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sabato 30 maggio 2015

Recensione Narrativa: VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA (Jules Verne).



Autore: Jules Verne.
Anno: 1864.
Editore: Newton.
Pagine: 220
Prezzo: 7 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Seconda opera in assoluto di un autore che avrebbe fatto scuola, gettando le basi della nascente narrativa di fantascienza e riscuotendo fin da subito un successo commerciale talmente alto da permettergli di vivere nel lusso grazie ai successi delle sue opere. Stiamo parlando di sua maestà Jules Verne, agiato borghese nato a Nantes che sfugge da una carriera da avvocato per interessarsi inizialmente, grazie all'amicizia con Dumas padre, alla sua prima passione: il teatro. Inizia a scrivere relativamente tardi, a ventiquattro anni dando alle stampe il racconto Un Viaggio in Pallone nel 1852. Nella prima parte della carriera alterna la sua passione con il lavoro in borsa, andando a interpretare il ruolo di agente di cambio. E' l'avventura che lo interessa (sia sulla carta che nella vita di tutti i giorni), ma un'avventura orientata alla scienza, con una bravura talmente elevata da anticipare alcune scoperte che il mondo scientifico andrà a conquistare ispirandosi, di fatto, ai suoi romanzi. Verne è un esploratore sia nella fantasia, sia nella vita di tutti i giorni. Ama viaggiare e soprattutto ama esplorare ambienti esotici. Pubblica il primo romanzo nel 1862, Cinque Settimane in Pallone, sottoscrivendo un contratto alquanto bizzarro: si lega per venti anni con un editore parigino. E' successo immediato, saranno oltre ottanta le opere nate dalla penna di questo prolifico scrittore, deceduto quasi alla soglia dei cento anno. Alcuni titoli, che chi legge questa recensione sicuramente conoscerà, sono 20.000 Leghe Sotto il Mare (1869), Il Giro del Mondo in 80 Giorni (1873), L'Isola Misteriosa (1875), Michele Strogoff (1876) e Il Raggio Verde (1882). Pubblicato in Francia e all'estero quando è ancora in vita, riesce persino, indirettamente, a far nascere un movimento di studiosi della sua opera che si dichiarano convinti che nell'opera del maestro si racchiudino messaggi criptati e passaggi che, nella forma dell'avventura meravigliosa esaltata da attente ricostruzioni geografiche, nascondino misteri celati agli occhi del mondo. Una sua frase tipica sarà profetica per quanto poi si verificò dopo le sue opere (si pensi all'invenzione del sommergibile, anticipato da Verne con il famoso Nautilus): tutto ciò che un uomo è in grado di immaginare, altri uomini saranno capaci di realizzare.



JULES VERNE


Il romanzo che qui ci apprestiamo ad analizzare, Voyage au Centre de la Terre, è il secondo pubblicato da Verne. Uscito nel 1864 riscuote subito un grande successo in termini di vendite sebbene l'asso transalpino riesca a fare molto meglio in seguito. L'opera è molto importante soprattutto per avere il merito di aver avviato un vero e proprio sottofilone, quello dei Mondi Perduti e più in particolare dei sotterannei segreti. Usciranno di lì a poco, su questa falsa riga, La Razza Ventura (1871) di Bulwer-Lytton, L'Altra Parte (1909) di Kubin, Il Mondo Perduto (1912) di Doyle, nonche svariate opere del nostro Emilio Salgari, tra le quali 2.000 Leghe Sotto l'America (1888), peraltro alimentate dalla successiva produzione verniana. Al di là di questo aspetto, non di secondaria importanza per la genesi della narrativa fantastica di fine ottocento / primi novecento, Viaggio al Centro della Terra non è un romanzo capolavoro. Andiamo però a evidenziare i meriti. In primo luogo Verne traccia la tipica figura dello scienziato di mezza età, integerrimo, scontroso, coraggioso e duro nei modi, ma dal cuore d'oro (come dimostrano le preoccupazioni per il nipote che si porta a seguito). Si tratta del tedesco Otto Lidenbrock, geologo e mineralogista che svolge il ruolo di Professore all'università, ma che va sempre alla caccia della scoperta che possa donargli gloria nei circoli accademici. Si tratta di un profilo che Conan Doyle andrà a ricalcare per il suo Challenger, protagonista di storie dal forte gusto verniano. Lidenbrock si porta al seguito il nipote, il giovane Axel, anche lui scienziato, ma molto più ragionevole e pragmatico, ma soprattutto innamorato perso per una giovane ragazza a cui pensa sempre. I due vivono ad Amburgo in Konigstrasse, è qui che ha inizio la storia, nello studio del Professor Otto, al cospetto di un raro volume scritto in runico appena acquistato da una biblioteca di un ebreo. I due trovano, celata tra le pagine, una pergamena con un messaggio scritto in runico che ha tutta l'aria di essere un crittogramma. Lidenbrock riesce presto a capire che la scritta porta la firma di Arne Saknussemm, noto alchimista islandese del XVI; tanto basta per mettere in moto la sete di avventura del professore. "Saknussemm potrebbe aver nascosto sotto il crittogramma qualche meravigliosa invenzione... Forse Galileo non ha fatto altrettanto con Saturno?"
Ha così inizio una vera e propria battaglia alla ricerca della chiave per sciogliere l'enigma criptato, peraltro reso compilicato dall'impiego di quattro distinte lingue. Ci riuscirà il nipote, scoprendo le istruzioni iniziali per giungere al centro della terra. Da qui ha inizio il viaggio dei due verso il luogo indicato dall'alchimista: il vulcano Sneffels, in Islanda, con una precisione particolare da accertare nel giorno del Solstizio d'Estate.

Lo scontro tra titani che vedrà i "nostri" protagonisti,
di lato sulla destra, a svariati chilometri sotto terra.

Questo l'inizio del romanzo che poi si snoda con le descrizioni di Copenaghen e da qui dell'Islanda, con Verne che dimostra una grande attenzione e un innegabile gusto nel descrivere città e soprattutto le panoramiche ambientali (grande fascino le visioni dei mari del nord alla caccia delle coste della Groenlandia). La storia scorre piuttosto lentamente, ma con stile brioso e aperto a tutti, specie gli adolescenti. Certo, gli appassionati di geologia e di biologia potranno divertirsi in modo maggiore, perché a Verne piace impreziosire il narrato con descrizioni tecniche e spiegazioni che vorrebbero dare verosimiglianza a quanto proposto al lettore. Quest'ultimo aspetto, in verità, andrà a perdersi nel corso d'opera, poiché Viaggio al Centro della Terra chiede molto al lettore in termini di sospensione dalla realtà, andando a cozzare anche con le scoperte e le giuste convinzioni scientifiche dell'epoca.
Aiutati da un glaciale islandese, un vero e proprio automa che risponde ai comandi del professore (sembra un terminator che non si scompone mai), i tre scenderanno nelle viscere della terra penetrando dal cratere di un vulcano spento e si abbandoneranno ai tortuosi budelli sotterranei. A guidarli saranno le scritte sui muri lasciate in runico da Saknussemm e poi un ruscello fatto fuoriuscire da un letto ostruito tra le mura dei sotterranei. Di Saknussem Lidenbrock dirà: "Genio meraviglioso! Tu non hai dimenticato nulla di ciò che doveva aprire ad altri mortali le vie della crosta terrestre, e i tuoi simili possono trovare le tracce che i tuoi piedi hanno lasciato tre secoli fa in fondo a questi oscuri sotterranei. Tu hai permesso che altri occhi contemplassero queste meraviglie. Il tuo nome, inciso di tappa in tappa, conduce diritto al suo scopo il viaggiatore così ardito da seguirti!"

La foreste di Prataioli.

Un po' come farà William Hope Hodgson ne La Terra dell'Eterna Notte (1912), Verne descrive i momenti in cui i tre si fermano a mangiare (pagine e pagine sulla crisi di sete e sulle difficoltà di rifornirsi di acqua potabile) o dissertano sulle possibili ragioni legate al fatto che la temperatura non aumenti piuttosto che sulle indicazioni sballate della bussola o sulla natura delle pietre o di quanto vadano a incontrare nel loro viaggio (in questo senso sono un po' stucchevoli le conclusioni a cui il Professore, di solito, giunge nel giro di un battito di ciglia, riconoscendo scheletri e piante antiche come se stesse facendo somme di numeri in doppia cifra). Alla fine il romanzo promette molto, specie quando i tre si imbattono in un oceano sotterraneo dove nel cielo si irradia una luce poco comprensibile che facilita la nascita di foreste di funghi giganti nonché la presenza di pesci eredi delle creature preistoriche (scontro tra un Ittiosauro e un Plesiosauro, roba da far felice Harryhausen ma non da stoppare i nostri che passano tra i due litiganti), ma mantiene poco. Proprio quando sembra che si entri nel vivo, il tutto prende la piega inverosimile con un Verne che non affonda dove forse avrebbe dovuto (evidentemente poco convinto anche lui). Si fa un accenno a creature umane gigantesche, se ne mostra addirittura una all'opera, pur se parzialmente celata dalla vegetazione, così come si fa cenno ai Mammuth, in una bella descrizione di uno sterminato cimitero di ossa su cui i tre si trovano a dover passeggiare, poi a poco a poco si scivola in un brutto finale. Davvero pessima la soluzione scelta da Verne perr riportare i tre in superficie, penalizza non poco il romanzo. Sull'epilogo è simpatica la scelta di far uscire i tre dal cratere dello Stromboli, così come l'omaggio alla becera superstizione degli italiani: "Non ci parve prudente raccontare come eravamo arrivati nell'isola; la tipica superstizione degli italiani li avrebbe indotti a ravvisare in noi qualche demone vomitato dall'inferno."
Il Volturno sarà il mezzo, uno dei postali delle Messaggerie Imperiali di Francia, che riporterà i tre verso la gloria, dopo aver resistito a mostri millenari, sete, fame, tenebre e per ore persino a un geyser di lava che li ha spinti per chilometri e chilometri verso il cielo italiano, nella terra in cui il dio Eolo teneva incatenati venti e tempeste (!?).

Questa la storia che Verne cerca di presentare alla stregua di un resoconto orchestrato dal filtro dei pensieri del giovane nipote di Lidenbrock, che scrive: "Ed ecco arrivata la fine d'un racconto a cui non vorranno prestar fede nemmeno le persone più abituate a non meravigliarsi si niente. Ma io sono corazzato in anticipo contro l'umana incredulità." Eppure è lo stesso Axel a non credere ai suoi occhi quando ha visto il gigante... "No! E' impossibile! I nostri sensi furono ingannati, i nostri occhi non possono aver visto tutto ciò che credono di aver visto!" E' in questo spunto finale che risiede l'interesse intrinseco nell'opera, cioè nella difficoltà dell'uomo di superare le consuetudini, schiavo di un assuefazione alle regole non scritte del comun vivere, al punto da non credere allo straordinario, al c.d. sense of wonder, neppure quando questo si paventa sotto gli occhi dei diretti interessati. Una situazione da dormienti o, ancor meglio, da anestetizzati alla mediocrità del comun vivere. Su questa chiave di lettura se ne innesta una seconda, più tecnica ma legata al medesimo ragionamento, ovvero la rigidità della scienza che tende a dare per verità assolute ricostruzioni talmente perfezionabili da essere stravolte dai fatti... Non  a caso Lidenbrock si troverà a dover combattere con colleghi che cercheranno di sconfessare fatti che, nella storia, sono stati provati, semplicemente perché contrastanti con scuole di pensiero troppo forti per esser cancellate con un semplice colpo di spugna. "Ogni teoria è incessantemente distrutta da una teoria più recente". Una situazione di arroganza tipica dell'uomo medio, che non ammette di esser superato, che non ammette di non poter comprendere, un po' come Axel che cerca di convincersi che non possono esistere quegli uomini giganti che lui stesso ha visto e che potrebbero scacciarlo con l'indice un po' come lui potrebbe fare con una pedina del subbuteo. Questo è Viaggio al Centro della Terra, un romanzo perfetto per i giovani lettori, forse un po' meno per gli adulti, trasposto svariate volte sul grande schermo ma con nessuna pellicola capace di superare il lavoro di Henry Levin del 1959. Lettura piacevole, ma nulla più.


«Discendi nel cratere dello Jokull di Sneffels che l'ombra dello Scartaris viene a lambire prima delle calende di luglio, viaggiatore ardito, e perverrai al centro della Terra. E questo ho fatto io, Arne Saknussemm.»

giovedì 14 maggio 2015

Recensioni Narrativa: I RACCONTI DI PIETROBURGO di Nikolaj Gogol.


Autore: Nikolaj Gogol.
Anno: 1835-42.
Genere: Surreale calato nel realismo quotidiano.
Pagine: 232.
Prezzo: 6,90 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Quella che andiamo ad analizzare è un'antologia di appena cinque racconti scritti tra il 1835 e il 1842 dallo scrittore di origine ucraina Nikolaj Gogol, intitolata Peterburgskie Povesti. Si tratta della risultanza, postuma, attribuibile all'unione di alcuni racconti inseriti nell'antologia breve Arabeschi (1835) con altri aventi in comune con i primi l'ambientazione nella città russa nata dall'arte dell'architettura italiana: San Pietroburgo. Tale riunione la si deve al concorso di alcuni critici, ma soprattutto all'apporto di successivi colleghi della penna di Sorocincy (Poltava, Ucraina).
Mi piace allora procedere con un'introduzione in salsa gogoliana, lui l'autore considerato da tutti come un surrealista iperbolico e caustico, così folle da trasformare il frutto del suo estro onirico in ciò che è definito "realismo fantastico" poi non tanto lontano dalla realtà qua deformata e piegata al servizio di quei tratti grotteschi, ma al contempo fini e ben calibrati, liberati da un pennello che poco sembra interessarsi alla verosimiglianza e alla realtà, ma che in realtà la mette a nudo come solo un grande maestro può fare. "Che cos'è la vita nostra! Una perenne lotta della fantasia con la realtà! Tutto sulla Prospettiva è inganno, tutto delirio, tutto è altro da ciò che appare" dice Gogol ne La Prospettiva.
FEDORO DOSTOEVSKIJ dopo aver letto l'opera omnia di NIKOLAJ GOGOL disse, rivolgendosi ai suoi colleghi dell'epoca: "Siamo usciti tutti dal cappotto di Gogol", un'affermazione che ha portato qualcuno a esaltare più del dovuto il racconto a cui fa riferimento il celebre autore de L'Idiota e di Delitto e Castigo, non capendo che il riferimento di Dostoevshij è da intendersi in senso più ampio ovvero che tutti gli scrittori successivi, in ambito russo, sono stati influenzati in modo così forte (in particolare Bulgakov) che Il cappotto di Gogol diviene una sorta di ala protettettiva e dunque è da intendersi come "siamo tutti figliocci di Gogol." Del resto, come diceva Jorge Borges un buon scrittore e raro tanto quanto un buon lettore e Dostievski non è certo l'ultimo arrivato. E allora, prima di pensare che chi ha steso questa recensione abbia commesso un errore nello scrivere il cognome dell'autore moscovita, forse si dovrebbe partire dal concetto che lo stesso, in Italia, era chiamato col nome proprio di Teodoro (fino agli anni '40), motivo poco chiaro forse un refuso nella lettura del nome (una F trasformata in T), e che questo vuol dire dono di dio, curiosa contrapposizione per un pilastro monumentale della letteratura russa conosciuto anche per il romanzo Demoni e per un cratere sul pianeta Mercurio a lui dedicato. Ma non procediamo oltre, perché questa è una recensione dedicata all'opera di Gogol e non certo un modo per fare narrativa all'interno di una recensione, che pure non si è mai vista, o quanto meno si vede di rado, ma con gli iperbolici-surrealisti... può succedere di tutto...E allora galoppiamo subito nella vita dell'autore e andiamo a tracciarne un profilo artistico-culturale.

Il Maestro DOSTOEVKSKIJ per anni chiamato, in Italia,
Feodoro quando invece si chiamava Teodoro per via di un refuso
nella lettura del nome, è il primo a dire: SIAMO NATI DAL CAPPOTTO DI GOGOL

Nikolaj Gogol ha i natali il 20 marzo del 1809, ragazzo irrequieto e anche inquieto, dotato di una marcatissima ironia tendente al gusto per il grottesco. Riceve subito un'educazione che lo avvicina alla scrittura, dato che il padre è un commediografo, mentre la madre una piccola proprietaria terriera. Inizia a scrivere all'età di sedici anni, alternandosi inizialmente con l'attività di attore. Tra le opere del periodo si ricorda Qualcosa sul Nezin, ovvero per gli Stupidi la Legge non è Scritta, terminato il periodo di studio si getta nella carriera da burocrate. L'esperienza, evidentemente pessima, lo segnerà al punto tale da ripercuotersi in modo massiccio nei futuri racconti che poi ne decreteranno il valore. La critica, come spesso avviene, lo massacra, anche perché il buon Gogol non disdegna il ricorso alla satira, anzi ne fa un fortissimo uso. La situazione esaspera il giovane scrittore che distrugge le proprie opere e inizia un lungo peregrinaggio in giro per l'Europa, quello che si direbbe in certi ambienti un cross nation, alla ricerca della giusta ispirazione. Gira varie città della Germania, poi si trasferisce a Pietroburgo dove fa la conoscenza dello scrittore byroniano Aleksandr Puskin, celebre per la ghost story La Donna di Picche avente per protagonista un giocatore di carte. Personaggio anche quest'ultimo quanto mai bizzarro e unico, sempre alla ricerca del brivido, al punto da perdere la vita in un duello con un ufficiale francese intrapreso per il mero gusto della sfida. E' quest'ultimo a intuirne per primo il valore, al punto da fargli offrire, in veste di professore, una cattedra in storia all'Università di Pietroburgo. Siamo nel 1834. Gogol però è un soggetto che sembra uscito dai suoi stessi racconti, disordinato, passionale, senza peli sulla lingua e per nulla intimorito delle conseguenze determinate dai suoi scritti, sempre al vetriolo specie con gli apparati burocratici della società russa e con le abitudini sociali dell'epoca. In lui alberga poi una certa componente mistico-esoterica che ne guida la penna. In particolare vi è l'ossessione della presenza del male sulla terra, male da intendersi non tanto sotto il profilo criminologico-sociale, bensì quale frutto dell'interferenza di entità diaboliche. Impressioni queste ultime che sembrano suggerite da alcuni passaggi di diverse delle sue opere come espressioni quali "fatti assurdi accadono in questo mondo, da cui talvolta ogni verosimiglianza è bandita." I limiti caratteriali lo portano così ad abbandonare l'incarico (entra in polemica con gli studenti, a suo avviso irrispettosi nel non prestargli la giusta attenzione), non prima però di aver ultimato Arabeschi (1835) e la commedia Il Revisore. Scrive anche vari racconti horror, quali Vyi e Le Veglie alla Fattoria, spesso pubblicati su giornali locali (Il Contemporaneo)In questi anni porta in scena la commedia L'Ispettore Generale che però fa un fiasco clamoroso, ma così clamoroso che per la rabbia Gogol si fionda in un altro cross nation che lo porta infine in Italia, e per la precisione a Roma, in via Felice.
Negli ultimi anni di vita si concentra su quello che è definito il suo romanzo capolavoro ovvero Le Anime Morte, steso su spunto dell'amico Puskin. E' una genesi tormentata e combattuta, così come lo è il contenuto dell'opera che parla di una sorta di demone che vaga sulla terra per acquistare anime allo scopo di rafforzare il potere demoniaco e l'influenza di questo sulla società. Il testo, un po' faustiano, andrà a influenzare Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Gogol stende più versioni, alcune vengono anche pubblicate, poi però brucia le più evolute perché in crisi psichica e psicologica (curioso leggere il suo Il Diario di un Pazzo, lenta discesa nella pazzia del protagonista che tiene un diario).
Sul volume I Maestri della Letteratura Fantastica, edizioni Edipem, si legge: "Gogol si lascerà morire per scongiurare l'aspetto tenebroso della sua opera, cui contava di dare un po' di luce, per bilanciare l'influenza del diavolo sulla terra".

Nikolaj Gogol.

Le cinque storie che formano l'antologia I Racconti di Pietroburgo hanno un comun denominatore molto forte, costituito non solo dal contesto ambientale (avviene tutto nella medesima città), ma soprattutto dalla cura prestata dall'autore nel descrivere società, usi e consuetudini della Pietroburgo dell'epoca, una città divisa tra russi e tedeschi. In tale humus Gogol traccia i profili dei personaggi delle proprie storie e pare interessarsi soprattutto a tre categorie di soggetti: i burocrati, gli artisti e i militari o poliziotti. Una distinzione sociale quasi platonica, con l'artista collocato sul piano più alto, quasi divino.
Tutte e cinque le storie, infatti, coinvolgono queste figure allo scopo di fungere da basi di partenza utili all'autore per mettere alla mercè le problematiche legate al funzionamento degli uffici pubblici (dipendenti tracciati quali individui oziosi, poco inclini a lavoro e annoiati, pur con delle eccezioni che vengono meleggiate dai colleghi), ma anche per delineare i diversi approcci alla vita che caratterizzano ciascuna di queste figure. In quest'ultimo senso sono degni di grande nota Il Ritratto e La Prospettiva che ruotano attorno alla figura dell'artista, e più in particolare del pittore, mettendola al confronto con quelle dei nobili e dei militari. Il punto di forza del testo, poi, è la meticolosa ricostruzione storico e culturale della Pietroburgo della metà dell'ottocento; parti di racconti come La Prospettiva sembrano usciti da un testo di sociologia dell'epoca, per quanto sono dettagliati nel descrivere la vita di città, soluzione questa che rallenta non poco le trame, ma al contempo si rivela assai gustosa per gli studiosi della società russa zarista. Gogol in questo funge da ispiratore di buona parte dei suoi connazionali, maestri del calibro di Dostoievkij, Tolstoj o Bulgakov che ne seguiranno la strada. Quest'ultimo, in particolare, si farà coinvolgere anche per l'innegabile gusto per l'insolito e soprattutto per il grottesco che in Gogol emerge in modo marcato. Nello specifico si afferma l'idea della presenza sulla terra di fantasmi, il più delle volte sembrano anime erranti che vagano per la città in cerca di vendette per ingiustizie subite in vita. Il caso più evidente si ha nel racconto Il Cappotto, su cui avremo modo di soffermarci in seguito, ma anche ne Il Ritratto con un usuraio che esce e rientra nel quadro che lo raffigura incarnando una sorta di figura di un demonio. Curiosa poi l'abitudine di Gogol di utlizzare spesse volte la parola "diavolo", sia come affermazione che come esclamazione, un vezzo forse non troppo casuale.
Che cosa è la vita nostra! Una perenne lotta della fantasia con la realta! così afferma l'autore che, di fatti, in tutti i suoi testi passa di continuo dalla realtà al sogno (emblematici i sogni in salsa scatola cinese che caratterizzano la prima parte de Il Ritratto, con un protagonista che sogna di sognare di svegliarsi da un sogno in cui sognava di svegliarsi).
L'opera si apre con quello che è il racconto più grottesco del lotto, tanto da portare il celebre critico bulgaro Tzvetan Todorov (ne La Letteratura Fantastica, n.d.c.) a classificarlo quale esempio di racconto anti-allegorico, un vero e proprio non-sense, soluzione peraltro suggerita dallo stesso Gogol che a fine racconto scrive: "Quello ch'è invero più strano e più incomprensibile di tutto il resto, è come gli autori possano scegliersi consimili soggetti. Confesso che ciò mi riesce del tutto incomprensibile". Stiamo parlando del famoso Il Naso, soggetto paradossale che vede un funzionario dotato di grandissimo olfatto perdere il proprio naso che si umanizza e se ne va in giro per Pietroburgo in veste di consigliere di stato. Il testo è una vera e propria "follia" letteraria difficile da decriptare, anche perché Gogol inserisce aspetti assurdi come il fatto che il naso venga ritrovato all'interno di un panino appena sfornato dal barbiere del protagonista (celebre per avere le mani sempre puzzolenti di tabacco, anche se l'unico che se ne accorge è proprio il titolare del naso). Altrettanto assurde sono le attività di indagine che il protagonista, tale Kovalov, cerca di mettere in piedi allertando capi della polizia svogliati, medici e giornalisti della testata Ape del Nord. La cosa curiosa è che ciascuno di questi individui prende come verosimile la storia narrata, ma per un motivo o un altro cerca di dissuadere il protagonista dalla ricerca. Sarà un vigile a recuperare il naso e a portarlo a casa di Kovalov, con quest'ultimo ben felice di recuperare la parte di corpo fuggitiva non tanto per poter riavere il suo olfatto, ma perché altrimenti non avrebbe potuto mostrarsi in pubblico in quanto menomato al giudizio altrui. "Senza il naso, un uomo lo sa il diavolo cosa rappresenta: non è né cristiano, né animale, né carne né pesce, è da prendere e buttare dalla finestra". E' forse in quest'ultimo aspetto, a mio avviso, il senso del racconto. Gogol vuole sottolineare come nella società della sua epoca, figurarsi oggi, è molto più importante la forma sulla sostanza, ovvero è più importante avere il naso in quanto componente visibile da tutti, che avere un grande olfatto(da intendersi quale caratteristica capace di fare la differenza e dunque virtù) o la capacità di saperlo usare, in quanto il giudizio su tale aspetto è prerogativa solo di pochissimi e quindi sacrificabile per il giudizio della massa. Sarebbe un po' come dire, come infatti emergerà nel racconto La Prospettiva, è molto più importante essere belli e avvenenti piuttosto che intelligenti e dotati di acume. Badate però, o voi che leggete, questa è solo una mia ricostruzione, peraltro di un racconto che il grande Todorov reputa privo di significati perché a suo avviso è "l'incarnazione pura dell'assurdo, dell'impossibile... quel che Gogol afferma è il non senso" poiché ogni parvenza di allegoria non sarebbe supportata da indicazioni esplicite all'interno del testo (cfr op.cit). Più esoterica e simbolica è invece la ricostruzione operata dall'opera francese I Maestri della Letteratura Fantastica, per la quale il naso sarebbe l'incarnazione del diavolo nella Santa Russia del XIX secolo e dunque Gogol avrebbe utilizzato una chiave di scrittura/lettura ben specifica per sottolineare le stramberie e le capacità di rottura agli schemi precostituiti di cui sarebbero capaci le creature dell'altrove. Ad avviso di chi scrive tale ricostruzione non è supportata dal resto del testo, poiché non spiega l'atteggiamento dei terzi rispetto alla vicenda ovvero i poliziotti, i giornalisti e i medici.

Sulla stessa falsa riga de Il Naso, quanto alla difficoltà di comprenderne il significato, è Il Giornale di un Pazzo, meglio tradotto in altre antologie come Il Diario di un Pazzo. Qua Gogol, non perdendo l'occasione per sparare frecciate di critica alla burocrazia e alla casta degli impiegati pubblici dell'epoca, mette in scena la lenta discesa nella pazzia di un protagonista paranoico e invaghito della figlia del suo superiore. E come fare per meglio rappresentare tale maelstrom mentale? Semplice, fa narrare in prima persona la storia dal protagonista nella forma del diario. Tale scelta permette così all'autore russo di evidenziare la lenta e costante degenerazione di chi tiene il diario, estrinsecata dalla comparsa di date e luoghi impossibili, discorsi sempre più sconnessi e assurdi (a un certo punto il protagonista inizia a sospettare di essere il Re della Spagna) fino a un epilogo dove viene suggerito il ricovero in manicomio, ovviamente dal filtro percettivo distorto del protagonista. Ne deriva un testo poi non così tanto piacevole da leggere, privo di una vera e propria trama, ma condito da un'ironia e un sarcasmo di fondo assai acuto come dimostra il seguente passaggio in cui Gogol lancia i suoi strali al cianuro: "Ancora non ho sentito dire in vita mia che un cane possa scrivere... ma i cani sono gente accorta, essi conoscono tutte le relazioni politiche".


Molto più interessanti e anche più lineari sono i restanti tre racconti. Il Cappotto è l'elaborato che abbiamo citato a inizio articolo in riferimento alla massima di Dostevkskij. E' la classica storia della narrativa russa tutta incentranta sul lavoro dell'impiego pubblico, con un protagonista assimilabile al Fantozzi di Paolo Villaggio, eccetto per le gaffe comiche e demenziali. Akakij Akakievic, questo il nome del protagonista (come nella tradizione russa una sorta di omen nomen, Dostoevskij farà altrettando con soggetti chiamati Dementev e cose del genere), è un impiegato pubblico modello, l'unico nel suo ufficio, che vive solo per lavorare. "A stento si sarebbe trovato un altro uomo che vivesse tanto nel proprio lavoro. Dire che prestava servizio con zelo sarebbe poco; no, egli prestava servizio con amore."  Preso in giro da quasi tutti, Akakievic se ne va a spasso sempre col solito cappotto logoro, finché un giorno un sarto non gliene confeziona uno nuovo di zecca. Per comprarlo, il dipendente pubblico deve fare grossi sacrifici, ma alla fine si aggiudica il capo. Invitato a una festa per festeggiare l'acquisto, Akakievic viene aggredito da alcuni manigoldi che gli rubano il cappotto prendendolo a cazzotti. Il furto è così grave per il povero uomo che lo porta alla malattia, determinata anche dall'atteggiamento vago della polizia, oltre che di un c.d. personaggio considerevole, suo superiore, che invece di aiutarlo lo tratta a pesci in faccia, figurativamente parlando e dimostrando tutta l'arroganza di certe posizioni di alto lignaggio: "Ignorereste voi l'ordine gerarchico? Dove credete di essere? Ignorereste voi a tal punto gli usi in questo genere di affari? Voi avreste dovuto prima presentare la vostra richiesta in cancelleria; essa sarebbe quindi passata al capufficio, da lui al capodivisione, quindi al suo segretari, il quale me l'avrebbe presentata... Che, che che? Dove prendete un simil ardimento? Dove avete colto simili idee? Che specie di spirito di insubordinazione s'è diffuso oggidì fra i giovani verso i loro capi e superiori! Sapete voi a chi state tenendo un simile linguaggio? Capite davanti a chi vi trovate? Capite questo? Lo capite? Vi chiedo!" Eloquente l'atteggiamento di Gogol verso il potere costituito con la figura di questo "personaggio considerevole" che ben rappresenta, seppur estremizzato, la visione dell'autore ucraino relativa alle più alte cariche della russia zarista. E' qui che il racconto, fin lì piuttosto lento nello sviluppo, si trasforma e passa dal realismo al fantastico puro, perché Akakievic muore di crepacuore per ritornare in forma ectoplasmatica con un solo scopo: togliere i cappotti a tutti coloro che passeggiano sulla Prospettiva Nevskij, così come era stato fatto a lui, finché non sarà sua vittima proprio quel personaggio considerevole di cui non viene fatto il nome. Bello l'epilogo dove, oltre al fantasma di Akakievic, al cospetto di un vigile appaie un altro fantasma in cerca di vendetta, a dimostrazione che i fatti che avvengono sulla Prospettiva vanno oltre al sensibile, toccano infatti l'extrasensibile: "Io sempre mi avvolgo più stretto nel mantello (ecco il riferimento operato da Dostoevskij), quando ci passo, e sto attento a non guardare gli oggetti circostanti. Tutto qui è inganno, tutto delirio, tutto è altro da ciò che appare."

Veniamo allora al testo in cui Gogol dedica interesse specifico a questa strada principale di Pietroburgo, ovvero La Prospettiva. Nella prima parte del racconto la penna ucraina si dilunga nella descrizione della fauna umana che è solita popolare il viale, facendo distinzione tra una fascia oraria e l'altra. Lo spunto è necessario per portare il lettore al cospetto di due personaggi che stanno passeggiando sulla Prospettiva Nevskij, allo scopo di mostrare il loro diverso approccio verso l'amore per una donna. Da una parte abbiamo un militare casanova, dall'altro un artista (pittore). Entrambi notano una donzella, una ciascuno, e decidono, dopo essersi salutati, di seguirle. Mentre il primo è un guascone e sfacciato, il secondo è un timido e pudico di buone maniere eppure isolato da tutti a differenza del primo che è influente. A questo punto il racconto si divide in due parti: una è la storia che riguarda il pittore, l'altra il militare. Comune alle due sarà l'epilogo, ma mentre l'artista è un puro di cuore che ricerca, anche piuttosto ingenuamente, l'essenza dell'amore da tradursi in una complicità che travalica la fisica, il militare invece è a caccia di soddisfazioni materiali. I rifiuti, anche se il termine non è corretto (paradossalmente il rifiuto lo subisce il guascone, mentre il timido andrebbe in buca se solo al suo posto ci fosse il militare), pertanto avranno effetti ben diversi. Il pittore infatti viene accolto dalla donzella, che in realtà è una prostituta (anche se Gogol lo suggerisce soltanto), ma non ne accetta la sua vera natura e cerca di redimerla non riuscendoci, tanto da rinchiudersi in un mondo di fantasia che lo porterà alla morte di crepacuore (soluzione evidentemente cara a Gogol, che poi farà una fine simile a quella dei suoi personaggi prediletti). Il militare viene invece respinto dalla sua scelta, una tedesca sposata, ma ha così tanti soldi da amicarsi il marito (un sarto) fino a tentare il colpaccio e baciare la sposa. Gli andrà male, perché scoperto subirà una dura punizione dal clan tedesco che tuttavia non ne minerà lo spirito, poiché, come si suol dire, persa un'occasione ce ne sono altrettante da cogliere. Bello, nel testo, la visione di Gogol sulla bellezza femminile, così scrive: "La stupidità costituisce in una bella moglie un particolare incanto. Ho conosciuto molti mariti che vanno pazzi per la stupidità delle proprie mogli, e vi scorgono i segni dell'innocenza infantile. La bellezza fa autentici miracoli. Ogni difetto morale di una bella donna, lungi dal generare repulsione, diventa invece al massimo grado attraente; il vizio stesso spira leggiadria; ma scompaia la bellezza, e una donna dovrà essere venti volte più intelligente di un uomo per attirarsi, non dico amore, ma almeno stima".

La PROSPETTIVA NEVSKIJ fine '800.

Chiudo la recensione con quello che è, a mio avviso, il capolavoro del volume: Il Ritratto. Si tratta di un testo base per tutta una serie di racconti incentrati sul tema del quadro e del soggetto che, racchiuso al suo interno, torna a vivere e a interagire con l'esterno. Peraltro ricorda un mio racconto horror che presentai, nel 2010 circa, a una serata di letture al cinema Lumiere di Pisa, senza che venisse letto (lo inserii poi nella mia antologia Sulle Rive del Crepuscolo, quasi tutta costituita da opere secondarie della mia piccola produzione creativa), ma soprattutto ha dei passaggi che ricordano Il Modello Pickman di H.P. Lovecraft o Il Rondache di Leonardo di Manly Wellman. Gogol qua traccia un elaborato, diviso anch'esso in due parti, che è uno spettacolo da leggere, sia per il contenuto intrinseco sia per la storia in sé e per sé. Un pittore di talento, ma sconosciuto, acquista un quadro (è il ritratto di un usuraio dagli occhi diabolici usato come modello del diavolo) sommerso da una caterva di opere e ne rimane così impressionato da vivere un sogno (incubo) in cui sogna di sognare di svegliarsi da un sogno in cui sognava di sognare. Da qui ha inizio la storia che lo porta ad arricchirsi d'improvviso, poiché all'interno della cornice del quadro trova innavvertitamente (viene rotta da un commissario dalle "manone") un piccolo tesoretto. Con i soldi, il giovane artista riesce a comprare una recensione scritta da un giornalista profumatamente retribuito che ne incensa il valore e le qualità, paragonandolo a Van Dyck e Tiziano. Grazie alla pubblicità, già all'epoca (sic!), da perfetto sconosciuto (o meglio conosciuto solo nell'underground artistico), il pittore diviene famoso e tutte le personalità vogliano farsi immortalare da lui a prescindere poi della qualità dell'opera ("Ma che opera! Questo è un vero Correggio! Confesso che avevo sentito parlare di voi ma non immaginavo un simile talento!"), poiché ciò che conta è la pubblicità. Ancora una volta emerge il rapporto tra forma e sostanza. Gogol lo evidenzia con passaggi da grande maestro, distinguendo, già allora, tra opere commerciali e opere autoriali. "Sta attento a non diventare un pittore alla moda: già adesso il tuo colore comincia a essere troppo vistoso; il disegno non è sicuro, la linea è confusa; tu ricerchi gli effetti di luce alla moda, ciò che colpisce l'occhio di primo acchito... stà attento che non ti capiti di fare alla maniera inglese. Bada a te: il mondo già comincia ad attirarti... e ci si può buttare a fare quadri alla moda per denaro; ma in questo modo il talento muore, non si sviluppa. Pazienta; matura ogni tua opera; lascia perdere l'eleganza, i quattrini li raccolgono gli altri, così ciò che è davvero tuo non ti abbandonerà". Chiaramente il protagonista si farà prendere dalla bella vita, dai soldi, dalla notorietà, ma a che prezzo...? La perdita del talento e da questa alla gelosia e all'odio verso coloro (specie se i più giovani visti dai colleghi più anziani come degli irrispettosi) che quel talento ce l'hanno davvero, al punto da cercare di criticarli, di danneggiarli e di esprimere commenti che lui stesso sa di non pensare (viene infatti invitato in veste di giurato e di critico), fino a distruggere le opere altrui che comprende essere superiori alle proprie. Nella seconda parte del testo, Gogol racconterà la storia del quadro iniziale da cui tutto ha avuto inizio, ma si tratta più di un'invenzione narrativa strumentale per parlare di quanto sopra accennato. A proposito, l'epilogo all'asta col quadro che svanisce nel nulla sembra uscito dalla penna di Arthur Conan Doyle. Curioso poi che nel mio racconto a sparire era il soggetto immortalato nel quadro, mentre in Gogol a sparire è l'oggetto mentre davanti a esso c'è un misterioso soggetto (definito solo come "artista") che si presenta come il figlio dell'autore del quadro, almeno così dice per giustificare di volerlo distruggere, ma poi alla fine tutti resteranno a bocca aperta....

"E appariva chiaro anche ai non iniziati l'incommensurabile abisso che separa una creazione da una volgare copia della natura... Quella composizione pareva frattanto librarsi sempre più in alto: sempre più splendente e portentosa, si staccava da tutto per divenire l'immagine di un'idea volata giù dal cielo sul pittore... Immobile, con la bocca aperta, stava Cartkov davanti al quadro..."

Non mancano ancora una volta le frecciate di Gogol alla sua società, sempre orientate a porre l'artista sul piano più alto della società un po' come Platone metteva i filosofi, al punto da dar vita pure lui a una sorta di embrionale filosofia politica tesa a condannare la democrazia a favore della monarchia:  "Di mecenati non se ne trovano più e il nostro XIX secolo è ormai dominato dalla squallida fisionomia del banchiere che si gode i suoi milioni soltanto sotto l'aspetto di cifre allineate... Sotto i regimi monarchici non si soffocano gli alti e nobili moti dell'animo, né si disprezzano e perseguitano le creazioni dello spirito, della poesia e delle arti; solo i monarchi le incoraggiarono; che gli Shakespeare, i Molière, fiorirono sotto il generoso usbergo, laddove Dante non poté trovare angolo di terra che lo reggesse nella sua patria repubblicana; che i veri geni sorgono nelle epoche di splendore e di potenza dei sovrani e degli imperi, e non nelle epoche di disordinati movimenti politici e di agitazione repubblicana, le quali finora non hanno dato al mondo un solo poeta... I dotti, i poeti e tutti coloro che praticano le arti, sono le perle e i brillanti della corona imperiale: di essi s'adorna e maggior lustro ne trae l'epoca di un grande sovrano." Gogol prosegue con l'analisi della figura di quello che secondo lui dovrebbe essere il vero artista (uno che non persegue il successo né cavalca le mode del momento, ma colui che ricerca in tutto l'alto segreto della creazione) e impreziosisce così quello che può, a ragione, definirsi un vero capolavoro. Vale da solo la lettura dell'intera antologia.

GOGOL il grande.

"Mi pare che condividere i propri pensieri, i propri sentimenti e le proprie impressioni con un altro essere sia una delle più grandi consolazioni al mondo" (N. Gogol - Il Giornale di un Pazzo).