dovuto alla presenza delle trentasette astronavi dislocate in altrettanti punti del mondo, l'uomo sembra abituarsi a tutto cosi' da tornare al suo rapporto irrispettoso con la vita (forse questo sarà il motivo della decisione finale adottata dagli alieni). Si continua ad andare a scuola, i cantieri edili proseguono nel loro lavoro, i criminali persistono a delinquere, i turisti fanno selfie usando le astronavi di sfondo e la polizia controlla le auto sottoponendo gli autisti all'etilometro. Gardella guarda in modo evidente a Independence Day, da cui prende la componente visiva delle astronavi, ma sono percepibili rimandi anche a Wyndham, Machen (il riferimento va a The Terror) e Schatzing, oltre al mito del Diluvio Universale. Gigantesche astronavi, avvolte da nubi, restano sospese nel cielo, nell'immobilità più assoluta, protette da archi magnetici che rendono impossibile ogni forma di interazione (stanno forse studiando l'uomo, valutandone la salvezza piuttosto che la condanna?). Dopo aver rilasciato uno spray verde che guarisce gli umani da ogni male, attendono qualcosa che nessuno riesce a comprendere (probabilmente la riconoscenza e la redenzione dell'uomo). L'Organizzazione Mondiale per la Sanità, inizialmente, reagisce istituendo lockdown e rendendo obbligatori tamponi e lascia passare. Giornalisti e trasmissioni tv analizzano la questione, suggerendo l'imminenza di una “ripartenza”. La cittadinanza risponde con fogli riportanti la scritta “andrà tutto bene”. Non manca chi, convinto della sussistenza di un complotto, cerchi una via per arrivare alle astronavi, così come i militari studiano soluzioni per respingere gli alieni che, alla lunga, iniziano a scocciare. Intanto gli animali prendono a ribellarsi all'uomo, interrompendo la normale catena alimentare per instaurare tra loro una pace di valenza biblica che porta alla formazione di veri e propri greggi variegati che si muovono verso le astronavi (atteggiamento che porterà alla loro salvezza). I cetacei perdono l'orientamento nei mari, i pesci guizzano ammassandosi sotto le astronavi senza che nessun biologo giunga a fornire una spiegazione. Gardella strizza più di un occhio a Der Schwarm (“Il Quinto Giorno”, 2004) di Frank Schatzing, da cui vengono riprese parti essenziali della storia (quasi tutta la parte del condizionamento animale). L'epilogo, piuttosto a sorpresa e in modo “pacifico”, volge in direzione dei romanzi apocalittici tipo “The Last Man” (“L'Ultimo Uomo”, 1826) di Mary Shelley, con un finale cattivissimo dove si suggerisce la pratica del cannibalismo in una terra futura, a distanza di trentanni dalla ripartenza delle astronavi, dove l'infertilità degli uomini è divenuta la condanna inflitta dall'alto dei cieli. A differenza degli animali, l'uomo non riesce a vivere in pace e, rimasto solo, persiste a compiere omicidi e guerre. Dal mondo del cinema, dunque, si torna alle pietre miliari della narrativa apocalittica ottocentesca rappresentata da testi quali Le Dernier Homme (1805) di Jean Baptiste Cousin de Grainville. Dunque un romanzo che definirei, nonostante tutto, classico, sebbene sviluppato con piglio realista nell'intento (riuscito) di fornire ai lettori un'illusoria percezione ottenuta attraverso una narrazione concentrata, più che sul sense of wonder, sulle quotidiane attività del comune vivere. 

Sorta dunque di metafora attraverso la quale Gardella condanna l'umanita' (bambini esclusi) all'estinzione per l'incapacita' di far tesoro degli insegnamenti ricevuti. Lo spray verde che tutto guarisce (rimando alla vittoria sul covid) e la permanenza delle astronavi (rimando alla parusia) non riescono a cambiare le abitudini sbagliate dell'uomo ancora acciecato dall'egoismo e incapace di sfuttare la seconda chance che gli e' stata offerta. Del resto basti vedere come dopo una pandemia si sia ritornati sulle vecchie vie, dando luogo a guerre e tornando a minacciare l'impiego delle armi nucleari.

Interessante. Imperdibile per i fan del genere "invasione extraterrestre".

 
L'autore Massimo Gardella.

martedì 16 aprile 2024

Recensioni Cinema: OMEN - L'ORIGINE DEL PRESAGIO di Arkasha Stevenson.


Regia: Arkasha Stevenson.
Anno: 2024 (Stati Uniti).
Genere: Horror.
Soggetto: Ben Jacoby.
Sceneggiatura: Arkasha Stevenson, Tim Smith e Keith Thomas.
Attori Principali: Nell Tiger Free, Maria Caballero, Nicole Sorace, Ishtar Currie-Wilson, Ralph Ineson, Sonia Braga e Bill Nighy..
Fotografia: Aaron Morton.
Musiche: Mark Korven. 
Durata: 120 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini. 
A quasi cinquanta anni da Omen – Il Presagio, la 20th Century Studios torna alle origini del male. Lo fa dopo aver prodotto due sequel ufficiali, un prodotto televisivo, un remake e una serie televisiva. Grandi aspettative, in buona parte non deluse. Arkasha Stevenson, dopo alcuni cortometraggi e un paio di episodi televisivi, debutta alla regia cinematografica in modo molto convincente e fornisce una prova che lascia ben sperare per il suo futuro. The First Omen cerca di seguire la scia del primo capitolo, per registro e per costruzione narrativa, aggiungendo un pizzico di thrilling rappresentato da un'indagine su una serie di parti di bimbi deformi frutto degli strani accoppiamenti avvenuti all'interno di un orfanotrofio (ricorda moltissimo il racconto di Paolo Di Orazio intitolato L'Incubatrice). Da ricordare, sul versante della regia, le sequenze piuttosto disturbanti dei parti, sottolineate dai primissimi piani su mani legate, bisturi che scorrono sulla carne e rapide inquadrature di gambe divaricate da cui fuoriescono liquidi organici (e persino una mano demoniaca!?). Altra caratteristiche della Stevenson è una certa insistenza nel proporre i rallenty.
Veniamo ora alla storia. Siamo a Roma, nel 1971, nove mesi prima dei fatti de Il Presagio a cui la pellicola si cuce nel finale. La produzione investe su auto e costumi, ben attenta a calare gli spettatori nel tempo che fu. Lo stesso non può dirsi per chi ha montanto le musiche ballate in discoteca. Si sentono infatti brani come Rumore di Raffaella Carrà e Daddy Cool dei Boney M che sono usciti qualche anno dopo rispetto all'anno di ambientazione del film.

La fotografia è molto più solare di quella del 1976, ma ciò non incide sulle atmosfere soffocanti e per buoni tratti claustrofobiche. Ben Jacoby, al soggetto, propone un plot che si apre con un antefatto violento (e un po' telefonato), per seguire uno sviluppo piuttosto lento che entra progressivamente nel vivo prendendosi tutti i tempi necessari. Purtroppo la regista – coadiuvata da Tim Smith e Keith Thomas – decide di restare in zona comfort in fatto di scrittura. La sceneggiatura infatti, oltre a ricalcare un paio di decessi su quelli già proposti da Richard Donner (il suicidio e la morte del prete provocata da un oggetto sacro che piove dall'alto), si tiene ben lontana dal proposito di innovare, preferendo percorrere vie commerciali già battute da altre celebri pellicole. Fortissime, infatti, sono le contaminazioni con Rosemary's Baby (la parte dell'amore della madre per la creature demoniaca), il nusploitation (sebbene la storia non sia ambientata in un convento, bensì in un orfanotrofio gestito da suore), La Chiesa di Michele Soavi (accoppiamento bestiale per mano dei preti) e persino Suspiria di Luca Guadagnino da cui viene ripresa la parte finale.

Stranamente si decide di modificare alcuni elementi della storia di David Seltzer. In prima battuta, l'anticristo non viene più partorito da uno sciacallo, ma da una donna ingravidata da uno sciacallo-demone (bella la scena dell'accoppiamento). Più comprensibile, invece, la scelta di introdurre la variante della sorella gemella dell'anticristo. Pare ovvio ritenere, infatti, che gli autori abbiano voluto riservarsi la possibilità di proseguire la serie con un sequel parallelo alle vicende de Il Presagio e La Maledizione di Damien. Non mancano i vuoti narrativi, a partire dalla creatura demoniaca (lo sciacallo) che vive nei sotterranei dell'orfanotrofio, di cui non è dato sapere nulla, e che viene mostrata all'epilogo misteriosamente abbandonata dagli accoliti demoniaci (che agirebbero per il bene della Chiesa, favorendo l'avvento dell'anticristo col fine di avvicinare le persone alla chiesa!?). Non convince inoltre la salvezza di Padre Brennan (rimasto coinvolto in un sinistro, ma non finito dai prelati deviati) e soprattutto delle “sorelle sataniche” e della neonata che riescono a salvarsi dall'incendio che avrebbe dovuto ucciderle.

Insomma, si poteva fare di meglio, ma non c'è da lamentarsi, poiché il risultato sperato viene comunque centrato. The First Omen è di gran lunga superiore alla media degli horror del nuovo secolo (a partire da L'Esorcista del Papa). La sensazione di disagio dello spettatore è costante per buona parte della proiezione, consentendo al film di fare il suo lavoro. In molte sequenze inquieta, aiutato dagli effetti sonori e dalla colonna sonora. Non manca qualche effetto grandguignol, nel rispetto del primo capitolo. Piacciono meno gli effetti “bubù settete” alla Conjuring, con spettri che si materializzano d'improvviso giusto per far saltare sulle poltroncine gli spettatori.

Sul versante recitativo, piace molto Nell Tiger Free, nei panni della protagonista. Delicata e dolce, l'attrice inquieta con alcuni sorrisi distorti che rimandano a quello del piccolo Damien dell'epilogo del film di Donner ma anche a Lost Souls. Da rilevare un paio di inquadrature, dall'alto, sulla testa della Tiger Free, sdraiata a letto e spettinata in modo da ricordare la chioma di Medusa. Sinistra Ishtar Currie Wilson nei panni di una suora ritardata; erotica e provocante Maria Caballero, che rappresenta il ruolo di una suora tentatrice che ricorda la meretrice di Babilonia. Vietato ai minori di anni 14. Da vedere.

La protagonista
Nell Tiger Free
in un primissimo piano da gorgone

 

martedì 9 aprile 2024

Recensione Narrativa: HORROR ACADEMY VOLUME 2 a cura di Alessandro Manzetti.

Curatore: Alessandro Manzetti.
Edizione: Collection a serie limitata.
Anno: 2022.
Genere:  Antologia AA.VV. Horror.
Editore: Independent Legions.
Pagine: 194.
Prezzo: 16.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 
Secondo volume della serie antologica concepita da Alessandro Manzetti per fungere da vetrina agli scrittori facenti parte della sua accademia di scrittura creativa. Si segue il modello rappresentato dal primo volume della collana (qua trovate la recensone http://giurista81.blogspot.com/2023/07/recensione-narrativa-horror-academy.html ). Abbiamo infatti una carrellata di otto giovani scrittori italiani, più o meno noti, alternati a racconti di sei firme autorevoli di caratura internazionale che comprendono i grandi maestri (Campbell, R.C. Matheson e Masterton) e nuove proposte sul mercato editoriale nostrano (Taylor, Taborska e Kiste).

A differenza del primo volume, Manzetti opta per un fil rouge costituito dalla narrativa di Howard P. Lovecraft. Quattro dei sei racconti internazionali possono definirsi, a giusto titolo, lovecraftiani e altrettanto, seppur implicitamente, si potrebbe dire del racconto di Enrico Graglia (di gran lunga il migliore tra gli italiani).

Punto forte dell'antologia, tanto da attirare i collezionisti delle opere derivative dell'arte lovecraftiana, è The Inhabitant of the Lake (“L'Abitatore del Lago”) di Ramsey Campbell. Racconto famosissimo, colpevolmente mai tradotto in italiano prima dell'intervento di Manzetti, scritto nel lontano 1964. Campbell omaggia Lovecraft, citando Alhazred, Yuggoth, Shaggai, e al contempo crea un proprio mito personalizzato. The Inhabitant of the Lake non è un racconto meramente derivativo, ma aggiunge qualcosa alla cosmogonia lovecraftiana. Siamo in Inghilterra, a dieci miglia da Brichester (località di invenzione letteraria), ai margini di un lago, a quanto pare, creatosi più di cento anni prima a seguito della caduta di un meteora. Un pittore, dedito a raffigurare soggetti macabri, decide di acquistare una delle case abbandonate che sorgono attorno alle acque. Intende infatti sfruttare il luogo per trovare nuove fonti di ispirazione. Gli stabili, visibilmente fatiscenti, sono la testimonianza della presenza passata di un gruppo di individui votati a uno strano culto ultraterreno.

Campbell, che scrisse il racconto all'età di sedici anni, mostra fin da subito il suo smisurato talento. Atmosfere lugubri, scenari palustri, clima malsano e umido, graduale e progressivo insinuarsi del mistero, ambiguità (alla fine risolta in favore del soprannaturale) e aderenza agli insegnamenti lasciati da Lovecfraft si manifestano all'ennesima potenza. Un nuovo “grande antico”, capace di contornarsi di cadaveri umani posseduti e manovrati in modo da trasformarli in veri e propri morti viventi (Brian Keene ne sa qualcosa), entra nell'immaginario orrorifico degli appassionati. Appare infatti per la prima volta in assoluto Glaaki (si ricorda il volume, edito da Hypnos, L'Ultima Rivelazione di Gla'aki). Creatura extraterrestre acquatica, dotata di spine metalliche costituite da cellule viventi, piovuta sulla terra insieme a un'enorme meteora e sopravvissuta all'impatto. Sarebbe capace di comunicare con gli uomini attraverso sogni ipnotici, condizionandone le condotte per renderli suoi schiavi. Campbell caratterizza la creatura nel dettaglio e lo fa utilizzando l'artificio del racconto epistolare. Il protagonista (un pittore) comunica a un amico le sue scoperte, attraverso lo studio di un'opera (“Le Rivelazioni di Glaaki”) costituita da undici volumi che ha rinvenuto in una delle case abbandonate. L'epilogo sorprende per la capacità di anticipare cult assoluti quali Night of the Living Dead (1968) di George A. Romero, che riprenderà tutta la parte dell'assedio, e The Rising di Brian Keene. Davvero una perla; non a caso, trovò l'apprezzamento di August Derleth che la pubblicò annettendo Campbell nella sua Arkham House.

Non è ai livelli di The Inhabitant of the Lake l'assai più derivativo Will (1996) di Graham Masterton. Lo scrittore scozzese, conosciuto soprattutto per i suoi racconti grandguignoleschi, nulla propone di nuovo rispetto alla narrativa del solitario di Providence, andando peraltro a smarrire la propria cifra stilistica (dimenticate racconti come Pastone per Maiali e Sei quello che Mangi). Ci spostiamo a Londra, addirittura in un cantiere archeologico che porta alla luce il Globe Theatre in cui era solito esibirsi William Shakespeare. Masteron guarda a Yog-Shothot (che diventa Y'g Southothe), ma soprattutto ai patti diabolici di faustiana memoria, dietro ai quali si celano contropartite nefaste che, tuttavia, consentano a chi li sottoscrive (Shakespeare compreso) di avere successo nel campo dell'arte. A tale tematica si aggiunge quella del mostro che vive sottoterra, pronto a compiere mattanza se liberato dalla prigionia. Per essere al cospetto di un racconto di un “Maestro”, si resta delusi. Nulla più di un clone, molto simile a vecchi racconti quali Harold's Blues di Glen Singer, inserito nell'antologia The Year's Best Horror Stories. Fa allora meglio Lucy Snyder con Sunset on Mott Island (2017) dove, dalla disperazione della protagonista colpita da un probabile tumore e alle prese con una madre morente, si allarga il campo mostrando un mondo gravato da una vera e propria apocalisse. Tutto è sfumato e lasciato all'immagininazone del lettore, ma ci viene detto del crollo delle comunicazioni, delle citta' in balia delle fiamme, dell'insorgenza di strane mutazioni genetiche, e dell'imminenza di uno tsunami che, sotto la spinta provocata dal risveglio dei vari Dagon e Cthulhu, si appresta a travolgere l'umanità inondando la terra ferma con le acque dell'oceano. Molto evocativo e tragico. Ricorda un po' il mio Oltre la Torre di P Town, inserito nell'antologia Il Ritorno dei Grandi Antichi (2021) a cura di Gianfranco De Turris.

Piacciono meno gli altri tre racconti “internazionali”.

Cyril's Mission (2022) di Anna Taborska suggerisce il periodico risveglio ultracentenario di un grasso e grosso verme (tematica utilizzata anche da Predatori dall'Abisso di Ivo Torello) che, dalla sagrestia di una chiesa, reclama la vita di un determinato numero di ragazzini. Storia allusiva, forse tributo a The Lair of White Worm di Bram Stoker, dai tratti metaforici velatamente blasfemi (l'epilogo in cui viene addossata la responsabilità al prete). Cade un po' nel ridicolo e nel dejà vù nel proporre lo scontro tra un bizzarro prete e il mostro.

Estranei rispetto ai contenuti dei quattro precedenti racconti e per buoni versi sperimentali gli altri due elaborati dei “big”. Stile minimalista, quasi connaturato da un'impostazione poetica, per il fulmineo Birds (2022) di Richard Christian Matheson. Una storia allusiva e, in parte, criptica. Una pagina e mezzo in cui si suggeriscono maltrattamenti in famiglia e una ribellione finale per mano di un ragazzo stanco dei soprusi compiuti dai violenti genitori. Tutto però è lasciato all'interpretazione del lettore.

Tenta la via della contaminazione Gwendolyn Kiste, anche lei su un substrato allusivo che suggerisce maltrattamenti in famiglia. La scrittrice americana propone ai lettori, a cui si rivolge direttamente con Sister Glitter Blood (2021), di prendere parte a un gioco da tavola di cui fornisce le regole e gli obiettivi. Epilogo vagamente Edgar Allan Poeniano con rimando a The Fall of the House of Usher. Molto femminile, con un perturbante che non regala divertimento o stupore nella lettura, cercando più che altro di inquietare (non proprio riuscendoci).

Enrico Graglia,

è il caso di dire, 
on fire.

Tra il lotto degli scrittori dell'accademia di Manzetti brilla, e la cosa mi fa piacere avendo già prenotato da mesi il romanzo Il Deserto degli Striati, Enrico Graglia col folk horror I Passeggiatori. Classica storia che avrebbe fatto bella figura sulle pagine della rivista weird tales e che, per certi versi, mi ha ricordato alcuni racconti di Thorp McClusky, quali White Zombies Walked (1939). Graglia inserisce nel plot fantastico l'elemento della malattia (alzheimer), di cui è affetto il protagonista, e il profondo senso di solitudine che influenza la condotta della vittima degli eventi. Il senso dell'ambiguità, tuttavia, viene spazzato via dall'epilogo che, curiosamente, sembra ricollegarsi a quello del racconto della Taborska senza tuttavia andare sopra le righe. La malattia del protagonista infatti poco incide su quanto effettivamente accaduto. A differenza di molti suoi colleghi di corso, il sense of wonder di Graglia si antepone alla ricercatezza stilistica. La storia non è originalissima, tuttavia è gestita centellinando la tensione fino all'esplosione finale. In un paese montano, una strana processione di dodici uomini accompagnati da un giovane prete sconquassa l'animo del protagonista e crea malessere negli animali che sembrano fiutare qualcosa di alieno (o forse sarebbe il caso di dire diabolico). Cosa si nasconde dietro le strane preghiere del gruppo e che rapporto c'è tra esse e le strane sculture in legno rinvenute nel cuore del bosco? Il collegamento tra oggetti e persone, che fungerà da trampolino di lancio per il pirotecnico finale, ricorda molto la magia voodoo. Piccolo omaggio anche a Jack London (il nome del cane rimanda a Il Richiamo della Foresta).

Oltre al racconto di Graglia, davvero un piccolo gioiellino, colpisce nel segno Fino all'Altra Parte del Mondo di Andrea Mungiello. Strutturato in due parti ben distinte tra loro, riesce a miscelare la disperazione nella vita quotidiana di un'immigrata clandestina con la beffa di un'aldilà "alieno" dove la libertà persisterà a mantenere i tratti della chimera. L'inizio è drammatico, dagli spiccati risvolti sociali, con una prostituta che sogna di fuggire insieme a un'amica, così da ricrearsi una vita. La ricerca dell'amica tuttavia si fa disperata. Forse le è successo qualcosa di irrimediabile, al punto da portare la protagonista a visionare i corridoi di un ospedale salvo desistere e fare mesto ritorno a casa, bersagliata dalla voce del magnaccia. La droga è forse l'unica via per evadere dalla realtà nonché portale d'accesso per entrare in un onirico e allucinato fantastico di presa metaforica. Il sogno della felicità rappresentato dalla fuga in un isola caraibica si trasforma così in una prigionia che è divertimento di qualcun altro: un collezionista di anime non troppo dissimile al magnaccia (che sia Dio?).

Gli altri sei racconti, tutti ben serviti sotto l'occhio dei lettori, tendono, salvo qualche raro caso, a privilegiare la forma e lo stile ai contenuti e al sense of wonder. Anna Silvia Armenise evoca scenari da fiaba nera con Nella Bruma, una Fata, una ghost story cupa alla Gwendolyn Kiste ma anche alla Oliver Onions (penso a The Beckoning Fair One - “La Bella Adescatrice”), in cui tornano i contenuti sociali, rappresentati dalla ristrettezza culturale degli abitanti di un paese campagnolo che non accetta la relazione amorosa tra due ragazze adolescenti, provocando il suicidio di una di loro. Finale tragico, a cui si giunge stillando aspetti di un mistero passato. Buona prova per la delicatezza con cui viene trattato il tema.

Inquieta parecchio, soprattutto nella prima parte, Massimo Costante col suo Ave Maria. Siamo in epoca vittoriana con una storia che, cercando di far luce sul passato di una potenziale vittima di Jack lo Squartatore, ci mostra la fine del celebre killer di Whitechapel. Notevole, per capacità di creare disturbo nel lettore, la primissima parte, dove Costante guarda a racconti quali L'Incubatrice di Paolo Di Orazio. Piace meno l'epilogo soprannaturale che suggerisce la natura, in parte non umana, della protagonista.

Niccolò Ratto si ispira, più degli altri, alla mano di Alessando Manzetti o, meglio ancora, al suo alter ego Caleb Battiago. Iene è un racconto, per atmosfere e contenuti, che potremmo definire narakiano. Scritto con uno stile che ricorda delle brevi pennellate assestate qua e in là, senza articolare troppo i periodi e con flash frammentati funzionali a tratteggiare un'ambientazione degradata e contaminata da un male non precisato (forse radiazioni). Gli scenari prevalgono sulla sostanza, per quello che sembra essere un estratto di un materiale più ampio. Una giovane transgender scopre che nei sotterranei di una struttura su più piani vivono veramente le creature di cui si mormora in città: delle iene dagli occhi azzurri. Storia molto evocativa, che non trova un epilogo in grado di permetterle il salto di qualità (si prende la via della metafora).

Un altro racconto che sembra esser stato estrapolato da un'opera più ampia è Lupi di Roberto Risso, probabilmente il meno interessante tra i racconti italiani proposti. Survival sulla scia delle apoalisse zombi, anche se si ha a che fare con un'epidemia di idrofobi voraci di viscere e fegato (c'e qualcosa del genere, se non ricordo male, in un episodio di X-Files). Il buon ritmo garantisce il coinvolgimento continuo del lettore, ma l'originalità latita. Pur se chiuso con un finale sarcastico, è una storia che si dimentica presto.

Migliore rispetto a Lupi è Il Muro di Sergio Mastrillo, un racconto di formazione che riscrive il mito delle sirene, spostando il tutto dalle acque alla terraferma. Ottima la costruzione iniziale, che ben rappresenta il senso del mistero e ben alimenta le aspettative dei lettori, peraltro con rimandi a incubi subliminali (presenza di centrali nucleari, rimandi alla guerra, quartieri isolati dal resto del villaggio da mura che ricordano i ghetti ebraici) che rendono estraniante l'atmosfera. Purtroppo, secondo questo recensore, manca un epilogo “sconquassante” in grado di rendere il racconto un qualcosa di veramente memorabile.

Abbonda il sense of wonder in Pallida di Andrea Guido Silvi che ha, tuttavia, il demerito (secondo il modesto parere di questo recensore) di diluire la tensione con dialoghi più da prodotto cinematografico che narrativo. Ci spostiamo sui sentieri innevati, con due alpinisti che celano nel loro passato uno stupro terminato in omicidio ai danni di una minorenne. Colpiti da quella che sembrerebbe una maledizione, i due si perdono nell'ascesa, ritrovandosi al cospetto di una bizzarra tribù capace di leggere il passato delle persone e di ergersi al ruolo di giudice soprannaturale. Lento nella prima parte, viene portato avanti, piuttosto che dai contenuti, per effetto delle descrizioni scenografiche.

In conclusione Horror Academy conferma l'attenzione di Alessandro Manzetti per la cura e la componente stilistica dei suoi giovani scrittori. Gli otto racconti italiani sono tutti presentati con estrema cura, avendo sempre un occhio aperto sulle problematiche della vita comune. Probabilmente il testo è superiore rispetto al primo volume e ha il grosso merito di avere al suo interno il racconto The Inhabitant of the Lake, non trovabile in italiano altrove. Quattordici racconti, con poche delusioni e almeno due grosse perle: il citato racconto di Campbell e I Passeggiatori di Enrico Graglia. Bene anche Lucy Snyder, Andrea Mungiello e Anna Silvia Armenise. L'horror italiano è vivo e presente.