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lunedì 28 novembre 2011

Recensioni narrative: IL RITORNO DI CARMILLA (J.S. Le Fanu jr)


IL RITORNO DI CARMILLA - LA VAMPIRA INNAMORATA

Autore: J.S. Le Fanu jr. (Nipote)
Anno di uscita: 2011
Casa editrice: Edizioni Il Foglio
Pagine: 164
Prezzo: 12.00

Commento di Matteo Mancini


Volumetto edito dalle Edizioni Il Foglio Letterario che, non me ne voglia l'amico Gordiano Lupi (autore della traduzione dallo spagnolo nonché responsabile della casa editrice), ha come unico fine quello di offrire a un pubblico a digiuno di "narrativa fantastica classica" uno dei capisaldi del genere fantastico (antesignano del Dracula di Bram Stoker) ovvero il racconto lungo "Carmilla" dell'irlandese J.S.Le Fanu. L'affermazione viene rafforzata da un testo che ricalca pari pari il soggetto originale, limitandosi ad attualizzare la storia (è ambientata a Firenze in età contemporanea, con autobus che prendono il posto delle carrozze a cavallo) e a spingere sul pedale dell'erotismo (peraltro con descrizioni tendenti a ripetersi e a non differenziarsi dalle canoniche rappresentazioni narrative di rapporti sessuali).

L'autore, che si presenta come nipote del più famoso Le Fanu (Lupi assicura che non si tratta di una trovata commerciale), modifica in piccola ma determinante misura la caratterizzazione del rapporto tra Carmilla e la giovane protagonista della storia. L'amore saffico tra le due infatti, oltre a essere esplicitato (e dunque non più suggerito), si manifesta con ruoli quasi paritetici. Carmilla vede così ridimensionarsi quella veste seduttiva e irresistibile che invece brillava nel testo originario rapendo l'attenzione del lettore. Tutto questo, a mio avviso, si ripercuote negativamente sul fascino della storia perché si va sottrarre dalla mente di chi legge il piacere di immaginare e di leggere tra le righe ciò che lo scrittore non aveva voluto raccontare.

Tra i possibili punti a favore del remake, invece, potremmo menzionare lo stile che diviene più accessibile e meno virtuoso rispetto al racconto datato 1872. Ne deriva così una lettura meno poetica, ma più scorrevole e di pronta soluzione. Per il sottoscritto questo non è un bene, ma se si considera il pubblico a cui è destinato il libro penso che si debba concludere diversamente perché un'opera del genere può avere la sola funzione di avvicinare "lettori timidi" e impauriti da certi stili narrativi ai modelli originari (tecnicamente più complessi e lirici).

Il libro viene poi completato da tre contributi anch'essi tutt'altro che originali e già letti decine di volte. Abbiamo infatti un'introduzione sufficientemente completa sulla letteratura vampirica, ma contenutisticamente già apparsa decine di volte in antologie collettive incentrate sulla figura del vampiro. Completano infine il volume una sorta di racconto breve che ripercorre, in sintesi, le vicende della contessa Bathory e un diario brevissimo in cui si riportano le follie e le perversioni di Vlad Tepes (meglio conosciuto come il vero Conte Dracula).

Un'ultima considerazione per le raffigurazioni interne curate da Rosita Amici che appaiono, forse, un po' troppo fumettistiche (forse un taglio più artistico le avrebbe rese più personali e particolari) e per il disegno in copertina dove appaiono una donna e un uomo vampiro (a mio avviso sarebbe stato preferibile, visto il soggetto del racconto che da il titolo al libro, inserire due donne).

Alla luce di quanto esposto, quindi, "Il ritorno di Carmilla" si presta per essere una lettura indirizzata solo a un pubblico poco ferrato sul tema (chi è ferrato, invece, si troverà a leggere cose che già conosce). A mio avviso, sarebbe stato preferibile prendere spunto dalla storia originale per poi modificarla e dar vita a un qualcosa di nuovo, un po' come ha fatto Ruiz Torreguitart con "Mister Hyde all'Avana" sempre edito da Edizioni Il Foglio.

Ps: Voglio inserire la parte finale del racconto, riproposta con parole diverse dal testo originario, perché sintetizza meravigliosamente la malinconica drammaticità del soggetto (e, metaforicamente parlando, degli amori perduti con lo strascico di tristezza che si portano dietro e che rimane sepolto nel cuore di chi li ha vissuti):
"Adesso che Carmilla non c'è più spesso la sua immagine mi torna alla memoria. A volte è la gioiosa e bella ragazza che mi aveva affascinato, altre il terribile demonio che si cibava del mio sangue e che ho visto nella cappella in rovina. E spesso mi sveglio di soprassalto da questi ricordi e immagino di sentire il passo leggero di Carmilla davanti alla porta della mia camera"

mercoledì 23 novembre 2011

Recensione narrativa: EROTIC HORROR (AA.VV.)





Autore: AA. VV.
Anno di uscita: 1994
Casa editrice: Bompiani
Pagine: 276
Prezzo: 16.00

Commento di Matteo Mancini

Antologia di “sintesi” che raccoglie una selezione, operata dai distributori italiani, dei primi tre numeri della fortunata serie “The hot blood series” giunta in America, a oggi, a ben tredici uscite. Dietro al progetto c'è un trittico di curatori (Jeff Gelb, Lonn Friend e Michael Garrett) che hanno pensato bene di dar vita a un progetto in cui fondere l'erotismo (marcato) col racconto di tensione sia a sfondo fantastico-orrorifico, sia più realistico tendente al noir senza però rinunciare alle sfumature macabre. Ne è venuta fuori un'antologia seducente in cui si incontra di tutto dai licantropi agli assassini seriali, passando per fantasmi, sortilegi fiabeschi, voodoo, ninfomani necrofile e creature aliene.

La RCS Libri S.p.A., la distributrice italiana del progetto (a cui è stato affibbiato il brutto titolo “Erotic Horror” ), ha così effettuato una scrematura delle tre opere interessate (“Hot Blood” del 1989, “Hotter Blood” del 1991 e “Hottest Blood” del 1993) scegliendo perle di autori in Italia semi-sconosciuti, ma escludendone altre altrettanto meritevoli di autori quali Graham Masterton, il regista Mick Garris, Steve Rasnic Tem, Les Daniels e David J. Show a beneficio di alcuni maestri scelti, salvo qualche eccezione, più per sfruttarne il nome che per altro. E così, al fianco di autori poco noti, troviamo “mostri sacri” della narrativa fantastica come Robert Bloch, Richard Matheson, Theodore Sturgeon e altri autori di richiamo quali Ramsey Campbell, Dennis Etchison, Richard Laymon, Robert McCammon e Paul Wilson per un totale di diciotto racconti scritti tra il 1962 e il 1993 e presentati in ordine alfabetico avendo come riferimento il cognome dell'autore.

L'opera può essere analizzata dividendola in due grossi blocchi: quello fantastico-orrorifico da una parte e quello realistico-drammatico dall'altra.Il primo gruppo si rivela predominante rispetto al secondo e annovera alcune perle visionarie degne di nota. Tra i testi di maggiore spicco non si può non segnalare il disperato e al contempo romantico “Passi” di Harlan Ellison, un'autentica perla che probabilmente è da giudicare come il più bel racconto dell'antologia. Sullo stesso piano, seppur con un finale tragico, si assesta il gotico con tracce di romanticismo “Ricongiungimento” di Michael Garrett. Assai spassosi infine i folli “Generentola” di Ron Dee e “L'aggeggio” di Robert McCammon, con subito alle spalle il qualitativo sci-fi “La modella” di Robert Bloch.

Procediamo però con ordine partendo da quello che abbiamo definito come il miglior elaborato dell'antologia: “Passi” (“Footsteps”). Scritto nel 1980 da Harlan Ellison, scrittore assai prolifico e pluripremiato (sette Hugo. Tre Nebula, un British Fantasy Award, un Edgar dai Mistery writers of America) con alle spalle trascorsi anche in veste di sceneggiatore in serie di grossissimo successo quali “Alfred Htichcock presenta”, “Star Trek” e “Ai confini della realtà” , siamo al cospetto di un testo che avrebbe brillato in un'antologia monotematica dedicata alla figura del licantropo. Ciò che rende il testo particolare è il substrato metaforico che si può decriptare, tra le righe, sotto la storia sanguinolenta proposta al lettore. Abbiamo difatti una splendida donna-lupo che seduce gli uomini con la sua bellezza e la sua sensualità. Tutti gli cadono ai piedi e sono attratti dal suo modo di apparire fisico della donna, dalle sue curve, al punto da esser disposti a far tutto pur di averla per loro. Così, nelle notti di Parigi, la donna si trasforma in lupo e sbrana le prede prescelte, continuando a vivere nella tristezza tra un uomo e un altro. Sarà un'altra creatura fantastica (non catalogabile tra quelle convenzionali) a fermare la sete di sangue della donna, assumendo il controllo della coppia e ricercando nel profondo del cuore del licantropo la vera bellezza e facendole così scoprire il vero amore.Dunque un testo horror a lieto fine, nonostante la catena di omicidi, che assume valenza metaforica e si contraddistingue per non essere un mero esercizio stilistico.

Romanticismo ancora sugli scudi con “Ricongiungimento” (“Reunion”) di uno dei tre curatori dell'antologia ovvero lo sconosciuto (in Italia) Michael Garrett (qui all'unica pubblicazione nella nostra penisola). Garrett propone una storia che rievoca le tematiche e le atmosfere tipiche della narrativa di Edgar Allan Poe seppur rendendo moderno lo stile ed esplicitando la componente erotica che non è più accennata ma decisamente manifesta. Nelle vesti di protagonista abbiamo un uomo ossessionato dal ricordo della sua prima ragazza e più in particolare dei loro focosi amplessi. Sono ormai passati venti anni dal giorno della loro separazione, eppure un misterioso richiamo porta l'uomo a mettersi sulle traccie della ragazza. Di lei non ha notizia dal giorno in cui l'ha lasciata, ma ciò non lo ferma. Si ritroverà così dapprima nel paese di origine della donna e infine al cospetto di una tomba, incapace di muoversi immobilizzato da una sorta di sabbie mobili che lo trascinano giù verso la bara della ragazza che si è suicidata per causa sua e che ora lo tormenta donando la propria voce al vento.

Se i due racconti sopramenzionati possono ritenersi, seppur in modo diverso, legati alla narrativa classica, Ron Dee e Robert McCammon stravolgono completamente gli schemi con delle parodie finalizzate a deridere rispettivamente la favola di Cenerentola e i rituali voodoo.Ron Dee (di cui si ricorda solo un'altra pubblicazione in Italia nell'antologia Mondadori “Il ritorno di Dracula”) con “Generentola” (“Genderella”) del 1993 riscrive in chiave horror e soprattutto dissacrante la favola di Cenerentola, condendo il tutto con una forte componente erotica. Al posto della sfortunata ragazzina, Dee inserisce un giovane omosessuale che sogna di partecipare al ballo di fine scuola con un robusto giocatore di football suo compagno di classe. Respinto dal ragazzo, il desiderio dell'omosessuale verrà accolto da una bizzarrissima fata turchina (un trans vestito di azzurro!?) che lo trasformerà, fino alla mezzanotte, in una bellissima ragazza con cui tutti gli uomini vorrebbero andare. Il sortilegio ha così effetto e, con il nuovo corpo, l'omosessuale riuscirà ad avere per sé il giocatore facendogli giurare di non abbandonarlo mai. Bizzarrissimo e memorabile il finale che richiama tematiche cronomberghiane.

Se il testo di Dee è folle lo è ancora di più “L'aggeggio” (“The thang”)di Robert McCammon (romanziere particolarmente noto nell'ambiente della narrativa dell'orrore). Ideato su commissione per l'antologia “Hot Blood”, McCammon porta in scena un giovane insoddisfatto delle dimensioni del proprio pene e disposto a pagare qualunque cifra pur di vederne crescere le dimensioni. Ancora una volta il desiderio del protagonista sarà esaudito da un sortilegio (questa volta innescato da una specialista voodoo) che produrrà controindicazioni indesiderate che porteranno l'uomo a rimpiangere la sua precedente vita. Il testo è più grottesco che erotico, pur non mancando momenti piccanti (un balletto in un night).

Interessante infine è “La modella” (“The model”) del maestro Robert Bloch (il papà dello “Psyco” poi portato sul grande schermo da Hitchcock), il quale nel 1975 getta le basi per stendere un racconto che, seppur con una prima parte diversa (siamo in una nave con un fotografo protagonista che si innamora della modella a cui fa le foto) ricorda l'evolversi della sceneggiatura dello sci-fi “Species”. Benché penalizzato da una prima parte blanda, il testo cresce alla distanza e culmina con un finale terrificante e visionario che farà la felicità degli amanti del b-mobie e delle stranezze.

Se i cinque testi analizzati nello specifico possono definirsi di primo ordine non sono all'altezza degli stessi i restati elaborati fantastici che, seppur piacevoli, non si discostano dalle consuetudini, rischiando così di passare di mente nel giro di qualche mese dalla lettura.Tra i più riusciti, per stile e tematiche, sono “Julie” di Richard Matheson (racconto più vecchio dell'antologia datato addirittura 1962) e “La vendetta esiste” di Theodore Sturgeon - aventi in comune, oltre il fatto di esser stati firmati da scrittori di primissimo piano, il ribaltamento di ruoli tra seduttori violenti che diventano vittime e sedotti che si trasformano in carnefici – nonché e soprattutto “Menage a trois” dell'esperto Paul F.Wilson,il quale perde punti solo a causa di un finale in cui si ricerca il colpo a sorpresa a tutti i costi (protagonista una paralitica, tutt'altro che sexy, capace di assumere il controllo di belle donne e di intrattenersi sessualmente con il suo giovane domestico all'oscuro di tutto), e il poco erotico “La casa degli insetti” di Lisa Tuttle (testo che terrorizzerà soprattutto il pubblico femminile) la quale sviluppa tecniche di caccia proprie degli insetti adattandole al contesto umano.

Deludenti e peraltro poco o per nulla erotici “Cambio di vita” di Chet Williamson, nonché i testi di due tra le presenze più costanti delle antologie horror cioè Ramsey Campbell col suo confusionario “Ancora” (di cui si ricorda solo l'ottima atmosfera claustrofobica) e Dennis Etchison con “Figlia del vecchio west” (poco erotismo e fantasmi).

Terminata la disamina del primo gruppo di racconti, passiamo a quelli di stampo realistico. Meno geniali rispetto ai migliori del primo gruppo, questo lotto composto da sei racconti si presenta qualitativamente più omogeneo e regala alcuni testi decisamente interessanti.Su tutti, anche per i risvolti successivi che porteranno Stephen King a scrivere “Il gioco di Gerald” è da citare “La vasca da bagno” (The Tub) di uno specialista del racconto del terrore come Richard Laymon. La storia di Laymon costituisce, di fatto, il soggetto, poi diluito e tradotto in romanzo dal King de “Il Gioco di Gerald”. Nel testo di Laymon ci sono tutti gli elementi che caratterizzeranno il successivo romanzo di King (uscito appena un anno dopo): abbiamo una donna che resta intrappolata (nella fattispecie in una vasca sotto il peso del compagno culturista) durante un amplesso che culmina con la morte per infarto del partner; abbiamo tutti i tentativi bislacchi della donna di liberarsi e che puntualmente vanno falliti; abbiamo l'alternanza del giorno con la notte; troviamo riscontri evidenti anche nelle location (abitazione isolata, porte di ingresso lasciate aperte con conseguente timore di voyeuristi pervertiti che spiano nel buio). Dunque il soggetto è pressoché identico, manca solo il background familiare della donna e il cane idrofobo e poi ci siamo. La componente erotica è ben gestita, così come la capacità di inquietare con punte di ironia macabra che stemperano la drammaticità della vicenda (la donna che teme che il cadavere possa rianimarsi e terminare l'amplesso, ma anche i movimenti frutto dei gas produttivi che fanno impaurire la donna che pensa che l'amante stia per ritornare dal regno dell'oltretomba). Il finale è un po' frettoloso, tuttavia regala un paio di colpi di scena: il primo (un po' scontato) è quello relativo al tentativo omissivo di vendicarsi del marito della donna; il secondo, è il macabro escamotage (decisamente all'insegna dello splatter) ordito dalla donna per liberarsi dal peso del cadavere.

Sesso e morte tornano protagonisti anche nei testi perversissimi ma interessanti del semisconosciuto Patrick Gates e del più conosciuto ma senz'altro non notissimo Stephen Gallagher.
Gates con “È bello trovare un uomo duro” (“A hard man is good to find”) del 1991 propone l'ossessione del raggiungimento dell'orgasmo perfetto di una ninfomane che troverà pace solo durante l'amplesso con un uomo che muore al momento della massima eccitazione con conseguenziale irrigidimento duraturo del pene.
Non meno perverso è “Lo strumento del vizio” (“DeVice”) del 1991 dove il masochismo (incarnato da un bizzarro macchinario da collezione e dal vecchio protagonista che cerca in tutti i modi di eiaculare pur di generare una prole ed evitare che il suo ingente patrimonio passi in capo alla sorella) diviene protagonista indiscusso del racconto. Gallagher dimostra talento indisccusso nello scandire un ritmo seducente con bellissime descrizioni che ricordano, per gli amanti dell'underground italico, certi testi di Giovanni Buzi.

Tra i restanti tre testi, sicuramente inferiori ai tre di cui sopra, è più che sufficiente il noir di Julie Wilson (“Appuntamento al buio”) in cui due sconosciuti in cerca di partner vengono ingaggiati da un inconsueto voyeur disposto a pagarli pur di assistere ai loro amplessi.

Meno riusciti gli allucinati deliri psicotici di “Carnaio” (anche se è presente un velato messaggio metaforico connesso agli adescamenti in discoteca) e “L'ultima traversata” (testo scontatissimo) rispettivamente della coppia John Skipp-Craig Spector e di Thomas Tessier.

In definitiva un'antologia che si legge bene e che annovera tra le sue pagine alcuni elaborati che fanno della bizzarria e del coraggio le loro armi vincenti. Non sempre i testi sono all'altezza delle aspettative, ma tutto sommato per essere un'antologia di genere si può essere più che soddisfatti. Voto: 7


mercoledì 16 novembre 2011

Intervista a Matteo Mancini del maggio 2011


Intervista a Matteo Mancini a cura di Patrizia Birtolo (20 maggio, 2011)



Pubblico qua sul mio blog un'intervista a cui sono stato sottoposto alcuni mesi fà dal sito Braviautori e che è poi apparsa in un paio di siti. Autrice dell'intervista è la scrittrice Patrizia Birtolo.

Abbiamo l’opportunità di approfondire la conoscenza di Matteo Mancini, giovane ed eclettico autore del panorama underground. Matteo, non ancora trentenne, tirreniese (provincia di Pisa), dopo la laurea in giurisprudenza si dedica alla scrittura e consegue svariati piazzamenti di rilievo in concorsi nazionali e sul web. Esordisce con “La lunga ascesa dal mare delle tenebre”(2010) cui segue “Sulle rive del crepuscolo” (2011) entrambi per GDS Edizioni.

1) Matteo, la passione per la scrittura è cominciata presto e ti ha già portato piuttosto lontano: Come e perché è cominciato il tuo impegno nell’ambito della narrativa?

Direi che la passione per la scrittura (e di pari passo quella per la lettura), nel mio caso, è maturata molto tardi. Conosco infatti amici scrittori che hanno avuto questa passione fin dall'adolescenza, altri addirittura fin dai tempi dell'infanzia. Nel mio caso, invece, la scrittura è stata per molti anni un tallone di Achille. Ai tempi delle medie e delle superiori venivo spesso rimproverato dai professori di italiano per la mia sinteticità e per la mancanza di fantasia. Devo dire che non avevano torto, all'epoca la scrittura (e anche la narrativa) non mi interessava affatto. Poi, crescendo e maturando, le cose sono cambiate così come i miei hobbies: dallo sport e dalla musica, a cui mi dedicavo quasi a tempo pieno, mi sono progressivamente avvicinato alle materie artistiche e psicologiche.
Ai tempi dell'università, quindi a circa 22 anni e dopo aver superato l'esame di Medicina Legale, ho iniziato a interessarmi alla criminologia. Divorai decine e decine di manuali di questa affascinante materia, arrivando persino a costruirmi un database (che ho sempre) con più di seicento criminali (soprattutto seriali) e con una serie interminabile di filtri che permettevano di tracciare un profilo calibrato di un eventuale assassino in circolazione, comparando i dati riscontrati in un'ipotetica scena del crimine con quelli dei vari casi inseriti nel database. Un lavoro certosino alla cui base vi era uno studio su una lunga serie di biografie (ricordo più di mille pagine in formato word scritte in carattere 12).
Fu proprio con la criminologia che iniziai a scrivere, stendendo dei piccoli saggi e delle analisi critiche sui profili dei vari delinquenti, nonché delle biografie varie.
Nel contempo, grazie all'acquisto del primo lettore DVD, iniziai a comprare, per curiosità, “B-movie” che fino allora non avevo mai visto. Pensate che la mia conoscenza di cinema a 22 anni era minima (non avevo visto neppure un film di Dario Argento!!). Scoprii così un mondo di cui ignoravo l'esistenza, a parte Sergio Leone, Bud Spencer-Terence Hill, il Commissario Nico Giraldi (interpretato da Tomas Milian) e una serie di piccoli film (“Fuga dal Bronx” e “Tentacoli”) che avevo visto da piccolo e che avevano lasciato in me una traccia indelebile per la loro malinconia decadente. Questo mondo di cui ho accennato risponde al nome del CINEMA ITALIANO DI GENERE. Fu per merito di Dario Argento e di Sergio Leone e del loro modo (del tutto alieno a quello commerciale di Hollywood) di riprendere le scene che diventai un autentico divoratore di cinema italiano di genere (prima ancora che Quentin Tarantino lo sponsorizzasse pubblicamente).
Presi a programmare il videoregistatore e a registrare film che passavano a orari assurdi (creandomi una videoteca sterminata che oggi conta quasi 1,800 film), studiando attentamente le trame e le recensioni che li riguardavano. Mi avvicinai all'horror e al thriller, generi che fino ad allora mi ero quasi sempre rifiutato di vedere perché li snobbavo. In poco tempo, grazie alla lettura di centinaia di recensioni, imparai a comprendere il metodo con il quale deve esser visto (e letto) un film, compresi il modo di interpretare le sceneggiature e il linguaggio con cui si traducevano in immagini i contenuti sottintesi a una data trama. Bramoso di manifestare le mie opinioni e condividerle con coloro che mi avevano permesso di sviluppare e apprendere certe cose, e dunque anche per riconoscenza, iniziai a scrivere recensioni su svariati siti (soprattutto su filmtv.it, dove scrivo ancora commenti in pillole).
Fu proprio per questo mio hobby che approdai alla scrittura creativa. Determinante fu una serata (penso nel 2005) in cui a Tirrenia, il paese dove ho sempre vissuto, si teneva una rassegna di cortometraggi horror amatoriali. Ricordo che rimasi piuttosto deluso dalle sceneggiature che valutai, nella quasi totalità dei casi, dei pretesti per dilettarsi in meri esercizi di stile. Giudicai infatti quei lavori piuttosto banali e scommisi con me stesso che sarei stato capace di scrivere soggetti più interessanti.
Dopo i saggi di criminologia e le recensioni cinematografiche, ebbe così inizio la mia terza fase: la scrittura di brevi sceneggiature per ipotetici cortometraggi. Come mio solito, quando mi interesso a qualcosa di nuovo, presi a studiare i vari manuali sulla materia per poi stravolgere i suggerimenti con il fine di adattarli al mio modo non convenzionale di approcciarmi alle cose (come quando a calcio 5 mi allenavo per conto mio con esercizi bizzarri per i miei colleghi di reparto e tenevo una posizione tra i pali del tutto fuori dalla norma, lasciando spiazzati avversari e compagni di squadra ma riuscendo a ottenere ottime prestazioni con tanto di trafiletti sui quotidiani locali). Così presi a scrivere decine e decine di piccole sceneggiature senza preoccuparmi della concreta possibilità di tramutarle in corti. Iniziai anche ad avvicinarmi alla narrativa, perché compresi subito che chi vuol scrivere deve leggere molto.
Fondamentale fu l'incontro con i racconti di H.P.Lovecraft di cui mi innamorai immediatamente, perché scritti con quel gusto decadente e visionario che mi ha da sempre affascinato fin dai tempi in cui, da piccolo, giocavo nelle colonie fatiscenti del vecchio regime fascista o negli impianti abbandonati degli stabilimenti cinematografici Cosmopolitan che sorgevano proprio dietro casa mia. Da Lovecraft poi mi avvicinai a Poe e a tutti gli altri maestri del weird americano e via via sempre più estesi agli autori contemporanei, grazie anche all'amore presto sbocciato per la collana Urania della Mondadori (decisivi, in tal senso, furono Valerio Evangelisti e i post-atomici).
Presto, però, mi accorsi che la possibilità di piazzare le sceneggiature o di confrontarsi con dei colleghi era quasi ridotta allo zero per cento. I registi amatoriali, infatti, sono riluttanti nel portare in scena lavori altrui, preferendo dirigere propri soggetti anche se spesso di una mediocrità sconcertante. Così un giorno, attraverso la lettura di un quotidiano locale (IL TIRRENO), venni a sapere di un concorso che aveva in Carlo Lucarelli il suo principale organizzatore. Il concorso era molto semplice: occorreva scrivere un breve finale a un racconto iniziato da Lucarelli e da Matteo Bortolotti. Decisi di partecipare anche se non mi ritenevo minimamente capace di organizzare un racconto vero e proprio. Scrivere una sceneggiatura, infatti, è molto più semplice che scrivere un racconto, perché si tratta solo di concepire una serie di azioni e trasporle in immagini senza preoccuparsi dello stile narrativo e delle sensazioni interne dei personaggi. Con mia sorpresa, nonché con un pizzico di fortuna (visto che riuscii a scrivere senza commettere quegli errori tipici di un neofita che poi mi avrebbero perseguitato nei successivi testi), riuscii a piazzarmi in terza posizione con tanto di articolo sul giornale (che custodisco in bacheca) e intervista telefonica. Fu un “successo” inatteso che mi spinse ad abbandonare la sceneggiatura per interessarmi alla narrativa e a partecipare ai laboratori di scrittura. Questa, in sintesi, è la genesi di Matteo Mancini “scrittore”.

2) Quali sono gli Autori cui ti sei ispirato durante il tuo percorso?

A questa domanda ti ho in parte già risposto, quando parlavo di Lovecraft e Poe tuttavia nel mio caso l'ispirazione non viene solo dalla narrativa. Con l'andare degli anni, grazie ai vari hobby che mi hanno accompagnato instaurandosi piano piano nel mio tempo libero, in modo che io potessi interessarmi a ciascuno di essi in maniera pressoché unica e totale per poi passare a un altro, ho subito influenze provenienti da vari settori. Più che influenze però le definirei incoraggiamenti morali, nel senso di aver trovato nelle mentalità di taluni personaggi illustri dei piccoli punti in comune al mio modo di rapportarmi e concepire l'esterno. Così ho avuto maestri (da me eletti tali, quale allievo potrebbe esser più fortunato di quello che può scegliersi con coscienza i propri maestri?) provenienti dal mondo della regia cinematografica, della pittura, della narrativa, dello sport, della musica e della filosofia. Dunque una cultura da autentico autodidatta che nulla ha da spartire con quella poca appresa sui banchi di scuola.
Si può dire che le mie ispirazioni nascono da questo mix di studi filtrati dal mio carattere e dalla mia simpatia verso alcuni approcci.
Ti posso dire che, da quando scrivo, ho sempre avuto come punti di riferimento le sceneggiature di GEORGE A. ROMERO e del suo modo di proporre storie di intrattenimento organizzate attorno a un messaggio subliminale ben determinato e spesso di critica sociale, ma anche i testi delle canzoni di EDOARDO BENNATO (uno dei miei cantautori preferiti, tanto per citartene uno), testi spesso apparentemente scanzonati ma di una profondità tutt'altro che banale, e di FRANCO BATTIATO o ancora dello scrittore tedesco GUSTAV MEYRINK o dell'inglese BALLARD (scrittori difficili che costringono il lettore a interpretare ciò che legge e a giungere a conclusioni diverse a seconda della chiave di lettura adottata).
I maestri che mi sono scelto però, come anticipato, riguardano anche settori che, in prima battuta, potrebbero sembrare lontani dalla narrativa ma che invece sono per me molto importanti perché vicini alla mia filosofia (e dunque al mio approccio con la vita in generale). Questi personaggi hanno nella dedizione fino alla mania e nella filosofia libera dalle consuetudini di BRUCE LEE, nella necessità di sviluppare un proprio Io di SOCRATE e KRISHNAMURTI, nonché nella follia e nel coraggio di spingersi oltre il limite di piloti come AYRTON SENNA, GILLES VILLENUEVE e STEFAN BELLOF il loro apice.
Inutile poi dire che con il proseguire degli studi e delle letture nuovi maestri si sono aggiunti agli iniziali, tra essi non posso non ricordare BORGES, BUZZATI e P.K. DICK. Quello che ci tengo a sottolineare, però, è che sono rimasto impressionato da questi personaggi perché ho trovato nel loro modo di concepire l'arte o la loro professione dei punti in comune al mio approccio. Non ho dunque mai inteso scimmiottarli o comunque cercare di rifarmi passivamente alle loro idee. Credo infatti che i miei testi siano molto personali.
Infine, per concludere, talvolta i miei testi sono stati agevolati da dipinti di pittori surreali. Sono infatti dell'idea che guardando certi quadri si riesca a trovare un'ispirazione che altrimenti non si potrebbe avere, quasi come se i dipinti iniziassero ad animarsi proiettando l'osservatore in un contesto onirico e crepuscolare; visto che l'osservatore, nel mio caso, si diletta nella scrittura perché non dovrebbe approfittarne per manifestare i propri viaggi di fantasia condividendoli con i suoi lettori?

3) I tuoi racconti spaziano dall’horror, al weird, al fantastico, alla fantascienza, al western… Rispecchiando i tuoi molteplici interessi e curiosità. Se dovessi privilegiare un filone, dare delle priorità, quale senti a te più congeniale fra i diversi generi in cui ti sei cimentato? E quanto invece senti affini al tuo stile i meccanismi di contaminazione tra generi differenti?

Nonostante chi legga i miei racconti spesso sostenga che io sia portato per il giallo (forse per il mio background in materie criminologiche), io mi definisco “scrittore onirico”.
Mi piace e mi diverte infatti scrivere scene o momenti surreali, caratterizzati da un forte impatto visivo e spesso bizzarro. È chiaro che il tocco onirico assume valenza maggiore in un testo fantastico o weird dove l'autore ha maggiori libertà rispetto ai dati di fatto dettati dall'esperienza del comune vivere. Inoltre in questi tipi di racconti posso dedicarmi a descrivere scenografie distorte spesso utilizzate come veri e propri personaggi aggiuntivi finalizzati a costituire delle chiavi di lettura del testo. Come si può facilmente capire, questa libertà tende ad affievolirsi con la fantascienza, fino quasi a scomparire del tutto con il western e il giallo. Quindi se mi chiedi quali generi io senta a me più congeniali ti rispondo di sicuro l'horror, il weird e il fantastico.
Ciò detto però, come ho discusso varie volte sui forum, ritengo che un genere specifico non possa mai costituire un limite invalicabile per uno scrittore. Come hai giustamente sottolineato, ho scritto racconti di tutti i generi (non hai citato l'erotico e il giallo) perché credo che il genere sia una sfumatura atta a veicolare l'idea e il messaggio che l'autore vuole trasmettere. Quindi, a seconda del genere in cui ci si inserisce, cambierà l'intelaiatura del racconto ma non la sua anima e l'impronta dello scrittore. Ecco dunque che il genere non ha questa grande importanza, perché fondamentale è solo l'anima che sta dietro a un testo. E quest'anima, secondo me, non è tanto la trama ma il messaggio che si cela dietro all'elaborato e su cui il lettore attento può riflettere e trarne le sue idee, magari assumendo punti di vista che in precedenza non aveva mai adottato e dunque vivendo un'esperienza che passa dalla fantasia alla realtà di tutti i giorni.
Per quanto concerne l'affinità con i meccanismi di contaminazione tra i generi ti rispondo ricordando il regista Lucio Fulci (un altro dei miei tanti maestri). Come molti sapranno Fulci era soprannominato “Il terrorista dei generi” perché dirigeva film di ogni genere andando però a contaminarli secondo il suo modo di fare cinema. Fulci diceva: “tento sempre di essere un terrorista del genere, cioè nel senso sto dentro però intanto metto la bomba che tenta di deflagrare il genere” . Ecco, nel mio piccolo, cerco di mettere in pratica l'insegnamento di Fulci, perché credo, come ti ho già detto, che il genere sia un mero veicolo e non un qualcosa che deve imbrigliare lo scrittore costringendolo in schemi prefissati. Gli schemi infatti sono fatti per essere conosciuti, appresi e poi superati in una concezione personalizzata capace di adeguarsi a ogni evenienza e di distinguersi dai canoni convenzionali.

4) Per adesso la tua produzione è stata orientata verso il racconto breve, una forma che prediligi in particolare. Ti misurerai anche con un progetto di scrittura di più ampio respiro?

Se intendi chiedere se mi confronterò con il romanzo da centinaia di pagine ti dico che questa soluzione non è molto probabile, anche se non si può mai sapere.
Sono un fanatico di racconti, specie di fantascienza e horror. Ho la casa costellata da antologie di tutti i generi e amo in modo particolare il formato breve perché un racconto ben scritto è privo di quelle perdite di tempo che vengono invece inserite in un romanzo per far calare il lettore nei personaggi o per rallentare il ritmo al fine di far rifiatare chi legge. Un racconto invece è come salire su un bolide ignorando le marce basse e partire innestando direttamente la quarta marcia per schizzare via a folle velocità senza mai toccare il freno.
La mia concezione del racconto è diversa da quella canonica. Per molti il racconto è un romanzo in miniatura (come diceva, sapendo di mentire perché i suoi racconti erano tutt'altro che romanzi in miniatura, James G. Ballard), ma è un qualcosa di sospeso tra la poesia e la prosa. Nel racconto si deve centellinare tutto, qualunque cosa si scriva deve essere funzionale al risultato finale e non inserita tanto per “fare brodo” o per creare pause. Il racconto di qualità, a mio avviso, impone di scegliere le frasi, di dipingere con la parola, di impressionare il lettore sensibile con metafore dirette a fargli esclamare: “cacchio, che bella frase!”. Tutte queste cose nel romanzo finiscono per essere diluite, perché scrivere un testo lungo con il taglio del racconto renderebbe la lettura troppo pesante con il rischio di indurre i lettori a sospenderla prima di averla ultimata. Quindi, visti i due diversi approcci che ne stanno alla base, credo che uno specialista dei racconti difficilmente sia anche un maestro del romanzo e viceversa.

5) Nei tuoi racconti metafore e simbolismi rivestono un’importanza del tutto peculiare. Puoi accennare qualche considerazione a questo riguardo?

Vero, in quasi tutti i miei testi le metafore e i simbolismi assumono una valenza fondamentale. Molto spesso costruisco i racconti cercando di dar loro un'intelaiatura superficiale capace di avere una vita autonoma e dunque facilmente apprezzabile anche con una lettura poco attenta. Sotto questa superficie, però, cerco sempre di inserire il vero racconto, cioè quello che deve esser interpretato andando a sciogliere i vari simbolismi e le varie metafore (spesso contenuti nelle scenografie) che ho snocciolato per tutto il testo, anche cercando di far emergere più di una soluzione finale. Questo mio stile, talvolta, mi porta a ricevere commenti negativi in cui mi viene detto che il testo risulta essere confuso, ma questa impressione non corrisponde alla realtà.
I testi sono volutamente criptici, perché rimango dell'idea che, come diceva Borges, “un buon lettore è raro quanto un bravo scrittore” e che dunque è compito di chi legge interpretare e personalizzare quanto viene proposto, perché la lettura è un'esperienza personale e deve lasciare margini di scelta a chi legge, altrimenti saremmo nel campo della propaganda che è senz'altro poco stimolante sia per chi scrive che per chi legge. È evidente che il mio è un approccio che può risultare un tantino arrogante, perché ho la pretesa di costringere il lettore a leggere più volte un mio testo, ma penso anche che chiunque si avvicini a un lavoro o a una professione debba, con la giusta dose di umiltà, avere una spiccata dose di coraggio, incoscienza e spregiudicatezza, perché chi si limita ai compitini consuetudinari difficilmente riuscirà a emergere dalla massa.

6) Nel corso del tempo ti sei occupato anche di editing curando la stesura di alcune raccolte di racconti di autori vari. Quanto ti è tornata utile quest’esperienza per la tua attività di Autore?

Ho fatto più volte editing per piccole antologie, soprattutto per dare una mano ad amici o comunque perché ritenevo di esser in grado, in quei contesti, di dare un apporto che avrebbe potuto migliorare il risultato finale. Fare editing è molto difficile e faticoso.
Nella mia esperienza, nonostante le molteplici incazzature (passami il termine), mi è tornato molto utile partecipare ai laboratori di scrittura. Se si capita nel posto giusto si imparano molte cose, anche se spesso i laboratori di scrittura sono templi per personaggi ciechi che si fossilizzano sulla forma e non sono in grado di andare oltre a un'analisi superficiale del testo. L'editing è importante, ma non così fondamentale come si vuol lasciare intendere perché la forma si acquisisce con l'esperienza, mentre è molto più difficile imparare a creare la sostanza. La superiorità della sostanza sulla forma è dettata dal fatto che l'anima di un autore risiede sempre nella sostanza, non nello stile o nel modo di raccontare una storia, è da questa consapevolezza che nasce la mia distinzione tra un autore e un mero narratore.

7) GDS Edizioni ti ha affidato l’incarico di selezionare e supervisionare i testi per un inserto semestrale di racconti fantastici e a tema. Qualche anticipazione al proposito?

La GDS Edizioni è sempre stata molto carina con me, da quando ho vinto un concorso organizzato dalla stessa con il racconto “Il ritorno del gatto nero” (omaggio personalizzato sia a Poe che a Fulci). Mi ha manifestato più volte fiducia pressoché incondizionata, fino a pormi l'idea di questo progetto.
Sto lavorando in questi giorni per preparare il primo numero (penso uscirà in Estate). L'idea è quella di creare un piccolo angolo dedicato a racconti horror non commerciali caratterizzati da un alto tasso di bizzarria e onirismo, possibilmente con un apprezzabile contenuto di fondo. In aggiunta ai racconti si parlerà anche dei grandi maestri del genere e di recensioni sempre a tema, spero anche di coinvolgere professionisti con interviste e pareri (purtroppo però molti si tirano indietro per i loro impegni lavorativi).

8) Come lettore, quali sono i criteri cui ti affidi per giudicare la buona qualità di un pezzo, cosa distingue a tuo parere un buon racconto, degno di pubblicazione, da un racconto di altissimo livello?

Di sicuro, a differenza dalla maggioranza delle persone, non mi affido al gusto personale. Ci possono essere infatti dei racconti che personalmente amo follemente ma che non definirei mai dei buoni racconti in senso oggettivo.
Credo che i criteri di valutazione debbano essere oggettivi. Valutare seriamente un testo, a mio avviso, richiede un'analisi chirurgica del racconto. In pratica è come analizzare un'autovettura e per farlo si deve scomporre il testo in più parti (le componenti dell'autovettura) e sforzarsi di capire cosa lo scrittore abbia cercato di dire e perché abbia scelto un certo stile piuttosto che un altro. È chiaro che un testo che ha uno stimolo di fondo, a mio avviso, è quasi sempre oggettivamente superiore rispetto a uno di mero intrattenimento perché non sarà mai un semplice esercizio di stile, ma si proporrà di affrontare con piglio critico una certa problematica con l'intento di spingere il lettore a riflettere.
La differenza quindi che c'è tra un buon racconto e un racconto di altissimo livello ricade sempre su quell'anima di fondo di cui ho parlato nelle precedenti risposte. Un racconto di altissimo livello non è mai vuoto, ma contiene una profondità che va oltre la trama e i personaggi i quali non sono il fulcro della vicenda ma dei veicoli indispensabili per diffondere l'idea di base e denunciare certe situazioni o cercare di far riflettere su problemi di carattere storico-sociale. Contrariamente a quanto si voglia far credere in quest'epoca consumistica, l'arte deve essere espressione del pensiero, non una produzione da allevamento diretta a rincitrullire col divertimento chi legge con il solo fine di fare cassa. A mio avviso, da consumatore di vecchi B-Movie, si può e si devono unire le due cose con l'obiettivo di divertirsi, ma ragionando e imparando.
È chiaro che questa mia concezione presuppone l'esistenza di lettori attivi, con una certa esperienza alle spalle, e non di soggetti passivi che leggono con il tempo cronometrato in cerca di divertimento spiccio.

9) Chi ti conosce sa che la tua produzione è improntata su criteri molto lontani dal compiacimento e dall’inseguimento forzato del riscontro commerciale… Ma qual è (se c’è) l’obbiettivo più ambizioso che ti prefiggi, anche a lungo termine, nella tua attività di scrittore?

Sposo in pieno una massima di un piccolo autore americano (David Morrell) che, in un racconto relativo ai quadri di un pittore folle, arriva a scrivere: “Un grande artista usa il colore che gli dà l'effetto migliore. Quello che vuole è creare, non vendere” .
Penso che questa teoria assuma un'importanza maggiore in un contesto amatoriale. A mio avviso, volersi uniformare alle logiche di mercato per un amatore è una follia totale perché chi si rivolge all'undergorund lo fa per cercare prodotti alternativi a quelli imposti (perché di fatto sono imposti) dalle grandi catene commerciali. Dunque lo scrittore amatoriale deve distinguersi dalla massa e deve proporre storie che lo caratterizzano in modo netto. Nell'underground si deve puntare alla nicchia e non alla massa, perché altrimenti l'aspirante scrittore avrà già perso in partenza (chi cerca storie convenzionali si rivolge a scrittori già affermati e non va certo all'avventura in cerca di novità).
Personalmente non mi pongo mai obiettivi a lungo termine, perché faccio le cose cercando di divertirmi e sempre in un modo del tutto personalizzato e fuori dagli schemi. Quello che mi interessa è convincere me stesso di aver lavorato bene, del resto mi importa poco. Ciò a cui si deve ambire, in quello che si fa, è acquisire la sicurezza utile per evolversi e non fermarsi al cospetto degli ostacoli che di volta in volta si presenteranno sul proprio cammino. Non sono importanti le onorificenze o i riscontri venali, ma la consapevolezza di saper fare una certa cosa perché è solo da tale consapevolezza che nascerà quella follia che spinge a fare cose che gli altri non si sognerebbero di fare. E il sogno altro non è che la benzina che fa muovere la macchina della vita verso futuri traguardi.

Quali che siano allora i prossimi traguardi all’orizzonte ti auguriamo di raggiungerli tutti! Grazie per la disponibilità e il tempo che ci hai dedicato e a presto, Matteo!

lunedì 14 novembre 2011

Recensione: IL VANGELO SECONDO SATANA - Patrick Graham





Autore: Patrick Graham
Anno: 2007
Genere: Horror/Thriller
Editore: TEA
Pagine: 512
Prezzo: 8.90 euro

Commento di Matteo Mancini
Romanzo dato alle stampe nel 2007 in Francia da Patrick Graham, capace di vincere al suo debutto il "Maisons de la Presse" e di vendere in Italia oltre 50.000 copie tanto da spingere l'autore a scrivere subito un sequel (di minor successo) intitolato "L'apocalisse secondo Marie"
Appassionato di storia e dello studio di religioni, Graham struttura il suo romanzo strizzando più di un occhio a Dan Brown e più nello specifico al romanzo "Angeli & Demoni" .

I punti di contatto tra le due opere sono decisamente marcati e le similitudini piuttosto evidenti. Ancora una volta si assiste a un complotto nato in seno al Vaticano per sovvertire la Chiesa e smascherare una menzogna (nella fattispecie relativa alla resurrezione del Cristo, che in realtà non sarebbe mai avvenuta). Graham non si limita a questo, ma come Brown pone al vertice del complotto il Camerlengo (figura improvvisamente diventata affascinante nell'immaginario dei romanzieri) con tanto di omicidio del Papa avvenuto ancora una volta per avvelenamento (fatto passare, come nel già citato romanzo di Brown, per morte naturale) e successivo conclave (con rapimento questa volta dei parenti dei cardinali e l'uccisione di alcuni di loro). Non manca infine qualche richiamo ai Templari e soprattutto agli Illuminati, visti come il braccio armato della "Fumata nera di Satana" (gruppo qua protagonista e veneratore non già della scienza bensì del maligno).

E allora se il romanzo è tanto debitore dell'opera di Brown, perché ha suscitato così tanto interesse?

A mio avviso la risposta va ricercata nell'introduzione da parte di Graham di una forte componente horror nonché nell'aver introdotto uno sviluppo della storia più blasfemo di quello pavimentato da Brown.

Tutto ruota attorno a un vangelo apocrifo andato perduto: "Il vangelo secondo Satana". In questo testo, che viene caratterizzato in stile Necronimicon (foderato in pelle umana e dal contenuto così scioccante da indurre a pazzia chi lo legge), si afferma che Cristo sulla croce avrebbe rinnegato Dio trasformandosi in Giano (ovvero ne il figlio del diavolo, decretando la morte del bene). La metamorfosi sarebbe stata talmente brutale e rabbiosa da costringere i romani a uccidere il figlio della bestia a sprangate pur di placarne l'impeto e la rabbia sulla croce. Giano/Gesù non sarebbe quindi risorto, ma rinchiuso in un sepolcro e successivamente recuperato dai Templari. Il suo teschio sarebbe poi finito secoli dopo nelle mani di alcune suore di clausura incaricate di custodire in segreto i testi vietati dalla Chiesa (tra cui il Vangelo secondo Satana) nonché i resti di Giano.
Fin dall'inizio i seguagi di Giano si sarebbero moltiplicati in tutto il mondo, soprattutto in seno alla Chiesa, giungendo persino in Sud America svariati secoli prima di Colombo e dei conquistadores, iniziando Maya e Atzechi al culto del diavolo. Nel mentre, un gruppo di monaci satanici condotti da un essere immortale chiamato Caleb, nel tentativo fallito di entrare in possesso del Vangelo, si sarebbero macchiati di atroci delitti a danno di suore e di chiunque fosse stato incaricato di nascondere il libro.

Questo in estrema sintesi il soggetto del romanzo, che viene sviluppato grazie a escamotage come le capacità sensitive della protagonista - un'agente dell'FBI, incaricata di indagare su una catena di omicidi internazionali a danno di suore, in grado di entrare in trance e assistere a episodi verificatesi persino nel Medioevo immedesimandosi nelle vittime (prabilmente la parte di maggior effetto del romanzo, in cui Graham si dimostra assai talentuoso nel suscitare tensione) - e la scelta di ambientare il plot in svariate parti del mondo (si va dall'Africa alla giungla Amazzonica nei pressi di Manaus, per chiudere in Italia e più nello specifico a Roma).

Il limite principale del romanzo, a parte i fin troppo evidenti richiami a Dan Brown (che sicuramente ne minano l'originalità), sta nell'insistente ripetitività (si torna troppe volte sulle stesse vicende, anche se trattandole in modo via via più completo e da punti di vista diversi) e nella scarsa capacità dell'autore nel generare attrazione in chi legge. Mi spiego meglio. Mentre nel romanzo di Brown il testo si sviluppava in modo essenziale, quasi ridotto all'osso e con l'unico scopo di stimolare il lettore nel chiedersi chi fosse l'assassino, quali fossero i personaggi che orchestravano il complotto nonché cosa sarebbe successo nell'evolversi dei fatti, in quello di Graham questo non avviene o comunque si rivela assai ridimensionato. Tutto è eccessivamente diluito e la natura del completto nonché i segreti che ne stanno alle spalle vengono subito dati in pasto al lettore fin dalle prime battute. Ne deriva un calo vertigionoso di quella suspence che invece sarebbe stata opportuna mantenere.
Trovo inoltre fuori luogo, perché appesantiscono la lettura, i capitoli in cui Graham si sofferma sugli aspetti prettamente criminologici fornendo classificazioni non corrette (parla dei "Cross nation" , così vengono definiti in criminologia i serial killer che si spostano da un luogo all'altro complicando così le indagini e costringendo gli inquirenti a individuare quello che viene definito il "case linkage" , come una categoria criminologica a sé stante distinta dai serial killer quando invece si tratta esclusivamente di un modus operandi proprio di alcuni delinquenti seriali).

Nonostante gli importanti limiti il romanzo non crolla solo per la bravura di Graham che sforna alcuni passaggi densi di tensione e di un tocco visionario veramente da grande maestro (soprattutto la parte di romanzo ambientata in Sud America e quella ambientata nel medioevo dove si evocano atmosfere da Heroic Fantasy) e con punte splatter niente male per un testo commerciale.

Dunque un romanzo copioso che, a mio avviso, avrebbe beneficiato del taglio di almeno 100/150 pagine, con troppi debiti a "Angeli & Demoni" ma scritto con grande coraggio e con momenti horror (senz'altro gli aspetti più interessanti del testo insieme all rapporto Giano/Gesù, rispetto al già visto intreccio incentrato sulle cospirazioni vaticane) che ne valgono la lettura. Blasfemissimo, non indicato ai religiosi suscettibili. Voto: 6

sabato 8 ottobre 2011

Aforismi Matteo Mancini, "terzo episodio"



Riflessioni varie del sottoscritto sintetizzate in undici aforismi che pubblico qui per condividerli, ma soprattutto perché altrimenti finirei col perderli.

1) "L'arte dell'autocoscienza è la più geniale forma di scienza" (Matteo Mancini)

2) “Quando si insegna qualcosa a qualcuno, se si vuol far sì che questo qualcuno riesca a sviluppare se stesso, la prima cosa da insegnare è acquisire autocoscienza e non caricare di nozioni e metodologia come invece si è soliti fare. Le nozioni e la metodologia sono aspetti secondari, mentre l'autocoscienza è propedeutica rispetto a qualunque insegnamento perché è la madre di qualunque comportamento senziente” (Matteo Mancini).

3) “I comportamenti e gli approcci non devono mai essere demandati al caso o alle consuetudini, ma tenuti ben saldi come le redini di un cavallo. Se vi fate scarrozzare da cavalli imbizzarriti potreste finire in un dirupo, solo la coscienza profonda di voi stessi, e non il destino, vi condurrà dove vorrete arrivare” (Matteo Mancini).

4) “Non metterete mai a frutto le potenzialità derivanti dalla vostra autocoscienza se vi farete condizionare dai comportamenti e dai giudizi altrui che spesso sono diretti a frenarvi e a minare il vostro ego” (Matteo Mancini).

5) “Chi non capisce il significato delle proprie azioni e delle proprie emozioni corre l'inevitabile rischio di finire imbrigliato dalle inibizioni e dagli schemi imposti dagli altri, perché la mancanza di autocoscienza favorisce la sfiducia in se stessi: È sicuro solo chi sa cosa deve fare e sa cosa deve fare solo chi ha autocoscienza” (Matteo Mancini).

6) "Chi impara a conoscere profondamente sé stesso avrà la possibilità di superare i propri limiti e otterrà la chiave per aprire gli scrigni che celano le corazze difensive o le sembianze mendaci erette attorno all'anima delle persone che lo circondano. L'autocoscienza vi darà la dote di guardare dentro gli occhi degli interlocutori, di osservarne i movimenti e le gestualità e di scorgere in essi barlumi di anima, sia essa nobile o malvagia. L'autocoscienza è una dote non di poco conto: ricercatela e promuovetela” (Matteo Mancini).

7) La professionalità e la serietà di un individuo si riflettono in qualunque cosa egli faccia. Non esiste una professionalità o una serietà settoriale. Diffidate da chi si manifesta carente in una settore specifico della vita di tutti giorni e non fa nulla per migliorare, poiché spesso farà lo stesso anche nel resto. La serietà e la professionalità sono qualità che si estendono a 360 gradi, perché costituiscono l'approccio con cui un individuo affronta la vita. Dunque chi vi dirà di impegnarsi di più in qualcosa piuttosto che in qualcos'altro a cui comunque si dedica si autodefinisce non serio e non professionale,senza alcun margine di fuga" (Matteo Mancini)

8) "Le mezze misure sono un'ipocrisia: quando si fa qualcosa lo si deve fare puntando al massimo, altrimenti è bene dedicarsi a qualcos'altro poiché il tempo è un bene che non va mai buttato; esso è limitato per definizione, neppure il denaro lo può quantificare" (Matteo Mancini)

9) "Chi osserva troppo cosa fanno gli altri, spesso, spreca l'occasione per concentrarsi su se stesso, con spiacevoli risultati futuri." (Matteo Mancini).

10) “Per vivere felici, bisogna cercare la via di divertirsi in qualunque cosa si faccia. Il divertimento può andare di pari passo con la professionalità e la serietà, dunque è poco efficiente volerlo confinare nella sfera dei giochi o dei passatempo. Il divertimento deve stare al vertice della vostra piramide e va ricercato, in un modo o nell'altro e sempre nel rispetto degli altri, in qualunque cosa si faccia, lavoro compreso. Solo la malattia può allontanare il divertimento, mai il resto. (Matteo Mancini)

11) Il divertimento di un singolo, in qualunque campo si manifesti, contagia la massa di coloro che hanno a che fare con quel singolo e porta all'incremento delle prestazioni collettive. Il divertimento delle persone è dunque un interesse collettivo da ricercare e promuovere in ogni contesto” (Matteo Mancini).

lunedì 3 ottobre 2011

Recensione saggi sportivi: IL PICCOLO AVIATORE - Vita e Voli di Gilles Villeneuve (Andrea Scanzi)





Autore: Andrea Scanzi
Anno: 2002
Editore: Limina.
Pag: 158
Prezzo: 12 euro

Commento Matteo Mancini


Con "Il piccolo aviatore" ha inizio la ricerca di monografie dedicate ai miei personaggi sportivi preferiti. L'obiettivo è quello di dedicare una parte della mia biblioteca ai miei modelli sportivi.

Sebbene io non sia un ferrarista, non potevo non iniziare da quello che è il mio sportivo preferito di sempre (a pari merito con Bruce Lee), un personaggio per cui stravedo: Gilles Villeneuve. Così mi sono imbattuto in questo libro firmato da Andrea Scanzi, un giornalista con la passione per lo sport in generale, ma anche per la musica e la narrativa (passioni che si evincono in modo netto anche dalla lettura di questo lavoro).

L'opera è divisa in ventisette capitoli (in onore al numero della monoposto pilotata da Villeneuve) che ci presentano Gilles a 360 gradi, dai suoi successi con le motoslitte, passando per il debutto nella Formula Atlantica per arrivare all'approdo tribolato in Formula 1 avvenuto su McLaren (perchè Gilles diceva sempre che un buon pilota non dovrebbe mai debuttare su una monoposto di secondo ordine, a costo di non debuttare mai perché la pazienza di scrutare il talento di un uomo è prerogativa di pochi eletti - Enzo Ferrari sarà uno dei pochi a farlo con Gilles, in McLaren gli preferiranno Tambay).

Scanzi ci parla del Villeneuve privato, della sua bramosia di correre anche per le strade pubbliche (distruggerà ben tre autovetture del padre), del suo amore per la velocità in ogni contesto in cui essa si potesse sviluppare (dalle auto, alle barche, fino agli elicotteri per terminare con la pazzesca sfida di velocità, vinta da Villenueve sulla pista di un aeroporto, tra la sua Ferrari e un Jet militare), dell'amore per il lusso (spendeva soldi a raffica comprando oggetti inutili e intere vagonate di riviste su motori, perché temeva che la morte lo avrebbe potuto rapire presto), dell'ossessione di perdere la vista e i capelli e infine del suo profondo attaccamento alla famiglia dalla quale si faceva seguire in ogni parte del mondo facendola alloggiare all'interno di un mega camper (era l'unico pilota a fare una cosa del genere).

Non mancano approfondimenti sulle doti caratteriali di Gilles, sul suo lato introverso, triste (anche quando vinceva era raro vederlo raggiante sul podio) e sulla sua onestà disarmante, per nulla offuscata dall'irruenza con cui attaccava in pista avversari mandandoli spesso a muro e suscitando le critiche dell'intero circus che lo bollava come "pilota pericoloso e spericolato" (sarà merito solo della caparbietà e della lungimiranza di Enzo Ferrari se Gilles non verrà licenziato dalla Ferrari).

Scanzi, da grande appassionato, non perde occasione per citare altri piloti che con Villeneuve hanno intrecciato la loro vita (ci sono capitoli dedicati a Ronnie Peterson, a Didier Pironì - e la maledizione che lo perseguitò a partire dal tradimento di Imola - ad Amon, a Purley ed altri ancora), inoltre regala aneddoti anche su personaggi eroici e fuori dagli schemi filosoficamente vicini alla figura del pilota canadese come il pugile Muhammad Alì.

Ciascun capitolo è preceduto da una citazione musicale, spesso ripresa da canzoni di Ivano Fossati, Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber o Bruce Springsteen.

Lo stile è sobrio, efficiente e scorrevole. Ne deriva una lettura spassosa per gli amanti della formula 1 (e non solo), impreziosita da frasi storiche di Gilles e dai ricordi di chi con Villeneuve ha condiviso parte della vita.

Scanzi torna spesso sulla immaturità consapevole di Gilles nonché sui suoi eccessi studiati quasi a tavolino. Consapevole perché basata su un ragionamento filosofico piuttosto palese. Villeneuve non voleva snaturarsi era fedele a se stesso e mai avrebbe potuto modificare il proprio atteggiamento a beneficio di una condotta più conscienziosa ma al tempo stesso castrante e ipocrita; perseverava nella sua filosofia estrema distruggendo veicoli, buttando al vento punti preziosi e rinunciando alla vittoria finale pur di cercare di strapparne una parziale. Questo era il suo spirito, una spinta che lo portava sempre a pretendere il massimo e a non arrendersi mai anche quando non c'erano più le condizioni per andare avanti o quando sarebbe stato matematicamente preferibile alzare il piede dall'acceleratore.
"Non mi importa niente del mondiale, a me interessa correre" era solito dire a chi gli chiedesse spiegazioni.

Questo atteggiamento venne e viene tuttora giudicato come il suo punto debole, per altro non contrastato da chi gli stava intorno, a partire da Enzo Ferrari che con lui aveva un rapporto quasi paterno (c'è un capitolo anche dedicato a questo).
Sul punto è emblematica un'intervista di Clay Regazzoni riportata all'interno del saggio: "Villeneuve era unico. Aveva potenzialità enormi. Potenzialità rimaste in parte inespresse. Ha vinto poco per quel che valeva. Avrebbe avuto bisogno di qualcuno che avesse avuto il coraggio di sgridarlo, di dirgli cosa andava fatto e cosa no. Aveva bisogno di un uomo capace di gestirgli il talento, ma a Maranello nessuno si permetteva di criticarlo. Ferrari lo viziava, gli concedeva tutto".

Pareri del genere saranno poi espressi anche per un altro immenso e sfortunato pilota che, come Villeneuve, troverà la morte in un folle e ardito sorpasso durante una gara del mondiale DTM: STEFAN BELLOF (guarda caso, pare che lo stesso Enzo Ferrari - amante dei piloti estremi alla Tazio Nuvolari - lo avesse opzionato per portarlo alla Ferrari per la stagione 1986).
Lo stesso Lauda, nello scagionare la manovra di Moss che portò al volo fatale di Villeneuve, disse: "solo Villeneuve poteva scegliere l'azione più rischiosa, cercando di superare una macchina più lenta seguendo la traiettoria più difficile".

Sul punto potrebbe essere interessante discutere sul quesito che lo stesso autore pone a se stesso ovvero se abbia un senso esigere raziocinio da chi senza follia non potrebbe vivere. A mio avviso la risposta a tale domanda non può che essere negativa. Villeneuve, così come Bellof, correva per il gusto di divertirsi, per la necessità di superare sé stesso e di farlo in un modo personalizzato, unico, fuori completamente dagli schemi poiché solo in tal modo poteva rappresentare veramente la propria personalità (da qui le varie prodezze sempre oltre il limite immaginabile per i colleghi). Pretendere di ricondurre questi soggetti all'interno dei ranghi convenzionali significherebbe violentarli e portarli a un deterioramento delle loro prestazioni, poiché senza divertimento e senza una sfida (con se stessi), finirebbero anche i loro stimoli e la voglia di continuare a correre.

Il libro offre anche curiosità singolari come i trucchi adottati da Gilles per partire più velocemente al momento della partenza (era considerato un maestro in questo, capace di recuperare manciate di posizioni in pochissimi metri). L'aviatore infatti, prima della gara, era solito far slittare le gomme nel punto in cui sarebbe dovuto partire in modo da gommare l'asfalto e avere così maggiore aderenza.
"Tutti dicono che sono un temerario, perché ancora prima della gara faccio delle prove sulla linea di partenza, sgommando e lasciando dei segni neri sull'asfalto. La credono una follia, ma è una follia molto utile" confessò una volta ridacchiando sotto i baffi.

L'opera si chiude con un Gilles Villenueve disilluso, deluso per il naufragio (dovuto al ritiro di alcuni sponsor che lo utilizzarono per ragioni speculative) del progetto di creare una scuderia tutta sua dove far correre il fratello, tradito da Pironì, in rotta con la moglie, in polemica con la Ferrari (colpevole di non averlo difeso a dovere dopo il tradimento di Imola operato da Pironi) e abbandonato quasi al suo atroce destino e a una morte che sentiva sempre più vicina: "chi ti dice che il prossimo anno io sia ancora qui?" rivelò al suo manager pochi giorni prima di morire. Presagi terrorizzanti che caratterizzeranno anche la fine di Senna (basta vederlo, spento, rassegnato, prima della partenza del gran premio - ancora una volta - di Imola).

L'epilogo del saggio però Scanzi lo dedica, con quella che in un album musicale si potrebbe definire una doverosa bonus track, al figlio Jacques Villenueve e all'impresa mai riuscita al padre: la vittoria del titolo mondiale. Un'impresa però che non darà a Jacques quell'amore incondizionato che i tifosi tributavano al padre, a quella figura triste e malinconica che gettava il cuore oltre all'ostacolo. Un uomo coraggioso capace di compiere giri su tre ruote o senza alettone anteriore, di duellare a colpi di ruote sulle fiancate dell'avversario e di compiere manovre al limite del pensabile; un pilota così folle da varcare il confine della genialità in un volo costante verso le stelle che tappezzano il firmamento.
Lettura consigliata. Voto: 7.5


PS:

Chiudo con un passaggio chiarificatore del personaggio Villeneuve ripreso da uno stralcio riportato da Scanzi al termine del libro e firmato da Pierangelo Sapegno:
"Gilles era come un figlio dei fiori, era un naif della velocità, era uno che offriva la sua vita fuori dai tempi e fuori dagli schemi, era Harry il coniglio di John Updke che non aveva tradito la sua giovinezza.
Era il riscatto di tutti quelli che non avevano avuto il coraggio di restare sempre uguali a se stessi, alla propria giovinezza, alle passioni del cuore. E' solo vissuto per gli altri, inutile com'era la sua corsa e com'erano i suoi ideali, spettacolare com'era la sua velocità, sconfitto come lo erano stati tutti i suoi fratelli di vita, quelli che lo adoravano come uno di loro. E' morto come aveva vissuto, dando tutto in un inutile sorpasso.
Quelli che non cambiano sono una memoria, uno sguardo struggente sul passato. Villeneuve è stato anche questo, perché è rimasto sempre uguale al suo sogno, morendo come un bambino, sparato contro il suo gioco.
Villeneuve è la nostra parte ribelle, che ha paura della morte ma che la cerca, è la nostra voglia di avventura, di scappare.
Nessun pilota è stato tanto amato vincendo così poco, il coraggio di Villeneuve non era roboante ma fatto di generosità. Il suo grande cuore era nascosto dietro quella faccia di bambino indifeso. Gilles era davvero un umile, non si era costruito così, non posava mai. Si tirava da parte appena poteva. Solo Senna, dopo, sarà ricordato come lui, ma Senna aveva vinto tutto. Solo la forza, la ribellione e l'intelligenza di Cassius Clay possono essere paragonati alla fine, triste e leggendaria, di Villeneuve."


Qua uno dei video tributo dedicati a Gilles
http://www.youtube.com/watch?v=qrnzPhwM8iQ

sabato 1 ottobre 2011

Recensione Narrativa: CAMBIO DI STAGIONE (Maurizio Cometto)




Autore: Maurizio Cometto.
Anno: 2011
Editore: Il Foglio Editore
Pag.: 270.
Prezzo: 15.00

Commento Matteo Mancini:
Dopo l'ottima antologia "L'incrinarsi di una persistenza", Maurizio Cometto - scrittore di punta della collana "fantastico e altri orrori" delle edizioni Il Foglio di Gordiano Lupi - torna a proporre un lavoro tutto suo e lo fa in un modo decisamente originale.

Presentato come un romanzo, "Cambio di stagione", in realtà, è un'antologia di racconti che sarebbe piaciuta molto a Gustav Meyrink. I testi, difatti, sono incatenati tra loro in un percorso iniziatico finalizzato al superamento (seppur inconscio) della morte e delle svariate dimensioni parallele che, secondo l'autore, strutturerebbero la realtà che ci sta intorno. A quest'ultimo riguardo è curioso il rapporto che c'è nel racconto "Sogni" tra Fabrizio, il protagonista di tutte le storie, e il suo alter ego Maurizio (credo che questo nome non sia casuale), quasi a sottolinerare un'immedesimazione dell'autore col suo personaggio.

Il lettore, anche se lo scoprirà solo con l'ultimo racconto (a mio avviso il migliore del lotto), è alle prese con un'opera che, seppur basata su argomenti diversi, rievoca il nucleo centrale del film "La nona porta" di Roman Polanski, sostituendo però alle tavole del pittore Aristide Torchia dei veri e propri racconti (che poi, nell'ultimo elaborato, diventeranno dei geroglifici da interpretare proprio come quelli del film).

Abbiamo così nove storie (come nove erano le tavole del film di Polanski) apparentemente l'una scollegata dall'altra, fatta eccezione per i personaggi e il contesto ambientale (la Torino contemporanea) che restano costanti. La particolarità sta nel fatto che queste storie si sviluppano da una base di partenza comune per proiettarsi in contesti, di fatto, paralleli e indipendenti in cui interviene un elemento paranormale a stravolgere la quotidianità.

Troviamo così in "Lo smeraldo a Porta Nuova" una luce verde (prestate attenzione alla chiusura dell'antologia dove il verde riemerge dall'occhio di un gatto quasi a voler suggerire il rinnovarsi del cammino che il lettore e il protagonista hanno percorso, a sottolineare, per l'ennesima volta, quel circolo vizioso presenza costante di tutte le nove storie) che induce tutti gli operai a dimettersi (testo piuttosto carpenteriano che mi ha ricordato il film "Essi vivono") e poi gatti che scompaiono nel nulla e miagolano dalla cornetta di un telefono (omaggio, più o meno, volontario a Matheson e al suo "Una chiamata dal lontano") e ancora una bizzarra lotta contro un tumore che sembra svilupparsi, oltre nel corpo di una donna, anche all'interno di una fermata ferroviaria e via proseguendo con una marcia dei mille rovesciata (quindi dal sud verso il nord) per contrastare l'ascesa della Lega Nord (una vera chicca intitolata "I restauratori") e chi più ne ha più ne metta.

Tutti i testi sono intrisi da un forte impatto metaforico. La disillusione e il pessimismo (fondato) di Cometto emergono in modo netto e marcato. Così viene a galla la crisi del capitalismo occidentale (non è forse un caso che Anubi, ovvero la divinità che ha il controllo sul sistema, venga definito "Il signore dell'occidente") con tutte le relative conseguenze: le fabbriche che chiudono travolte da vortici interni ("Centrifuga lunga"), corse al potere che generano invidie che travolgono vecchie amicizie ("Cambio di stagione"), tentativi di sovvertire il sistema politico e crisi dei valori interiori che si manifestano con la cancrena dell'anima ("Necrosi").

Non mancano le citazioni, sia musicali, narrative e cinematografiche (curiosa la filastrocca del racconto "L'altra casa" che pare citare quella del film di Dario Argento "Non ho sonno" che guarda caso era ambientato proprio a Torino).

Lo stile è asciutto, privo fronzoli e virtuosismi e senza disdegnare pennellate oniriche. Tra i testi più visionari sono da menzionare "L'invisibile battaglia" (belle le descrizioni del tumore che aggredisce le mura di una stazione deserta) e "L'angelo della morte" (autentico delirio - seppur lucido - metafisico, spiriturale e filosofico con Cometto che porta in scena Anubi, mummie e amuleti per teorizzare l'esistenza di una dimensione zero come via per vincere la morte, in una sorta di omaggio ribaltato a "Il signore del male" di Carpenter da cui si mutua il concetto del sogno premonitore proveniente da un'altra dimensione e anche il passaggio da una dimensione all'altra sostituendo però lo strumento del trapasso dallo specchio alla televisione).

A trovare qualche neo, forse, si potrebbe sostenere che alcune storie si sviluppano troppo lentamente, ma ciò è imputabile a una scelta chiara e ben definita di Cometto. L'autore infatti predilige sviluppare le sue storie con una prima parte blanda e tranquilla per poi far salire la tensione fino al delirio finale.

Tra i testi dell'editoria fantastica indipendente (e non solo) - credo di poter dire - "Cambio di stagione" è l'antologia più brillante e matura che mi sia mai capitato di leggere. Un testo che miscela narrativa fantastica a una certa atmosfera esoterica/spirituale con un tocco di contemporaneità che riflette la crisi di una società ormai giunta sull'orlo del collasso. Lettura più che suggerita per un autore che merita il grande salto nell'editoria professionista. Voto: 8.5

lunedì 26 settembre 2011

Trenta aforismi firmati Matteo Mancini



Una trentina di aforismi scritti di getto dal sottoscritto in attesa della partenza per Merano. Sono stati scritti sulle panchine della stazione dei bus su fogli di fortuna recuperati nel mio marsupio dove trovano spesso dimora estratti conti e ricevute di bonifici bancari.

Via con gli aforismi.

1) "Chi vi critica in modo non costruttivo è un vostro ammiratore, ma ancora non lo sa perché è accecato dall'invidia" (M.Mancini)

2) "L'imprevidibilità è la traduzione realistica dei sogni: lascia le persone in sospeso tra paura e desiderio; fa battere i cuori, li lascia in trepidazione, confidando nella realizzazione dei progetti più bramati. Per questo l'imprevidibilità deve essere la vostra qualità principale, poiché ogni uomo, per essere e rendere felici gli altri, deve esser benedetto dalla luce del sogno" (M.Mancini).

3) "Non c'è peggior paura e allo stesso tempo di interesse del diverso, perché ciò che non si conosce non si può prevedere" (M.Mancini).

4) "Non ti fossilizzare mai su un solo argomento. Studia più materie, vai nel loro profondo e poi cambia e passa oltre. Non fare mai le cose per compartimenti stagni. La capacità di sintesi in un unico nucleo deve essere il tuo fine. Tutto è riconducibile a un'unità. Te sei un'unica persona, non uno psicologo per 1/4 della giornata, un filosofo per un altro quarto, un professore e un matematico per il resto. No, di certo. Te sei tutte queste cose messe insieme, per questo motivo la sintesi deve essere il tuo approccio alle cose. Usa tutte le conoscenze che hai acquisito in ogni singolo campo e applicale tutte insieme per affrontare la vita" (M.Mancini).

5) "Hai paura? Probabilmente perché non conosci la causa della tua paura. Se la conosci, invece, agisci e non temere di cadere. Solo chi cade impara qualcosa" (M.Mancini).

6) "Non fare mai qualcosa sperando di ricevere una ricompensa, ma fai ciò che ritieni giusto fare. La tua ricompensa deve essere quella interiore." (M.Mancini).

7) "L'unico giudice davvero importante per giudicarvi è quello che avete dentro di voi, ma ricordate: ogni giudice che si rispetti deve prima documentarsi e studiare le carte, poiché nessuno nasce saggio" (M.Mancini).

8) "L'adattamento è la più nobile forma di intelligenza, perché permette di ottenere il massimo da ogni cosa o persona che vi circonda. Dunque non siate mai rigidi nei vostri comportamenti, ma flessibili in modo da adeguarvi a ogni situazione" (M.Mancini).

9) "Non deve essere la fede o la politica la vera forza di un uomo, ma la fiducia in se stessi" (M.Mancini).

10) "Non permettete mai a nessuno di farvi chiudere in voi stessi. Imparate a valutare solo le critiche costruttive, gustatevi invece quelle gratuite poiché non è da tutti esser criticati senza alcun costrutto" (M.Mancini).

11) "Chi va in cerca di sesso facile è come un cacciatore che si dice soddisfatto di andare a caccia di animali legati a un albero in una prateria dove sono stati abbattuti tutti gli altri alberi" (M.Mancini).

12) "L'attrazione fisica è una scintilla che può scatenare una fiammata, ma l'incendio lo potrà dare solo la complicità mentale e un piromane che si accontenta di una fiammata è un piromane frustrato". (M.Mancini).

13) "Riuscirete ad avere successo in qualsiasi campo della vostra vita nel momento in cui inizierete a essere voi stessi senza farvi influenzare da nessuno. Questo perché essere sé stessi è la via per differenziarsi con onestà e bellezza dall'appiattimento generale" (M.Mancini).

14) "Ricorda: le persone che hai intorno non ti insegneranno mai a essere te stesso, perché cercare di trovare se stessi comporta il percorrere un percorso simile a un filo sospeso nel cielo e la paura degli altri di vedervi cadere nel baratro è un'angoscia troppo grande per spingervi nella ricerca. Ciò che in molti non sanno, però, è che quel filo è solo immaginario ed è stato tracciato da chi intende rendervi conformi per potervi meglio controllare" (M.Mancini).

15) "Le catalogazioni e gli schemi prefissati hanno il compito di uccidere l'imprevedibilità, col fine di ergersi a tiranni controllori che uniformano tutti e tutto" (M.Mancini).

16) "Mai visto uniformare qualcosa verso l'alto, si livella sempre e solo verso il basso poichè è la media matematica lo strumento che uniforma" (M.Mancini).

17) "Uniformare è contronatura, aiutare gli altri a distinguersi facendo emergere le loro individualità è naturale" (M.Mancini).

18) "Mai visto un edificio crollare per un problema di infiltrazione al tetto, dunque se un sistema è in crisi la ragione ricade sempre sulle fondamenta, cioè sui livelli più bassi del sistema stesso." (M.Mancini)

19) "La felicità si raggiunge solo imparando a essere se stessi a 360 gradi" (M.Mancini).

20) "Chi decide di dedicarsi all'arte, di qualunque natura di arte si tratti, deve sempre farlo cercando di aiutare gli altri a liberarsi dai preconcetti e dai limiti imposti dalla società. Questo è il fine nobile dell'arte, non certo la banale e futile ricompensa monetaria" (M.Mancini).

21) "Niente ti darà soddisfazione come vedere coloro che hai aiutato ottenere degli importanti risultati, poiché questo spingerà te stesso a fare meglio e tutto ciò porterà a un miglioramento generale del contesto in cui operi. Dunque, ricordati sempre che fai parte di un sistema e che il mondo non si riduce a te stesso" (M.Mancini).

22) "La condivisione è la via verso il miglioramento, ma solo se chi riceve i dati impara a rielaborarli e personalizzarli" (M.Mancini).

23) "Al centro di tutto, seppur inserito in un contesto più complesso, deve starci l'individuo e non la massa. La massa deve diventare un'unione di più individui liberi e consci dei loro pregi e difetti, e non certo un gregge di pecore bisognoso delle cure di un pastore" (M.Mancini)

24) "Premesso che libri, televisione, film e canzoni sono gli alimenti che nutrono le persone e assodato che un'alimentazione scadente causa malesseri nelle persone, mi chiedo se ciò che il mercato commerciale propone, in questo periodo di grossa crisi e di perdita dei valori, sia qualitativo o meno? Francamente penso di avervi già dato una risposta piuttosto chiara..." (M.Mancini).

25) "Non è l'intelligenza a rendere più brillante una persona rispetto a un'altra, ma la curiosità di apprendere e l'alto senso di autocritica disancorata da usi, costumi, fedi e verità imposte dalle consuetudini" (M.Mancini).

26) "La verità, a parte in matematica, non è mai oggettiva, ma un fatto analizzato dalle menti che lo interpretano" (M.Mancini)

27) "La differenza tra un filosofo e un politico sta nel fatto che il primo apre le menti dando l'impressione di violentarle, mentre il secondo le chiude dando la sensazione di cullarle" (M.Mancini)

28) "Dio probabilmente non è un'entità individuale ma l'universo, cioè l'essenza più esplicita dell'infinito che a sua volta è in continua espansione e simboleggia l'assenza di un qualsiasi limite" (M.Mancini).

29) "In una scala di propedeuticità la vera politica è a un livello superiore della filosofia che a sua volta sta al di sopra della conoscenza di sé stessi. Mi chiedo come si possa parlare di politica se non si conosce se stessi e se non si è capaci di un approccio filosofico coerente e disancorato dai preconcetti. Solo chi costruisce su basi solide e personalizzate può affrontare gli altri evitando di rimanere imbambolati davanti alle critiche costruttive degli altri." (M.Mancini)

30) "I termini "atipico", "anomalo" e "unico" sono sinonimi di fascino perché incarnano la rottura dagli schemi precostituiti spesso noiosi, prevedibili e ipocriti in quanto castranti" (M.Mancini)

martedì 6 settembre 2011

Recensione Cinematografica: PER QUALCHE DOLLARO IN PIU' (Sergio Leone)





Rendo pubblica una delle tante mie recensioni che saranno presenti nel mio primo volume dedicato allo spaghetti western. Questa è l'ultima recensione che pubblico sul blog, le restanti le recuperate all'interno del libro appena sarà disponibile (lo devo ancora ultimare).

PER QUALCHE DOLLARO IN PIÙ

Produzione: Italia, Spagna, Germania 1966
Produttore: Alberto Grimaldi.
Regia: Sergio Leoene
Soggetto: Fernando Di Leo, Enzo Dell'Aquila
Sceneggiatura: Fernando Di Leo, Enzo Dell'Aquila, Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Sergio Leone.
Interpreti Principali: Clint Eastwood, Lee Van Cleef, Gian Maria Volonté, Luigi Pistilli, Klaus Kinski, Mario Brega, Alfredo Sanchez Brell (Aldo Sambrell), Josef Egger, Peter Lee Lawrence, Mara Krup, Benito Stefanelli.Musiche: Ennio Morricone.
Durata 130 min.
Giudizio: *****

La trama
El Indio (Volonté), un bandito pazzo e drogato, evade dal carcere grazie all'aiuto della sua banda. Appena uscito uccide in un duello l'uomo che lo ha fatto arrestare, poi pianifica l'assalto alla banca più importante e sicura d'America: la banca di El Paso.Sulle sue tracce, intanto, si muovono due bounty killer: uno giovane e spavaldo (Eastwood), l'altro anziano e riflessivo (Van Cleef). I due finiscono per associarsi e stendono un piano: il più giovane opererà dall'interno della banda de El Indio, l'altro agirà dall'esterno. L'obiettivo è mettere le mani sia sulle taglie dei delinquenti sia sul malloppo che El Indio è riuscito a rapinare dalla banca.

Commento di MATTEO MANCINI

Qui si fa la storia dello spaghetti-western. Se “Per un pugno di dollari” aveva avuto un inatteso successo lo stesso non può dirsi per “Per qualche dollaro in più” sul quale tutti puntavano a occhi chiusi. Il film, tuttavia, ha un inizio più tribolato del precedente. Questa volta il problema non è il budget a disposizione, che anzi è cresciuto in modo esponenziale, ma le liti con i vari produttori. Oltre ai giapponesi della Toho Film (accusavano Leone di plagio, come abbiamo già visto) il regista romano deve vedersela con i suoi precedenti produttori (Papi & Colombo) che rivendicavano i diritti sulla figura dello “straniero senza nome”.
Sergio Leone però non si lascia frenare; si accorda con Alberto Grimaldi, già valido produttore di spaghetti-western e alla ricerca del film che gli potesse permettere quel salto di qualità che Marchent non era riuscito a garantirgli, e si lancia a capofitto nel lavoro.
La stesura del soggetto e della prima bozza della sceneggiatura viene affidata, in fretta e in furia per anticipare l'eventuale sequel che Papi & Colombo avrebbero potuto girare con un altro regista, al collaudato Fernando Di Leo, il quale contatta, quale suo collaboratore, Enzo Dell'Aquila. Dell'Aquila è un giovanissimo regista che cercherà di emergere negli anni '60, soprattutto in veste di sceneggiatore (suoi i copioni di spaghetti-western del calibro di “7 pistole per i MacGregor”, “Professionisti per un massacro” o “Sono Sartana il vostro becchino”) ultimando però la sua carriera nel 1969 senza lasciare una traccia particolarmente forte.
Ai due tocca il lavoro oscuro ovvero la stesura del soggetto e della prima bozza di sceneggiatura. Il lavoro è così ingrato che consegnato il copione (inizialmente intitolato “La collina degli stivali” e prima ancora “The bounty killer” - titoli che poi saranno utilizzati per altri western che nulla hanno a che fare con “Per qualche dollaro in più”) i due verranno costretti a suon di biglietti da centomila lire a rinunciare a ogni diritto sul film: i loro nomi non compariranno neppure nei titoli di testa!?
Il copione passa ora di mano e finisce in quelle di Luciano Vincenzoni, uno dei migliori sceneggiatori in circolo in Italia. Premiato per ben due volte con il Nastro d'argento per le sceneggiature di “Sedotta e abbandonata” (1964) e di “Signori e signore” (1965) entrambi film diretti da Pietro Germi, nonché autore degli script di capolavori quali “La grande guerra” (1959) di Mario Monicelli e della commedia “Crimen” (1960) di Mario Camerini, Vincenzoni si confronta per la prima volta col western con l'incarico di perfezionare il lavoro della già pregiata coppia Di Leo – Dell'Aquila. In seguito, l'autore trevigiano tornerà a firmare capisaldi del genere come “Il buono, il brutto, il cattivo” (1966) e “Giù la testa” (1971) di Sergio Leone, “Da uomo a uomo” (1967) di Giulio Petroni, ma anche altri celebri cult come “Piedone lo sbirro” (1973) di Steno o l'indimenticabile “L'orca assassina” (1977) di Michael Anderson ovvero le commedie brillanti “La poliziotta” (1974) di Steno, “Il bestione” (1974) di Sergio Corbucci e uno dei film più grotteschi mai realizzati in Italia, cioè “Gran bollito” (1977) di Mauro Bolognini.
Vincenzoni riscrive passo per passo la sceneggiatura, focalizzando l'attenzione sulla caratterizzazione dei personaggi, in modo particolare sull'antagonista di cui sceglie il nome “El Indio”.
Contemporaneamente, all'insaputa di Vincenzoni, un altro grande sceneggiatore lavora sul copione. Si tratta di Sergio Donati. Specializzato nei film carichi di suspence nonché già noto romanziere di polizieschi e noir all'americana, l'autore si confronta per la prima volta col western. Tornerà a trattarlo in capolavori quali “Faccia a faccia” (1967) di Sollima, "C'era una volta il west” (1968) e “Giù la testa” (1971) di Leone.Donati collaborerà inoltre con Vincenzoni in svariate altre occasioni (in film quali “Il bestione”, “La poliziotta”) e metterà la firma su copioni di film diventati autentici gioiellini della cinematografia italiana di genere come “Holocaust 2000” (1977) ovvero la risposta di Alberto De Martino al cult horror “Il presagio” di Richard Donner, “L'isola degli uomini pesce” (1979) di Sergio Martino e il thriller “Almost blue” (2000) di Alex Infascelli.
È proprio Donati a introdurre la simpaticissima sequenza del vecchietto, interpretato dal solito Josef Egger (il becchino de “Per qualche dollaro in più”), che rivela a Eastwood l'identità del vecchio bounty killer che gira in città. “Ma certo che lo conosco il tuo uomo. È il colonnello Douglas Mortimer, un gran uomo e un gran soldato. Il più formidabile tiratore della Carolina. Gran soldato, ora si è ridotto a fare il bounty killer come te, tutta colpa dei treni, degli stramaledetti treni.”
Inoltre, lo scrittore romano interviene massicciamente sui dialoghi (sua, a esempio, l'idea di far contare a Eastwood le vittime a fine film, facendogli conteggiare gli importi delle taglie piuttosto che il numero degli uomini caricati sul carretto).
Ne esce così una sceneggiatura filtrata da un lotto di signori sceneggiatori a cui si aggiunge l'estro di Leone che porta l'idea del carillon (elemento fortissimo e ricorrente nel film) nonché, su invito dell'aiuto regista (cioè quel Tonino Valerii che sarebbe presto sbocciato come eccellente regista di western), dell'antagonista drogato che fuma marijuana dopo aver commesso un omicidio.
Ecco che si giunge a un risultato finale che ha del portentoso. Non c'è infatti una sequenza che non rapisca l'attenzione dello spettatore. Dialoghi e monologhi fulminanti, battute e duelli intrisi di una spavalderia che non può non coinvolgere emotivamente e infine un trittico di soggetti l'uno più furbo dell'altro e posti in continua sfida tra loro.

La pellicola prende le mosse come potrebbe farlo un romanzo. Abbiamo infatti una divisione del copione in tre capitoli in ognuno dei quali vengono presentati i tre personaggi.

Il colonnello Douglas Mortimer viaggia su un treno leggendo la bibbia e tiene un cavallo in un vagone con una fuciliera appesa alla sella. Da essa estrae ogni specie di arma e prolunga atta a garantirgli una rosa di tiro superiore a quella convenzionale. “Come può fare il nostro mestiere uno che va in giro con una trappola come questa?” lo sfotterà in seguito Easwood. “Quella trappola, come la chiami, poteva spedirti nella fossa” sarà la risposta a bruciapelo del colonnello.
Il Colonnello è un uomo ragionevole, distinto, che veste in nero e mantiene la parola data ma che non ha nessuna pietà per i delinquenti. È subito emblematico, al riguardo, l'assassinio quasi gratuito del delinquente che ha l'abitudine di aggiungere uno zero sulla taglia affissa sui muri credendo che nessuno avrà mai il coraggio di affrontarlo.

Assistiamo in seguito all'arrivo, sotto un autentico nubifragio, de “Il monco”, cioè Clint Eastwood, così chiamato per l'abitudine di utilizzare un'impugnatura di cuoio per estrarre meglio la pistola.
Il nostro, probabilmente di ritorno dalla carneficina de “Per un pugno di dollari” (indossa difatti lo stesso poncho marrone), con fare sicuro e sprezzante, entra in un saloon e sfida a poker un ricercato che se ne sta spaparanzato a un tavolo sotto gli occhi di uno sceriffo colluso.“Cosa giocavamo?” gli chiede il delinquente dopo aver perso la mano. “La pelle!” è la laconica risposta del nostro che non perde occasione per far cantare la pistola non prima però di aver indotto gli altri a difendersi.
Avete guadagnato una bella somma...” gli dirà lo sceriffo una volta pagata la taglia. “Già, ma uno sceriffo non dovrebbe esser coraggioso, leale e soprattutto onesto?” lo canzona il monco, togliendogli la stella dal petto e buttandola a terra davanti a dei cittadini: “cercatevene un altro” sentenzia.

Ecco il turno de El Indio, interpretato da un Gian Maria Volonté ancora più eccentrico e sopra le righe di quello ammirato in “Per un pugno di dollari”. Il nostro se ne sta in carcere per scontare una condanna ed è stato arrestato per mezzo di un tradimento. Aiutato dai compagni a evadere, El Indio non perde tempo per vendicare il torto subito e si mostra subito come un drogato esaltato e crudele (terribile la scena in cui fa assassinare la moglie e il bambino di un anno dell'uomo che l'aveva tradito: “possiamo dire che la tua famiglia, per metà, è anche mia e io me la prendo”), ma allo stesso tempo intelligente, ossessionato dal ricordo di una donna immortalata in un carillon che avvia in occasione di ogni duello per scandire il tempo al termine del quale estrarre le pistole.

È proprio l'evasione de El Indio a fungere da collante alle sorti dei tre, perché l'affissione della taglia dell'uomo porta sulle sue tracce i due temibili bounty killer che, in un primo tempo, si troveranno contrapposti l'uno all'altro.
Così assistiamo all'arrivo a El Paso del Monco che entra in un albergo e si prende la stanza dirimpettaia a quella in cui è alloggiato l'altro bounty killer. “Ma signore, la stanza è occupata...” gli dice il gestore. “Ora è libera” risponde con prepotenza il monco che prende il registro e depenna il nome del cliente. “Perché guardi quell'animale, che ci trovi?” domanda il gestore, un nano, alla sua donna, la tedesca Mara Krupp (la ritroveremo in “Satyricon” di Federico Fellini). “È un animale alto...” gli risponde la donna mandandolo su tutte le furie.
Intanto assistiamo ai progetti de El Indio che sta preparando un colpo folle: assaltare la più ricca e sicura banca di America, cioè la banca di El Paso. Per convincere i suoi, Volonté racconta la parabola del falegname e lo fa in un modo tale da rendere epico il momento.
Il colonnello Mortimer, nel frattempo, molto più scaltro del personaggio di Eastwood vaga da banca in banca per scoprire quale è la più sicura e a prova di rapina.“Solo a un pazzo potrebbe venire in mente l'idea di assaltare la banca di El Paso” è la sicura risposta di un banchiere alle domande del nostro. “Già, solo a un pazzo drogato” ridacchia Van Cleef, avendo già previsto tutto.
Per testare la propria idea, il colonnello Mortimer attende l'arrivo in città di alcuni componenti della banda de El Indio, quindi, spiato dal monco, entra nel saloon e va ad accendere un fiammifero sulla spalla dell'elemento più focoso del gruppo, il gobbo interpretato dal grande Klaus Kinski. Il bandito inizia a tremare preda di una rabbia isterica, fa per afferrare la pistola ma viene fermato da un compagno, il gigante Mario Brega, poi d'improvviso se ne va di gran carriera. “È molto strano” si rivolge il colonnello al barista “uno va in giro con la pistola e al momento di usarla non la usa”. “Se il gobbo non ti ha sparato è perché sotto c'è una ragione molto importante” risponde il barista, trovando il consenso del colonnello che ormai ha capito tutto. E infatti, dalla finestra della propria camera, inizia a studiare con un cannocchiale tutti i movimenti degli uomini de El Indio attorno alla banca di El Paso, infine si accorge di un imprevisto: c'è un giovane munito di binocolo che lo sta scrutando dall'albergo difronte. È una scena che sarà citata da altri western tra i quali “Vado, l'ammazzo e torno” di Castellari e che mette in comunicazione diretta i due protagonisti che iniziano a indagare l'uno sull'altro fino a misurarsi in un duello di precisione in cui sparano ai cappelli per cercare di impressionare l'altro e mandarlo in fuga.
Comica, al riguardo, la scenetta col cinese che va in su e in giù per la strada tenendo in mano le valige del colonnello e con Eastwood che gli ordina di portarle alla stazione e Van Cleef che invece gli dice di riportarle nella sua camera.
“Ragazzo, con i miei metodi sono arrivato a cinquanta anni e non sono pochi da queste parti. Tu quanto camperai?” domanda il colonnello al Monco una volta saliti nella camera del primo, ormai l'uno ammirato dalle capacità e dall'intraprendenza dell'altro. “Credo molto di più. Agguanto l'Indio, intasco i diecimila dollari, mi compro un buon ranch e mi ritiro” è la risposta guascona del Monco.
"Già, ma dimentichi un particolare: anche io voglio agguantare l'Indio e quando due reggimenti attaccano la stessa posizione finiscono inevitabilmente per spararsi addosso”. Il Monco, con la sua spavalda simpatia, aggiunge:“e il colonnello muore”.
Così i due si associano e predispongono un piano per agire sia dall'interno sia dall'esterno della bande dell'Indio e per farlo il Monco va a liberare un fedelissimo di quest'ultimo che se ne sta in carcere a scontare una pena. Il trucco è sufficiente al Monco per farlo accettare dall'Indio, ma i nostri stanno sottovalutando quest'ultimo.
Colonnello, ma tu sei mai stato giovane?” chiede il Monco che inizia a manifestare un certo senso di ammirazione nei confronti del collega più anziano. “Si, e anche incosciente come te fino al giorno in cui mi accadde un fatto che mi rese la vita estremamente preziosa” risponde l'altro adombrandosi. “Quale? … forse è una domanda indiscreta” chiede il Monco, nell'osservare l'altro mentre tiene in mano un ciondolo. È un momento importante per il film, perché c'è uno snodo decisivo che inciderà sull'epilogo: viene lanciato un messaggio allo spettatore, perché quel ciondolo lega il colonnello all'Indio, si scoprirà poi la natura di quel legame.
Bellissima anche la risposta del colonnello alla curiosità del Monco: “le domande non sono mai indiscrete, le risposte, a volte, lo sono”. Momenti dunque di sceneggiatura che toccano delle vette difficilmente eguagliabili.
Il confronto tra le due generazioni di bounty killer prosegue con il giovane, più baldanzoso ed esuberante, che, dopo esser entrato nella banda dell'Indio, cercherà di scrollarsi di dosso l'ombra del vecchio colonnello, mettendolo sulla strada sbagliata, ma verrà ancora una volta sorpreso dalla furbizia dell'altro.“Come diavolo sei arrivato qui?” chiederà il Monco al colonnello, una volta entrato in un minuscolo paese della frontiera e trovandoselo inaspettatamente davanti. Il colonnello abbozzerà un mezzo sorriso e gli risponderà: “in base a un ragionamento. Sapevo che avresti detto all'Indio l'esatto contrario di quello che avevamo stabilito e che lui, sospettoso, avrebbe fatto di testa sua. Ho scartato l'ovest perché a ovest c'è El Paso, il resto è stato facile.

Il confronto tra i due protagonisti non deve portare lo spettatore a sminuire l'intelligenza dell'antagonista. Il personaggio di Volonté è tutt'altro che sciocco, anzi è talmente convinto di sé da mettersi a giocare col fuoco, esponendo la sua banda alla mattanza.
“Nino, da quanto tempo sai che il Monco e quell'altro sono dei bounty killer?”
domanderà a uno dei suoi uomini più fidati, ottenendo come risposta: “da questa notte, perché?” Allo stupore di Nino, l'immenso Volontè farà luccicare gli occhi: “Io l'ho saputo fin dal primo momento che li ho visti. Mi è venuta un'idea: usarli. Contro quei due credo che difficilmente qualcuno dei nostri sopravviverà, ma questo non interessa né me né te, perché noi due saremo già lontani con tutti i dollari”.

Ecco così che si entra nell'ultima parte del film, quella della resa dei conti. L'Indio ha orchestrato un'ottima messa in scena, dopo aver fatto aprire la cassaforte dal colonnello ha fatto imprigionare i due bounty killer per poi farli liberare da Nino simulando il tradimento di uno dei suoi uomini.
Li voglio qui entro stasera!” urla come un pazzo, pronto ad abbandonare il paese con tutto il malloppo. “Groggy, ricorda, quei due piuttosto che averli alle spalle è meglio averli di fronte orizzontali, possibilmente freddi” si raccomanda falsamente a uno dei suoi.
L'Indio però ha fatto male i conti, perché i due pistoleri hanno già fatto sparire il bottino lasciando all'interno della cassa la pergamena con la foto dell'indio. Favolosa l'idea di immortalare nella foto da ricercato l'Indio mentre ride a squarciagola, perché quel volto contrasta nettamente con lo sguardo perso nel vuoto di Volonté che capisce di esser stato giocato dai due.

Bellissimo il duello finale, dopo che “i nostri”, in giro per il paese fantasma, hanno fatto fuori, uno a uno, tutti i componenti della banda dell'Indio. L'epicità dello scontro tra il colonnello Mortimer, intenzionato a consumare la sua vendetta – unica sua ragione di vita, visto che la morte di quella che si scoprirà esser stata sua sorella “gli ha reso la vita estremamente preziosa” così come dallo stesso rivelato al Monco al momento del loro primo accordo – viene esaltata da un escamotage che aggiunge un quid d'autore. L'Indio ha ormai in pugno il colonnello. Gli ha fatto cadere a terra la pistola e lo sta sfidando con il suo solito carillon: “Quando la musica finisce, raccogli la pistola e cerca di sparare, cerca.” Proprio nel momento in cui il carillon sta per terminare la musica e il colonnello è ormai prossimo alla morte, visto il duello impari, ecco che riparte la musica, lasciando di sasso un Volonté sul punto di estrarre la pistola. Leone stacca dal primo piano di Volonté e riprende i due duellanti in campo lungo, quindi dal basso verso l'alto compare in primissimo piano una mano: tra le dita tiene un carillon, è quello che il colonnello Mortimer teneva nel taschino della giacca. “Sei stato poco attento, vecchio” dice il Monco, in una sorta di parabola dove l'allievo ha superato il maestro. “Colonnello, prova con questa. Tu, Indio, il gioco lo conosci” conclude puntando il winchester contro il messicano in una sorta di arbitro dell'incontro. Il passaggio della pistola dal Monco al colonnello si può interpretare come il passaggio di testimone tra la vecchia e la nuova generazione.

Notevole anche la conclusione del film, con il colonnello che rinuncia alla sua quota accontentandosi di aver ucciso l'uomo che gli ha rovinato la vita: “Ragazzo, sei diventato ricco. Tu solo, e te lo sei meritato” dice al monco che perplesso gli chiede lumi sulla loro società, ma il colonnello risponderà con un malinconico “un'altra volta” allontanandosi verso il tramonto e lasciando il nostro a contare i cadaveri dei delinquenti ammucchiati su un carretto.

Un western dunque leggendario che tutti hanno visto almeno una volta. Molto più complesso e deciso de “Per un pugno di dollari” e anche molto più crudo e cruento, non a caso ebbe vari problemi con la censura e soprattutto con i critici di alto borgo che lo accusarono di compiacenza verso la violenza, ma il successo al botteghino fu dirompente al punto da essere il film più visto nella storia del cinema italiano (tre miliardi e mezzo di incassi solo in Italia).

Nel ruolo di protagonista ritroviamo Clint Eastwood chiamato di nuovo a ricoprire il ruolo de “lo straniero senza nome”. Confermato in extremis anche Gian Maria Volonté, boicottato fino all'ultimo dai co-produttori spagnoli che non lo volevano per le sue idee politiche di estrema sinistra (al tempo in Spagna governava il regime di estrema destra di Francisco Franco). Alla fine Volonté riuscì a spuntarla solo perché Claudio Undari – attore di fiducia di Grimaldi – rinunciò al ruolo, schierandosi al fianco dell'attore milanese. Il suo è un ruolo simile a quello ricoperto in “Per un pugno di dollari” anche se più allucinato, soprattutto per merito degli onirici flashback inseriti da Leone impreziositi da una fotografia di una bizzarra tonalità rossa.

Fa invece il suo debutto nello spaghetti-western, e ne diverrà una delle icone più brillanti, il quarantunenne Lee Van Cleef. Fisico statuario, un metro e novanta di altezza per una struttura longilinea e un paio di baffi che lo accompagneranno quasi sempre nelle sue apparizioni cinematografiche e con un passato da ragioniere statale e da marinaio nella II guerra mondiale, l'attore americano si ritrova scritturato per mero caso a poche settimane dall'inizio delle riprese. La produzione, infatti, aveva già chiuso il contratto con Lee Marvin, uno dei “cattivi” più rinomati a Hollywood premiato nientemeno con l'oscar nel 1965 come attore protagonista del film “Cat Ballou”. L'attore newyorkese, infatti, rescisse d'improvviso il contratto con Grimaldi per poter girare il film che gli avrebbe permesso di conquistare l'oscar. Il forfait di Marvin è una notizia che mina l'entusiasmo del cast tecnico che si vede privato della sua star principale. Si cerca così di ripiegare su Henry Fonda ma ha un cachet insostenibile per la produzione. Alla fine qualcuno si ricorda di un attore che ha recitato spesso col ruolo di antagonista in importanti western americani come “Mezzogiorno di fuoco(Zinnemann, 1952), “Sfida all'O.K. Corral” (Sturges, 1957), “Bravados” (King, 1958) sebbene con ruoli secondari, ma si è anche distinto in film meno importanti nel ruolo di protagonista. Questo attore è Lee Van Cleef.
L'attore accetta senza tentennamenti, perché si trova a un punto morto della sua carriera tanto da vederne persino minata la sua prosecuzione. Sono infatti tre anni che non gira più un film, un terribile incidente automobilistico e la dipendenza dall'alcool hanno portato l'attore americano sull'orlo della capitolazione.
Le sue condizioni sono tanto preoccupanti che si pensa non possa neppure girare il film. Il nostro si presenta pieno di placche e chiodi, con un'andatura traballante e pieno di dolori. Il suo stato di forma è talmente fiacco che per salire in groppa a un cavallo deve utilizzare una scala. La scelta però si rivela quanto mai azzeccata. Il vecchio attore non sfigura al cospetto di due mostri sacri come Eastwood e Volonté e dona quel tocco malinconico che rende il film magnifico.
La sua performance è così convincente da renderlo uno degli attori più richiesti in Italia nel western, ma anche in altri generi con una carriera chi si protrarrà fino a un anno dalla sua morte. Lo si ricorda anche per l'interpretazione nel leggendario post-atomico di John Carpenter “1997 fuga da New York” (1981). Morirà nel 1989 in California vittima di un attacco cardiaco.

Con Van Cleef fa il debutto nello spaghetti-western un'altra indimenticabile icona: il polacco, naturalizzato tedesco, Klaus Kinski. Attore geniale e al contempo folle, spesso in lite con i registi, operatori e colleghi, capace di interpretazioni che lasciavano a bocca aperta come di immonde porcherie, presente in film di tutti i tipi dagli autoriali di Herzog agli sconclusionati deliri di Jess Franco il quale in un'intervista arriverà a dire: “Klaus Kinski era mezzo matto, dico mezzo perché era mio amico!” L'attore tenterà anche la via della regia nel provocatorio e delirante “Paganini” (1990) terminato di girare pochi mesi prima che sopraggiungesse la morte per improvviso attacco cardiaco.
Molte le sue interpretazioni memorabili specie nel western dove, a poco a poco, si ritaglierà ruoli sempre più importanti. In “Per qualche dollaro in più” ha un ruolo secondario, ma mette il suo volto al servizio di una scena epica in cui sfida a duello Van Cleef. “Guarda, guarda, chi si vede... Il fumatore” dice dopo averlo scorto mentre mangia seduto in un saloon. “Prova ad accendere un altro fiammifero” lo invita, mostrandogli la gobba. Favolosa la risposta del colonnello che lo manda su tutte le furie: “Abitualmente fumo dopo mangiato, perché non torni fra dieci minuti...”
Da notare in questa scena il tocco di classe in cabina di regia di Sergio Leone che fa sparare Van Cleef non con la pistola che tiene in bella evidenza sulla pancia, ma con una seconda, più piccola, nascosta sotto la giacca in modo da anticipare e sorprendere l'avversario. Trucchetti del genere faranno la fortuna del pistolero Sartana che Gianni Garko interpreterà nell'omonima serie.

Notevole anche il cast secondario con Luigi Pistilli, altro immenso attore di scuola teatrale lanciato da Sergio Leone (lo ricordo in svariati spaghetti-western e in film quali “Reazione a catena” di Mario Bava, “Milano calibro 9” di Fernando Di Leo e nei primi thriller di Sergio Martino), il coatto Mario Brega e persino un giovanissimo Peter Lee Lawrence, che qua fa un cammeo rapidissimo (è il ragazzo della sorella del colonnello che viene ucciso da Volonté nel flashback), e che in seguito ricoprirà ruoli da primo protagonista fino alla prematura scomparsa.

Sulla regia di Leone occorre spendere poche parole. Il maestro romano prosegue sulla strada tracciata nel suo primo western, con i molteplici duelli, i primissimi piani sui volti dei suoi eroi e con una certa dilatazione delle sequenze. Qua, per la prima volta, introduce i flashback per i quali nutriva un certo interesse come dimostreranno in modo marcato i successivi film.

Non poteva poi mancare Ennio Morricone alla colonna sonora, con una soundtrack che ricalca quella del film precedente e che tocca il suo apice nel duello finale (esiste anche una versione cantata in italiano).

Confermatissimi Massimo Dallamano alla fotografia e Carlo Simi alla scenografia.

Film epico da avere obbligatoriamente in videoteca.