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sabato 22 marzo 2025

Recensioni Cinematografiche: LA CITTA' PROIBITA di Gabriele Mainetti.

Produzione: Mario Gianani, Lorenzo Gangarossa, Sonia Rovai e Alessia Sinistro.
Sceneggiatura: Stefano Bises, Davide Serino & Gabriele Mainetti.
Regia: Gabriele Mainetti.
Montaggio: Francesco Di Stefano.
Fotografia: Paolo Carnera.
Colonna Sonora: Fabio Amurri.
Interpreti Principali: Yaxi Liu, Enrico Borello, Chunyu Shanshan, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Luca Zingaretti.
Durata: 138 min.

Commento Matteo Mancini.

Gabriele Mainetti si conferma tra i migliori registi di genere nel contesto del cinema italiano pur senza rinunciare all'anima trasteverina e coatta, vero e proprio marchio di fabbrica dei suoi film e probabile punto debole in un'ottica di esportazione. Dopo Lo Chiamavano Jeeg Robot (2015) e Freaks Out (2021), il regista insiste sul cammino fatto di contaminazioni in salsa romana. Prodotto da un lotto di "nuovi" finanziatori, tra cui i produttori della serie L'Amica Geniale e del film interpretato da Paola Cortellesi C'è Ancora Domani (2023), il "nostro" capitalizza il budget di diciassette milioni di euro (record per Mainetti) con la probabile intenzione di esportare la pellicola all'estero. Al cinema dei supereroi e a quello bellico/fantastico, subentra nientemeno che il gongfu (con tanto di omaggi a Bruce Lee e Jackie Chan) ovvero quel cinema d'azione, tipicamente cinese, salito agli onori delle cronache negli anni '70 in virtù dei successi di Bruce Lee.

La Città Proibita è un rarissimo esempio di cinema marziale, prodotto in Europa, giostrato sul kung-fu. In Italia, negli anni '70, si era tentato di sfruttare la moda del periodo dando luogo a esperimenti poco convinti e sovente virati al farsesco, rappresentati da film come Il Mio Nome è Shangai Joe (1973) di Mario Caiano, Crash! Che Botte... Strippo Strappo Stroppio (1973) di Bitto Albertini e Storia di Karatè, Pugni e Fagioli (1973) di Tonino Ricci. Pellicole, come è facile intuire, uscite lo stesso anno in cui conquistava i botteghini I Tre dell'Operazione Drago (1973), ultima pellicola interpretata da Bruce Lee prima della prematura dipartita. Una parentesi breve e veloce, commistionata ad altri generi (soprattutto il western) e solo in parte ripresa negli anni ottanta con la serie Il Ragazzo dal Kimono d'Oro (1987), a sua volta innescato dal film americano Karate Kid (1984).

A quasi quarant'anni di distanza, Mainetti ripropone la scommessa, guardando sia a Quentin Tarantino (il riferimento va a Kill Bill e al ruolo forte di una donna marziale) sia al nostro cinema noir (richiami a Romanzo Criminale e Gomorra, non a caso tra gli sceneggiatori abbiamo Stefano Bises, tra le firme di Gomorra La Serie e Adagio) con concessioni alla comicità e ai sentimenti amorosi e senza perdere di mira la passione per la musica italiana (come in Lo Chiamavano Jeeg Robot sono continuamente tributati grandi classici della nostra musica popolare) e le battute smargiasse. Ne viene fuori un revenge movie dal ritmo sostenuto (soprattutto nei primi due terzi di film), con fotografia e regia ai livelli internazionali. Paradossalmente funziona meglio la parte action, con attori cinesi in grande spolvero, ivi compresi la protagonista Yaxi Liu (stuntwoman pescata a Hong Kong) e il villain Chunyu Shanshan. La componente italica difatti è altamente tamarra e coatta, con Marco Giallini sopra le righe, Enrico Borello tenerone e frescone, Sabrina Ferilli che non ti attenderesti mai di trovare in un film del genere e Zingaretti che si limita a un cammeo. Ne viene fuori un film action dai toni gangster composto da due anime: l'internazionale che guarda a Hollywood (strepitoso il prologo) e l'italica fortemente legata alla commedia nostrana sebbene calata in un contesto altamente drammatico. La sensazione è che Mainetti voglia dimostrare di saper girare un film sui canoni classici di Hollywood ma, al contempo, decida di non abbandonare le proprie origini pur sapendo di "inquinare" il prodotto finale. L'anima italiana infatti è evidente e non viene schiacciata dalla componente cinese, in un equilibrio che si potrebbe quantificare nel 50%.

La sceneggiatura, che pure lascia un ottimo messaggio anti-razzista (tra cinesi e italiani non si sa chi siano i peggiori sfruttatori), non è priva di difetti, sebbene piazzi un inatteso colpo di scena finale con tanto di momento alla Mario Merola. Si ravvedono diversi vuoti narrativi (ne è un esempio il comportamento del protagonista al ritrovamento del cadavere del padre), ma anche soluzioni inverosimili alla Rambo (la protagonista mena tutti e recupera da un'infinità di ferite e botte nell'arco di qualche giorno) e incongruenze nella gestione dei personaggi (protagonista incazzosa, poi fanciullesca, di nuovo incazzosa, quindi sentimentale etc). A esempio avrei tagliato tutta la parte in cui Borello porta a spasso per Roma la protagonista.


Perfetto sul versante tecnico. Mainetti è scatenato alla regia, tra carrellate, rapidi movimenti di macchina e messa in scena dei combattimenti in vecchio stile cinese (niente bombardamento di montaggio per coprire l'inefficenza degli attori come avviene spesso a Hollywood). Memorabile omaggio a Dalla Cina con Furore con la protagonista accerchiata dai ceffi cinesi e costretta ad affrontarli senza alcun aiuto. Cazzotti, calci e armi bianche, con impiego di inusuali armi improprie (fiori compresi) caratterizzano gli scontri. Visivamente spettacolare, soprattutto per un montaggio eccezionale che esalta la brillante regia. Da notare alla fotografia la presenza di Paolo Carnera, già vincitore di due Nastro d'Argento (Adagio e Favolacce) e di un David di Donatello (Io Capitano). Buone anche le scenografie.

Al netto dei difetti, resta un prodotto notevole, divertente e capace di intrattenere dalla prima all'ultima sequenza. Riceverà sicuri riscontri ai David di Donatello e ai Nastro d'Argento.

Da vedere al cinema e da sovvenzionare per stimolare la realizzazione di prodotti similari. Bravo Mainetti!

Il regista Gabriele Mainetti.

 

sabato 8 marzo 2025

Recensione Narrativa: LA SFERA DEL BUIO di Stephen King.

Autore: Stephen King.
Titolo Originale: Wizard and Glass.
Anno: 1997.
Genere:  Fantastico: IV capitolo saga La Torre Nera.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 670.
Prezzo: 15.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
PROSSIMAMENTE.

giovedì 6 marzo 2025

Recensione Narrativa: PROGENIE DEGLI ABISSI di Fabio Calabrese.

Autore: Fabio Calabrese.
Anno: 2018.
Genere: Horror - Weird.
Editore: Dagon Press.
Pagine: 204.
Prezzo: 16,50 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Terza antologia (di sei) ispirata alla narrativa di H.P. Lovecraft per Fabio Calabrese, già recensito su queste pagine (https://giurista81.blogspot.com/2024/03/recensione-narrativa-il-segno-di-yog.html - https://giurista81.blogspot.com/2024/07/recensione-narrativa-sulle-orme-di.html ), che conferma il sodalizio con Dagon Press e licenzia questo Progenie degli Abissi.

Il progetto va in porto a distanza di quattro anni dalle precedenti Nel Tempio di Bokrug e Altre Storie Lovecraftiane (2014) e Sulle Orme di Alhazred (2014). Un periodo lungo, sufficiente a predisporre un lotto di racconto qualitativi, se non fosse che Calabrese non progetta il volume ma pare sposare una specifica richiesta di Pietro Guarriello (così interpreto tra le righe). Composto da dieci racconti brevi, Progenie degli Abissi è un'antologia dotata di minore freschezza delle precedenti pur confermandosi godibile. I soggetti sono spesso fortemente derivativi e tendono a non rispettare il proposito di partire da Lovecraft per plasmare qualcosa di nuovo. Calabrese cerca in tutti i modi di rispettare la linea ortodossa (a tal proposito, in un breve saggio a corredo dell'antologia, argomenta e critica i fraintendimenti avvenuti nel corso degli anni sulla narrativa di Lovecraft, cercando di evidenziare la filosofia dell'autore e il suo distacco dall'occultismo e dall'esoterismo), al punto da cercare di essere il più fedele possibile alle impostazioni del Solitario. Ecco che si percepisce, in molti dei dieci racconti, una mancanza di cifra autoriale e di impulsi innovativi. È un po' come se Calabrese temesse di profanare il Maestro. Ne derivano letture che piaceranno sicuramente ai cultisti di Lovecraft ma che, allo stesso tempo e salvo qualche eccezione, lasciano poco al lettore se non il mero intrattenimento. Lo stile è leggero, eppure non banale. Se vengono meno i lirismi, i dialoghi propongono quasi sempre spunti di riflessione e denotano un'invidiabile cura stilistica, talvolta non sfruttata appieno dalla storia. Il punto debole del progetto infatti ricade sui soggetti (un po' il difetto della produzione troppo inflazionata di Calabrese), specie negli epiloghi, più di una volta frettolosi e tali da invalidare le buone costruzioni iniziali (si vedano Il Richiamo e L'Angelo di Legno).

Si ha così l'impressione di un progetto che non viene da una motivazione interna dell'autore, ma piuttosto risponde a una volontà di “sfruttare” la passione dei lettori per il Solitario di Providence così da garantirsi una confort zone di vendite. È lo stesso Calabrese, in prefazione, a suggerire indirettamente una tale impostazione, laddove dichiara di essere arrivato ad “adattare” alcuni racconti pubblicati su altre antologie ed estranei – in origine – ai Miti di Cthulhu”, così da impinguare un'antologia basata su un piccolo gruppo di racconti iniziali (tre o quattro) e una serie di altre storie scritte in “fretta e furia” (questo lo aggiungo io) per raggiungere il limite di pagine richiesto. Tale costruzione traspare nella lettura, seppure mitigata dalle doti narrative dello scrittore (senz'altro superiori alla media dei colleghi italiani che si dilettano nel weird) e dal suo evidente interesse per i testi e le teorie apprese nei manuali di divulgazione scientifica che confluiscono nei racconti.

Ne deriva un'antologia che intrattiene, diverte gli appassionati, ma non osa. Traspare un atteggiamento troppo remissivo dell'editore che avrebbe di certo potuto spingere l'autore a rendere migliori (da un punto di vista di soggetto) almeno tre quattro racconti che evidenziano potenzialità non espresse appieno.

Non definirei omogeneo il livello dei racconti, come altri hanno avuto modo di scrivere. A essere omogeneo è lo stile dell'autore, che sa come mantenere viva l'attenzione dei lettori e palesa un vero e proprio amore per le atmosfere weird e per quell'orrore di inizio novecento. Calabrese non cade in pesantezze filosofiche o in propositi letterari. Un aspetto non certo secondario questo, che può essere già sufficiente a garantire l'acquisto del volume (non a caso ho cinque delle sei antologie che Calabrese ha dedicato a Lovecraft).

In questa occasione, dei dieci racconti proposti, solo tre – a modesto avviso di questo recensore – sono davvero buoni e completi. Un quarto è fortemente derivativo, ma ben condotto in porto, mentre tre ulteriori godono di grande fascino e sono presentati in modo estremamente accattivante pur lasciando l'amaro in bocca per quel che sarebbe potuto essere con una maturazione del testo da estendere su più pagine. Faticano a imporsi, invece, i restanti tre racconti che pur muovendosi sulle coordinate del genere non si staccano da quanto già letto e, in alcuni casi, peccano addirittura di contenuti per rivelarsi meri esercizi di stile.


ANALISI NEL DETTAGLIO

Curioso iniziare l'analisi di un'antologia lovecraftiana, partendo dall'unico racconto che di lovecraftiano non ha nulla. La Casa dei 7 Peccati, infatti, è un tributo – questo sì scritto in chiave “autoriale” e non semplicemente derivativa – a Edgar Allan Poe. Calabrese predispone il miglior soggetto dell'antologia e non è un caso se il racconto si sviluppi su una distanza tale (trentadue pagine) da farne l'elaborato più lungo del progetto. Gli omaggi a Poe, costituiti da Ligeia, The Fall of the House of Usher e soprattutto da The Masque of the Red Death, si miscelano a una storia nera incentrata sulla capacità di suggestionare le menti al fine di far emergere il peggio dalle persone e indurle a scontrarsi tra loro manovrandone le condotte. Il tema del mad doctor, qua costituito da un pianista di eccezionale valore, incontra Poe e la psicanalisi collettiva. Una presentazione di una villa, costruita in modo da ricordare la magione del Principe Prospero del celebre racconto di Poe, con le sue camere colorate e in grado di plasmare gli umori dei presenti, diviene teatro di una vendetta ordita per le vie più spettacolari. Davvero un buon racconto, dal finale onirico, con una parte dedicata alle modalità attraverso le quali il protagonista riesce a sottrarsi dalla trappola in cui è finito. Una parte questa che ricorda Il Gioco di Gerald di Stephen King. Tra i migliori in assoluto di Calabrese. 


Se La Casa dei 7 Peccati è di gran lunga il racconto più completo dell'antologia, Sul Piano Astrale è il più terrorizzante. Calabrese si muove su coordinate ultra collaudate, con un testo che ricorda un po' From Beyond di Lovecraft e L'Anello si Saturno di Meyrink. L'idea è quella di una realtà ulteriore e compresente alla nostra visibile solo attraverso macchinari (qua delle particolari lenti) in grado di superare i limitati sensi umani. Niente di nuovo, ma narrato con il piglio giusto. Punto di forza i dialoghi esistenziali, sospesi tra religione e filosofia che danno sostanza al testo. Sarebbe stato perfetto per una pubblicazione su Weird Tales.


Un altro racconto meritevole di segnalazione è quello che da il titolo all'antologia ovvero Progenie degli Abissi. Qui Calabrese trasla i suoi studi sui manuali di divulgazione scientifica e lo fa proponendo un soggetto che si poggia su un'idea di fondo non dissimile a quella al centro di film come Shark 2 – L'Abisso (2023). Il racconto ha risvolti ambientalisti, giostrato su una pseudo-biologia per la quale quanto per l'ecosistema umano risulta nocivo (a esempio i rifiuti) ben potrebbe rivelarsi nutritivo per un ecosistema alternativo e in competizione al nostro. La comparsa di una strana creatura anfibia, debitamente analizzata dal protagonista a termine di un'autopsia dallo stesso condotta, è il preludio per l'emersione di creature aliene verosimilmente provenienti da una biosfera ombra. Piace la padronanza con cui Calabrese si muove tra scienza e la pseudoscienza, argomentando e cercando di convincere per tali vie i lettori sulla verosimiglianza di quanto proposto.


Calabrese prova a ripetere l'esperimento con il meno riuscito Caccia al Palolo, che fa parte di quei racconti costruiti su premesse affascinanti che poi vengono disattese dalla seconda parte del testo. Storia esotica, addirittura ambientata in Vanuatu, con un certo rimando a Lovecraft, per quanto concerne la presenza di indigeni riconducibili a razze sfuggevoli. Il testo si dipana per vie po' confuse, propone una pesca in cui ci si aspetta qualcosa di terribile che invece non si manifesta. Calabrese predilige proporre teorie scientifiche che, partendo dal regno animale, sconfinano in una pseudoscienza che scomoda Giovanni Pascoli e il concetto del “fanciullino” che vive in ogni individuo e viene “castrato” dallo sviluppo della parte matura. L'epilogo, in odore doppelganger, di presa metaforica, non rende giustizia a una prima parte decisamente affascinante. Resta comunque un racconto ben al di sopra della sufficienza.


Un altro racconto ben introdotto e dal grande fascino, questa volta orientato su una trama dai risvolti gialli, è L'Angelo di Legno, in cui i carabinieri di un villaggio di campagna indagano sul furto di una strana scultura di legno sottratta da una chiesa. Prima parte notevole, con rimandi al folklore dei gargoyle, che purtroppo si sgonfia in un finale non massimizzato che richiama The Hound. Questo è uno di quei racconti su cui l'editore avrebbe potuto insistere, per suggerire un maggiore sviluppo di trama e un epilogo svincolato dalla scorciatoia dei rimandi lovecraftiani.


Interessante, a tratti, La Pietra Sacra (già edito altrove da Calabrese col titolo Ayers Rock) che richiama atmosfere australiane sull'esempio dei film di Peter Weir (L'Ultima Onda) al fine di proporre un racconto ecologista, in cui le popolazioni indigene cercano di proteggere il proprio habitat dallo sfruttamento ambientale dell'uomo bianco. Ottima idea di fondo, ma un po' troppo semplificata nello snodo centrale. Buono, invece, il collegamento tra l'inizio e l'epilogo del racconto. Ricorda certi racconti di Antonio Bellomi.


Calabrese attinge direttamente dal “taccuino delle opere mai scritte” di Lovecraft per Il Libro e l'Abominio, un racconto classico, incentrato su un viaggio astrale indotto dalla lettura di un libro proibito che conduce il protagonista verso mondi lontani e confinati in altre galassie, dove creature dalle forme ittiche si apprestano a banchettare ponendo in sacrificio un uomo: lo stesso protagonista. Racconto estremamente derivativo, che rubacchia anche da William H. Hodgson e da The House on the Borderland. Il finale, pur se efficace, è estremamente inflazionato.


Questo il meglio dell'antologia che per il resto propone racconti – non me ne vogliano – riempitivi. Il Flauto sfrutta gli stessi ingredienti de Il Libro e l'Abominio, ma gioca su uno sviluppo invertito. Laddove nel precedente racconto era il protagonista a finire in mondi alieni per mezzo di un tramite di matrice “culturale” (il libro), qua sono gli alieni a venire nel nostro mondo attraverso il richiamo delle note emesse da un particolare flauto. Carino, ma ultra inflazionato.


Il Sacrificio e Il Richiamo sono due modesti racconti, che ricalcano le vicende legate ai miti di Cthulhu, diluendo i testi con le vicende ultra conosciute legate all'arrivo sulla terra dei Grandi Antichi e alla loro successiva dipartita.

Il Richiamo è un racconto sulla solitudine e sui pericoli a essa connessi, tali da spingere i reietti incapaci di inserirsi nella società nelle maglie dell'occultismo. Calabrese caratterizza bene il personaggio, vittima di paranoie e di una visione xenofoba della società. Peccato che il tutto, a trequarti di racconto, venga portato a conclusione in un modo deludente seppure di presa metaforica.

Il Sacrificio non beneficia neppure di una buona prima parte, ma prende le mosse durante il classico rito dal retrogusto satanico e si conclude in modo ironico richiamando film come Dracula Cerca Sangue di Vergine... E Morì di Sete.

CONCLUSIONE

Questo il contenuto di un'antologia che sa intrattenere, ma che, salvo qualche racconto, propone poco di nuovo. Consigliata ai cultori di Lovecraft senza però attendersi storie in grado di ampliare i Miti. 


La suggestione può ingigantire e scatenare i mostri che dormono dentro di noi, ma non li crea.

 

domenica 23 febbraio 2025

Recensione Narrativa: LA SETTIMANA DI PASSIONE di Luca Ghimenti.

Autore: Luca Ghimenti.
Anno: 2021.
Genere:  Poliziesco / Drammatico.
Editore: Dream Book Edizioni.
Pagine: 304.
Prezzo: 15.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Prosegue la presentazione e l'analisi di opere del circuito editoriale indipendente italiano con La Settimana di Passione, ultimo romanzo del recentemente scomparso Luca Ghimenti.

Acquistai il libro, uscito nel 2021 per la casa editrice di San Giuliano Terme (Pi) Dream Book Edizioni, al Pisa Book Festival del 2023, unitamente a L'Anello Avanti e i Serpenti alle Spalle di Daniele Scasseddu, colpito da due aspetti: la prematura morte dell'autore (avvenuta nello stesso periodo di Daniele, precisamente a novembre 2022), tra l'altro mio concittadino (abitava Tirrenia), e l'idea di ambientare un romanzo nella settimana del Palio di Fucecchio. Quest'ultimo aspetto, da appassionato di pali, non poteva non indurmi all'acquisto.

Ho cercato di acquisire informazioni sull'autore, trovato morto nella propria abitazione (ricordo molto bene, dato anche il mio lavoro, quel giorno), ma purtroppo non sono riuscito a trovato recensioni né interviste, sebbene si tratti di uno scrittore con all'attivo quattro romanzi (presentati come gialli) pubblicati in cinque anni.

Classe 1966, originario di Fucecchio (che nei suoi romanzi diventa Fucenza), Ghimenti dimostra un'indubbia maturità stilistica e una passione che si alterna tra il mystery, la commedia e la musica rock. Penna leggera, propensa più alla commedia che alle atmosfere dark pur non rinunciando a momenti (pochi per la verità) di truculenta tensione (il ritrovamento di un cadavere). Il romanzo è intriso di omaggi piuttosto espliciti, che evidenziano gli amori dell'autore e la sua voglia di coinvolgerli nella sua opera narrativa, talvolta anche forzandone l'innesto. Così abbiamo un simpatico (quanto inutile ai fini della trama) cammeo di Monica Bellucci, passando per i continui richiami a suonerie e musiche riconducibili ai Pink Floyd, AC/DC e Led Zeppelin, con un'impostazione televisiva che rimanda agli sceneggiati Rai del Commissario Montalbano (di cui penso che Ghimenti fosse cultore) piuttosto che agli antesignani narrativi del genere. Particolarità del testo, infatti, è quella di scegliere un taglio estremamente realistico (la vita reale, del resto, non è “montata” in funzione delle esigenze narrative e lo stesso avviene per questo romanzo), spalmato su sette giorni (la settimana del Palio di Fucecchio) con continui cali di ritmo dovuti alle quotidiane vicende delle vita comune che interagiscono con la sottotrama “crime (non certo “gialla”). Il leit motiv della storia è doppio: da una parte abbiamo i preparativi che condurranno alla corsa del Palio, con spiegazione delle caratteristiche e delle peculiarità della manifestazione e, dall'altra, abbiamo un'indagine su un giro di prostituzione gestito dalla mala africana. La struttura del romanzo è corale. I personaggi utilizzati da Ghimenti sono vividi, non a caso arrivano dalla vita reale - come spiega nei ringraziamenti l'autore - tutti ampiamente caratterizzati, e lo sono così tanto da fagocitare la storia. In altri termini, l'avventura proposta non interessa ai lettori che – nelle intenzioni dell'autore – dovrebbero invece affezionarsi ai personaggi. Ghimenti si concentra sulle vicende private, sentimentali e introspettive dei suoi protagonisti, lasciando di sfondo la trama che addirittura resta incompiuta e sprovvista di un epilogo.

Non è corretto definire La Settimana di Passione un giallo o un thriller, si tratta, piuttosto, di un romanzo di impostazione realistica dove confluiscono la comicità toscana (e siciliana, in omaggio, immaginiamo, a Camilleri), il dramma della cronaca nera ma anche delle malattie che colpiscono giovani persone e, di sfondo, il risvolto sociologico e culturale (questo molto ben reso e vero pezzo forte del testo) delle vicende paliesche con i sogni dei contradaioli, il dietro alle quinte della corsa e la pura passione dei cittadini svincolata da logiche opportunistiche. Non siamo dunque dalle parti di un romanzo stile Il Palio delle Contrade Morte di Fruttero e Lucentini (in cui il Palio è il protagonista della storia, mentre qua la corsa viene chiusa frettolosamente) o di un thriller che attraversa le vicende del palio per andare a parare su una trama incentrata sulla tensione e il mistero (tipo Piazza delle Cinque Lune). Niente di tutto questo. La trama crime pur se bene introdotta, con accenni alle modalità estorsive su cui si basa la mafia africana (si parla di voodoo, anche se forse sarebbe stato più corretto menzionare la macumba), è un mero pretesto per muovere i personaggi, al punto da restare sospesa in attesa di un sequel (che purtroppo non ci sarà). Siamo quindi alle prese con un libro che propone uno spaccato di vita comune (la settimana del palio), presentato attraverso le vicende di più personaggi, tra cene, dialoghi al bar e viaggi nella campagna toscana in compagnia di fidanzate e amici. Dunque un buon inizio connaturato dall'aspettativa di una trama crime che però non decolla, plasmando un romanzo che - nel suo brio e nel suo essere in buona parte scanzonato (con comunque momenti di drammaticità) - tende ad appesantirsi al procedere delle pagine con interi capitoli sorvolabili ai fini delle esigenze narrative.

Tra le particolarità destinate a essere notate solo da un certo pubblico di lettori, segnalo – con piacere - la menzione di nomi di cavalli davvero esistenti, con qualche giudizio non proprio corretto (Farfadet du Pecos è definito un brocco quando in realtà in ippodromo era discreto soggetto, mentre Unico de Aighenta – che nella realtà diventerà uno stallone con tanto di gran premi vinti in giro per l'Italia – non riuscirà a conquistare la finale).

Da un punto di vista formale, il testo è fluido, ben presentato dalla Dream Book Edizioni (l'editing è valido) con cui Ghimenti è alla prima e unica collaborazione (pare che avesse più di un progetto in cantiere), dopo esser passato da editori sempre diversi tra cui Porto Seguro.

Definirei La Settimana di Passione un romanzo poco “commerciale” per la scelta di rinunciare agli stilemi classici della narrazione crime. Ghimenti sembra ispirarsi, piuttosto, agli sceneggiati tv. Lavora molto sui personaggi, forse troppo. Probabilmente (ma, attenzione, è un mero giudizio personale) sarebbe stato più efficace predisporre una trama crime – alla Dick Francis - incentrata sul mondo del palio, aspetto che avrebbe reso sicuramente più avvincente la narrazione portando il giallo nel dietro le quinte delle vicende paliesche (piuttosto che su aspetti estranei). Il lettore medio, infatti, potrebbe avere l'impressione di essere alle prese con una trama annacquata, fatta di tanti momenti morti e di troppo lavoro sui protagonisti visti quale escamotage per allungare la sostanza. Alla fine l'intera storia resta di sfondo, mentre spiccano le vicende private dei personaggi. Un caro saluto all'autore laddove ognuno di noi è destinato a fare tappa, con il rammarico di non averlo conosciuto nonostante la comune passione per la lettura e il fatto che fossimo concittadini (io storico e lui acquisito).

Ps: Il Palio di Fucecchio lo rammento sempre con piacere dal momento che da bimbo (anni ottanta), quando andavo con mio zio a scuderia (a Pisa) a vedere i cavalli di famiglia che correvano in ippodromo, i preparatori dei nostri cavalli erano i fratelli Brotini che l'autore del testo, pur essendo un cultore del viola, di certo conosceva.

 

L'autore
LUCA GHIMENTI

Il Palio genera inimicizie tra le Contrade ma allo stesso tempo unisce tutto il paese in nome di questa festa che strazia il cuore ma sazia l'anima, riempie di emozioni che portano lontano qualsiasi problema... Al Palio non esistono persone diverse: ci sono i colori delle Contrade diversi, ma le persone sono tutte uguali.”

sabato 18 gennaio 2025

Recensione Narrativa: TEMPO DI DELITTI a cura di Mike Ashley.

Autore: AA.VV..
Curatore: Mike Ashley.
Titolo Originale: The Mammoth Book of Historical Whodunnits.
Anno: 1993.
Genere:  Giallo Storico (Antologia).
Editore: Newton & Compton (1996).
Pagine: 490.
Prezzo: Fuori catalogo.

Commento a cura di Matteo Mancini. 
Acquistato in un bazar dell'usato nel 2017 al prezzo di 3,00 euro, Tempo di Delitti è rimasto per lunghe stagioni a prendere la polvere nella mia libreria per essere infine letto a inizio 2025. È una delle tante antologie curate e allestite dall'antologista britannico Mike Ashley, firma autorevole nel campo del giallo, dell'horror, del fantasy e della fantascienza con la sua serie di trentasei libri The Mammoth Book of, di cui fa parte anche questo The Mammoth Book of Historical Whodunnits (1993). Operativo dalla seconda metà degli anni '70, Ashley ha curato oltre cento antologie molte delle quali proposte in Italia da Newton & Compton, Fanucci, Editrice Il Picchio e, più recentemente, dalla Vallardi (La Serie Gotica della British Library).

Sono giunto al termine di questa avventura non senza fatiche. I racconti, ventitré (di cui uno di circa 90 pagine), hanno schemi di costruzione ripetitivi. Tante le analogie tra essi, con colpi di scena e/o sviluppi analoghi, che rendono ridonante la lettura per un lotto, in realtà, estremamente omogeneo di livello e di qualità.

Definirei la struttura delle storie “didattica” per chi intenda avventurarsi nella scrittura dei gialli. La costruzione ricorrente è estremamente schematica. Abbiamo un indagatore, spesso accompagnato da un assistente, che si imbatte casualmente in un caso di omicidio e si attiva, anticipando l'intervento delle forze dell'ordine, per risolvere il caso.

Spesso ci si trova al cospetto di delitti di svariata tipologia (di solito furti) che si intrecciano al caso principale di omicidio, tra tentativi di depistaggio e/o inquinamento delle prove così da mandare fuori pista gli indagatori. Talvolta questi ultimi vengono ingaggiati dai malfattori stessi al fine di manipolarli a proprio favore così da avvalersi della loro autorevolezza per conseguirne un vantaggio (ovviamente i propositi malandrini non andranno a buon fine).

Vi sono opere apocrife che si ricollegano a indagatori di creazione letteraria come Sherlock Holmes (racconto scritto addirittura da uno dei figli di Arthur Conan Doyle) o Auguste Dupin. In altri casi vengono invece utilizzati quali protagonisti personaggi storici (Socrate, Cicerone, Leonardo da Vinci e William Shakespeare) o scrittori antesignani del genere (Edgar Allan Poe, Arthur Conan Doyle e Jack London) che mettono al servizio del caso le loro doti intellettive.

La scarsa lunghezza delle singole storie penalizza gli sviluppi che giocano su un unico indizio sparato in mezzo al testo e poi evidenziato all'epilogo, così da consentire la quadratura del tutto con risvolti, quasi sempre, didascalici. Il punto di forza del progetto sta nelle ambientazioni e nella collocazione storica delle varie avventure. Si va dall'antico Egitto all'Inghilterra vittoriana, passando per il medioevo e la Roma antica.

Tra le firme più autorevoli si segnalano, in una lunga sequela di pseudonimi, John Dickson Carr, Edward D. Hoch (presente con due racconti), la tre volte vincitrice del Premio Agatha Barbara Mertz (accreditata Elizabeth Peters, nome noto anche nella collana Gialli Mondadori), Peter Tremayne, John Maddox Roberts (apparso nella collana Urania), l'orientalista olandese Robert van Gulik e altri.

 
ANALISI NEL DETTAGLIO

Livello generale molto omogeneo con pochi voli pindarici. Tra i più riusciti, soprattutto per la cura del contesto, brilla Mightier than the Sword (“Più Potente della Spada”) di John Maddox Roberts. Scrittore specializzato nel heroic fantasy alla R.E. Howard e anche nella fantascienza (un paio di pubblicazioni nella serie Urania), che qua viene selezionato per la sua passione per la Roma antica e per i romanzi che hanno per protagonista Decio Cecilio Metello (personaggio nato attorno al 93-91 a.C.), tra cui SPQR. In questo breve racconto di quindici pagine emerge tutta la passione dell'autore per Roma. Il movente e il mistero legato all'identità dell'assassino, per la verità, sono modesti, con una prevedibile soluzione finale che non fornisce effetti a sorpresa, tuttavia piace la cura con cui l'autore tratteggia la vita sociale della Roma del 50 a.c., coinvolgendo nei fatti il procuratore Marco Tullio Cicerone e un'indagine stile CSI ante litteram. Protagonista è un aedile (una sorta di guardia edilizia) che nel corso del suo lavoro finalizzato a verificare la salubrità degli scantinati rinviene nella cantina di una villa il cadavere di un senatore. L'uomo è stato ucciso da un'arma impropria molto sottile. Tra intrighi politici (orditi da sostenitori di Crasso, Pompeo e Giulio Cesare), frenesie per le scommesse (i romani sono qua caratterizzati alla maniera degli inglesi, subito pronti a scommettere su tutto, un po' come nel recente film Il Gladiatore 2) e ambizioni sociali, il giallo si risolve in modo lineare, ma la cosa non guasta grazie al valore aggiunto costituito dalla cura dell'insieme.

Un altro buon racconto è The Case of the Deptford Horror (“Il Caso dell'Orrore di Deptford”), uno Sherlock Holmes apocrifo scritto nientemeno che da Adrian Conan Doyle, figlio minore del ben più celebre Arthur. L'investigatore di Baker Street, accompagnato dal fido Watson, viene ingaggiato per convincere una giovane ragazza a non abbandonare la casa di residenza a seguito della morte dei due precedenti occupanti. Si tratta di una chiamata finalizzata a creare un alibi a favore dello zio della ragazza, vero autore del decesso dei parenti della giovane. Ragni cubani, richiami di uccelli canterini e un epilogo in salsa horror svelano l'arcano delle morti delle precedenti vittime. Carino e diverso dalla media dei racconti dell'antologia.

Piace per il clima cupo e le atmosfere umide e marcescenti He Came With the Rain (“Veniva con la Pioggia”) di Robert van Gulik, dove un giudice ribalta la ricostruzione della polizia e scagiona l'accusato trovando il reale colpevole. Bella gestione della storia, per un racconto che beneficia delle originarie scenografie cinesi, tra paludi e superstizioni locali legate alla presenza degli spiriti delle paludi.

Sul livello dei tre racconti proposti si rivela infine Murder in the Rue Royale di Michael Harrison, scrittore tra i più celebri prosecutori del ciclo di Sherlock Holmes. Qua, tuttavia, per protagonista abbiamo Auguste Dupin, personaggio nato dalla penna di Edgar Allan Poe, chiamato a risolvere un intrigo che rientra nell'ambito degli omicidi delle camere chiuse. Bella la spiegazione dell'articolato meccanismo che induce i testimoni a ricostruire la dinamica di un omicidio ben diversa dalla reale.

Dietro a questi quattro racconti si segnala un'altra mezza dozzina di validi racconti, sovente però non memorabili.

Curioso l'argentiano Father Hugh and the Deadly Scythe (“Padre Hugh e la Falce Mortale”), a firma di Mary Monica Pulver, dove si procede a identificare l'assassino di un contadino, da individuare tra tre sospetti, grazie all'atteggiamento delle mosche che si orientano in massa sull'arma del killer, una falce dove il sangue si è infiltrato nell'impugnatura e per questo attrae gli insetti.

Buoni momenti sono rintracciabili nel sanguinolento Captain Nash and the Wroth Inheritance (“Il Capitano Nash e l'Eredità Wroth”), attraverso il quale Raymond Butler si propone di portare in scena il primo detective della storia. Ambientazione inglese, tra quartieri degradati, sedicenti fattucchieri, bordelli e intrighi legati alla nobiltà inglese. Un po' troppo lungo e non sempre capace di mantenere la tensione, sebbene con fiammate interessanti. Con le sue novanta pagine è l'elaborato più lungo.

Affascinante per contesto ambientale e dialoghi è Socrates Solves a Murder (“Socrate Risolve un Omicidio”) di Brèni James, in cui assistiamo a un'indagine condotta nientemeno che da Socrate, qua impegnato a risolvere l'enigma di un bizzarro incidente dietro al quale si cela un'elaborata vendetta a danno di un assassino.

Ruotano sul sabotaggio delle armi The Confession of Brother Athelstan (“La Confessione di Fratello Athelstan”) di Paul Harding e The Golden Nugget Poker Game (“Partita di Poker al Golden Nugget”) di Edward Hoch, dove si assiste a due omicidi agevolati dalla mano di qualcuno dietro le quinte che manovra il tutto per ragioni personali. Nel primo caso ci viene proposto il "classico" del torneo arturiano in cui i cavalieri si sfidano con armature, lance, scudi in sella a cavalli lanciati al galoppo l'uno contro l'altro al fine di contendersi la mano della figlia del signorotto locale. Qualcuno pensa bene di sostituire le lance da esibizione con lance vere provocando la morte di un cavaliere e l'accusa di omicidio in capo all'altro. Fratello Athelstan aiuterà il coroner del re a fare emergere la realtà, scagionando il cavaliere incriminato e gli scudieri dei due sfidanti finiti anch'essi (ingiustamente) accusati per un giro di scommesse e di invidie. Il racconto di Hoch, invece, sposta la narrazione nel nord del Canada, in un paese in cui la legge fatica ad arrivare e in cui i pistoleri e i giocatori di poker professionisti si muovono al seguito dei cercatori d'oro. Qui va in scena una truffa che vede il capo locale delle giubbe rosse collaborare con un baro per estorcere denaro ai malcapitati cacciatori d'oro. Gli uomini vengono indotti a sparare e a credere di aver ucciso l'agente provocatore, finendo così sbattuti in carcere con l'accusa di omicidio. Non sanno però che i proiettili delle loro pistole, debitamente controllate dal capo delle guardie, sono stati depotenziati e che l'uomo che li ha provocati calza una lastra di piombo sotto la camicia. Clima western.

Mancano di cura sul versante storico The Christmas Masque (“Il Ballo di Natale”) di S.S. Rafferty e Murder Lock'd In (“Omicidio con la Porta Chiusa”) di Lillian de la Torre che ben potrebbero traslarsi nella contemporaneità. Rafferty propone una festa da ballo dove finisce per essere assassinata la figlia della padrona di casa. L'intreccio è più curato rispetto alla media dei racconti, grazie a un intrigo di personaggi ognuno dei quali intenzionato a porre fine a una situazione di disagio. Su tale struttura si innesca un omicidio, estraneo alle argomentazioni di partenza (che vertono su un tentativo di estorsione messo in atto contro la padrona di casa). Buona l'indagine dei due indagatori, che verificano lo stato dei luoghi così da escludere l'eventualità che il killer sia qualcuno venuto dall'esterno della villa. Ragiona invece in modo opposto Lillian de la Torre che propone un “finto” enigma della camera chiusa, proponendo un epilogo che non brilla per inventiva e si rifà ad altri trucchi utilizzati dai precedenti racconti (su tutti la storia di Elizabeth Peters). Anche qua vi è un intrigo elaborato con la compresenza di due distinte azioni delittuose messe in atto da soggetti diversi.


Questo il meglio dell'antologia, per il resto non eccezionale nonostante si portino in scena anche personaggi realmente esistiti di grosso prestigio. Il “Maestro” dei gialli delle camere chiuse John Dickson Carr con The Gentleman from Paris (“Il Gentiluomo di Parigi”) scomoda, seppur in incognito e di mero supporto alle indagini, Edgar Allan Poe per venire a capo della scomparsa di un testamento, mentre Joe Gores col suo A Sad and Bloody Hour (“Una Triste Ora di Sangue”) utilizza William Shakespeare per far emergere la verità circa una rissa avvenuta all'interno di una bettola. Entrambi i racconti forniscono il colpo di scena sulle generalità del loro protagonista solo nell'ultima riga del testo. Nel modesto Five Rings in Reno (“Cinque Anelli a Reno”) di Edward Hoch abbiamo persino Arthur Conan Doyle (negli inusuali panni di arbitro di un match di pugilato) e Jack London.

Non sempre gli indagatori lavorano per assicurare alla giustizia gli autori dei delitti. In The Price of Light (“Il Prezzo della Luce”) di Ellis Peters, il monaco Cadfael scopre l'autore del furto di un candelabro donato alla chiesa da un nobile senza scrupoli intenzionato a ripulirsi dai peccati, ma preferisce non denunciarlo. Racconto tra i più elaborati del lotto, colpisce soprattutto per la scelta del protagonista di riconoscere un valore all'azione della presunta autrice del furto. Bello il finale in cui la Chiesa riesce a ottenere un gruzzolo di denaro da destinare ai poveri piuttosto che custodire un candelabro fatto dono per l'intercessione della Madonna.

Arriva la copertura dell'autore del delitto, seppur giustificata da ragioni tutt'altro che etiche, anche in Leonardo da Vinci, Detective (“Leonardo da Vinci, Investigatore”) di Theodore Mathieson, in cui vediamo il celebre Maestro di Vinci ricostruire le modalità d'esecuzione della condotta messa in atto da un misterioso assassino così da svelarne l'identità. La realtà, fin troppo scomoda, porterà Leonardo da Vinci ad ammettere di non esser riuscito a risolvere l'enigma, così da coprire un mistero la cui risoluzione implicherebbe il coinvolgimento del Re di Francia.

The Locket Tomb Mistery (“Il Mistero della Tomba Sigillata”) di Elizabeth Peters è un'indagine a ritroso attraverso la quale il protagonista svela il modus operandi di un tombarolo dell'antico Egitto.

Piuttosto ingenuo per inneschi e semplificazioni è il “fiabesco” Il Ladro Contro il Re Rhampsinitus (di Erodoto), dove va in scena una sfida di intelligenza tra un faraone e il ladro che ha osato sottrargli ricchezze da una cassaforte.

In The High King's Sword (“La Spada dell'Alto Re”) di Peter Tremayne, altra firma di un certo spessore specie per gli appassionati della narrativa del terrore (è presente in diverse raccolte monotematiche a cura di Stephen Jones), l'indagatore viene assunto dall'autore del delitto (nella fattispecie il furto di una spada) al fine di fornirgli indirettamente un alibi così da screditare la vittima (il nuovo Re d'Irlanda) e trarne un vantaggio diretto in un'ottica di scalata al trono. Piuttosto intrigato ed elaborato, ma quadrato all'epilogo.

Sceglie la via del sarcasmo A Byzantine Mystery (“Un Mistero Bizantino”) dove l'indagatore, chiamato a recuperare una reliquia, agisce di furbizia ingannando il committente spacciando un oggetto ricostruito per l'originale ricercato.

The Doomdorf Mysetery (“Il Mistero di Mystery”), di Davisson Post, propone un finto caso di delitto delle camere chiuse, risolto con una soluzione fantastica. Un gruppo di indagatori d'occasione, infatti, risolve l'enigma di un omicidio dopo che due interrogati hanno asserito di essere gli assassini indiretti, seppure con modalità impossibili: una donna è convinta di aver determinato la morte tramite il voodoo; l'altro soggetto è certo che il decesso sia frutto dell'intercessione divina. Non andranno molto lontani dalla reale soluzione. Pressoché identico The Witch's Tale (“Il Racconto della Strega”) di Maragaret Frazer, dove la morte di un uomo molesto viene ricondotta a un'anatema lanciato dalla moglie.

Tanti racconti dunque, ventitré storie, per una lettura non esaltante nel suo complesso, ma onesta. Forse più apprezzabile se letto intervallando i singoli racconti con altre letture. Piacciono le ambientazioni storiche, ma pochi sono i colpi di scena.

giovedì 9 gennaio 2025

Recensione Narrativa: SUSSURRI di Dean R. Koontz


Autore: Dean R. Koontz. 
Titolo originale: Whispers.
Anno: 1980. 
Genere: Thriller. 
Editore: Bompiani (1992). 
Pagine: 555. 
Prezzo: Fuori catalogo.
 
Commento a cura di Matteo Mancini.  

Vero e proprio spartiacque nella produzione di Dean R. Koontz (per approfondimenti sulla carriera rinvio a quanto scritto a questo link http://giurista81.blogspot.com/2024/08/recensione-narrativa-spedizione-verso.html), all'epoca già molto attivo (oltre venti romanzi alle spalle), soprattutto nel campo della fantascienza. Con Whispers lo scrittore americano compie il salto di qualità, iniziando a sperimentare quello che diventerà il suo campo di elezione ovvero il thriller violento contaminato dal soprannaturale (in realtà in precedenza già trattato da romanzi quali The Face of Fear, Night Chills e The Vision, da noi proposti con i titoli “Il Volto della Paura”, “Quando Scendono le Tenebre” e “Visioni di Morte”). Il successo è immediato e suggerisce all'autore la via da battere per diventare uno degli autori dark più acquistati negli anni '80 e '90. Sebbene non esente da difetti, Whispers riesce a vendere qualcosa come 20 milioni di copie, un livello precedentemente mai toccato dall'autore. Koontz concepisce il soggetto contravvenendo alle richieste dell'editore. Struttura un thriller fortemente contaminato da altri generi, quali il romance, l'horror, il poliziesco e persino un erotico che sconfina nel pornografico (viste le voci secondo le quali, sotto pseudonimo, Koontz avrebbe scritto una ventina di storie pornografiche, non c'è da sorprendersi). Cinquecento pagine abbondanti che, inizialmente, fanno storcere la bocca all'editore che suggerisce di operare tagli in favore di un ridimensionamento che, tutto sommato, avrebbe fatto bene a una storia assai dispersiva ed eccessivamente prolissa nelle caratterizzazioni (sia ambientali che dei personaggi). Koontz resiste alle pressioni e il pubblico, nonostante tutto, ne premia la caparbietà. Eppure di nuovo c'è davvero poco. Il romanzo, infatti, nasce sulle ceneri del precedente Funhouse (“Il Tunnel dell'Orrore”, qua trovate la mia recensione: http://giurista81.blogspot.com/2024/08/recensione-narrativa-il-tunnel.html) che Koontz, sotto pseudonimo, aveva scritto accettando un'offerta della Universal per il lancio dell'omonimo film diretto da Tobe Hooper. Le due opere hanno un DNA costituito dai medesimi ingredienti, sebbene qua il tutto venga messo al servizio di un prodotto con la struttura di un mainstream narrato con estremo coraggio e una certa predilezione per momenti che oggi definiremmo hardcore (indimenticabile un omicidio brutale e truce preceduto da uno stupro proposto senza filtri). Torna l'idea del serial killer dominato da impulsi sessuali repressi, per effetto del lavoro “mentale” prodotto di una madre castrante e mentalmente instabile (viene un po' in mente la vicenda di Edmund Kemper III). Il cattivo di Koontz è ancora una volta un energumeno muscoloso, a cui piace usare armi bianche e percepire nelle proprie vene la convinzione di avere il controllo sull'altro. Il killer si comporta alla stregua di una bestia sessualmente vorace (le descrizioni degli stupri sono tra le più viscide e brutali che mi sia capitato di leggere) e uccide per portare a termine una delirante sete di vendetta messa in atto per interposta persona (uccide serialmente e continuativamente la madre). Come il villain di Funhouse, il pazzo di turno è convinto di essere un mostro, addirittura il figlio del demonio (riesce difficile immaginarlo quale uomo di successo capace di intrattenere rapporti interpersonali di un certo tipo). In realtà è solo il prodotto di un'infanzia infelice, fatta di soprusi e di un bombardamento psichico che ne ha plasmato una mentalità paranoica e complessata. Torna altresì, quale elemento che funge da spinta allo sviluppo della storia, il movente della vendetta per interposta persona.

Whispers è dunque un ulteriore romanzo in cui, sotto diversa forma, fanno la comparsa i demoni dell'infanzia di Koontz. Lo scrittore rivive, sotto la metafora narrativa, l'inferno di un'infanzia vissuta in una famiglia altamente problematica. È in questo humus che si sviluppa la storia, guardando ai due possibili canali di sbocco del futuro uomo allora bambino: da una parte abbiamo la follia e la perversione quali demoni da cui non si è stati esorcizzati, mentre dall'altra abbiamo la possibilità di sottrarsi all'inferno e di ricostruirsi una vita felice e di successo all'insegna della creatività. La protagonista, infatti, ha avuto un passato non troppo dissimile a quello del villain ma, a differenza di questo, è riuscita a vincere e a diventare una sceneggiatrice di successo. Koontz, in tutta probabilità, si riconosce in questo personaggio femminile e gioca sulle due facce della medaglia plasmate da un'infanzia infelice e problematica. Sembra quasi chiedersi cosa sarebbe successo, nella sua vita, se non fosse riuscito a farcela: sarebbe forse diventato un assassino? Per sua fortuna (e delle eventuali e sventurate vittime) si è limitato a uccidere e a violentare sulla carta...

Da un punto di vista formale, il romanzo è scritto in modo fluido, eppure soffre di cali di ritmo e di una ripetitività che appesantisce la lettura. Koontz si diletta nel cambiare di continuo di registro, alternandosi tra poliziesco (ben scritto), romance (palloso) e horror (ipotetico) salvo poi ritornare sul thriller vero e proprio. Intere parti del romanzo, pur se narrativamente interessanti (bellissima quella della cattura dello spacciatore in preda delle allucinazioni), sono del tutto superflue e inutili, sortendo il solo effetto di allungare il testo. Koontz introduce personaggi irrilevanti rispetto alla trama (il libraio satanista o i testimoni legati alle vicende dello spacciatore, a esempio), uomini e donne che entrano in scena e poi spariscono senza lasciare traccia. Da questo punto di vista, è del tutto superflua tutta la parte in cui il co-protagonista lavora con un poliziotto turbato per il fallimento della propria vita coniugale. Koontz spende pagine e pagine per delineare questo personaggio (gli trova addirittura una compagna), salvo poi toglierlo di scena senza che incida sulla vicenda. La sensazione è che lo scrittore cerchi, per tale via, un realismo che sovente non è presente nei romanzi. In altre parole, non massimizza il tutto in funzione della storia, ma lascia che i vari personaggi vivano come se non sapesse dove la storia lo andrà a condurre. Ne viene fuori un romanzo che somiglia, per certi versi, a un libro game. La storia, a ogni pagina, potrebbe prendere una via diversa rispetto a quella definitiva e pertanto tutti i personaggi sono potenzialmente importanti e presentati accuratamente. È proprio questo l'aspetto più rilevante del testo. Si ha la sensazione che ogni cosa possa decollare, mutare di forma e di punto di vista, andando a ipotizzare persino una direzione fantastica. A un certo punto si suggerisce che in azione vi sia un morto vivente, un qualcosa in stile Michael Myers che torna a funestare la protagonista nonostante sia stato ucciso dalla stessa. Il sopranaturale fa capolino a metà romanzo – come in Funhouse – guardando al satanismo e all'idea di un figlio generato dal demonio. Purtroppo tutto resta infondato e converge verso un epilogo razionale decisamente cinematografico e altamente drammatico tanto che, nel 1990, Douglas Jackson dirigerà un poco fortunato adattamento per il grande schermo.

Ne esce fuori un romanzo che divide, tra chi lo reputa uno dei migliori prodotti dell'autore e chi, come il sottoscritto, ne ravvisa i tanti difetti. Tra questi vi sono, di certo, gli inneschi. Senza fare spoiler e senza parlare dei colpi di scena sulla natura del killer, non si può non evidenziare l'atteggiamento poco realistico della polizia. Eloquente l'interrogatorio che viene condotto ai danni di una vittima di stupro. Koontz sembra voler portare a galla la propria sfiducia verso le istituzioni. La vittima, in luogo dell'accusato, diviene la persona da sottoporre a indagini, col risultato di lasciare campo aperto al vero responsabile del misfatto. Non vi è alcuna sensibilità o empatia verso la persona offesa dal reato. Si accusa una potenziale vittima di stupro di essersi inventata tutto per ragioni di pubblicità e la si lascia, sprovvista protezioni, in balia di un pazzo scatenato che, senza alcun controllo e nel giro di poche ore, torna sulla scena del delitto per terminare il proprio lavoro. Uno sceriffo, chiamato a verificare la presenza a casa dell'uomo indicato quale autore di uno stupro, con leggerezza si limita a fare una mera verifica telefonica fornendo l'alibi all'accusato. Un'altra cosa che lascia perplessi sono i tanti momenti morti, come l'assurda storia d'amore tra una sceneggiatrice/regista di Hollywood e un poliziotto dell'antidroga (colpo di fulmine tra due soggetti molto diversi e difficilmente compatibili nella realtà) che non perde occasione per intrattenere una relazione amorosa con un'indagata di omicidio. Koontz non lesina nel proporre scene di amore anche spinte e pornografiche, persino tra questi due personaggi. Insomma, abbiamo approfondimenti interessanti di matrice psicologica alternati a banalità relative all'atteggiamento dei poliziotti, oltre a una certa insistenza sulle scene sessuali anche quando queste non interessano il folle di turno. Non manca il didascalico “spiegone” finale che, di certo, non fa impazzire. Stephen King resta altra roba, anche se qua, in un certo senso, Koontz anticipa tematiche che lo scrittore del Maine proporrà in modo assai più fantasioso per The Dark Half e Secret Window, Secret Garden.

Spicca infine una critica, non poi tanto velata, verso una facoltosa borghesia che, dietro la facciata di rispettabilità e di riconoscimento sociale, cela un'abietta perversione che arriva a ricomprendere oscenità quali l'incesto e l'omicidio, producendo “mostri” che il potere e il denaro non riusciranno a disinnescare.

Al di là di tutto, resta un romanzo fondamentale per lo studio della carriera di Dean Koontz. In Italia fu proposto con un ritardo di dieci anni rispetto all'uscita americana.

 


Poche persone hanno il coraggio di usare il coltello contro un altro essere vivente. Più di ogni altra arma, evidenzia la delicatezza della carne, la terribile fragilità della vita umana; nel momento in cui distrugge, l'assassino vede fin troppo chiaramente la natura della sua stessa mortalità. Una pistola, una dose di veleno, una bomba, un oggetto smussato, una corda possono essere utilizzati in modo relativamente pulito e spesso anche a distanza. Ma l'uomo con il coltello deve essere preparato a sporcarsi e deve essere vicino alla vittima, così vicino da avvertire il calore sprigionato dalle ferite da lui stesso provocate. Ci vuole un certo coraggio, o una certa follia, per squarciare un'altra persona e non provare repulsione di fronte al sangue caldo che scorre sulla propria mano.