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martedì 21 agosto 2018

Recensione Narrativa: L'ESORCISTA di William P. Blatty



Autore: William Peter Blatty.
Titolo Originale: The Exorcist.
Anno: 1971.
Genere: Horror.
Editore: Mondadori.
Pagine: 400.
Prezzo: 14 euro.

A cura di Matteo Mancini
A oltre dieci anni dalla prima lettura, ritorniamo a immergerci nelle pagine de The Exorcist, fortunato romanzo dato alle stampe nel 1971 da William Peter Blatty. Scrittore americano di origine libanese, Blatty, dopo anni di studio, confeziona il suo capolavoro alla veneranda età di quarantatré anni.
Autore legato soprattutto al mondo del cinema, cimentatosi anche alla regia, Blatty intraprende in modo curioso la carriera dello scrittore. Sfrutta infatti la partecipazione a un quiz televisivo, culminata con una vincita di 10.000 dollari, per entrare nel mondo del cinema. Già autore di un paio di romanzi di risibile successo, approda al mondo delle sceneggiature in cui inizia subito a destreggiarsi con pregevole successo. Celebre la collaborazione con Blake Edwards nella stesura del copione de Uno Sparo nel Buio (1964), opera legata alla serie avente come protagonista Peter Sellers nei panni dell'ispettore Clouseau.
Il vero successo arride a Blatty solo dopo l'uscita de L'Esorcista, romanzo shock che destò enorme clamore già all'uscita fino a tramutarsi in cult assoluto dopo la realizzazione, nel 1973, della riduzione cinematografica, curata dallo stesso Blatty per la regia di William Friedkin. Un'opera, premiata con il riconoscimento di due Oscar (sceneggiature e sonore) e quattro Golden Globe (film, sceneggiatura, regia e attrice non protagonista), di una potenza e di un'irriverenza tale da plasmare un vero e proprio sottogenere, subito preso a modello dai registi italiani che risposero con l'emulo “de noi altri” intitolato L'Anticristo (1974) per la regia di Alberto De Martino seguito da una lunga serie di pellicole tra cui Chi Sei? (1974), La Casa dell'Esorcismo (1975), L'Ossessa (1974) e Malabimba (1979), ed evoluto sino a noi con pellicole quali The Exorcism of Emily Rose (2005) e Il Rito (2011) che non fanno che riproporre l'infinita lotta tra l'esorcista e il demone impossessatosi di un corpo umano.

L'idea nasce grazie a caso verificatosi, pare, nel 1949 in Maryland ai danni di un giovane adolescente. Blatty legge il resoconto quando ancora frequenta l'università e inizia a documentarsi. Attratto dal sogno di trarne un romanzo, lascia maturare il proposito per anni, addirittura oltre venti, prima di mettersi a scrivere e confezionare l'opera che lo consegnerà all'immortalità, diventando uno dei pochi autori ad aver creato uno stereotipo tanto forte da tracciare un nuovo archetipo.

Ne esce fuori un romanzo che tratta il tema della possessione diabolica in un'ottica possibilmente più fedele possibile alla realtà. Blatty antepone all'intervento della Chiesa cattolica e alla constatazione dell'insorgenza del paranormale tutta la tiratela medico-scientifica sottesa a dimostrare la non sussistenza di una patologia mentale tale da giustificare fenomeni assimilabili alle sintomatologie proprie dello sdoppiamento della personalità e/o dei disturbi schizofrenici-paranoidi. 
Come inevitabile che sia, la trattazione procede per gradi, lentamente e via via a crescere, sino a un orrore dai contorni blasfemi e irriverenti che scoppia in un epilogo infernale dall'alta valenza orrorifica, giocato soprattutto sul dato sensoriale rappresentato dall'udito (si parla di muggiti e berci sovrumani) e dall'olfatto (odori pestilenziali). 

Tutto ha inizio da un innocente gioco con una tabella Ouija, portale attraverso il quale lo spirito di Pazuzu, noto demone, si impossessa del corpo di una giovane ragazzina, costringendola a una patologia di cui i medici non riescono a venirne a capo. La piccola diviene schiava di un drastico mutamento comportamentale, sboccata oltre i limiti della bestemmia, malata di sesso (si autopenetra col crocefisso e costringe la madre a leccare il sangue dalle ferite, si masturba davanti ai medici), ma soprattutto allettata e sempre più denutrita, tra pozze di vomito e scariche diarroiche che la rendono sempre più il lontano ricordo di quella che era. 

L'autore opta per un taglio poliziesco che si snoda su un doppio binario di indagine. Da una parte l'approfondimento medico-psichiatrico, che vede i vari dottori procedere per ipotesi che si riveleranno tutte errate tanto da rendere necessario l'intervento della Chiesa, e dall'altra la pista legata alle classiche indagini della polizia giudiziaria. Il fenomeno, infatti, non si limita alla mera possessione, ma è inserito in un corollario di cui fanno parte una serie di profanazioni su statue e immagini sacre (con apposizione di falli sul Cristo e con modifiche sulle vesti della Madonna così da tramutarla in una donna di facili costumi) nonché una morte sospetta verificatesi, nella casa dell'indemoniata, con il crisma di un omicidio rituale. Un poliziotto altamente ironico (“Presto... lei è come i rabbini quando parlano della venuta del Messia: Presto... sempre Presto!” così risponde al commento "Presto" di Padre Karras circa la possibilità di andare assieme al cinema in un immediato futuro), appassionato marcio di cinema (si fa fare un autografo dalla madre dell'indemoniata, nota attrice, dicendo che è per sua figlia, per poi confessare che in realtà è per sé) e solito introdurre le proprie domande prendendo il discorso alla larga, riesce a collegare tutti gli indizi sino a giungere alla folle, ma reale, conclusione che vede una giovane bambina autrice di tutti i misfatti oggetto di indagine (dalle oltraggiose e spinte lettere a sfondo sessuale al brutale omicidio perpetrato con una violenza tale dal lasciar supporre la presenza di un assassino dotato di forza titanica). Troppo anche per un addetto ai lavori come lui, che decide, così come gli psichiatri, di lasciare campo libero agli operatori religiosi. Un modo come un altro per mostrare il fallimento, al cospetto del paranormale, di tutte le scienze che dominano il mondo contemporaneo, da quelle medico-scientifiche a quelle giudiziarie.

La copertina italiana del
film diretto da Friedkin

Blatty investe molto nella cura delle caratterizzazione dei personaggi, peraltro, a loro modo, problematici e con un passato oscuro che rende le loro vite familiari fallimentari. Un matrimonio naufragato con allontanamento del padre per la piccola protagonista della vicenda. Una madre morta nell'abbandono per Padre Karras. Una figlia schiava dell'eroina, tanto da esser creduta morta dalla madre, per il domestico svizzero che aiuta la madre della piccola indemoniata. Una vita in completa balia dell'alcool per il regista presso il quale lavora la madre dell'indemoniata.
Ecco che si ha un quadro di persone, in misura diversa, complessate e schiave dei sensi di colpa. Persone che cercano di fuggire da questo status in modo diverso, chi col lavoro, chi con l'alcool, chi nascondendo la verità. Una condizione che porterà, ognuno di questi personaggi, a vivere con un macigno premuto sul cuore, dando campo libero all'atroce ilarità del diavolo che si divertirà a dileggiarli, peraltro in modo assai sconcio e scandaloso (ampio ricorso a riferimenti sessuali) durante il rito. Ce ne sarà per tutti, ivi compreso Padre Merrin: "Dove sta la tua umiltà, Merrin? Nelle tombe dove sei andato a rifugiarti per fuggire dai tuoi simili? Per evadere dalla compagnia di chi è più basso di te, di chi non ha una mente che possa competere con la tua? Ti degni mai di parlare agli uomini...? La tua dimora è in un nido di pavoni, Merrin! Torna sulla cima della montagna e parla con l'Unico che consideri tuo eguale!"
Da sottolineare i dialoghi dei tre personaggi che si alternano nel corpo di Regan, ognuno tratteggiato in modo e con stile diverso, ma tutti quanti con una spiccata dose di ironia. “Di questi tempi la crisi degli alloggi è terribile anche per noi...” commenta una delle personalità all'interno di Regan per scongiurare l'esorcismo ed evitare di esser espulsa dal corpo posseduto. Tante personalità, ma solo uno è il protagonista dello spettacolo: Pazuzu. "Il demone è bugiardo. Mentirà per confonderci le idee, e appunto per questo alle menzogne mescolerà delle verità, per meglio attaccarci. L'attacco è psicologico" spiega Merrin al meno esperto Karras, entrambi autorizzati dal vescovo a condurre l'esorcismo.

Se questi sono gli aspetti positivi ci sono comunque alcune ingenuità di fondo, attribuibili anche all'epoca di uscita del romanzo. Si legge infatti che la pratica dell'esorcismo è praticamente così desueta che neppure i preti sanno dirne qualcosa. “Per fare un esorcismo dovrebbe mettere sua figlia in una macchina del tempo e rispedirla indietro nel sedicesimo secolo” non lo dice uno psichiatra, bensì un gesuita. Padre Karras, l'uomo chiamato in soccorso dalla madre di una bimba sospettata di esser posseduta dal demonio, riferisce alla donna che molto probabilmente la stessa, che pure è atea, è a conoscenza di maggiori aspetti sulla questione rispetto a un prete. “Non ho mai conosciuto un sacerdote che avesse praticato un esorcismo” aggiungerà di lì a poco.
Una visione, questa, che, molto probabilmente, risente della scarsa conoscenza di Blatty delle problematiche religiose, essendo il fenomeno assai conosciuto in paesi, a esempio, come l'Italia che certo non è il terzo mondo. Non a caso, in un film quale Il Demonio (1963) di Brunello Rondi (storico regista della seconda unità nei film diretti da Federico Fellini) si assiste a pratiche del genere, con tanto di ossessa che si muove con la c.d. spider-walk ripresa dallo stesso Blatty che, evidentemente, aveva recuperato il film.
Questo forse, insieme a una struttura più da sceneggiatura che da romanzo e soprattutto a un finale frettoloso dove il diavolo riesce ad avere la meglio sui due parroci, che non possono far altro che prendere il cammino del sacrificio per riuscire a liberare la ragazzina, è il difetto più grosso del romanzo che mira all'intrattenimento ma cerca anche di porre dei quesiti al lettore.
Blatty cerca di spingere il suo pubblico alla riflessione. In prima battuta, aspetto sottolineato anche da svariati esorcisti del mondo odierno, ammonisce la leggerezza dell'uomo del nuovo millennio che prende tutto con leggerezza e superficialità ivi comprese le cose che non conosce, finendo col giocare con l'occulto credendo che lo stesso sia innocuo e frutto di montature e dicerie. “Scopo delle sedute medianiche e delle tabelle Ouija è aprire una porta... Nei manicomi di tutto il mondo c'è un sacco di gente che si è baloccata con l'occulto.” Regan e soprattutto sua madre, che le lascerà in mano la tavola Ouija, pagheranno infatti con l'ossessione e la disperazione la loro leggerezza.
Molto interessante anche la riflessione relativa alla natura del male. È padre Merrin, l'esorcista (che poi ha solo un'esperienza diretta sul tema, si pensi invece quanti siano, a esempio, gli esorcismi praticati da Padre Amorth) chiamato su invito di Padre Karras per condurre il rituale, a sottolineare come, in realtà, il male si insinui, più che nelle guerre e in forma diretta con l'intervento demoniaco, subdolamente nella vita di tutti i giorni. Blatty suggerisce pertanto che il romanzo vuole quasi essere una metafora estremizzata, in fin dei conti, attraverso cui evidenziare quanto il male si celi nella vita di tutti i giorni, alimentandosi di tanti aspetti banali che alla fine determinano conseguenze serie. Forse anche per questo tutti i personaggi coinvolti hanno un passato in cui le incomprensioni e i litigi hanno portato ad allontanamenti e alla rottura dei rapporti interpersonali tra familiari. “L'ossessione si manifesta soprattutto negli assurdi, insignificanti rancori, nei malintesi, nella parola crudele e tagliente, che sale alle labbra involontariamente in una discussione tra amici. Tra innamorati. Se di queste piccole cose ne mettiamo insieme un bel po', non abbiamo nessun bisogno dell'intervento di Satana per fomentare le nostre guerre. Ci riusciamo da soli... Forse il male è il crogiolo della bontà. E forse persino Satana, suo malgrado e chissà per quali vie, serve a portare a compimento la volontà di Dio.” Ecco allora il messaggio di Blatty teso a giustificare la presenza del maligno come sorta di banco di prova, voluto da Dio, per testare l'uomo e prepararlo a un qualcosa di non intellegibile per i comuni mortali. Il male diviene allora strumento del bene. Proprio in queste riflessioni, a mio avviso, risiede il succo e la ragione di fondo che giustifica il romanzo. Blatty, per mezzo di Padre Karras che, grazie all'esorcismo riscopre la fede in Dio, ci vuole dire che se esistono episodi diabolici come quello che vede vittima Regan, allora, di converso, deve esistere anche l'altra faccia della medaglia. Ecco allora che Satana, nel suo mostrarsi, altro non fa che rendere visibile il suo negativo, che a sua differenza preferisce stare nell'ombra e nell'umiltà, proprio come avviene nel lento sviluppo di una fotografia. Il ragionare per negativi porta quindi a scoprire il positivo e, a suo modo, a offrire uno spunto di analisi per conquistare quella fede che mai si è posseduta o su cui, per ragioni legate a quelle vicende talvolta dalla parvenza ingiustificabile che colpiscono nella vita di tutti i giorni noi tristi avventurieri, si è iniziato a dubitare. E' allora il caso di fare una grande dedica al diavolo, una sorta di cattivo per ragioni di copione, col passaggio di quella canzone di Ivano Fossati che dice "dedicato ai cattivi, che poi così cattivi non sono mai...

Questo il contenuto. Quanto alla forma evidenziamo un lessico snello ed estremamente scorrevole, infarcito di dialoghi e di una sana punta di sarcasmo. Di facilissima lettura e di pronta interpretazione. Certo, le descrizioni di Blatty hanno poco della poetica dei maestri del fantastico di fine ottocento-primi novecento, non sono sognanti né magnificenti, essendo legate a una modernità di linguaggio che sacrifica la ricercatezza, i lirismi e il gusto del sense of wonder in favore dell'immediatezza e dell'essenzialità spiccia. Ciò nonostante è un romanzo che inquieta seppur, al giorno d'oggi, penalizzato dall'uscita della riduzione cinematografica. Chiunque si avvicini a questo libro difficilmente non avrà visto il film, aspetto quest'ultimo che toglie molta suspense e, potremmo dire, rende inutile la lettura di chi sia mosso dalla curiosità di sapere come andrà a finire (discorso diverso per gli “studiosi” del genere). La riduzione di Friedkin, infatti, è fedelissima al romanzo di cui propone persino i dialoghi, discostandosi dal testo solo per piccoli e risibili dettagli (tipo Regan che si libera dai legacci nella parte finale) e l'eliminazione di qualche personaggio secondario (Sharon). Rispetto al film, possiamo dire che il romanzo resiste molto meglio alla verosimiglianza e al rischio di cadere nel ridicolo, cosa che non sempre riesce a fare il film.

A ogni buon conto siamo alle prese con un romanzo che ha fatto scuola e vanta uno sterminato gruppo di aficionados. Blatty scriverà, nel 1983, un sequel intitolato Legion, da noi edito col titolo Gemini Killer, poi trasposto su pellicola, per la regia dello stesso scrittore, col titolo L'Esorcista 3.
Piaccia o non piaccia è un'innegabile pietra miliare della letteratura e, meglio ancora, del panorama terrorifico, dalla letteratura alla musica, passando per fumetti e cinema. Indimenticabile anche la musica del film curata, curiosamente, dai Mike Oldfield con l'ossessivo e ripetitivo Tubolar Bells che ispirerà le produzioni dei Goblin di Claudio Simonetti (si pensi a Profondo Rosso) e di John Carpenter (si pensi alla musica di Halloween). L'horror e la narrativa fantastica, si voglia o no, passano di qua.


WILLIAM PETER BLATTY.

"Uno si rivolge a Dio, ma deve mettersi in testa che, se questo Dio esiste, prima di manifestarsi, ci dorme sopra un milione di anni. E non bisogna esser portati a diventare impazienti... Dio non parla mai. Il diavolo, invece, non fa che battere la grancassa. Il diavolo fa un sacco di pubblicità, padre. "

domenica 12 agosto 2018

Recensione Narrativa: IL VOLTO VERDE di Gustav Meyrink



Autore: Gustav Meyrink.
Titolo Originale: Das Gruene Gesicht.
Anno: 1916.
Genere: Esoterico.
Editore: Adelphi, 2000.
Pagine: 260.
Prezzo: 10,33 euro..

A cura di Matteo Mancini
Dopo Il Golem(1915) e La Notte di Valpurga (1917), torniamo a parlare di Gustav Meyrink, il maestro austriaco, ex aderente dell'ordine esoterico della Loggia della Stella Blu, nel suo graduale ma imperterrito cammino da scrittore e, al tempo stesso, studioso di esoterismo. L'occasione ci è propizia grazie alla lettura de La Faccia Verde, Das Grune Gesicht, romanzo dato alle stampe nel 1916, a cavallo tra i due romanzi sopracitati.
Prima di scendere nel merito mi preme fare una premessa, utile soprattutto a chi non conosca l'autore (monumentale) di cui ci approcciamo a parlare.
Leggere Meyrink, lo abbiamo già indicato nelle scorse recensioni, non è prerogativa da tutti. I suoi romanzi non sono opere di intrattenimento, ma, sotto la parvenza del fantastico, sono dei veri e propri percorsi iniziatici, tracciati, di volta in volta, in nome di tradizioni esoteriche diverse, intrisi di una filosofia ascetica che va oltre al mero narrato. In altri termini, siamo alle prese con opere che utilizzano il “veicolo” narrativo per fare filosofia, stimolare domande esistenziali e, per certi versi, dare risposte alternative rispetto a quelle offerte dalle religioni tradizionali. Ne deriva l'ideazione e la stesura di opere non adatte a un lettore medio o orientato su letture banali o frivole. Leggere Meyrink è, prima di tutto, impegno e studio. Il suo stile elegantissimo e attento alla descrizione dei contesti ambientali e dei tessuti sociali, in special modo legati alla cultura ebraica, offre squarci sociologici del primo novecento europeo (nel romanzo in questione alla tradizionale Praga si sostituisce Amsterdam), con i ghetti e quell'atmosfera in cui si odono ancora gli echi di guerra e in cui inizia ad alzarsi un vento antisemita che esploderà, nell'indifferenza generale, negli anni trenta. Meyrink è anche questo, ovvero storia, ma è soprattutto un percorso ascetico, che fa forza sui diversi e possibili cammini atti a scoprire il vero senso della vita dell'uomo in modo da spendere l'esistenza terrena in vista della conquista futura, oltre questo mondo, oltre gli insegnamenti essoterici. Ne deriva dunque un'impostazione che diventa non di agevole lettura, pur se non impossibile al neofita, con veri e propri pezzi di dottrina esoterica che vengono inseriti, sotto forma di dialoghi o di visioni estatiche, all'interno di una storia che funge da mero pretesto per mettere in scena il campionario di volta in volta esaminato. Ecco allora che chi si approccia a Meyrink lo deve fare da studioso, da lettore che vuole essere iniziato o, quanto meno, indottrinato circa le conoscenze esoteriche (si badi bene, non paccottiglia occulta, come la definirebbe Arthur Machen) del primo novecento. Non deve invece indirizzarsi a questo autore chi intende leggere una storia per il gusto di ricercare il brivido facile (che comunque Meyrink riesce a regalare) o per divertirsi cercando di capire come andrà a finire la storia che coinvolge i vari personaggi. Tutto questo è marginale e incidentale rispetto al fine, assai più alto, che giustifica l'impegno dell'autore. Meyrink non scrive per divertimento né per divertire, Meyrink, da Grande Maestro, scrive per formare. Ecco allora che la narrativa fantastica evolve a narrativa esoterica, quella con la “E” maiuscola.

Dopo questa premessa veniamo al romanzo in questione che segna, in un certo qual verso, l'anticipazione della dottrina del risveglio (conosciuta quale la Quarta Via ovvero la Via dell'Uomo Astuto) su cui costruirà, cinque anni dopo, la propria fortuna l'esoterista armeno Georges Ivanovic Gurdjieff, un maestro apprezzato e omaggiato da artisti del calibro di Franco Battiato (si pensi alla canzone Centro di Gravità Permanente).

Ci troviamo in una Amsterdam povera, fosca e triste, eppure divenuta cosmopolita, meta di arrivi da ogni parte d'Europa, tanto da esser definita “un'arena internazionale di istinti selvaggi e confusi.” È l'epoca legata alla fine della grande guerra, la prima guerra mondiale, che non è stata sufficiente a ridestare l'umanità da un imminente kali yuga, ovvero l'epoca buia da cui la società è sempre più inghiottita. “È vicino il tempo in cui all'umanità saranno strappati gli ultimi punti di appoggio e una tempesta spirituale spazzerà via qualsiasi cosa che mano d'uomo abbia costruito. Dalla rovina si salveranno solo coloro che saranno riusciti a vedere dentro di sé il volto verde, colui che mai assaporerà la morte.” Per tutto il corso del romanzo spira un'atmosfera profetica da catastrofe imminente, cosa che peraltro in chiave metaforica (col crollo di una Chiesa) si registrerà alla fine, necessaria a indurre gli uomini a modificare l'atteggiamento materialista che sta conducendo la quasi intera stirpe alla morte spirituale e all'impossibilità di conquistare la vita eterna. “Era questo a farlo restare senza fiato: che il tempo, di solito così paziente nel procedere, precipitasse al galoppo sfrenato nel buio della notte spirituale.
Il ventesimo secolo viene visto alla stregua di un volume dalla sfarzosa copertina che promette un contenuto di gran valore per poi scemare in una banalità spiccia e volgare. “Sembra davvero l'essenza del ventesimo secolo: fuori spocchiosa alterigia da eruditi e dentro brama di donne e di denaro.” È in questo contesto di condanna sociologica e di pessimismo, in cui si riconoscono le vicende biografiche di Meyrink, che si muovono i bizzarri personaggi plasmati dall'autore e lo fanno, a loro insaputa iniziale, orchestrati da quella che viene definita “una mano invisibile che sfida a un gioco diabolico” e che è a caccia di eletti (in realtà sono gli stessi eletti a evocare il volto verde e non viceversa, ma questo lo scopriranno alla fine) capaci di superare un percorso che può portare alla perdizione così come al paradiso. Centrale, infatti, è l'apparizione di un volto verde che, in diverso modo (chi in visione, chi nel ricordo di un quadro, chi avendolo visto in un manoscritto trovato per caso, chi materializzato in uomo trovato in strada e chi nei ricordi raccontati dal padre), si manifesta ai numerosi personaggi del romanzo. “Nel nostro sviluppo interiore esistono certe pietre miliari che ci indicano quando entriamo in un altro territorio e questa pietra miliare si rivela nella coscienza di tutti coloro che sono maturi per viverla con un'uguale esperienza interiore” così cerca di giustificare le strane coincidenze uno dei vari personaggi del romanzo, specificando che il volto verde altro non sarebbe che una di queste pietre miliari. Possiamo allora già intuire la caratterizzazione dei personaggi del romanzo, dei veri e propri individui che, nel loro procedere da eremiti, vivono un rapporto inverso rispetto alla massa fino a tramutarsi in uomini che si muovono in un mondo di spettri (e non viceversa come potrebbe dedurre un osservatore medio). A Meyrink piace giocare con le contraddizioni, gettando le coordinate di un romanzo che è un vero e proprio percorso iniziatico di risveglio, diretto alla conoscenza di sé stessi e al dominio dei propri pensieri per vincere il corpo e i desideri carnali così da ascendere alla conquista spirituale e con questa all'immortalità

Ne deriva la presenza di soggetti che si interrogano sul senso della vita e su quale sia il fine della stessa, ormai disgustati dal resto. Persino l'amore, perché Il Volto Verde è anche un romanzo d'amore, evolve dal piano carnale a quello mentale e spirituale. “Se voleva salvarsi dal suicidio per tedio non gli restava lasciarsi guidare senza opporre resistenza finché la sorte non gli avesse offerto un punto di vista stabile o non avesse invece proclamato con parole definitive: Non c'è nulla di nuovo sotto il sole; lo scopo della vita è morire” così viene presentato il protagonista, un ingegnere austriaco che si è annoiato della vita convenzionale e si è rintanato ad Amsterdam vagando, di strada in strada, senza conoscere il nome delle vie e senza aver programmi, fino a entrare, per puro caso (sottrarsi al cattivo odore di pesce marcio di alcuni ragazzi), in una bottega delle meraviglie in cui si vendono cianfrusaglie e magie. Una situazione questa che ricorda molto da vicino l'esperienza di vita di Meyrink, che giunse al punto di spararsi un proiettile nel cervello, per poi arrestarsi vedendo passare sotto la porta della propria camera un opuscoletto che pubblicizzava oggetti legati al mondo magico e occulto. Da questo episodio si dipaneranno tutti i fatti, l'uno concatenato all'altro da una visione che finisce per coinvolgere tutti i protagonisti.
Sulla stessa lunghezza d'onda è il secondo personaggio centrale dell'opera, un dottore ebreo studioso di tradizioni e di filosofia. “Ho riflettuto sulle cose dell'aldilà molto più di quanto lei pensi: un'intera vita ho torturato il mio cuore e il mio cervello per scoprire se davvero esista alcuna possibilità di fuga dal carcere terreno. No, non esiste! Lo scopo della vita è attendere la morte” così sentenzia il dottore, dovendo poi ricredersi. Pressoché identici sono tutti gli altri personaggi, tra cui uno zulu africano. Individui che ripudiano la vita terrestre e che hanno mire e obiettivi molto più stoici dell'atteggiamento epicureo che ammorba gli uomini del ventesimo secolo.
Il rinvenimento di un manoscritto, che sembra sintetizzare tutte le varie visioni dei personaggi in questione e che sarà fondamentale per l'evoluzione del protagonista, alimenterà la riflessione e soprattutto spronerà allo studio tutti i personaggi coinvolti. Le coincidenze, ritornanti, sono così tante da celare una realtà invisibile che suggerisce sempre più il superamento del materialismo e dell'atteggiamento rinunciatario proprio delle religioni convenzionali, giudicate cammini per deboli (“uno sperare in Dio e nella venuta del Messia”, dunque un percorso che vede l'uomo in veste passiva, intento solo a confidare nell'altissimo). Ed ecco allora che la speranza di una vita ulteriore prende di nuovo a montare. “Chi crede di aver ricevuto la vita per aprire la strada ai posteri vuole illudersi... Quelli che credono che la vita cominci con la nascita e finisca con la morte non vedono il cerchio. Come possono allora spezzarlo?

Prima di rispondere a questa domanda c'è da comprendere quale sia lo scopo della vita? Meyrink non fa giochi di parole ma, per mezzo del suo romanzo, è chiarissimo, anche se a tratti complesso. “La vita esteriore è un processo di guarigione spirituale.
Compito dell'uomo è conquistare l'anima immortale ovvero trasformarsi, ancora in vita (e non a seguito della morte), in spirito disgiungendosi dal corpo ed evolvere così dallo stato di schiavo (in balia del corpo e dei comportamenti indotti dalle abitudini) a quello di onnipotente. Il corpo muore, lo spirito se sviluppato è immortale. Primo passo da compiere è superare lo stato di sonno e conquistare la veglia in una sorta di corsa contro il tempo. Gli uomini medi vengono visti come “ottusi, indifferenti e spensierati” alla stregua di un “branco di animali diretti al macello”. “L'umanità si è costruita inconsapevolmente un muro: il materialismo. Tale muro è una protezione infallibile, è un simbolo del corpo, ed è il muro di una prigione che impedisce la visuale.” Occorre imparare a evocare lo spirito che deve indicare la via e a cui si può accedere solo in nome dell'amore di un altro individuo, onde evitare di risvegliare le forze delle tenebre. Non c'è spazio per gli egoismi, sembra quasi che Meyrink introduca questo correttivo per fare dell'amore una delle chiavi atte a scardinare le serrature che proteggono i segreti del mistero della vita. “Con le proprie forze nessuno è in grado di compiere questo cammino, è necessario che qualcuno dall'altro mondo venga a spostare i lumi.” L'uomo infatti è ottenebrato, è un individuo dormiente che crede di esser sveglio. Un contenitore in balia di comportamenti automatici e non veramente coscienti. “Tutto ciò che l'uomo crede prima che i lumi in lui vengano spostati è falso... Si crede di ricevere e invece si dà. Si crede di stare fermi, in attesa, e invece si va e si cerca.” L'autocoscienza, relativa al proprio stato di dormiente, diviene dunque il primo passo su cui lavorare. 

Vincere gli ordini del corpo è il secondo gradino su cui muovere. Il corpo altro non è che un limite avente la funzione di fungere da chioccia presso cui stare sereni e tranquilli, ma che, alla fine della vita, condurrà a morte spirituale chi non ha saputo avventurarsi all'esterno di esso, trasformando il proprio Io in puro spirito. Intraprendere il cammino del risveglio significa avventurarsi in un percorso che conduce al di là dell'umanità mortale, tra insidie non di poco conto e su cui si può incontrare la follia. L'uomo può imparare a separarsi dal proprio corpo e giungere all'altro capo del “ponte della vita”, una condizione quest'ultima, ultimo stadio dell'evoluzione, per la quale occorre l'unione con una donna. Si badi bene però, non un unione carnale e corporea che deve avvenire nel mondo sensoriale. “Un uomo da solo non può raggiungere questo traguardo, ha bisogno di una compagna. Solamente le forze congiunte dell'uomo e della donna rendono possibile l'impresa In questo sta il senso più profondo del matrimonio.” Meyrink, che nel romanzo introdurrà una storia di un amore platonico non consumato, parla di quello che in alchimia viene definito l'androgino alchemico. L''unione di cui si parla, e che si realizzerà su un piano spirituale, è una vera e propria nozze alchemica che porta all'androginia spirituale e permette all'uomo di conquistare la condizione divina, fondendosi quasi in una nuova entità a termine di un percorso che porta alla completezza assoluta
Sopra l'uomo non c'è nessun Dio. Quello che l'uomo considera Dio è solo una condizione che egli stesso potrebbe raggiungere se fosse in grado di credere in sé; nella sua inguaribile cecità, invece, innalza una barriera che non osa scavalcare. Egli crea un'immagine da adorare anziché tramutarsi in essa.” In questo c'è, a mio avviso, il superamento delle religioni in Meyrink, in un'ottica che qualcuno non perderebbe tempo a definire luciferina. “Sventurati coloro che pregano un idolo e ne sono esauditi: in questo modo perdono il loro Io, perché non potranno più credere di aver esaudito da se le proprie preghiere.” Ecco allora che la vita terrena diventa un passaggio obbligato per ascendere a uno status superiore di esistenza. L'uomo non deve confidare in santi o intercessioni divine, deve capire qual'è il suo ruolo e attivarsi in una crescita che ha il sapore di una lotta di sopravvivenza, in quella che è una tappa fondamentale per evitare di morire e ritornare ciclicamente in vita (“Risorgeranno, pur se in forma diversa, finché non avranno raggiunto l'ultima forma suprema, quella dell'uomo risvegliato che non muore più”) finché non venga compiuta la missione.

L'aldilà di Meyrink, dunque, non è un posto ameno, ma un piano esistenziale superiore che insiste su quello tipicamente “umano” come una sorta di quarta dimensione sovraesposta alle tre conosciute con la nascita fisica. Gurdjieff, qualche anno dopo l'uscita de Il Volto Verde, parlerà di Quarta Via sostenendo che l'uomo non nasce con l'anima, ma la deve conquistare con il lavoro cosciente e la sofferenza intenzionale.” Sofferenza, quest'ultima, necessaria per piegare il corpo ai voleri del pensiero cosciente. Come Meyrink, l'esoterista armeno, spenderà fiumi di parole sulla condizione dormiente dell'uomo e sulla necessità di un suo risveglio.

Il Volto Verde diviene così il percorso iniziatico di un protagonista, una sorta di alterego dell'autore stesso, il quale, attraverso una serie di coincidenze che coinvolgeranno numerosi personaggi, riuscirà a comprendere, soprattutto per l'amore per una ragazza scomparsa e a cui potrà congiungersi solo al di là della condizione corporea, i limiti della condizione umana e a sviluppare il proprio spirito così da tramutarsi in una sorta di "Giano bifronte" sospeso tra il mondo di qua e quello di là nella nuova e unica condizione di "uomo vivo".

Lo stile è a tratti complesso, molto visivo con dei momenti onirici di grosso impatto. Non manca, in qua e in là, qualche punta propria della narrativa del terrore, in particolare le parti che vedono coinvolte un stregone africano con il culmine offerto dall'apparizione di un serpente antropomorfo. Tuttavia, chi intende leggere questo magistrale romanzo fantatico lo deve fare per il contenuto esoterico che ne sta alla base e non certo per la storia, in sé e per sé. Se siete decisi ad avventurarvi nella lettura, preparative a intraprendere un percorso iniziatico mirato alla conquista dell'eternità e al superamento della morte.

Per chi sia intenzionato a comprare l'opera suggerirei un volume con una prefazione o una postfazione, perché il testo è tutt'altro che agevole. L'edizione Adelphi del 2000 che ho letto io è prima di qualunque cenno di studiosi e pertanto non aiuta la comprensione del testo.

Gustav Meyrink

"A tratti quelle parole sembravano pronunciate ora da Pfeill, ora da Sephardi, ora da Swammerdam. Capì allora che tutti e tre erano animati dal medesimo spirito emanato da quel manoscritto, e che il tempo aveva fatto di loro quasi delle copie per educarlo a diventare uomo vero.."

venerdì 10 agosto 2018

Recensione Narrativa: LA PIRAMIDE DI FUOCO di Arthur Machen.



Autore: Arthur Machen.
Titolo Originale: The Shining Pyramid.
Anno: 1895.
Genere: Horror.
Collana: La Biblioteca di Babele.
Editore: Mondadori, 1989.
Pagine: 186.
Prezzo: Trattitiva Privata (prezzo copertina 9.000 Lire).

A cura di Matteo Mancini
E' il 1977 quando Jorge Luis Borges, forse il più quotato e qualitativo autore di fantastico, in veste di curatore, decide di rendere omaggio, tra gli altri, al grande Arthur Machen e lo fa con parole lodevoli ponendo lo scrittore gallese sullo stesso piano di un poeta, seppur definito minore in quanto settoriale, del calibro di Verlaine.
Borges sceglie tre racconti che, curiosamente, vengono nello stesso anno tutti recepiti, insieme ad altri del "ciclo Dyson", nell'antologia I Tre Impostori edita dalla Fanucci. Escono così in contemporanea in Italia, dopo anni e anni di silenzio e la pubblicazione dei soli La Polvere Bianca, tradotta in italiano nel 1960 da Einaudi insieme a Il Terrore e riproposta nel 1972 insieme a La Luce Interiore da Del Bosco Editore, e La Storia del Sigillo Nero, tradotto in italiano nel 1963 dalla Mondadori, due volumi per la prima volta interamente dedicati a Machen. Da una parte abbiamo la casa editrice Franco Maria Ricci che, rilevando i diritti della collana La Biblioteca di Babele curata da Borges, pubblica il trittico di racconti scelti dal gran maestro argentino. Dall'altra abbiamo la Fanucci che pubblica l'intero ciclo Dyson, comprendendo nel proprio testo il trittico dei racconti proposti da Borges oltre l'intero progetto de I Tre Impostori e tre ulteriori racconti.
Ecco che la scelta di Borges esce gravemente penalizzata sul mercato italiano, subito superata (sarà riproposta dalla Mondadori nel 1989) per quantità dalla Fanucci e con una sola novità rispetto a quanto già proposto in Italia ovvero il racconto La Piramide di Fuoco, The Shining Pyramid, scelto quale titolo del volume. E' su questo racconto che ci concentriamo, avendo già analizzato nella precedente recensione gli immancabili La Storia del Sigllo Nero e La Storia della Polvere Bianca che puntualmente ricompaiono nel progetto.

Ne La Piramide di Fuoco tornano le ambientazioni e le tematiche de Il Sigillo Nero. Machen trasporta di nuovo il lettore nelle verdeggianti colline della campagna inglese, o più probabilmente gallese, e questa volta lo fa trascinando lo stesso Dyson sul campo d'azione. L'aspirante scrittore, che si professa innamorato di Londra, si trasforma in vero e proprio indagatore e riesce, contrariamente ne I Tre Impostori, a interpretare bene gli indizi così da anticipare gli eventi. Ancora una volta però potrà fare ben poco per salvare la vita delle sfortunate vittime cadute nelle maglie del male. 
Se ne I Tre Impostori era stata l'attività di osservazione disinteressata a fare imbattere Dyson in una storia bizzarra e dai risvolti esoterici, questa volta è un amico che giunge a Londra a chiedere il supporto del dandy inglese. L'uomo è infatti inquietato da una serie di raffigurazioni, disegnate sul retro della propria casa, che si sono susseguite, di giorno in giorno, con l'apposizione di sassi di selce, e che gli hanno fatto pensare ai messaggi in codice di un ladro o di un gruppo di zingari per segnalare il materiale prezioso che l'uomo possiede all'interno delle mura della propria abitazione.
Dyson, poco convinto delle tesi dell'amico, si reca in campagna e studia il fenomeno, venendo colpito dalla descrizione dei vari disegni ovvero una serie di linee allineate (da lui definite quale rappresentazione di un esercito), poi i raggi, una ciotola (poi definita la coppa), una piramide e infine una mezzaluna. Dopo le raffigurazioni, Dyson nota l'insorgere, su un muretto vicino, di una serie di occhi dal taglio orientale, tracciati uno al giorno a circa un metro da terra fino a un massimo di quattordici. Lo scrittore si convince che il tutto faccia parte di un messaggio in codice che prova  a collegare al racconto relativo alla scomparsa, qualche settimana prima, di una giovane che si era incamminata da sola in una scorciatoia nel mezzo del verde delle colline. Nelle sue peregrinazioni sulla via dei sentieri battuti dalla giovane, Dyson si ritrova in un'area che gli ricorda il profilo di una coppa e si convince che la zona sia connessa alla raffigurazione praticata con la selce. Ma chi potrebbe mai aver fatto quei disegnei e perché? Questo è il quesito su cui ruota l'intera storia.
Ecco che, con un processo deduttivo (sconosciuto al Dyson de I Tre Impostori), lo scrittore scarta tutte le possibili soluzioni che vedono gli scolari in transito di giorno, gli zingari, i domestici e i campagnoli eliminati di volta in volta dalla rosa dei sospetti. Il tutto si concentra, data la particolare ubicazione del muretto interessato dai disegni e l'altezza in cui gli stessi sono stati apposti, su un profilo che vede dei soggetti di altezza compresa tra i novanta centimentri e un metro nonché dotati di una vista particolarmente sviluppata in grado di permetter di vedere al buio (un po' come registrato per i prigionieri costretti a vivere, per anni, in celle al completo buio) quali autori del complesso quadro di disegni. 

Gli sforzi di indagine dello scrittore vengono premiati e lo stesso riuscirà a mostrare all'amico l'evento pubblicizzato, è il caso di dire, dagli strani disegni. I due, acquattati ai filamenti d'erba, nel cuore delle colline gallesi e tremando di orrore, assisteranno a una sorta di sabba gestito dai rappresentanti del piccolo popolo e che vedrà, in veste sacrificale, la ragazza rapita, ormai disgregata in un "putrido rifiuto che agitava continuamente gonfi e orribili tentacoli striscianti", trasmutare in nuova creatura in un'involuzione che le consentirà di accedere al suo nuovo mondo ovvero quello dell'oltretomba, nei luoghi segreti al di sotto delle colline.
Dyson, in modo un po' didascalico, spiegherà a fine racconto il processo che ha seguito per giungere alla conclusione, ma nonostante ciò troverà nel suo amico un uomo che preferisce l'ignoranza alla conoscenza. Quest'ultimo confesserà di voler restare legato agli insegnamenti riconosciuti dalla società piuttosto che comprendere i veri misteri della vita. "Ho vissuto sempre sobriamente come tuti gli uomini timorati di Dio e non posso fare altro che credere di avere sofferto di qualche mostruosa allucinazione." Come dire: non c'è peggior cieco di chi non voglia vedere...

Machen conferma lo stile elegante e piazza una sublime e terrorizzante descrizione del sabba del piccolo popolo, momento in cui il racconto tocca il proprio apice qualitativo. Per il resto gioca un po' a fare il Conan Doyle della situazione, scegliendo, alla fine, la via didascalica per spiegare tutti i passaggi seguendo la prerogativa tipica della narrativa gialla dell'epoca. The Shining Pyramid diviene così un racconto minore nella produzione di Machen, caratterizzato da una struttura da racconto giallo costruita su un soggetto tipicamente horror che non ha l'intensità e la capacità di inquietare come La Storia del Sigillo Nero o come La Storia della Polvere Bianca, riuscendo tuttavia a trasmettere la magnificenza e la pace estatica del contesto gallese teatro, tuttavia, di riti blasfemi orditi da quelli che Machen definisce "i rappresentanti degli abitanti preistorici che vivevano nelle caverne delle campagne della Turania." Un contrasto dunque che riproduce quella dicotomia tra bene e male evidenziata, in prefazione, dallo stesso Borges che scrive che "l'esistenza del male, non è mera assenza del bene, ma una coalizione di entità che lotta incessantemente contro il bene, e che ha la possibilità di vincere." Le creature della luce da una parte e le creature delle tenebre dall'altra in quello che è l'infinito confronto della vita.

A chi fosse interessato alla lettura del racconto consigliamo l'acquisto dell'edizione de I Tre Impostori edita dalla Fanucci nel 1977 o nel 1991, non prendete invece l'edizione del 2004 perché in essa la Fanucci ha deciso di tagliare, tra gli altri, il racconto in questione.

Un Machen attempato
pronto a una bella passeggiata
per i vicoli di Londra.

"Una grande piramide di fiamma si elevò come una guglia e fu come il precipitare di una cascata, che proietto un fascio di luce su tutta la montagna. In quel momento Vaugham vide nella cavità miriadi di forme umane, contorte come bambini orribilmente deformi, e i volti, con occhi a forma di mandorla, brucianti di infernale e indescrivibile lussuria, lo spettrale giallo della massa di carne nuda."

giovedì 9 agosto 2018

Recensione Narrativa: I TRE IMPOSTORI di Arthur Machen.



Autore: Arthur Machen.
Titolo Originale: The Three Impostors.
Anno: 1895.
Genere: Romanzo giallo/horror circolare.
Editore: Fanucci, 2004.
Pagine: 192.
Prezzo: 7,50 euro.

A cura di Matteo Mancini.
The Three Impostors ovvero il capolavoro circolare di Machen, come ebbe modo di definirlo lo storico di religioni e conoscitore di dottrine esoteriche Elemiere Zolla, o il “Decamerone del mistero” come è stato definito da altri studiosi del fantastico.
E' il genere di libro, come giustamente ha sottolineato il critico David Trotter, che obbliga il lettore a una seconda lettura; sia per il suo presentarsi quale romanzo circolare, con una serie di racconti interconnessi tra loro, sia, a mio modo di vedere, per il forte impatto allusivo che trasforma la circolarità del romanzo in un vero e proprio puzzle che richiede la scomposizione dei vari racconti e la ricomposizione in vista dell'unicum generale. Comunque un Machen piuttosto complesso, che parla di letteratura, stile nella letteratura e nella vita, Londra, materialismo e spiritualismo in un modo tale che può esser proprio solo di un tipo di letteratura: l'esoterica. 

Il progetto inizia a prendere forma nel 1890. Machen ha appena ventisette anni, quando stende le prime storie in vista del termine che si concretizza cinque anni dopo. Romanzo curioso, verrebbe da dire sperimentale, costruito seguendo l'insegnamento lasciato da Robert Louis Stevenson con Le Nuove Mille e una Notte (1882) e soprattutto con la struttura de Il Dinamitardo (1885). L'autore gallese, come il collega scozzese, realizza cioè un volume caratterizzato da una serie di racconti apparentemente scollegati tra loro che, a poco a poco che la narrazione procede, sconfesseranno la loro estraneità per convergere su un trait d'union centrale che funge da collante dell'intera vicenda. Ne esce un'opera complessa, a tratti filosofica e a tratti satirica, in cui Machen, come si potrebbe fare in un gran calderone, butta dentro tutto ciò che lo riguarda e lo interessa. Così imperversano gli aspetti autobiografici, la passione per l'esoterismo e le tradizioni popolari dell'amato Galles fino al vezzo di vagabondare per le vie londinesi dissertando su aspetti filosofici e sociologici (Machen scriverà un volume sull'Arte del Vagabondare). In breve, c'è dentro tutto l'Arthur Machen che sarebbe, da lì a poco, maturato nella visione spirituale e ascetica qua non ancora ben evidenziata.

Possiamo dunque definire I Tre Impostori un'opera metaletteraria, sia per gli spudorati richiami alla produzione “stevensoniana” sia per avere al suo interno dei personaggi che raccontano storie che acquisiscono il rango di racconti nel racconto, così forti da assumere valenza autonoma da debordare dal volume di riferimento per confluire in antologie e raccolte varie, tanto da superare in valore e importanza quella dell'opera più complessa da cui sono tratte. Costituiscono importante esempio i racconti La Polvere Bianca e La Storia del Sigillo Nero definiti “il contributo più sconvolgente di Machen alla narrativa dell'orrore”. Non a caso detteranno, in modo decisivo, le coordinate della produzione di un certo Howard Philips Lovecraft allo stesso modo de Gli Dei di Pegana di Lord Dunsany e degli elaborati allucinati di Edgar Allan Poe.

Al centro dell'intreccio troviamo due giovani signorotti benestanti che passano il tempo a dissertare in tabaccheria, nei salotti o per le vie di Londra. Si tratta di due individui complementari che ricordano, per caratterizzazione, la coppia Fox Mulder e Dana Scully del fortunato serial X-Files, differenziandosi da questi per non essere dei veri e propri indagatori nel senso giuridico del termine. Da una parte abbiamo il sognante Dyson, scrittore talentuoso che cerca vanamente l'idea per consegnare alla storia il suo capolavoro artistico, dall'altra il pragmatico Phillips, sostenitore dello stile (da anteporre alla sostanza) e della scienza (biologo e paleontologo mancato) nonché detrattore del meraviglioso nella letteratura. “Nessuno ha diritto di servirsi in letteratura del meraviglioso, delle coincidenze strane, perché il meraviglioso e l'improbabile non si verificano e le vite degli uomini non sono tracciate dalle coincidenze strane” così dice all'amico Dyson, aggiungendo che in letteratura “il tema ha poca importanza, poiché l'abilità più grande consiste nel prendere un tema apparentemente banale e tramutarlo, grazie all'alchimia dello stile, nel puro oro dell'arte.
Machen si diverte a giocare, in chiave satirica, con questi improbabili e originali “anti-indagatori” che, più che scoprire qualcosa, si troveranno in veste di meri e impotenti osservatori delle “mille coincidenze che ogni giorno sono in atto per le vie di Londra”. David Trotter, nella sua colta prefazione (che in realtà suonerebbe meglio come postfazione), definisce Dyson un erede dei flaneur del primo ottocento parigino ovvero gli eleganti passeggiatori che si raccoglievano nelle gallerie di Parigi con l'unica occupazione di osservare la folla urbana e documentare l'apparizione della modernità nelle strade della città. "La vita è peggiorata, siamo in piena decadenza. Riconosco un generale apparenza di squallore; ci vuole molta filosofia per estrarre il meraviglioso e il bello, eppure abbiamo alcuni vantaggi. Davanti a noi si spiega il più grande spettacolo che il mondo abbia mai veduto: il mistero delle strade innumerevoli, le strane avventure che debbono nascere infallibilmente da una pressione d'interessi così complessi..." Ecco che Dyson, regalando queste impressioni agli interlocutori di volta in volta diversi, ha la sensazione nell'incamminarsi per le vie di Londra di essere “seriamente a lavoro”, facendo estrema attenzione all'osservazione dell'umanità, del traffico e delle vetrine. E sarà proprio questo vezzo che lo porterà, suo malgrado, a lambire il mistero legato al rinvenimento di una moneta di estremo valore, un reperto da collezione gettato in un vicolo londinese da un uomo in fuga seguito da un secondo intento a brandire un coltello al vento. La soluzione del caso in cui i due improbabili indagatori verranno catapultati sarà costantemente sotto il loro naso, eppure non riusciranno a coglierla, se non nel truce e cattivissimo finale che ribalterà i ruoli che gli stessi si erano prefigurati. Machen, peraltro, gioca a fare il beffardo e porrà i due in costante appoggio ai manigoldi, camuffati da persone bisognose o frodate, incaricati di compiere il crimine che è stato loro commissionato da un probabile Gran Maestro di un'organizzazione segreta a sfondo iniziatico ed esoterico. 
Così vedremo Dyson beffeggiato continuamente dai personaggi che si troverà a incontrare per Londra, proprio lui che aveva dichiarato di “andare come un cavaliere errante in cerca dell'avventura”, e che gli chiederanno, ognuno con giustificazione menzognera diversa, se ha visto un giovane uomo con favoriti e occhiali neri, accusato, di volta in volta, dei più assurdi misfatti (assassino ricercato per delitti intercontinentali, ladro di gemme preziose, fratello accompagnato da un essere mostruoso). Sorte ben peggiore toccherà a Phillips che dovrà sacrificare la propria incrollabile fede pragmatica e materialista sull'altare di quel meraviglioso e improbabile che, contrariamente dalle sue opinioni, imperverserà nella intera vicenda in cui si troverà trascinato dall'amico Dyson. “Nessuno può indurmi a rinnegare le mie convinzioni. Non crederò mai, e non fingerò mai di credere, che due e due facciano cinque, e non ammetterò mai che esistano triangoli con due lati” questo il suo sfogo al cospetto di una ragazza che, prontamente, gli racconterà una storia folle che sconfesserà la scienza (il protagonista della vicenda è un etnologo proprio come Phillips), ribaltando la teoria darwiniana, e con essa ogni principio di ragione.

Ecco allora che emerge un mystery, che ruota su un accadimento degno di un romanzo giallo (una vera e propria caccia all'uomo), pur dipanandosi con aneddoti e storie (che poco hanno a che fare con quella centrale) da puro orrore cosmico, snodato tra i vicoli di una Londra labirintica che si apre alla campagna circostante tra strade semi deserte e stabili di nuova costruzione che altro non sono che la testimonianza diretta di un'urbanizzazione sempre più estesa verso la periferia campestre. Un contesto in cui le coincidenze sono all'ordine del giorno e in cui tutto sembra esser gestito da un regista occulto che pianifica ogni azione alla stregua di chi conosce il futuro e lo giostra a proprio a favore. ”Mi convinsi che l'intera faccenda era uno scherzo gigantesco, una costruzione follemente improbabile... Con quali mezzi Lipsus poteva aver conosciuto il giorno esatto e il treno che Headley avrebbe preso? E come indurlo a salire su una particolare carrozza tra le tante che aspettavano? Pensavo che fosse un romanzo milesio” confesserà l'individuo braccato per tutto il corso del romanzo, dovendo tuttavia riconoscere, poco dopo, che quanto gli era stato prospettato e lui aveva giudicato come “improbabile” si era verificato puntualmente proprio come se esistesse un copione ben determinato. “Chi può presumere di predire gli eventi, quando la vita stessa indossa i panni della coincidenza e mette in scena un dramma?” si domanderà poco dopo Dyson. La risposta a questi quesiti verrà sciolta in modo assai inquietante dal deus ex machina che muove i fili dell'intera storia: il dottor Lipsius, un assiduo frequentatore della sala di letture del British Museum nonché capo di quella che si potrebbe definire una setta satanica orientata alle orge di gruppo e soprattutto sostenitrice di un edonismo da contrapporre ai voleri immutabili dell'Eterno. Il motto di Lipsius è: “la grandezza di tutte le scienze, la casa di ogni conoscenza, è la scienza e l'arte del piacere”. Proprio su quest'ultimo aspetto sono importanti le analogie che possono trovarsi nel racconto La Storia della Polvere Bianca, raccontata nel corso del romanzo, da cui reperiamo la caratterizzazione del soggetto protagonista (uno studente di giurisprudenza che conduce una vita da eremita), il cambiamento radicale di vita dello stesso dopo aver assunto per una serie di volte una bevanda diluita con una polvere utilizzata per preparare il Vino del Sabba, la trasformazione da eremita a dissoluto preda del vizio e dei piaceri erotici, fino alla parabola finale che porta l'uomo dal divertimento sfrenato a precipitare nell'orrore più assoluto tanto da isolarsi dentro una stanza. Caratteristiche, queste ultime, che segnano la via anche al protagonista del romanzo. Un adepto che, affascinato e sedotto dalla cultura del dottor Lipsius, commetterà l'errore di volersi sganciare dall'organizzazione e prima ancora di voler conoscere i misteri e i segreti con i quali la stessa cura i propri affari. “Mi sembra un gioco di indovinelli” sbufferà per manifestare il proprio scetticismo in ordine ai programmi giostrati da Lipsius. Quest'ultimo lo ammonirà in modo sibilino, lasciando immaginare l'esistenza di una rete (“Lipsius aveva agenti dappertutto”) così estesa da controllare tutto: “qui non giochiamo agli indovinelli. Lei si annoierebbe se le parlassi di tutti questi piccoli particolari... Non pensa che sia più divertente sedere in prima fila e rimanere sbalordito, piuttosto che stare dietro le quinte a vedere i meccanismi?
E così tutto procederà secondo i piani. L'adepto ribelle verrà rintracciato dai tre impostori che danno il titolo al romanzo, ovvero tre soggetti che vagheranno per Londra sotto mentite spoglie per assumere informazioni e rintracciare il loro ricercato, e subirà una fine tremenda, tra torture e mutilazioni tali che tramuteranno il suo cadavere in “una vergognosa rovina della figura umana”. Dyson e Philipps arriveranno, pian piano, a capo della soluzione, più per caso che per meriti, ma quando collegheranno tutti i fili sarà troppo tardi. David Trotter gli accuserà di esser loro stessi colpevoli della morte del povero adepto. “Se non avessero voluto credere alle storie che hanno sentito raccontare, se non fossero diventati tanto dipendenti dallo stile, avrebbero visto il giovane con gli occhiali per quello che era veramente: l'offeso.” Da qui la conclusione finale per la quale I Tre Impostori altro non sarebbe che “un elegante romanzo sui piaceri dello stile che alla fine viene corrotto proprio dallo stile.”

Copertina inglese
che ritrae un'immagine da
LA STORIA DELLA POLVERE BIANCA.

Prima di chiudere occorre aprire una parentesi su alcuni dei racconti, da alcuni visti come menzogneri ai fini della storia centrale, narrati a Dyson o a Phillips dai tre impostori (da leggersi quali i tre cacciatori sguinzagliati dal dottor Lipsius per recuperare la moneta d'oro sottratta dal ragazzo con gli occhiali e indurre lo stesso al silenzio). Sebbene siano stati giudicati da svariati critici quali racconti funzionali a caratterizzare i tre impostori o a dar natura metaletteraria al romanzo, a mio avviso contengono degli elementi che si ritrovano nella storia centrale. Una sorta di alludere a indizi e particolarità celate in un contesto fantastico con il fine di consentire al lettore di estrapolarle per completare il puzzle che sottende alla storia centrale.

Il più celebre di questi racconti è indubbiamente La Storia del Sigillo Nero (1895), racconto che influenzerà, per stile e tematica, la penna di Howard Philips Lovecraft, basti leggere il suo Orrore a Dunwich. Una vera e propria gemma, specie se si guarda l'anno di uscita, che detterà la via della “nuova” narrativa dell'orrore ormai evoluta dal gotico da cui aveva preso le mosse. Entra in gioco la scienza o, meglio ancora, il superamento della stessa in una sorta di inversione dell'evoluzionismo darwiniano (“non scriverò mai le frasi che dicono come l'uomo può esser ridotto al fango da cui è uscito, e costretto a indossare la carne del rettile e del serpente”). Protagonista è uno scienziato, un etnologo per la precisione, che si convince, sulla base di una serie di resoconti di assassinii e bizzarre scomparse nonché di reperti siglati con lettere antiche, che sotto le alture delle colline gallesi trovi dimora un'antica razza preumana. Partito insieme ai figli e a una baby sitter, lo scienziato vedrà confermate le proprie tesi. Non contento cercherà di trasformarsi da uomo di studio a uomo di azione. Ingaggerà un giovane ragazzo, nato in circostanze misteriose e vittima di attacchi epilettici e scoprirà, nel corso di uno di questi attacchi, la sua vera natura. Il piccolo popolo è una razza compatibile all'accoppiamento con l'uomo ed è capace di dar vita a una progenie ibrida, apparentemente idiota e con caratteristiche rettiliformi celate sotto l'involucro umanoide (idea che sarà ripresa, tra gli altri, da Thomas Ligotti e poi da Laird Barron) capace di esprimersi in un idioma poco diverso dal suono inarticolato delle bestie, eppure titolare di poteri percepiti come miracolosi dalla razza umana. Vediamo dunque emergere, tra gli altri, i temi del camuffamento e dei poteri percepiti come miracolosi, aspetti che saranno in auge nella storia che funge da trait d'union nel romanzo. Machen attribuisce a questi esseri l'origine delle fiabe e delle leggende legate al piccolo popolo (i vari folletti ed elfi, purificati dalla tradizione rispetto alla loro vera essenza) ovvero a un folklore funzionale a esorcizzare la portata maligna che sta alla base di questi esseri. “Giunsi alla conclusone che le fate e i diavoli erano di un'unica razza e di un'unica origine... una razza isolata dalla grande marcia dell'evoluzione che aveva conservato come reliquie certi poteri per noi del tutto miracolosi.” Intenzionato a scoprire ancora di più e a entrare in contatto con queste creature, il dottore finirà con lo scomparire nel nulla, pagando con la pelle la propria sete di conoscenza (come succederà alla vittima dei tre impostori).

Meno originale di quanto appaia all'inizio, quanto meno in alcune sue parti, è La Storia della Polvere Bianca (1895). Ancora una volta assistiamo all'involuzione dell'uomo in una creatura bestiale, dai tratti animaleschi. Questa volta a essere determinante è una polvere che viene somministrata, per errore, a un ragazzo che ha fatto dello studio la sua unica ragione di vita. La cura si rivela inizialmente azzeccata, tanto che il giovane decide di accantonare lo studio per trascorrere notti all'insegna del divertimento e della disinibizione. Machen, da maestro quale è, allude all'adesione alla lussuria più sfrenata in un erotismo velato che non mostra mai volgarità, eppure suggerisce tutto. Preoccupata per la trasformazione comportamentale del fratello, la sorella dello stesso contatta il medico che gli ha somministrato la cura, in modo da fare chiarezza. I due contattano il farmacista che ha preparato l'intruglio e scoprono che la sostanza che è stata somministrata per giorni al ragazzo è la polvere con cui veniva preparato il vino del Sabba. “Colui che aveva bevuto si trovava accanto una compagna dal fascino ultraterreno, che lo chiamava in disparte a godere di gioie più squisite, più penetranti dell'ebbrezza di qualunque sogno, a consumare le nozze del Sabba... la dimora della vita si scindeva e la trinità umana si dissolveva; e il verme che non muore mai, che dorme in ognuno di noi, veniva reso tangibile, esteriore, vestito di carne.”
La scoperta va di pari passo con una metamorfosi nel ragazzo non più solo comportamentale ma anche fisica che lo porterà alla disgregazione e rimodulazione sopraccennata. La sorella scopre infatti una strana macchia su una mano del giovane che, prontamente, provvede a fasciarla così da celarne la vista. Chiamato ancora una volta a intervenire il medico, quest'ultimo analizza il corpo del ragazzo riscontrando l'inizio di una trasformazione in bestia. Machen, da qui in avanti, sviluppa il soggetto guardando ancora al fido Stevenson con soluzioni che chiamano alla mente l'epilogo de Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde. La sorella, che non vede da giorni il fratello che si è rintanato in camera, nota dalla strada una sorta di bestia chiudere dall'interno la persiana della finestra in cui dorme il fratello. Convinta che lo stesso abbia in camera un mostro, scoprirà, sfondando la porta insieme al medico, quale sia la triste realtà, in una conclusione che, forse, influenzerà il maestro Franz Kafka per il suo famoso capolavoro La Metamorfosi (1913). 
Racconto notevole, soprattutto per la sua prima parte, dove ancora una volta si assiste alla sconfitta della scienza e del pragmatismo a vantaggio del mondo occulto e ancestrale. “Abbiamo riso di cuore delle anime occulte del nostro tempo, camuffate sotto vari nomi... da qualche tempo però autentici scienziati hanno proposto ipotesi trascendenti... Ora so che le mura dei sensi che sembravano dominare il cielo e aver fondamenta così profonde da isolarci per sempre non sono le barriere eternamente invalicabili che pensavamo, bensì veli che si dissolvono davanti a chi cerca.”
Come ne La Storia del Sigillo Nero compaiono elementi propri del racconto che funge da collante nel romanzo. Questa volta, lo abbiamo già indicato sopra, abbiamo la caratterizzazione del giovane studioso che da eremita diviene corrotto dopo aver assunto un vino ed essersi lasciato trasportare nella frenesia dei piaceri sessuali, oltre che alla sua triste fine dopo un periodo di felicità sfrenata. Pensate davvero che tutto questo sia una coincidenza? 

Non sono all'altezza dei due capolavori del terrore sopracitati gli altri tre racconti che completano, sotto forma di racconto nel racconto, l'opera. Ne La Storia della Valle Oscura (1895) Machen si concede una digressione nel far west americano, miscelando le esperienze personali proprie (sopratutto quelle legate alla fuga dalla campagna per cercare fortuna in città) a quelle di Stevenson (che emigrò davvero negli Stati Uniti) plasmando un racconto che sembrerebbe più consono alla penna di un Ambrose Bierce (sopratutto per i processi sommari e la presenza di cowboy rozzi e rudi). Si respira comunque un che di occulto, velatamente accennato, che sembra richiamare quanto poi si leggerà ne La Storia del Sigillo Nero (sia per la location montuosa, sia per la serie di morti e scomparse) e anche nella storia che sta alla base de I Tre Impostori. Abbiamo infatti un losco individuo, che si presenta come distinto e dotto, che guida un'associazione di assassini che sottraggono oro in cambio della “realizzazione di un desiderio” in una sorta di rito che suggerisce un sottofondo esoterico che però non viene esplicitato.

Più semplice la Storia della Vergine di Norimberga (1890) che vede un collezionista di strumenti di morte e di tortura (come poi sarà il Dottor Lipsius) cadere vittima dell'ultimo acquisto (una donna nuda issata su un piedistallo di legno che protende le mani suggerendo un abbraccio mortale, si potrebbe pensare, in chiave metaforica, alla compagna nell'accoppiamento sabbatico) nell'intento di mostrarne il funzionamento a un amico. Machen ha il merito di anticipare il quasi omonimo racconto, seppur assai più articolato e qualitativo, pubblicato tre anni dopo da Bram Stoker col titolo originale di The Squaw

Perde i riferimenti macabri e orrorifici la storia raccontata all'interno del capitolo “L'Incontro nel Bar Privato” in cui uno dei tre impostori, spacciandosi quale agente che tratta oggetti preziosi di ogni genere (come il Dottor Lipsius), narra, assai sarcasticamente, come sia riuscito a fare acquistare per suo conto un gioiello di estremo valore in Italia Meridionale, vedendoselo poi sottrarre dalla persona incaricata datasi alla fuga poco dopo aver completato la missione di cui era stata investita (proprio come succederà al Dottor Lipsius con il Tiberio d'Oro, rilevandolo dapprima da un mediatore per poi vederselo sottrarre da un proprio incaricato).  A differenza dei racconti sopracitati, nella lettura, emerge come questo racconto sia menzognero al cento per cento, indicando il narratore quale autore del furto il giovane con gli occhiali e i favoriti che tutti cercano a Londra e che, come si scoprirà, non è collegato a questo fatto bensì a uno similare.

Vedete dunque come questi racconti, inseriti all'interno della traccia centrale che fa de I Tre Impostori un vero e proprio romanzo, abbiano in se una matrice criptica che ben potrebbe esser sviluppata, in chiave interpretativa, per apprendere in misura maggiore il ruolo e la vera veste del Dottor Lipsius e della setta ad accesso iniziatico dallo stesso presieduta. Del resto, come afferma il Dottor Lipsius: “Ho sentito dai giovani affermare che in letteratura lo stile è tutto, e le assicuro che la stessa massima vale anche nella nostra professione.”

Opera cardinale da possedere in biblioteca per ogni amante del fantastico, pur essendo formalmente ascrivibile al mystery, grazie anche alla presenza di due racconti, non strettamente correlati al romanzo, che si segnalano tra i preferiti di Howard P. Lovecraft oltre che di vitale importanza per l'evoluzione della c.d. narrativa del terrore.  Se riuscite a trovarla vi consiglio l'acquisto dell'edizione della Fanucci edita nel 1977 o di quella uscita nel 1991 che inglobano, oltre alle storie proprie de I Tre Impostori, tutti gli ulteriori racconti che comprendono il duo Dyson-Philipps ovvero La Luce Interiore, La Piramide di Fuoco e La Mano Rossa.

L'Autore ARTHUR MACHEN

"Dovrebbe lasciar scorrere l'inchiostro molto più liberamente. E soprattutto deve credere con fermezza, quando si mette a sedere per scrivere, che lei è un artista, e che ciò su cui sta per lavorare è un capolavoro."

domenica 5 agosto 2018

Recensione Narrativa: UN FRAMMENTO DI VITA / IL POPOLO BIANCO di Arthur MAchen.



Autore: Arthur Machen.
Titolo Originale: A Fragment of Life / The White People.
Anno: 1904.
Genere: Dittico Fantastico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2018.
Traduzioni: Elena Furlan.
Pagine: 234.
Prezzo: 21,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Torniamo a interessarci della collana Biblioteca dell'Immaginario delle Edizioni Hypnos di Andrea Vaccaro con una pubblicazione dell'anno ancora in corso.
Ci imbattiamo così in un dittico di racconti, più un racconto brevissimo inedito in lingua italiana posto a corredo dell'opera, che evidenziano il pensiero filosofico di uno degli scrittori più importanti del panorama orrorifico di primo novecento. Stiamo parlando di Arthur Machen, autore gallese affiliato all'Ordine Esoterico della Golden Dawn, su cui ci siamo già soffermati nel corso delle nostre peregrinazioni narrative.
L'occasione odierna ci è propizia per elogiare il lavoro della casa editrice, seppur a metà, per aver rispolverato dall'oblio un imporante inedito scritto da un Machen ai tempi del maggior fulgore. Ho scritto "a metà" perché, a mio avviso, sarebbe stato preferibile associare alla giusta e meritoria riscoperta di un racconto sconosciuto dal pubblico di lettori italiani (eccettuati i puristi della lingua inglese) un ulteriore racconto inedito, in luogo del conosciutissimo (per i lettori di Machen) The White People. Vaccaro spiega il motivo della scelta, reputando (non a torto) complementari i due testi che evidenziano, in ambo i casi, la necessità dell'uomo superiore (la c.d. grande tente) di manlevarsi dal materialismo sociale che ha, di fatto, appiattito i valori e reso cieca la razza umana.
"Stregoneria e santità, queste sono le sole realtà. Ciascuna è un'estasi, un ritirarsi dalla vita comune" così si apre il racconto The White People e così, ci sembra di poter dire, dimostrano le Edizioni Hypnos presentando due racconti, scritti l'uno a seguito dell'altro, che incarnano le due diverse categorie a confronto. Due distinte visioni, entrambe lodevoli rispetto all'inerzia dell'uomo del novecento (e di quello del duemila), che, a loro modo, si innalzano sulla banalità della vita contemporanea fatta di "creature indifferenti e spaesate che vivono al mondo senza rendersi conto del significato del senso profondo delle cose."

Il primo dei due racconti, quello inedito in lingua italiana, A Fragment of Life, viene dato alle stampe nel 1904 sulla rivista Horlick's Magazine da Arthur Machen, ma ha una gestazione assai lunga e risulta esser stato completato con importante scarto temporale tra il suo inizio e la relativa fine. L'autore gallese lo inizia a scrivere nella prima metà del 1899, quando ha già alle spalle molti dei suoi più famosi successi, tra i quali Il Gran Dio Pan (1894) e i racconti de I Tre Impostori (1895). La stesura dell'inizio è veloce e procede senza battute di arresto. Completato il primo capitolo però, complice problemi familiari, Machen interrompe la stesura. Il testo finisce nel dimenticatoio pur continuando a ronzare nella mente dell'autore che, cinque anni dopo, decide di riprenderlo in mano non appena terminata la stesura del racconto Il Popolo Bianco (1904). Rimessosi al tavolino armato di penna, il gallese completa l'opera in pochi mesi, ma qualcosa non lo convince. Lotta col testo, cerca una convincente conclusione, eppure resta sempre insoddisfatto. Confeziona un finale di circostanza, che sa più di resoconto giustificativo del testo che precede, vergato in stile totalmente diverso rispetto al racconto fin lì sviluppato. Pur non soddisfatto dal risultato finale, Machen presenta l'elaborato a una rivista, così da raggranellare qualche sterlina. La lettura del racconto, a ogni modo, lo lascia assai perplesso tanto da portarlo a bocciare l'epilogo giudicandolo, a ragione, “rabberciato e pessimo”. Intenzionato a offrire un finale migliore a un elaborato dotato di potenzialità inespresse, l'autore torna a ragionare sul testo e riesce a trovare un epilogo che faccia al caso. Sostituisce così l'intero quarto capitolo con uno nuovo e ripubblica il tutto nella raccolta The House of Souls, che vede la luce nel 1906. Il responso che gli viene offerto dai lettori è più che soddisfacente. Qualcuno arriva a giudicare il lavoro come il miglior testo firmato Machen, aspetto che inorgoglisce e non poco l'autore solitamente attaccato (in modo becero) dalla critica. “Da molte parti mi è giunta assicurazione che sia la cosa migliore che abbia mai scritto” ricorderà in sede di presentazione. Un'opinione che può trovare solo parziale adesione, a nostro avviso, poiché se il romanzo manifesta un importante contenuto filosofico, di certo non offre uno spunto tale da incollare i lettori alle pagine. Pur essendo scorrevole e scritto in modo elegante, pecca in svariati punti di pathos tanto da offrire l'idea, nelle prime pagine, di essere alle prese con un romanzo rosa o comunque con un testo teso a evidenziare momenti di vita familiare del primo novecento inglese (da qui la scelta del titolo). Ciò premesso, scendiamo nel merito. 

Romanzo breve, diviso in quattro capitoli per poco meno di centodieci pagine. Si tratta di un elaborato a grande intensità mistica, caratterizzato da un preminente imprinting filosofico che domina sulla narrativa considerata in senso stretto. È lo stesso Machen a specificare quale debba essere, a suo modo di vedere, il ruolo di un romanzo degno di tal nome, vale a dire “tentare di esporre la verità sulla natura autentica dell'uomo, quella verità che non potrà mai esser detta in altro modo dal momento che vi sono dei segreti che possono esser svelati soltanto per mezzo di simboli.” Se questo è il fine ricercato da Machen non si può che concludere che A Fragment of Life centri appieno la funzione a cui è chiamato ad adempiere. L'autore, infatti, utilizza il canale comunicativo del racconto per offrire la propria visione trascendente della vita, sovraordinando la stessa visione alla filosofia materialista che imperversa nella società moderna. Il maestro vuol così comunicare al lettore la necessità di ritornare alle origini e di liberarsi dalle catene della vita comune, costituite dalla visione capitalistica, viste quali freni inibitori per lo sviluppo dell'anima.
Machen vede nell'evoluzione storica della razza umana un decadimento spacciato per progresso. “Una moltitudine di influenze si sono combinate per mutare una razza di sommi pontefici in una di galeotti” è la sentenza che si legge nel corso del testo. La razza umana viene così vista quale razza divina, per il suo essere in potenziale armonia con la natura, da intendersi quale forza medianica che pone in relazione l'uomo col divino. Una posizione privilegiata che però l'uomo ha perso, inseguendo valori e bisogni prettamente terreni, del tutto insulsi al fine di cogliere il vero senso dell'esistenza. Il traguardo dell'uomo, suggerisce a livello subliminale Machem, non è da cogliere nella vita terrestre, piuttosto nell'ulteriore (ovvero quella celata alla vista) ed è da raggiungere riuscendo a purificare in vita l'anima e guarire le dolorose ferite dello spirito.
Il mondo intero non è che una grande cerimonia o sacramento, che insegna in forme visibili una dottrina nascosta e trascendente.” Vien da se che per poter cogliere gli insegnamenti di questa dottrina occorre risvegliare la luce che alberga all'interno di ogni uomo e che è stata ottenebrata dagli insegnamenti dettati dalla società capitalistica figlia della rivoluzione industriale. “Ci hanno insegnato che potevamo diventare saggi studiando libri sulla scienza, ma coloro che si sono sbarazzati di queste assurdità sanno che non si devono leggere libri di scienza, ma messali, e che l'anima è resa saggia dalla contemplazione di cerimonie mistiche e riti elaborati e bizzarri.” Vediamo dunque espressa da questa citazione la dicotomia dettata tra il contrasto tra il mondo spirituale e quello materiale.Ci hanno assicurato in continuazione che il vero mondo era quello visibile e tangibile, il mondo in cui un solido e onesto lavoro poteva esser barattato con una certa quantità di pane, manzo e spazio abitabile e che l'uomo che non perdeva denaro in modo sciocco era un uomo buono che adempiva al fine per cui era stato creato.” Machen, per tramite dell'alterego protagonista del racconto, specifica invece che “l'uomo è creato mistero per misteri e visioni, per la realizzazione nella sua coscienza della beatitudine ineffabile, per una grande gioia che trasforma il mondo intero e sconfigge ogni dolore.” Non aver compreso questo o, ancor peggio, aver cercato di trovare una chiave di lettura diversa, per Machen, ha comportato l'impoverimento dei valori con conseguenziale, seppur inconscio, stato di infelicità mentale che ha indotto l'uomo a regredire al rango di bruto sotto ogni punto di vista (dalla musica, al lessico adottato fino al modo di vivere e di intendere il creato). Nel quarto capitolo originario, poi tagliato (ma riproposto dalla Hypnos nelle ultime pagine del libro), Machen, peccando di didascalismo, chiarifica alcuni concetti che nella versione definitiva, come giusto che sia, restano sfumati. Scrive che “la felicità è una condizione puramente mentale” e che il servo della gleba di un tempo era molto più felice degli impiegati della società industrializzata, perché “la fede assoluta e incondizionata nella lettera dogmatica si dimostrava essere la via per la vera conoscenza dello spirito”. Nel 1900 (figurarsi nel 2000) gli uomini pensano di aver superato certe versioni arcaiche, eppure non si rendon conto di perdersi a ragionare su aspetti banali privi di ogni prospettiva ascetica. Machen riesce a trasmettere questa insulsità nei primi capitoli del romanzo. La vita di tutti giorni - fatta di scelte di rapporto di coppia, elettrodomestici da sostituire, management familiare, routine lavorativa, gestione dei risparmi, tradimenti amorosi e litigi con i vicini - viene qualificata addirittura quale il contrario di quella che dovrebbe essere. “Viveva in quel grigio mondo spettrale, affine alla morte, che è riuscito a ottenere di esser chiamato vita dalla maggior parte di noi... scambiando la morte per vita, la follia per buonsenso, e spettri vaganti senza scopo per esseri reali.” Ecco che allora occorre sfuggire da questa presunta realtà, vedere il mondo con occhi diversi, ricercare la bellezza nella naturalezza dell'ambiente incontaminato che ci circonda, poco oltre le vie urbane e il chiasso quotidiano. Solo così si potrà superare lo stato di ignoranza che soffoca l'uomo moderno, abbindolato dalle frivolezze dell'industrializzazione, così da recuperare il sapere arcano necessario a fendere il velo che impedisce di accedere al vero traguardo cui è diretta la vita dell'uomo ovvero la conquista del Graal, un concetto metaforico da intendersi quale luce eterna che permette di realizzare la visione perfetta del creato. Questa è la vera ricchezza da perseguire, l'onniscenza totale e la pace dei sensi. “Quello che ho visto è ancora lì, ma né la gente in ufficio né gli altri sembrano aver visto le cose che ho visto io” sostiene il protagonista “quelle cose si presentarono ai miei occhi in una nuova luce, come se stessi indossando gli occhiali magici della favola.” Ecco allora che “la realtà non è una questione di cucine economiche, di risparmiare qualche scellino o di interrogarsi circa il fatto se il rabarbaro sia un frutto o un vegetale”, questa è solo una visione superficiale dettata “dalla pressione dell'opinione accreditata rivolta a soffocare la vera conoscenza” e così radicata da consentire il recupero della verità solo con un percorso assai angoscioso e tribolato. Machen rincara la dose scrivendo che l'uomo “si interessa a questioni a cui non si sarebbe mai dovuto interessare, che sta perseguendo scopi che non avrebbe mai dovuto perseguire, che sia come una pietra fatata di un altare che fa da parete a un porcile. La vita è una grande ricerca...”

È un Machen ottimista e naturalista, ma soprattutto spiritualista quello che traspare dalle pagine di quest'opera. L'autore utilizza così lo strumento narrativo per sviluppare la sua visione di una realtà mendace che cela la vera realtà a cui dovrebbe mirare la ricerca dell'uomo. Machen qua non mira all'intrattenimento, bensì al sovvertimento della realtà di tutti i giorni da operare con l'adesione e la comprensione del meraviglioso mondo legato alle tradizioni antiche, una via da intraprendere instaurando un filo diretto con la natura necessario per risvegliarsi dal sonno e manlevarsi dalla sovrastruttura materialista imposta dall'opinione prevalente nella società moderna.
Ne deriva un romanzo che si distingue in modo netto dalla classica narrativa weird per rientrare nel filone mistico e iniziatico proprio della filosofia macheniana, che proseguirà con La Collina dei Sogni (1908), Il Grande Ritorno (1915) e Il Segreto del Graal (1922), con fortissima impronta spiritualistica. Ecco allora che A Fragment of Life diviene un'ottima occasione per approfondire lo studio dell'autore, un elaborato recuperato dalla Hypnos che consente agli studiosi di fantastico di avviare ulteriori percorsi di studio su una figura di importanza monumentale per il genere, ma che difficilmente potrà generare gli entusiasmi dei lettori comuni, in special modo coloro che definiscono (assai superficialmente e con scarso spirito critico) una certa narrativa con l'epiteto “horror.” Il romanzo è un vero e proprio percorso di risveglio del protagonista che, grazie ai vagabondaggi per le vie periferiche di Londra (soluzione che ispirerà nel 1924 la stesura di The London Adventure or the Art of Wandering), riesce a richiamare antichi episodi di gioventù che gli permetteranno di recuperare impressioni e sensazioni legate all'ambiente campestre e agricolo. “In quel lontano giorno d'estate, un incantesimo (dovuto al contatto e alla contemplazione della natura, ndr) aveva pervaso tutte le cose comuni, tramutandole in un grande sacramento, facendo risplendere le opere terrene con il fuoco e la gloria della luce eterna” un ricordo lontano, che assumerà valenza profetica di quel percorso che il protagonista riuscirà a completare, grazie anche allo studio delle proprie origini genealogiche, così da centrare il fine ultimo per cui era stato creato.

Copertina inglese del romanzo breve
Un Frammento di Vita.

Ha indubbiamente bisogno di minori presentazioni il secondo racconto rispolverato dagli "amici" della Hypnos. Scritto anch'esso nel 1904, The White People costituisce uno dei fiori all'occhiello della produzione orrorifica e, al tempo stesso, fatata di Arthur Machen. Non a caso, Adalberto Cersosimo la definisce, nella Guida alla Letteratura Esoterica, "una storia all'apice dell'estetismo macheniano dell'orrore."
Pubblicato già in svariate antologie, con titoli quali Il Popolo Bianco o Le Creature Bianche, il racconto torna a esser riproposto in una nuova traduzione che segue quella (a mio avviso ottima)  realizzata nel 1982 da Giuseppe Lippi inclusa nell'imperdibile antologia Il Gran Dio Pan e Altre Storie Soprannaturali e poi confluita nell'antologia collettiva I Miei Orrori Preferiti (1994) per la Newton & Compton.

Il Popolo Bianco, alias The White People (1904), è, a mio avviso, il capolavoro dello scrittore gallese. Un testo molto apprezzato anche da H.P. Lovecraft che lo valutava superiore, per atmosfera e pregio artistico, al più noto Il Gran Dio Pan. Allineandomi a quanto detto dal maestro di Providence, il sottoscritto rileva, oltre a una resa superiore sul versante onirico/fantastico, una maturità autoriale più accentuata rispetto ai precedenti impegni di Machen. Inoltre, grazie a una premessa iniziale, appare esplicita l'intenzione di portare il lettore a interpretare quanto andrà a leggere nei capitoli successivi fornendogli fin da subito la chiave di lettura attraverso la quale decriptare il racconto che segue. Fondamentale, al riguardo, è l'eccezionale prologo che potrebbe vivere anche di vita autonoma quale saggio filosofico/spirituale. Dopo di esso viene proposta la parte narrata in cui Machen fa sognare il lettore, abbondando con descrizioni immaginifiche di scenari desolanti e immensi, con scenografie costituite da pietre animate che imprigionano volti, boschi opprimenti, canyon, accompagnate da una colonna sonora fatta di litanie e sibili di vento. E' la magia dei contorni campestri del Galles.
Si può dunque affermare che con Il Popolo Bianco Machen abbandoni le atmosfere da giallo e le ambientazioni urbane londinesi che avevano fatto da cornice alle precedenti avventure (proseguirà, in parte su questa linea, col sopra analizzato A Fragment of Life). Ciò che persiste è il taglio metaforico, lo stimolo allo studio, alla ricerca della verità e la grande passione per l'esoterico visto quale chiave per forzare la serratura dello scontato.

Abbiamo già detto che il racconto si apre con un primo capitolo a metà strada tra la filosofia e la spiritualità. Protagonisti di questa parte sono un saggio alquanto bizzarro e un suo ospite (quasi uno studente) intenti a discutere sui concetti di santità e malvagità. Entrambe sarebbero caratterizzate da una matrice comune, qualificate alla stregua di un traguardo benedetto dalla trascendenza e capace di regalare l'estasi dei sensi a chi lo completi mediante il ritiro dalla vita comune e il rifiuto delle convenzioni più banali. Eloquente, per comprendere il concetto, il seguente passaggio: "la trascendenza è prodiga con i suoi figli. Molti di loro mangiano pane e acqua, ma sono infinitamente più ebbri dell'epicureo. La vocazione per il bene così come per il male sarebbero passioni solitarie, occupazioni per anime solitarie."

Machen, da cultore dell'esoterismo, lascia intuire ai lettori la forte stima che nutre per coloro che ricercano la spiritualità, siano essi mossi da intenti malvagi o benigni, arrivando a dire che i grandi uomini, quale che sia il loro stampo morale, tralasciano la copia imperfetta e cercano l'originale perfetto. L'autore gallese arriva a specificare cosa si debba intendere per male e lo fa con grande cultura filosofica e una saggezza che può possedere solo un autentico maestro (non solo letterario). Il male, ci spiega Machen, non è quello che viene percepito dalla società attraverso le violazioni dei precetti penali o delle norme dettate dal senso etico. Gli assassini, così come i delinquenti, non sono veri peccatori, ma bestie poiché agiscono in base a impulsi negativi. Il male invece è sempre positivo, anche se opera dalla parte sbagliata. Per tale motivo è raro da riscontrare nella società moderna, addirittura molto più raro della santità in quanto più originale ed estremo. Bellissimo la descrizione che Machen fa dell'intento del male: "l'essenza del peccato sta nel dare l'assalto ai cieli con la violenza dell'uragano."
In altre parole, i peccatori sarebbero coloro che, spinti da una grande forza d'animo e dedizione nello studio, ricorrono a qualunque mezzo per trascendere ed entrare nelle più alte sfere, ricorrendo a mezzi proibiti. Il loro scopo sarebbe quello di conquistare la beatitudine e la sapienza proprie degli angeli e mai appartenute agli uomini. I santi invece, rispettosi verso Dio e più umili nel loro approccio di studio, si sforzerebbero di recuperare la felicità che apparteneva agli uomini prima della caduta, senza andare oltre. Le persone comuni invece, in quanto prive di desiderio di ascesa o di discesa (per effetto delle menzogne del materialismo) non si pongono problemi di sorta accettando passivamente la vita così come essa viene loro presentata e restando pertanto confinati nella mediocrità (evidente critica di Machen all'uomo del suo tempo). I geni, d'altro canto, avrebbero un po' del santo e un po' del peccatore, inquadrati alla stregua dei ribelli.

Attraverso i suoi due personaggi, il maestro gallese prosegue in questa disamina, che trasuda passione parola dopo parola, e arriva a dire, giustamente, che il vero peccatore (il vicario di Satana) non sarebbe facilmente individuabile dagli uomini comuni. La ragione naturale di questi ultimi difatti, essendo gli stessi ignoranti e incapaci di vedere oltre la barriera dell'apparenza a causa dell'avvelenamento dei loro spiriti determinato dal cocktail frutto dell'unione di convenzioni, cultura di massa e materialismo, sarebbe divenuta cieca e sorda. Solo i bambini, gli animali e le donne (non sono d'accordo su quest'ultima categoria, ricompresa da Machen probabilmente per ragioni confinate alla sua epoca storica), in quanto creature semplici, sarebbero immuni da tale deficienze e sarebbero in grado di individuare un vero peccatore.
Queste sono le premesse che precedono il racconto vero e proprio che si sviluppa con l'artificio letterario degli appunti di una bambina riportati in un quaderno.

Sulla scia de Il Gran Dio Pan, Machen propone una storia intrisa di una velata (ma al contempo forte) componente erotica e spinge, più dei precedenti lavori, sul pedale della perversione subliminale. A livello superficiale propone l'introduzione graduale di una bambina al mondo della stregoneria. La giovane protagonista alterna vicende di vita vissuta, in cui racconta le sue incursioni in mondi fantastici e desolati (che rappresentano l'Inferno e allo stesso tempo il Paradiso), a favole nere raccontatele dalla balia (una sorta di profeta del male che addestra la piccola) funzionali a spiegare i vari step compiuti dalla protagonista e le conseguenze degli stessi.
Si parla di culti e sabba orgiastici risalenti all'epoca romana, con tanto di statuette di creta che si animano per intrattenere rapporti con le donne che li hanno realizzati. Machen non rende troppo manifesta la natura di questi rapporti, ma la stessa si rivela piuttosto chiara al lettore attento ai particolari. Si tratta di rapporti blasfemi come suggerisce uno stralcio del diario della bambina relativo a una statuetta di creta da lei stessa costruita all'età di sedici anni: "e quando fu finito feci con lui tutto ciò che riuscii a immaginare, ed era molto di più di quanto avesse fatto la balia, perché la mia statuetta aveva la forma di una cosa infinitamente migliore."

Non mancano poi creature bizzarre quali ninfe (ci sono delle pennellate saffiche seppur in minima parte), animali antropomorfi e altri esseri non meglio specificati che escono dal bosco per sedurre gli astanti. Strepitosa, sotto quest'ultimo profilo, la fiaba nera del cacciatore che si lancia alla caccia di un cervo bianco, apparso dopo un'improduttiva battuta di caccia, per giorni e notti finendo in una dimensione ignota e scoprendo di aver seguito la regina delle fate (sarà invece ben altro) camuffata da animale. La donna lo sedurrà, lo renderà suo sposo, ma solo per una notte facendolo poi di fatto ricomparire laddove l'uomo aveva avvistato il cervo in preda a una nostalgia e un'astinenza talmente forte da non baciare più nessun'altra donna poiché, come dice con grande classe Machen, "aveva gustato il vino dell'incanto e per questo non bevve più nessun vino perché nulla lo avrebbe più appagato."

Sensuale, e ancora una volta ammiccante sul piano erotico, il passaggio in cui viene riportato il rito di una strega dalle forme attraenti. Machen scrive: "la signora si sdraiava fra gli alberi e cominciava a cantare una certa canzone. Da ogni parte della foresta venivano allora i grandi serpenti, sibilando e luccicando fra gli alberi; ella tendeva le braccia bianche e i serpenti, cacciando la lingua biforcuta, strisciavano verso di lei. Poi cominciavano ad avvolgersi intorno al corpo, alle braccia, al collo, finché Lady Avelin era tutto un ammasso di serpi e si vedeva solo la testa. L'avvolgevano sempre più finché non ricevevano l'ordine di andarsene. Allora l'abbandonavano, ma sul petto della signora restava una stranissima pietra a forma di uovo e dalle mille sfumature blu, gialle, rosse e verdi e le venature parevano scaglie di serpente".

Gianni Pilo, nel suo Dizionario dell'Orrore, analizzando il testo sostiene che, nonostante il tono cupo che permea tutta la storia, Machen non rinuncia alla speranza. Ciò è senz'altro giusto, ma si tratta di una speranza flebile, da individuare in un insidioso percorso (rappresentato metaforicamente dalla descrizione ambientale della bambina fatta di pareti rocciose disseminate con una logica ben precisa, boschi e fiumi, fino agli edifici costruiti da esseri giganteschi) per pochi eletti capaci di percorrerlo per dedizione e intelligenza, piuttosto che per un talento fine a sé stesso o per mera opportunità materialistica. La bambina così come i vari protagonisti delle favole (spesso messi al cospetto dell'esoterico per puro caso), che si alternano ai fatti narrati dalla giovane, finiscono prigionieri e preda dei sortilegi e vanno incontro a una brutta fine piuttosto che all'elezione.

L'insegnamento, e al tempo stesso l'ammonimento, di Machen, in perfetta linea con le opere scritte negli anni precedenti, è esplicito e assume una valenza simbolica che va ben oltre al piano esoterico arrivando all'approccio mentale e psicologico da adottare nella vita di tutti i giorni: "le medicine più benefiche (leggi l'esoterismo, ma io direi anche la psicologia e la filosofia) sono di necessità potenti veleni ed è per questo che vengono tenute chiuse in un armadietto (è, a mio avviso, sottinteso dalla società con tutte le sue convenzioni, le regole e la cultura di massa). Se una bambina (leggi l'uomo che non ha compiuto un certo percorso di studio e pertanto è assimilabile alla cultura di un bambino, per definizione neofita) trova la chiave per caso e ne beve, si avvelena. In altri casi, invece, la ricerca di ciò che è nascosto (da decriptare come ciò che costituisce lo spirito umano) eleva l'uomo: e dopo essersi forgiato da solo le chiavi adatte (leggi dopo aver personalizzato il proprio percorso in base alla propria autocoscienza) egli trova non fiale di veleno, ma squisiti elisir."

Dunque un concetto finale che spinge alla ricerca e al contempo incute timore nel farlo, quasi fosse un ammonimento teso a esorcizzare la voglia del superficiale di chi va alla ricerca dei meri vantaggi materiali.
Tutti questi contenuti intrinseci fanno de Il Popolo Bianco una perla preziosa della narrativa fantastica/orrorifica. Un'opera che trascende dal contesto di appartenenza , quello di genere, ed evidenzia ancora una volta l'abisso sussistente tra autori come Meyrink, Machen, Lovecraft e altri di fine '800 primi novecento rispetto ai più artificiosi Matheson, King e Campbell. Non me ne vogliano i colleghi che continuano a difendere certa narrativa, che il sottoscritto legge ben volentieri ma che non si sognerebbe mai di confrontarla con la narrativa fantastica/orrorifica del tempo che fu.

Per concludere sul volume, assai elegante con la foto di Machen sul retro delle copertine, mi sento di consigliarlo caldamente ai lettori di Machen e a chi intenda completare una biblioteca impreziosita dei grandi capolavori del fantastico. Il discorso cambia, invece, relativamente ai lettori estemporanei o a coloro che sono a caccia del brivido. Per essi, ritengo di poter dire, sarebbe molto più opportuno recuperare Il Gran Dio Pan e Altre Storie Soprannaturali edito dalla Mondadori dove potranno comunque rinvenire The White People. Un grazie comunque alle Edizioni Hypnos per la traduzione di un importante inedito (oltre al fulmineo e beffardo Un Doppio Ritorno) firmato Filius Aquarti.

ARTHUR MACHEN, in
una posa che ricorda molto quelle del protagonista
di A Fragment of Life che può essere considerato,
a tutti gli effetti, un suo alterego.

"I nostri sensi più alti sono talmente ottusi e siamo talmente immersi nel materialismo, che probabilmente non saremmo in grado di riconoscere l'autentica malvagità se la incontrassimo... Nella maggior parte di noi le convenzioni, la civilizzazione e l'educazione hanno accecato e assordato e oscurato la ragione naturale."