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mercoledì 29 giugno 2011

Recensione antologia "In questo libro c'è il diavolo" di Luca Ducceschi


Autore: Luca Ducceschi

Anno di uscita: 2010

Casa editrice: Montag

Pagine: 184


Commento di Matteo Mancini

Dopo due romanzi dalle forti contaminazioni erotiche, “Ci piacevano i Gansendrosis” (Edizioni Montag) e “Gioco di voci” (Ed. Creativa), Luca Ducceschi da alle stampe un libro che forse sintetizza al meglio le sue passioni narrative. Dichiarato sostenitore del mondo horror, infatti, Ducceschi raccoglie ne “In questo libro c'è il diavolo” il meglio della sua produzione fantastica. Leggere alcuni racconti, per il sottoscritto, è stato un piacere doppio, perché da collega e soprattutto da avversario di Luca in molti concorsi (specie in quelli della Ferrara Edizioni – Area 31) avevo già visionato molti dei testi, in occasione di queste gare o, nel caso di “Gioventù Kannibale”, in vista dell'uscita dell'antologia collettiva “Polpa e Colpa” curata dallo stesso Ducceschi e a cui io partecipai all'editing e in veste di autore. Ducceschi però non si limita a raccogliere una serie di racconti già editi, ma opera un restyling che migliora gli elaborati sia sotto il profilo dello stile sia del ritmo.

A parte “Due inferni di ghiaccio e una stella di luce bianca” (un fantasy, con atmosfere da Sword & Sorcery, ambientato in un mondo alieno dove gli eventi determinano ripercussioni sulla Terra), i testi hanno in comune la particolarità di introdurre un elemento fantastico nella società di tutti i giorni.Le similitudini però non si limitano a questo. L'attitudine di Ducceschi per la narrativa erotica (di quella spinta e violenta) emerge costantemente in quasi tutti gli elaborati. Discorso analogo riguarda i contesti squallidi in cui si svolgono i fatti e in cui vomito, cacca e piscio sono ricorrenti (in questo forse Ducceschi dovrebbe migliorare, per rendere più variegate le caratterizzazioni sia dei personaggi che delle scenografie). Altresì costanti sono gli spiccati impulsi sessuali che dominano i personaggi (non si contano i rapporti sessuali, seppur di diversa natura, dallo stupro a quello libidinoso passando dal sesso orale a quello di ben altra natura, che Ducceschi porta in scena). Lo stile, dalla tendenza allo sboccato e omaggiante alla narrativa pulp, rivela uno scrittore capace di coinvolgere lo spettatore con trame quasi sempre affascinanti e dal ritmo sostenuto, ma sempre al limite di quell'indice di gradimento che potrebbe portare i palati più puritani a storcere la bocca.

Tra i nove racconti proposti si distinguono soprattutto “Il tatuatore”, “Gioventù kannibale” e “Binario morto” anche se è pur vero che le differenze qualitative tra i testi non sono nette. Personalmente ho trovato un po' banale il solo “Bambinate” (un racconto in chiave ironica e grandguignolesca che si concentra sulle follie di uno scrittore ossessionato da un blocco creativo e perseguitato dal personaggio del suo racconto, appunto un bambino che chiede vendetta).

Ne “Il tatuatore”, l'elaborato più onirico dell'intera antologia, il lettore accompagna un'adolescente ribelle alla ricerca del suo primo tatuaggio. La giovane percorre le vie piovose della sua città, fino a imbattersi in un circo romeno che non aveva mai notato. Ingenuamente (questo è l'unico neo del racconto, un neo tipico dei film slasher americani dove i personaggi fanno quello che nessun altro farebbe), la protagonista si inoltra all'interno del circo che appare tetro e deserto. A un certo punto l'attenzione della ragazzina viene rapita da una roulotte su cui campeggia un'insegna che le fa capire di aver trovato ciò che andava cercando: un tatuatore. Ovviamente la poveretta decide di entrare... Al di là dell'ingenuità di fondo si tratta di un ottimo racconto, capace nel 2009 di aggiudicarsi il primo (o secondo, non ricordo bene) posto nel concorso della Ferrara Edizioni dedicato ai vampiri. Ricordo che fin dalla prima lettura mi fece una certa impressione per l'originalità nel trattare un tema abusato (quello dei vampiri) e per un certo gusto per l'erotismo perverso. Ottima la descrizione del tatuaggio che la ragazza si fa fare sul petto, così come l'atmosfera allucinata che pervade la vicenda e che induce il lettore a non staccarsi dalla pagina.Sotto quest'ultimo profilo Ducceschi offre il suo meglio col serratissimo “Binario morto”.

Sebbene diminuisca l'originalità del soggetto, che pare esser stato estrapolato da un episodio della serie “Ai confini della realtà”, l'autore confeziona una storia dal ritmo indiavolato che raramente capita di imbattersi nell'ambiente underground. La vicenda ruota attorno a un treno fantasma su cui si trovano inconsapevolmente passeggeri una poliziotta, un delinquente e un informatore della polizia che si inseguono l'un l'altro per vendicarsi di torti subiti. Ciò che i tre non sanno è che su quel treno qualcun altro è sulle loro tracce. Questo è il racconto più appassionate e meglio caratterizzato del lotto, grazie alla cura che Ducceschi impiega nel ricostruire un certo periodo storico, pescando in canzoni d'epoca, vestiari retrò ed eventi verificatesi negli anni di riferimento. Peccato, a mio avviso ovviamente, per la sfumatura pulp a tratti gratuita (penso a esempio al disegno osceno sul vetro) che qua sarebbe stato meglio omettere visto le atmosfere classicheggianti che Ducceschi era riuscito a mettere in piedi.

Con “Gioventù kannibale” invece Ducceschi abbandona gli archetipi del genere e i testi di mero intrattenimento, per intessere un qualcosa di personale. Si tratta di un racconto violentissimo che punta i riflettori su alcuni fatti di cronaca nera (scomparse di bambini, internet come strumento per divulgare e condividere depravazioni, ma soprattutto i fatti del G8 di Genova e i misteri su alcuni rapimenti) col fine di tracciare una visione coraggiosa e irriverente della realtà. Il testo è un noir splatter in cui l'anima pulp è fin troppo evidente. Non ci sono personaggi positivi, il sangue scorre a fiumi e i colpi nello stomaco del lettore son ricorrenti e pesanti come macigni. Si parla di cannibalismo, snuff movie con momenti di una violenza disturbante sia a livello di immagini (vedere dei bambini assassini e depravati, rapiti e imbottiti di ormoni per renderli aggressivi e voraci è una cosa a dir poco crudele) che a livello psicologico (un ragazzo viene addirittura costretto a praticare del sesso orale su un altro uomo; una madre colpisce con una sprangata in testa la figlia degenera). Il finale è di un nero che più non si potrebbe, con un paese nelle mani di un gruppo di militanti di estrema destra (si riuniscono in un locale il cui nome omaggia il regista Sergio Martino) agli ordini di un deputato chiamato come il regista del B-movie “Cannibal holocaust”. Dietro all'apparenza dei fatti narrati, Ducceschi dà l'idea di nascondere dei messaggi criptici da sciogliere per decriptare ulteriormente il testo, a partire dal significato celato dietro ai bambini cannibali, aspetto che rende ancor più interessante il racconto.

Tra le altre storie sono meritevoli di citazione due omaggi a Lovecraft. Il primo, e più evidente, è “Sotto Parigi” ovvero una sorta di commistione tra le visioni del solitario di Providence e le leggende che stanno alla base della sceneggiatura del film “Catacombs” (citato direttamente da Ducceschi). Il testo vanta ottime descrizioni scenografiche (nei sotterranei, tra vicoli stretti e bui) e procede alternando pagine di diario di una persona scomparsa e le ricerche, anche a mezzo detective privato, dei familiari. Peccato per il finale un po' troppo sbrigativo e per dei personaggi che diventano degli assassini sanguinari in modo incomprensibile e avventato. Qualitativamente superiore e con ottimi spunti barkeriani (penso al racconto “Macelleria di mezzanotte”) “Dopo l'inferno di Dante”. Protagonista è una professoressa delle superiori vittima di bizzarre allucinazioni che sembrano connesse a una gita scolastica fatta presso un sito religioso. La donna si ritrova a vagare, per una Milano presidiata dai militari in tenuta antisommossa, torturata dalla visione di mostri. Lo snodo della vicenda si ha quando la professoressa incontra un barbone in un vagone della metro. Qui il vecchio, in una scena che richiama alla mente “La maschera di Innsmouth” di Lovecraft, le rivela la ragione delle visioni. Finalone a sorpresa nerissimo in stile Ambrose Bierce. Un testo dunque che gioca molto sull'elemento delle realtà parallele e dei mostri confinati in un'altra dimensione che irrompono d'improvviso tra noi a causa di un evento scatenante.

I restanti due racconti sono, forse insieme a “Bambinate”, i meno brillanti. Comune a entrambi è l'ambientazione (case di cura) e il ruolo da emarginati dei loro protagonisti. Il primo di essi è “La vecchia della numero 16”, testo che apre l'antologia. Ci troviamo in un ospizio in cui viene ricoverata una misteriosa paziente di colore. L'arrivo della donna scatena una serie di decessi apparentemente attribuibili a incidenti o a morti naturali. In realtà però sotto a tutto c'è una vendetta orchestrata dalla nuova paziente, una donna dotata di poteri magici con alle spalle un passato di violenze. Con le sue circa 50 pagine, si tratta dell'elaborato più lungo del lotto. Ben scritto, con un erotismo piuttosto esplicito, il racconto procede tra flashback (messi in scena per mezzo di alcuni racconti narrati da un vecchio paziente dell'ospizio), scappatelle amorose tra il protagonista e un'infermiera ecuadoregna e fatti bizzarri consumati all'interno della struttura. Forse il racconto sarebbe risultato più esplosivo se fosse stato maggiormente concentrato, ma tant'è. Ducceschi si limita a raccontare una storia che miscela stregoneria (anche se non in modo approfondito e con pochi richiami esoterici) con citazioni implicite a “L'Esorcista” (vomito verde, teste che ruotano di 360 gradi) e film sugli zombi (la parte finale sembra un omaggio a “L'Alidilà” di Fulci, con tutti i pazienti che vagano per le corsie della struttura con gli occhi divenuti completamenti bianchi).

Più incalzante “C'era un occhio nel frullatore” che ribalta in chiave diabolica la figura dell'angelo custode, da considerarsi più come un diavolo che crea problemi piuttosto che un'entità tesa a salvare il suo protetto. Protagonista è una portatrice di handicap ricoverata in un istituto. La donna ha sviluppato un potere tale da consentirle di contenere le malefatte del suo angelo custode, finché un giorno un ex suora tenta di liberarla dal peso, senza però ponderare bene la situazione. Il demone riuscirà così a liberarsi e farà mattanza all'interno del ricovero fino all'intervento di un cane posseduto da un'entità benigna che aggredirà lo spirito malvagio con grande dispiego di sangue vecchio di oltre 50 anni. Di rilievo l'epilogo in cui si assiste – non so quanto volontariamente - a una riproposizione del capolavoro di Bierce “La cosa maledetta” con il cane alle prese con un nemico invisibile. A fungere da contorno libri sul nazismo magico e personaggi storici che paiono rivivere sotto forma di entità ectoplasmatiche.

In definitiva un'antologia interessante densa di storie pessimiste e diaboliche (da qui il titolo “In questo libro c'è il diavolo”) che si legge senza fatica. Ottima la confezione e la rilegatura, pochi i refusi. Da leggere anche sotto l'ombrellone. Voto: 7

domenica 19 giugno 2011

Recensione cinematografica: BUNDY a Legacy of Evil (Regia Michael Feifer, 2009)



In alto: a sinistra una foto del vero Ted Bundy, sotto la copertina del film.

Produzione: Usa, 2008.

Regia e Sceneggiatura: Michael Feifer

Interpreti Principali: Corin Nemec, Kane Hodder, Jen Nikolaisen

Durata: 110.


Commento di Matteo Mancini:

Terzo film, uscito in rapida successione dopo "Ted Bundy" di Matthew Bright (2002) e "Ted Bundy il Serial Killer" di Paul Shapiro (2003), incentrato sull'affascinante e terribile figura di Robert Theodore Bundy.

Serial killer lust murderer (cioè per libidine) piuttosto atipico (operante negli Stati Uniti negli anni '70) sia per le diversità del modus operandi con cui commetteva gli omicidi (entrava indifferentemente nelle case delle vittime sorprendendole nel sonno o le abbordava offrendo passaggi in auto o si faceva aiutare a trasportare dei libri fingendo di avere un braccio ingessato oppure, ancora, simulava di essere un poliziotto), sia per l'elevato background di studi (laurea in psicologia e aspirante avvocato) nonché per un fascino che gli permetteva di incantare bellissime ragazze (tutte con i capelli lunghi divisi al centro, come la sua prima fidanzata Stephanie), ma anche per il suo frequente spostarsi di Stato in Stato che rendeva difficoltoso il collegamento tra i vari omicidi e le numerose scomparse che rendono impossibile attribuire un numero certo alle sue vittime (molti dei corpi delle vittime non furono mai trovati).

Il caso di Ted Bundy è forse il più tragico e triste della criminologia moderna (per come un soggetto talentuoso si sia buttato al macero). Brillante, ironico e dotato di una sagacia fuori dal comune (riuscì a evadere per ben due volte e senza complicità alcuna della polizia), Bundy ricusò ogni avvocato nominato dal Tribunale, sfidò i poliziotti, strizzò occhiolini ai giornalisti regalando interviste e si difese con energia per conto proprio nel corso del processo. Fu condannato a morte a causa di una prova schiacciante: sul corpo di una delle ultime vittime fu rinvenuta l'impronta dell'arcata dentaria dell'assassino e fu dimostrato che si trattava di quella di Ted Bundy.

Eloquente per capire il personaggio il commento che espresse il giudice del processo dopo aver letto in aula la condanna inflitta all'imputato: "E' tragico per questa corte assistere a un tale spreco. Penso alla capacità che lei ha mostrato in questa aula. Lei è un giovane brillante, avrebbe potuto essere un avvocato e sarei stato felice di vederla esercitare davanti a me, ma ha sbagliato strada." Così la figura di questo serial killer, per certi versi la più vicina a quella fantastica di "Hannibal Lecter", in seguito chiamato persino a collaborare con l'FBI per tracciare il profilo psicologico dell'imprendibile serial killer del Green River (che sarà arrestato svariati anni dopo), si è ritagliata un grande spazio sia nei libri di criminologia, sia nei true crime (un evergreen è il libro "Un estraneo al mio fianco" di Ann Rule, interamente dedicato al rapporto di amicizia che, in tempi non sospetti, legava l'assassino alla scrittrice, all'epoca in cui lavoravano insieme al telefono amico) che nel cinema.

Purtroppo i tre film che lo riguardano (ce ne sarebbe anche un quarto del 1986 intitolato "Il mostro", ma è introvabile) sono film destinati all'homevideo e tutti hanno il difetto di essere incompleti anche se complementari tra loro. In altre parole, ciascuno di questi film sviluppa alcuni aspetti di questo diabolico personaggio. Il film di Bright, a esempio, è il migliore sotto il profilo tecnico (fotografia, colonna sonora e regia sono le migliori della terna) e nella rappresentazione degli omicidi, ma non analizza bene la psicologia dell'assassino. Il film di Shapiro, invece, è molto più lento, visivamente piuttosto grezzo con una mediocre fotografia, ma si rivela superiore nel tracciare la personalità narcisistica di Bundy e il suo alto senso di spettacolarizzazione di ogni gesto nonché della sua capacità di dire con disinvoltura una serie di bugie. Il film oggetto di questa recensione, invece, è dal punto di vista tecnico una via di mezzo tra i due film, mentre contenutisticamente è il più completo e curato (in particolare nel make up).

Feifer scrive e dirige senza preoccuparsi di imprimere un taglio political correct, infatti mostra - seppur limitate all'essenziale - scene di una durezza impressionante (Bundy che prende a cazzotti una ragazza, ma anche scene di necrofilia con teste in avanzato stato di decomposizione riprese in primo piano tra le mani di Bundy) senza dimenticarsi di tracciare le basi che servono a comprendere l'evoluzione del personaggio. Rispetto ai due precedenti film, viene rappresentata in modo ottimale l'infanzia dell'assassino e soprattutto il rapporto tra Bundy e la ragazza che gli rapì il cuore ai tempi universitari (Stephanie). Un rapporto prima di amore e di felicità che poi va in frantumi per l'immaturità e la timidezza di un Bundy impacciato e per il desiderio della ragazza di avere al suo fianco un uomo vincente. Ferito dall'ennesimo abbandono della sua vita (era figlio illegittimo, ma lo scoprirà solo in seguito perché la madre gli aveva detto di essere in realtà sua sorella), Bundy evolverà da timido a estroverso distinguendosi in più campi (politica compresa) fino a riconquistare Stephanie e convincerla a sposarlo, ma con il solo intento di ferirla e abbandonarla proprio come lei stessa aveva fatto con lui (lo farà in un modo crudele come pochi e Feifer è bravissimo a trasmettere la tristezza della donna, abbandonata quando credeva ormai di aver bussato al cancello del Paradiso). Si tratta di uno snodo fondamentale, ignorato da Bright e trattato con sufficienza da Shapiro, per capire la genesi di questo serial killer e Feifer ha colto in pieno l'importanza, spendendo minuti su minuti per sviluppare questo aspetto. E' chiaro poi che il minutaggio limitato ha determinato un taglio netto di molti omicidi (vengono proposti come una sorta di flash, ma sono flash potenti che costano alla pellicola il bollino del V.M ai 14 anni), così come accennata è la farsa di Bundy durante il processo (questa è ottimamente riprodotta dal film di Shapiro). Sono infine quasi del tutto omesse le evasioni, mentre non c'è alcuna traccia della seconda (la donna che frequentava durante gli omicidi) e della terza donna (quella che sposò in carcere) di Bundy.

Nonostante questo e qualche scena scollegata dal resto, "Bundy a legacy of evil" è il miglior film su Bundy. Non viene penalizzato neppure dalla presenza di un cast artistico tutt'altro che noto, anzi, l'interpretazione di Corin Nemec (molto somigliante a Bundy) è notevole (specie quando compie gli omicidi). Curatissimo il make up di Yvonne Wang (si sta attenti a tutto, dal colore del maggiolino dell'assassino, al taglio di capelli di Bundy, per finire col gore e i bacherozzi che si contorcono sui volti putrefatti).

La regia di Feifer non è perfetta, ogni tanto gli scappa di mano il film (ci sono sequenze che non sono montate benissimo) ma alla fine è più che sufficiente. Belle le scene con Bundy che invoca Dio o simula di essere un lupo in mezzo alla foresta.

In definitiva, per essere un film destinato all'homevideo e peraltro quasi introvabile (l'ho recuperato per caso alla Media World in una scarnissima edizione DVD), non è affatto male ed è il più completo dei tre film citati. Anche se non è un capolavoro, è una piacevole sorpresa per gli appassionati di criminologia. Merita una visione. Voto: 7

Il trailer originale del filmhttp://www.youtube.com/watch?v=-mO4MwNmDXI



mercoledì 15 giugno 2011

Parole al Passo del 27 gennaio, 2010. Verso la fine intervengo radiofonicamente


Ho un po' "scartabellato" per la rete e ho ritrovato un'intevista radiofonica che rilasciai il 27 gennaio del 2010 alla radio romana RADIO IMAGO.

Nel corso del programma "Parole al passo" intervengono prima l'amico editore GORDIANO LUPI, poi l'amica Maria Silvia Avanzato e, infine, io che parlo de "Il raggio di Halloween" (racconto incluso nell'antologia "Racconti Sepolti" edita dal Foglio Editore e di cui curai l'editing) e della mia piccola antologia personale "La lunga ascesa dal mare delle tenebre" (edita da GDS Edizioni, Milano). In redazione c'è anche il mio amico e sostenitore emotivo Alessandro Napolitano.

Qua trovate il link dove potrete ascolare l'intera puntata, tra musica e narrativa di scrittori emergenti. Per sentirmi lasciate caricare il file e poi portatevi quasi alla fine dello stesso. Buon ascolto.

http://www.radioimago.org/archivio/2010/Parole36.mp3

domenica 12 giugno 2011

Recensione cortometraggio "La Dolce Mano della Rosa Bianca" (Regia Davide Melini)


Produzione: Ita-Spa, 2010

Regia: Davide Melini.

Soggetto e Sceneggiatura: Davide Melini.

Fotografia: José Antonio Crespillo.

Colonna sonora: Christian Valente e Ivan Novelli

Interpreti Principali: Carlos Bahos (Marco), Natasha Machuca (Rosa Bianca), Leocricia Sabán (Maria)

Durata: 16 minuti circa.

Trama:

Giovane un po' depresso guida la propria auto in piena campagna, quando, infastidito dal continuo squillare del cellulare, decide di rispondere. Dalla parte opposta, intanto, sta sopraggiungendo una bambina in sella alla sua bici...

Commento di Matteo Mancini:

Dopo “The Puzzle”, “La dolce mano della rosa bianca” è il secondo lavoro che visiono dell'amico Davide Melini. Già collaboratore di Dario Argento né “La terza madre”, Melini si è trasferito da anni in Spagna dove ha deciso di tentare la scalata per diventare un regista affermato.

Con questo cortometraggio l'autore romano compie un netto passo in avanti rispetto ai suoi precedenti lavori. Il merito va alle indubbie doti personali del trentaduenne, ma anche a un cast artistico e soprattutto tecnico in splendida forma capace di sopperire al budget risicato con una disinvoltura che lascia stupiti.

Ciò detto scendiamo nel merito della pellicola.

L'opera, eccetto il bellissimo e poetico epilogo, ruota attorno a un soggetto (dello stesso Melini) che non brilla per particolare originalità (ho visto qualcosa di simile in un altro corto italiano girato in bianco e nero un paio di anni fa). Abbiamo un giovane ragazzo che vaga in un cimitero, a causa di un terribile incidente stradale che l'ha visto coinvolto a seguito di una banale disattenzione. La sceneggiatura non lo spiega, tuttavia sembra (almeno nel ricordo dell'uomo) che dopo lo scontro il ragazzo si sia dato alla fuga e che in un secondo momento, morso dai sensi di colpa, abbia deciso di rendere omaggio alla giovane che ha travolto e ucciso. Ciò che il giovane non sa è che nel cimitero lo attende un'amara sorpresa. L'innovazione di Melini sta nell'aver optato per una conclusione in cui l'amarezza e la sconfitta evolvono in dolcezza e trionfo dell'amore sulla morte. Ecco che il finale diviene qualcosa di eccelso in cui l'autore imprime a fuoco una netta impronta, evitando quelle soluzioni telefonate di cui invece già si sentiva l'odore a causa di una serie di citazioni e di soluzioni visive fin troppo inflazionate (si vedano le ombre che, d'improvviso, passano da una parte all'altra della telecamera o la scena, in omaggio all'argentiano “Tenebre” e a “Doppia personalità” di Brian De Palma, in cui la bambina appare alle spalle del protagonista). Il nostro però non si ferma qua, oltre alle già menzionate, ripropone le fronde degli alberi riprese dal basso verso l'alto che si muovono per effetto del vento (in stile “Phenomena”), i primissimi piani di una luna investita dalle nubi, ma anche l'inquadratura iniziale di un teschio di plastica illuminato di arancione (molto “Halloween”) sospeso accanto alle gambe di una ballerina in una sequenza iniziale che farebbe impazzire Robert Rodriguez (penso all'inizio di “Planet Terror”) e ancora la scena in bianco e nero (in stile “Schindler's List” o “Sin City”) con la bambina riversa a terra e il sangue rosso che scende piano piano sull'asfalto in modo da rendere netto il contrasto di colori (effetto che non può non colpire lo spettatore).

La regia di Melini è molto pimpante e fumettistica tanto da dare l'idea di tradurre in immagini le tavole di un ipotetico storyboard. Moltissimi i primi piani, poche le riprese in campo lungo (quelle, bellissime, che immortalano il preludio del sinistro). Appropriate, perché a mio avviso aumentano il realismo del film, le scelte di dirigere alcune scene partendo da un qualcosa di specifico e poi scivolare di lato fino a riprendere il personaggio protagonista che da fuori campo entra in azione.

I momenti migliori del corto sono soprattutto i titoli di apertura, anche per merito di un montaggio eccezionale e di un'ottima colonna sonora, e la sequenza nella cripta (forse la più sinistra dell'intera opera, con quell'atmosfera tipica degli spaghetti thriller anni '70). Non è altresì inferiore la parte ambientata nel cimitero, anche se tende a perdere di pathos dal momento in cui Bahos vede chiudersi alle spalle il corridoio da cui era passato. Dopo questa scena, infatti, c'è una parte, preludio dell'ottimo epilogo, che, a mio avviso, doveva esser scritta in modo più personale (nella scelta del look della bambina, tra l'altro, ci sono velate citazioni agli horror giapponesi).

Degna di nota la fotografia di José A. Crespillo che, su richiesta di Melini, rende le immagini oniriche e lo fa con colori vivacissimi (specie nella parte ambientata al cimitero). Ne discende una fotografia lussuosa per un prodotto semi-professionale che sarebbe capace di rivaleggiare tranquillamente con quelle di prodotti sulla carta più ambiziosi. Dunque davvero una prova eccezionale quella di Crespillo.

Ottimo lavoro anche per l'accoppiata Valente-Novelli sia per la colonna sonora sia per i curatissimi effetti sonori.

In palla Bahos e la piccola Machuca (classe 1998) che non cadono nell'apatia tipica che contraddistingue gli aspiranti attori, ma riescono a recitare senza far storcere il naso dei più esigenti. Bravo, nella loro direzione, Melini anche per l'intuito di diminuire le difficioltà di recitazione, ricorrendo all'escamotage delle voci fuori campo (che sostituiscono quasi del tutto i dialoghi). Ruolo da comprimari per tutti gli altri attori.

In definitiva un bel prodotto. Non a caso “La dolce mano della rosa bianca” è risultato finalista in svariati Festival italiani, spagnoli, americani e sud africani e recensito da testate e siti dei medesimi Stati. Indubbiamente buono, soprattutto sotto il profilo tecnico. Melini è un regista da tenere sott'occhio, parola di Matteo Mancini alias giurista81.

Intervista rilasciata dal sottoscritto


Posto qui di seguito il link dove potrete leggere una lunga intervista rilasciata dal sottoscritto in occasione dell'uscita della mia antologia "Sulle rive del crepuscolo" edita da GDS Edizioni. Buona lettura. In alto una mia recente foto.

http://strepitesti.blogspot.com/search/label/matteo%20mancini

Ps: continua intanto la lavorazione sul saggio sugli spaghetti western (dovrebbe uscire per la casa editrice IL FOGLIO EDITORE), è in fase di revisione la novella "Il Vampiro del Terzo Millennio" che uscirà per GDS Edizioni nella collana "I Cigni". Sono in attesa dei disegni per l'antologia fantastica a puntate semestrali "L'occhio sul crepuscolo", di cui sarò curatore e che sarà dedicata in modo particolare agli autori emergenti (nel primo numero avranno spazio Francesco Borrasso, Alessandro Napolitano, Vincenzo Barone Lumaga e Patrizia Birtolo).

A settembre inoltre darò il via al progetto "Ultimo Giro" dedicato agli eroi della F1 che hanno pagato con la propria vita o comunque a caro prezzo la loro passione per la velocità. Il libro sarà scritto con un taglio teso a sottolineare più il lato umano e, in molti casi, filosofico di questi eroi, piuttosto che quello prettamente sportivo.




Recensione narrativa - IL GIOCO DI GERALD (S.King)




Autore: Stephen King
Anno di uscita: 1992
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 368
Commento
Romanzo, a metà strada tra l'erotico (malato) e l'horror, firmato da colui che - a torto (ovviamente è un mio parere) - viene definito il re dell'incubo, cioè Stephen King.
Nell'occasione lo scrittore statunitense propone una storia altamente drammatica che ruota attorno a un soggetto piuttosto striminzito. Abbiamo una coppia di coniugi che, per stimolare le prestazioni sessuali dell'elemento maschile, decide di dar vita a un gioco perverso in cui la donna viene ammanettata alla spalliera del letto. Durante il rapporto però, a causa di un ripensamento della moglie, nasce una colluttazione nel corso della quale il marito, un noto avvocato, cade preda di un attacco cardiaco che lo porterà a una morte immediata.Ha così inizio l'incubo della moglie che resta bloccata a letto, incapace di muoversi e di chiamare aiuto. La casa in cui si trova, infatti, è isolata in aperta campagna. Intanto un cane randagio penetra nell'abitazione e inizia a cibarsi del cadavere dell'uomo, mentre una bizzarra sagoma oscura farà capolino al crepuscolo assumendo un'espressione di derisione e mantenendosi sempre ai margini della vicenda.Questo, in sintesi, è il succo del contesto che King va a tracciare per analizzare la psiche della protagonista e i suoi orrori trascorsi.
Non è la storia, né la volontà di dar vita a una parabola a interessare l'autore, ma l'analisi introspettiva della protagonista; un'analisi che, probabilmente, risulterà interessante per un pubblico femminile, ma credo si rivelerà assai noiosa per un pubblico maschile. Siamo dunque alle prese con un romanzo in cui sono le paranoie e i complessi mentali della protagonista a elevarsi al ruolo di protagonisti e non una serie di accadimenti funzionali a creare una vera e propria storia.
King scende nella psiche della donna, riporta alla luce traumi infantili che ruotano attorno al cattivo rapporto con la madre, all'ammirazione per il padre che poi si tramuta in un qualcosa di malato, ma soprattutto alle prime esperienze sessuali (è stata molestata dal padre e poi dal fratello) e lo fa in modo ripetitivo e talvolta con cattivo gusto. Alcune descrizioni, seppur efficaci, sono eccessive, anche in considerazione del fatto che si sta parlando di una bambina di dieci anni (penso alla descrizione della piccola che assaggia lo sperma del padre). Altre invece vengono inserite tanto per fare brodo e si rivelano del tutto gratuite (penso al cane necrofago).
Tutto questo da vita a un'opera basata su un soggetto ottimo per un racconto, ma non certo per un romanzo di quasi 400 pagine. L'autore, difatti, appesantisce il testo con una moltitudine di azioni che occupano interi capitoli (la donna che cerca di bere; la donna che cerca di cacciare il cane; la donna che cerca di liberarsi dalle manette) e pensieri ripetitivi che assillano la prigioniera (inizia persino a parlare con una serie di voci di personaggi immaginari che le torturano la mente). Le cose non migliorano con lo scorrere delle pagine, anzi tendono a peggiorare con un pessimo epilogo. Penso che in pochi potrebbero qualificare il finale se non come un epilogo posticcio. King, come spesso avviene nei suoi romanzi, prima cade negli stereotipi del genere (la figura del baubau, la donna che scappa e vede apparire alle sue spalle, d'improvviso, nello specchietto retrovisore il mostro da cui sta scappando), poi uccide quella poca atmosfera che dava modo al lettore di fantasticare (la figura della morte che vaga con i gioielli era molto romantica) e lo fa per l'impulso di giustificare a tutti costi ciò che viene dato in pasto al lettore. La spiegazione, tra l'altro, viene data in un modo che vorrebbe risultare originale e scioccante, ma che invece non lo è affatto. King non fa altro che riproporre pari pari un personaggio conosciutissimo in ambito criminologico (i riferimenti vanno a Ed Gein), senza caratterizzarlo con trovate innovative.
Ciò detto mi sovviene una frase che Clint Eastwood soleva dire a Sergio Leone e che calza, a mio avviso, a pennello per "Il Gioco di Gerald": “In un'opera di serie B si dice ogni cosa a ogni spettatore. In una vera opera di serie A si lascia che il pubblico pensi!”. Tutto questo per dire che “Il gioco di Gerald”, pur beneficiando di alcuni buoni momenti (su tutti il primo ingresso in scena del baubau e la descrizione del rapporto sessuale durante l'eclisse) è molto lontano da essere un'opera di serie A. Voto: 5,5

PS: AGGIUNTA DEL 6 NOVEMBRE 2011

Spulciando nelle mie numerose antologie di narrativa fantastica ho scoperto un'altra opera che il sopravvalutato (non mi stancherò mai di dirlo e lo è per via della scarsa conoscenza del genere di buona parte dei suoi lettori) STEPHEN KING ha spudoratamente copiato. Sto parlando de "IL GIOCO DI GERALD", il cui soggetto è stato ripreso pari pari dal racconto "La Vasca" - "The Tub" (inserito nell'antologia "EROTIC HORROR") scritto da Richard Laymon nel 1991.

Nel testo di Laymon ci sono tutti gli elementi che caratterizzeranno il successivo romanzo di King (uscito appena un anno dopo) e questo ridimensiona il genio di King. Protagonista della storia è una donna che resta intrappolata (nella fattispecie in una vasca sotto il peso del compagno culturista) durante un amplesso che culmina con la morte per infarto del partner. Comuni al romanzo di King sono tutti i tentativi bislacchi della donna di liberarsi ma anche l'alternanza del giorno con la notte, ed evidenti parallelismi nelle location e nelle paranoie(abitazione isolata, porte di ingresso lasciate aperte con conseguente timore di voyeuristi pervertiti che spiano nel buio). Dunque il soggetto è pressoché identico, manca solo il background familiare della donna e il cane idrofobo e poi ci siamo.