Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

domenica 19 agosto 2012

Nuova recensione (autrice Mariangela Sansone) per SPAGHETTI WESTERN VOL.1 di Matteo Mancini



Riporto di seguito la seconda recensione ricevuta dal mio saggio SPAGHETTI WESTERN VOL.1, a scriverla è MARIANGELA SANSONE (http://www.sentieriselvaggi.it/articolo.asp?sez=15&art=47742).

Matteo Mancini disegna le solide architetture di un genere affascinante e polveroso, scandagliandone le origini e ripercorrendone le evoluzioni. “Spaghetti Western, l’alba e il primo splendore” è il primo di tre volumi, edito dalle Edizioni il Foglio; è un testo accattivante che affronta il decennio che va dai primi anni '60 sino ad arrivare a ridosso dei '70, offrendo una disamina accurata ed approfondita del filone. Un’opera che non mancherà di farsi notare anche da chi si accosta per la prima volta alle lande arse dal sole dell’immortale Western di casa nostra.

In pochi si sono spinti così lontano per le lande polverose di un genere che ha reso il cinema italiano noto a livello internazionale; in pochi hanno cavalcato attraverso questo cinema con un’analisi così minuziosa, alla riscoperta delle sue retrovie, tentando una definitiva pacificazione tra l’osannato cinema d’autore ed i prodotti confinati nella serie B; in pochi hanno scavato fino alle profondità delle viscere di un genere, a volte odiato ed a volte amato, ma spesso poco conosciuto come il Western, in particolare nella sua declinazione nostrana. “Spaghetti Western. L’alba e il primo splendore del genere (anni 1963-1966)”, di Matteo Mancini, è il primo di tre volumi dedicati al Western italiano, edito dalle Edizioni Il Foglio, la cui collana cinematografica è ormai una splendida e consolidata realtà editoriale che ha dato recentemente alla luce eccellenti prodotti come “Il cinema di Don Siegel” di Fabio Zanello, responsabile della collana, e “Polar 2.0 Il poliziesco francese del nuovo millennio” di Mariolina Diana e Michele Raga, chicche golose per appassionati cinefili, e continua a dedicare ammirevole attenzione a risvolti ancora troppo nascosti, ma fondamentali, della storia del cinema.



L’Autore, cultore del cinema di genere, nonostante la sua giovane età, ha già alle spalle diverse pubblicazioni con la casa editrice Il Foglio, tra cui le antologie horror “Sulle rive del crepuscolo” e “L’occhio sul crepuscolo”; nel 2012 sarà sceneggiatore ed aiuto regista di un thriller dalle atmosfere anni '70 e con forti tinte erotiche, con la regia di Francesco Bernardini. Matteo Mancini, nel suo testo dedicato agli “Spaghetti Western”, conduce per mano il lettore nella terra arsa dal sole di un eterno mezzogiorno di fuoco, una landa desolata in cui si incrociano i proiettili e gli spari riecheggiano nella notte, una frontiera lontana, dimenticata da Dio ed infestata da uomini feroci. Il libro tratteggia una complessa e ricca geografia di storie, titoli ed aneddoti; si tratta di un’opera che ripudia la linearità classica dei percorsi monografici, presentandosi come un prisma caleidoscopico che si ispira alle strutture comunicative della Rete, e come un blog o un diario virtuale affianca commenti di bloggers cinefili e di critici di settore all’interno di perimetri ideali e sfumati, offrendo punti di vista diversi e contrapposti sulla fenomenologia di un genere multisfaccettato, poliedrico e mutevole.



Il boom dei film di Sergio Leone fece sì che il Western di tutto il mondo fosse condizionato dall’estetica italiana, una formula a base di sangue, polvere e spari, infiniti spari che riecheggiavano ossessivamente anche nelle colonne sonore che accompagnavano le pellicole. Sarebbe però blasfemo pensare che la storia di questo cinema sia lineare, omogenea e che parta e finisca con Sergio Leone. In questo mondo si sono calati tanti grandi autori del cinema italiano, Dario Argento, Mario Bava, Lucio Fulci, Tinto Brass, Pier Paolo Pasolini e Pietro Germi; come la pelle di un serpente, le opere di questo filone mutano, i suoi toni passano dalla tragedia classica alla commedia dell’arte, fino all’atellana, sorvolando e sfiorando l’arte Pop, il Surrealismo ed il Verismo e vi affluiscono e confondono tutte le tendenze narrative coeve, dal gotico al giallo, dal thriller al gore più forte che caratterizzò alcune pellicole. “Il western italiano è altro - dice l’autore - è l’imprescindibile punto di partenza per il thriller e soprattutto per il poliziesco all’italiana”. In questo suo primo volume, Matteo Mancini affronta un viaggio lungo il decennio che ha accompagnato l’epifania di ben 400 titoli; un decennio di transizione e trasformazione, frenetica e repentina, che aveva in sé già i prodromi della rivoluzione degli anni di piombo; una lenta deriva della moralità, una generale assenza di valori manifesti ed il dominio incontrastato del fato che legittima l’affermazione della violenza come unico strumento di soluzione dei conflitti.



L’Autore parte scandagliando il background filmico, scavando tra le origini del genere, offrendo una disamina approfondita che raggiunge elementi di connessione apparentemente lontani, come il Wild West Show di William Cody, in arte Buffalo Bill, in cui “non era ancora maturata quella malinconia tipica delle cose perdute”, i proto-western ed i fumetti ispirati alle storie di cowboys e pistoleri, come Capitan Miki, Il Piccolo Ranger, Zagor, gli Zorro movies, i Sauerkraut Western ed i Chorizo Western. Un viaggio a ritroso con un occhio rivolto alla storia ed all’evoluzione sociale che facevano da sfondo, senza mai tralasciare aneddoti gustosi. Dal secondo capitolo in poi viene affrontata, quasi anno per anno, la produzione cinematografica del Western, attraverso delle ricche schede corredate di commenti, citazioni, curiosità su attori e registi e golosità a iosa per i cinefili. Si analizzano così la stratificazione e l’evoluzione delle architetture del Western, dai pre-leoniani fino ai western politici e bizzarri firmati dai grandi autori, che iniziano a circolare nel 1966, quando il Western “acquisiva una valenza metaforica, essendo un vero e proprio strumento e contenitore in cui inserire problematiche contemporanee”. Procedendo in maniera agile e dinamica, l’Autore si avvale di un linguaggio moderno, fluido ed accattivante che trae ispirazione dai rivoli cinefili della rete; dalla sua opera trapela una forte ed autentica passione, un magma sovversivo ed affascinante che travolge il lettore appassionato del genere ma anche chi si avvicina per la prima volta al Western, anche grazie alla sua accattivante veste grafica.

lunedì 13 agosto 2012

Recensione narrativa: ANIME NERE (AA.VV. - a cura di Alan D. Altieri)


Autore: AA.VV.
Editore: Mondadori
Genere: Noir
Pagine: 310

Commento Matteo Mancini
Antologia uscita in libreria nel 2007 e in edicola nel 2008 per la collana Supergiallo Mondadori, bissata nel giro di qualche mese da un secondo volume intitolato Anime Nere Reloaded destinato a essere composto da racconti neri di altri (circa una ventina) scrittori italiani contemporanei.

A curare il progetto troviamo una volpe della nostra produzione narrativa (e non solo) con un passato da collaboratore di Dino De Laurentis in cult movie cinematografici come Atto di Forza, Velluto Blu, Conan il Distruttore. Sto parlando di Alan D. Altieri che, per l'occasione, sceglie diciotto autori italiani, più o meno noti, per realizzare un'antologia che getti luce sul lato oscuro dell'animo umano. Ne esce fuori un progetto non facilmente catalogabile in un genere precostituito sebbene la Mondadori abbia deciso di inserirlo nella collana Supergiallo. Infatti, di racconti gialli o noir (nell'accezione francese del termine), se ne trovano davvero pochi. Allora, come definire Anime Nere? Dal mio punto di vista si tratta di un'antologia che, nel suo complesso, si avvicina più all'horror, ma non quello esoterico o di stampo fantastico, bensì a un orrore metropolitano che mischia fatti di cronaca nera alla fantasia infarcendo il tutto con una forte dose di sangue e una sensazione di angoscia pressoché continua per tutto il corso dell'opera.

Il livello dei racconti, piuttosto omogeneo, non raggiunge quasi mai vette autoriali. Si tratta per lo più di testi di pronta soluzione che non richiedono particolari sforzi interpretativi, ma che comunque riescono a intrattenere a dovere seppur a rischio di non imprimersi a lungo nella testa del lettore.
Tra i diciotto autori selezionati troviamo degli assi del calibro di Valerio Evangelisti, Loriano Macchiavelli, Ben Pastor, Danilo Arona e Gianfranco Nerozzi non sempre però capaci di confermare le attese degli appassionati, anzi direi in generale un po' in ombra.
Quasi tutti i testi hanno un'ambientazione contemporanea ma ci sono delle curiose e gradite eccezioni.

Claudia Salvatori con Carne e Pietra ci riporta addirittura al periodo della preistoria. Per la precisione in una tribù primitiva in cui le donne sono impegnate solo per intrattenere sessualmente i maschi e, di conseguenza, per partorire e allevare figli. Una di loro, Mama, decide di darsi all'arte: vuole costruire sculture capaci di insinuarsi per sempre nelle menti dei compagni della tribù. Questo suo spirito progressista la porta a essere, dapprima, vista con sospetto, poi derisa in quanto incapace di creare opere di un certo rilievo. La donna però non si da per vinta, capisce che la pietra è un materiale inadatto per esser modellato e così ricorre alla carne. Accusata di aver sottratto del cibo per utilizzarlo per fini futili e deteriorabili, viene malmenata dalle altre donne preoccupate anche per la sua eccessiva intraprendenza che rischia di metterle in secondo piano agli occhi degli uomini. L'arrivo di un pedofilo assassino però permette alla donna di avere nuova materia prima, ovvero della carne, senza necessità di chiederla o rubarla ad altri. Per ottenere la collaborazione dello sconosciuto la donna gli cederà due dei suoi figli senza sapere il loro destino. La sinistra collaborazione (quasi una sorta di patto col demonio) la porterà a realizzare un vero e proprio capolavoro narcisistico: una riproduzione in carne di sé stessa che tutti scambiano per la stessa autrice.
La Salvatori condisce il tutto con un cinismo al mille per mille, in un testo in cui l'unica a pagare sarà la protagonista; una donna determinata a vivere il proprio sogno e a metterlo in pratica contro tutto e tutti, a carissimo prezzo. Senz'altro un elaborato originale, magari non proprio coinvolgente e ritmato ma di sostanza e con un messaggio di fondo che potremmo senz'altro definire contemporaneo. Protagoniste negative sono l'invidia e le critiche non costruttive finalizzate a frenare i capaci per non mettere in brutta luce i mediocri. Si tratta di tematiche che la Salvatori, giustamente, immagina già presenti a flagellare l'umanità fin dalle origini. Come ogni eroe che si rispetti però anche il mito di Mama sopravviverà alla morte e colei che voleva rendere immortali le sue opere sarà invece capace di scolpire sé stessa nella mente dei posteri. Dal mio punto di vista, sotto il profilo contenutistico, Carne e Pietra è il miglior racconto dell'antologia.

Molto brillante e questa volta anche coinvolgente è Arduino e i Pellegrini nato dalla penna della veterana Ben Pastor che qua cede meno al richiamo per lei irresistibile della ricostruzione storica dell'ambiente in cui si svolgono i fatti per dare più corda alla soluzione dell'enigma che i due protagonisti della vicenda tentano di sciogliere.
Siamo nel periodo delle crociate tra cristiani e musulmani e ci troviamo alle prese con l'omicidio di tre pellegrini uccisi nel 1254 sulla via di Antiochia. L'arcivescovo Arduino, celebre per le sue capacità investigative, incalzato dal nipote, il cavaliere Roger d'Alteville, decide di indagare. A motivare il coinvolgimento del religioso è il crescente numero di omicidi perpetrati dai predoni islamici a danno dei viandanti. A stupire e irritare tutti è però l'efferatezza con cui è stato perpetrato il gesto criminoso. Il carnefice ha difatti sfondato i crani degli uomini rendendo indecifrabili i loro lineamenti senza premurarsi di rubare l'ingente bottino che gli uomini portavano con sé. Il movente dell'assassinio resta così indecifrabile e tutto lascia presagire l'intervento di una qualche entità mostruosa o di un assassino bestiale, ma la soluzione sarà ben più semplice.
Buon giallo storico che, seppur ambientato in un'altra epoca e con una struttura diversa, richiama alla memoria il famoso racconto di Poe I Delitti di Rue Morgue. La Pastor gioca sulle medagliette delle varie città visitate, nel loro peregrinaggio, dalle tre vittime per ricostruire le identità delle stesse. Alla fine si giunge a un clamoroso ribaltamento sulla natura delle vittime che in realtà non sono dei veri pellegrini ma dei briganti, altrettanto, agendo sulla natura dell'assassino, viene fatto per quel che concerne l'autore del delitto: un bruto che va in giro con una feroce mula e che, per una volta, era finito vittima dei tre malfattori e salvato dall'ira della mula. È stata infatti quest'ultima a menomare le vittime a colpi di zoccolo. Dunque un buon testo che, in qua e in là, non perde occasione per scoccare qualche frecciatina alla morale cattolica (pellegrini che vanno con le prostitute, peraltro in un passaggio scenograficamente mozzafiato in cui viene messo in scena un gruppo di meretrici campeggiate in mezzo al deserto all'ombra di una gigantesca statua) e che, soprattutto per merito dell'ambientazione inusuale (siamo in medio oriente) e un grande cura nei dialoghi si rivela tra i più intriganti dell'intero volume.

Chiude il lotto di racconti storici I Fratelli della Costa di Valerio Evangelisti, autore per il quale stravedo ma qui meno brillante rispetto ai suoi romanzi per quel che concerne il messaggio che si evince dal testo.
Protagonista non troviamo il celebre inquisitore Eymerich, ma un gruppo di pirati caraibici votati contro la Spagna e l'inquisizione. I manigoldi assaltano una città giudicata inattaccabile e ne assumono il controllo distruggendo, rubando, scarnificando e violentando carnalmente ma anche con pugnali e aste suore e donne indigene. A guidarli c'è un pazzo che cerca la sorella confinata nella cittadina dall'inquisizione e rinchiusa in un convento locale. L'ira e la bestialità degli uomini ricadrà sul loro leader che ritroverà la sorella, ma la condannerà involontariamente alla più feroce tortura che mai avrebbe potuto subire se fosse rimasta nelle mani degli inquisitori. La poveretta infatti, scambiata per suora dai pirati, è stata dapprima stuprata e in seguito rinchiusa con le altre religiose in un convento infestato da lebbrosi. A nulla servirà il tentativo dell'uomo di salvarla, i sintomi della malattia saranno ormai galoppanti e intaccheranno lo stesso uomo.
Testo scritto divinamente, con attenzione storica e gusto per l'orrido. Evangelisti calca la mano nelle scene violente, descrivendo amputazioni, violenze, scarnificazioni e un finale in cui irrompono prepotenti gli effetti decadenti e orientati alla putrefazione propri della lebbra. Il punto di forza del racconto è sicuramente l'impatto evocativo suscitato dalla penna di un Evangelisti in vena apocalittica, manca tuttavia un po' di background contenutistico per una storia che sembra quasi ricalcare il vecchio proverbio “chi di spada ferisce di spada perisce”. Più che sufficiente.

Gli altri quindici racconti, salvo qualche isolata eccezione, possono essere divisi in due grandi gruppi: da una parte i racconti prevalentemente drammatici e disperati incentrati su problematiche familiari da cui scaturiscono omicidi o suicidi, dall'altra testi più votati all'azione che strizzanoun occhio alla spy story.
Più qualitativi, sono proprio questi ultimi testi. Tra essi spiccano gli elaborati di Sandrone Dazieri e Stefano Di Marino.

Dazieri, con il suo Tutto il resto è boia, inquieta e non poco il lettore con un racconto, di kinghiana memoria (a me ha fatto venire a mente L'Arte di Sopravvivere, racconto inserito nell'antologia Scheletri) che si struttura in due parti parallele, una concentrata sulla cruenta realtà e una più fantastica e metaforica legata al mondo onirico. A fare le spese della crudeltà del mondo è un giornalista dedito agli scoop scandalistici in campo strategico/politico finalizzati a far emergere la verità su certi argomenti scottanti.
L'uomo viene rapito da due agenti dei servizi segreti all'interno della propria abitazione. Il leader dei due vuole scoprire quale sia l'informatore del giornalista, perché è certo che solo un agente segreto, evidentemente traditore, potrebbe essere a conoscenza delle informazioni divulgate dal giornalista. Messo sotto tortura, il giornalista non cede di un palmo, subendo qualsiasi tipo di tortura fino alla più infamante preferendo il dolore e la morte al disonore. Finale beffardissimo per entrambe le storie (quella "reale" e quella parallela).
Testo che scorre via veloce e che riesce a disturbare non poco per le tremende torture cui è sottoposto il protagonista. Simpatico il racconto parallelo che vede sugli scudi un naufrago costretto a vincere la noia leggendo una serie di libri, che ha rinvenuto in una scatola, scritti in giapponese. Il poveretto crederà di aver imparato la lingua nipponica, ma lavorerà solo di fantasia decriptando testi che vogliono dire ben altro da ciò che lui stesso è convinto di aver appreso. Un messaggio dunque forte che ruota attorno ai diversi punti di vista e soprattutto sembra voler indicare la necessità di esser depositari di certe basi culturali/conoscitive per poter pensare di comprendere certe realtà in modo appieno e quindi divulgarle senza pericolo per chi le riceve.

Azione pura, come un classico del suo autore, invece per I Lupi Muoiono in Silenzio che Di Marino, abile autore di spy story della collana Segretissimo, offre ai suoi lettori romanzando fatti e personaggi di cronaca nera italiana per intessere una storia adrenalinica fatta di fughe e sparatorie.
Facciamo la conoscenza di un vecchio soldato mercenario ingaggiato da uno pseudo politico per recuperare un compromettente documento informatico finito, in modo casuale, nelle mani di un altro ex mercenario divenuto un vero e proprio cane randagio che spara su chiunque cerchi di fermarlo. A complicare il tutto c'è un'organizzazione che vuol anch'essa mettere le mani sul documento. L'indagine rivelerà svariati colpi di scena e una lunga scia di morti.
Ecco uno dei pochi veri noir densi di azione dell'antologia in cui non si trova neppure l'ombra di un personaggio positivo. Di Marino tratteggia uno dei suoi canovacci preferiti, una storia fatta di reietti eletti a protagonisti indiscussi, belle donne, un bandito in fuga che ha il nome anagrammato di Liboni (vero lupo che seminò il terrore una decina di anni fa in Italia, vagando di città in città a fare vittime), il tutto al servizio di un racconto chiuso da una girandola di colpi di scena che ruotano attorno al denaro caratterizzato quale unica vera forza capace di smuovere le persone. Proprio quest'ultimo aspetto porterà al paradossale riavvicinamento tra protagonista e antagonista che si sentiranno di nuovo vicini, nella loro perversità, per essere gli unici ad aver mantenuto una condotta coerente con i loro valori più o meno negativi. Sufficienti le caratterizzazioni, ritmo alle stelle. Noia scongiurata.

Cerca di scrivere qualcosa di vicino al soggetto di Di Marino anche Danilo Arona, autore considerato da alcuni tra i maestri dell'horror italiano, mischiando fatti di cronaca a soluzioni narrative fantastiche e questa volta votate all'horror (il riferimento va a quegli slasher movie con giganteschi assassini sanguinari che agiscono in gruppo e che sembrano invincibili perché benedetti dal marchio diabolico) piuttosto che all'azione pura. Il racconto del piemontese, Tufanaltorab (nome della tempesta di sabbia che è solita colpire l'Iraq), ha un inizio strepitoso in cui ci troviamo catapultati in Iraq durante un azione dei guerriglieri locali a danno dei nostri soldati. Purtroppo poi i fatti si spostano in Italia. Il lettore viene messo al cospetto di una strage familiare perpetrata da un commando di islamici penetrati in un'abitazione per trucidare gli occupanti. Da qui le cose cominciano a precipitare anche perché l'autore sembra incerto se dare una piega horror (tira in ballo persino riferimenti satanici, al 666 e cose del genere) o una gialla (assassini e delitti che stravolgono la città di Genova nell'infausta data del 06.06.06) ovvero una da spy story finalizzata a criticare le nostre operazioni militari all'estero in quanto tutt'altro che operazioni di pace. Ne viene fuori un qualcosa di farraginoso ma soprattutto disomogeneo e pieno di buchi narrativi.
A fare la parte da cattivo è un commando composto da miliziani iracheni. Questi, dapprima, si macchiano di una strage familiare senza che vi sia un movente vero e proprio (l'unico scopo sembrerebbe quello di trovare un pretesto per far intervenire un'autoambulanza sul posto e far caricare dalla stessa un terrorista conciato in modo tale da sembrare un componente sfigurato della famiglia colpita)poi, dopo un'altra strage all'ospedale (dove si trova il loro obiettivo), decidono di uccidere in diretta telefonica la donna di un militare italiano impegnato in Iraq. Il militare, infatti, è accusato dagli iracheni di aver ucciso ingiustamente una donna in Iraq credendola una terrorista. Interessante poi il ragionamento di Arona relativo agli strumenti telefonici e come da essi si possano recuperare informazioni personali, per il resto l'epilogo non mi convince per nulla. Degne invece di nota il magistrale inizio in cui vengono descritte le tempeste che colpiscono l'Iraq nonché le sensazioni dei soldati stranieri che si trovano avvolti dalle nebbie di sabbia con un tributo ad Apocalypse Now (sarà meno riuscito quello a Il Silenzio degli Innocenti) nella scena in cui un un furgone iracheno viene mandato a folle velocità contro un accampamento italiano sparando latrati di cane dagli altoparlanti e simulando una tempesta di sabbia con dei potenti ventilatori piazzati sopra al mezzo.
Al di là di questo, ripeto, Arona cade nell'inverosimile. Inizia a citare fatti ben conosciuti a tutti noi (decapitazioni in diretta praticate dai terroristi di Al Quaeda) ambientandoli però in Italia, in modo poco convinto e confuso.
Non è a mio avviso ben calibrato il riferimento al 666 del diavolo, come non lo sono le varie stragi rispetto al fine ultimo del commando (non sono riuscito a capire la relazione tra le vittime della prima strage e i fatti che stanno alla base della vendetta). È altresì poco verosimile e macchinosa la modalità con cui il commando irrompe nell'ospedale in cui lavora la donna del militare. Occasione sprecata.

Non proprio da spy story è l'elaborato di Giovanni Zucca, Histoire d'A., seppur intriso di una forte componente sovversiva. Zucca immagina un serial killer che lancia la moda di uccidere personaggi eticamente scorretti o comunque dediti agli illeciti. Per firmare i delitti e spingere l'umanità al cambiamento, l'uomo lascia un messaggio: “uccidi anche tu uno stronzo”. L'invito sarà raccolto dalla popolazione, ma in modo distorto. Scoppierà il caos più totale.
Dunque un racconto apocalittico con una prima parte lentissima e con capitoli in cui l'autore, facendo parlare alcuni personaggi, parla dei problemi del nostro paese, della corruzione sempre più dilagante, del menefreghismo e dell'incapacità dei più di sognare. Più brillante la seconda parte, così come il messaggio che si trae dal testo: dalla violenza deriva altra violenza perché questa, anche se fondata su una motivazione più o meno condivisibile, finisce per uscire dal controllo delle persone e porta al caos più totale. Tra i racconti più interessanti.

Addirittura più sovversivo, anche se meno curato e con un soggetto deboluccio, è Sosta vietata di Luca Crovi . Ci troviamo in una Milano del futuro schiava del traffico e dell'inquinamento. Anche qua troviamo un serial killer particolare, questa volta impegnato a mietere vittime tra le file di un nuovo gruppo di sanzionatori delle violazioni al codice della strada: gli ausiliari della sosta. L'idea di partenza potrebbe anche essere carina, ma a mio avviso doveva esser sviluppata con un testo grottesco, cosa che invece non avviene. Ne deriva un qualcosa di gratuito e politicamente scorretto che si chiude con un finale ambiguo senza lasciare nulla di interessante e senza intrattenere a dovere.

Una parentesi a parte la merita invece il sinistro Sed efficiente malum che Giulio Leoni presenta ispirandosi in modo marcato al film Schegge di Paura. Come nel film di Hoblit, abbiamo un avvocato penalista, nominato d'ufficio, impegnato nel difendere un giovanotto responsabile, in concorso di persone, di aver torturato e ucciso una bambina di otto anni. Il penalista, in un incontro in una saletta del penitenziario, cerca di convincere l'assistito a scrivere una lettera di scuse alla madre della vittima, ci riuscirà ma solo perché l'imputato deciderà di stupirlo togliendosi dalla faccia l'espressione da sempliciotto analfabeta che il difensore si era convinto che gli appartenesse.
Lo stile di Leoni, già apprezzato dal sottoscritto nell'antologia Sul Filo del Rasoio (dove aveva proposto uno sci-fi grottesco di critica sociale) è sobrio e ben scandito anche se inizialmente poco interessante. A mano a mano però che si svolgono i fatti, peraltro narrati all'interno di un unico contesto (seppur con i flashback sull'omicidio), la storia si intinge di un alone sempre più disturbante. A modificare tutto è la rivelazione di un dettaglio connesso al mondo delle sette sataniche. Così l'imputato muta atteggiamento e da strafottente semianalfabeta diventa un personaggio dotato di un fascino e di una cultura insospettabili. Aspetti che ribaltano il dialogo tra i due uomini, con l'avvocato che da soggetto forte della conversazione si ritrova soggiogato dal carisma del suo assistito. Inquietante il dettaglio finale del cervello. Testo tecnico.

Nell'altro gruppo di elaborati troviamo invece una serie di soggetti che puntano tutto sulla componente tragica o comunque sui dissidi familiari o anche sulla malattia come ragione scatenante della follia. Inutile dire che il livello qualitativo è più basso rispetto ai due blocchi già menzionati, a causa di idee trite e ritrite e sviluppate con tagli spesso lenti o alternativi (deliri più o meno facili da seguire).
Il racconto migliore, per stile e cura nella caratterizzazione dei personaggi, è Qualcuno di troppo in famiglia di Loriano Macchiavelli. Ci troviamo in un paesino della campagna meridionale dove un ragazzino si vendica castrando il fratello più grande reo di averlo tramortito e di aver stuprato una quattordicenne. Macchiavelli dimostra, non è certo una novità, una grande padronanza narrativa facendo scivolare via il testo con il dovuto ritmo, anche se in modo piuttosto impersonale. Il finale è un misto di splatter e sadismo.

Interessante, per contenuti metaforici criptati, il giallo (uno dei pochi dell'antologia) della Vallorani. La scrittrice propone un soggetto che, per il movente dell'assassino, ricorda molto da vicino il film Non si Sevizia un Paperino. Ciò nonostante compie un certo sforzo nel caratterizzare i personaggi con uno scrittore in crisi indagato dalla polizia per l'omicidio della figlia. L'uomo però è innocente, paga solo i suoi errori di padre assente, l'assassino è invece un qualcuno che agisce per preservare il talento e la purezza delle piccole vittime.
Il grosso difetto del racconto è la pesantezza dovuta al modo lento con cui la Vallorani sviluppa il soggetto miscelando la trama gialla con passaggi metaforici (l'elemento del mare soprattutto) e una caratterizzazione del protagonista che getta la luce sulla figura dello scrittore in crisi e sempre più in difficoltà a trovare idee buone. Proprio queste caratterizzazioni, pur rendendo a tratti poco fluida la storia, innalzano di livello un racconto che altrimenti avrebbe avuto ben poco di originale.

Delude il maestro dell'horror rurale italiano Gianfranco Nerozzi . Il suo Dita nell'acqua è un racconto sulla disperazione causata dalla malattia e dall'anzianità. Il pregio del testo è quello di esser impreziosito da alcuni elementi apparentemente fantastici (al protagonista, a poco a poco, spuntano sulle scapole delle ali da angelo) e da un contenuto nobile di fondo (si parla dell'amore tra marito e moglie dopo cinquanta anni di matrimonio, di assistenza morale e fisica). Purtroppo lo sviluppo del tutto è poco narrativo o comunque tutt'altro che personale. Ritmo lentissimo, sviluppo noioso, finale prevedibile. Non ci siamo.

Fanno peggio la giovane Lidia Parazzoli (Brown) e Barbara Garlaschelli (Fotogrammi) con omicidi in ambito familiare portati in scena con una struttura narrativa non lineare e, soprattutto per la Garlaschelli, con poca cura per l'azione e la tensione.

Non classificabili in un gruppo omogeneo gli altri quattro testi. Tra essi brilla Clem di Carmen Iarrera (tra le più in forma della compagnia), la quale centra il bersaglio di suscitare angoscia con un soggetto che, in più, lancia anche un messaggio chiaro: giocare con gli incubi a occhi aperti porta a prendere strade che finiscono per far materializzare l'incubo (una sorta di inversione della c.d. legge dell'attrazione).
Protagonista è una bambina di otto anni che si diletta a vincere la noia fantasticando sui possibili sviluppi tragici che potrebbero scaturire da quanto le avviene attorno. Un giorno, scesa dal bus, si convince di esser braccata da un'orda di motociclisti intenzionati a stuprarla. I motociclisti non sono altro che dei suoi amici che vogliono farle uno scherzo; la bimba però, per fuggire, finisce nelle mani di un orco...

Brillante anche Paziente Zero, sorta di medical thriller affidato alle mani di Edoardo Rosati. Si tratta quasi di un racconto di sci-fi con un chirurgo guascone che conduce operazioni complicate in diretta tivù, mostrando freddezza e poco rispetto per il proprio lavoro e i pazienti, valori subordinati alle esigenze dello share.
Rosati è un esperto del genere e si vede soprattutto nel linguaggio tecnico e dettagliato che accompagna l'operazione eseguita dal protagonista, L'idea dell'operazione in diretta non è originale nella sua concezione (siamo nell'ambito del voyeurismo spinto oltre i limiti della riservatezza delle persone, una sorta di reality show), ma è resa benissimo e ha quel quid che la distingue dai canonici canovacci.

Raul Montanari, conosciuto scrittore nonché antologista di raccolte horror, propone invece una via di mezzo tra una sceneggiatura e un racconto. Il suo Dj è un testo intriso di risvolti metaforici e mette contrapposti sotto il profilo dialettico due torturatori impegnati nel tormentare la loro vittima costretta a subire ogni forma di violenza. Netta è la sensazione che Montanari voglia caratterizzare questi due soggetti come Dio (tutt'altro che buono) e il Demonio, mentre il torturato sarebbe l'uomo e tutto il contesto intorno sarebbe la vita sulla terrao. Interessante.
I fatti si svolgono la notte di capodanno e vedono all'opera un trio di manigoldi impegnati nel torturare un uomo con scosse elettriche, musica techno e urla registrate di altri torturati. Tutto fa parte di una sfida, un gioco, tra due di questi uomini che studiano le reazioni dei torturati e soprattutto il loro diverso modo di porsi al cospetto del dolore e poi della alla morte.

Sconclusionato e disomogeneo è infine Le Vedove di Forest Lawn con Roberto Barbolini che butta di tutto nel calderone della sua storia, dall'erotico volgare (una masturbazione in luogo pubblico) alla fantascienza (finale con una forma alternativa alla cremazione delle salme), passando per il grottesco (elemento predominante, e questo è una fortuna) e persino omaggi cinematografici e a Poe (il morto, alla fine, rinchiuso nella bara continua a essere cosciente sebbene finisca per esser dissolto in una sequenza che richiama alla mente in chiave parodistica il racconto Autopsia 4 inserito nell'antologia Tutto è Fatidico di Stephen King). Barbolini propone così qualche idea buona, ma lo fa in modo confusionario e per nulla calibrato al resto.
La trama vede due vedove milanesi, che vanno in giro dicendo di esser state le mogli di Stanlio & Olio, organizzare la loro consueta visita a uno dei principali cimiteri della California. Nell'occasione fanno conoscenza di un rappresentante milanese e lo invitano a passare un giorno con loro. Durante una rappresentazione religiosa però l'uomo muore di infarto, mentre le due lo stanno seducendo in modo palese e folle (lo masturbano in pubblico!?). Ancora capace di capire ciò che succede attorno a lui, nonostante sia clinicamente morto, il poveretto viene sottoposto a una nuova pratica per smaltire i cadaveri che comporta lo scioglimento del cadavere in una poltiglia densa. Racconto dunque fracassone.

In definitiva siamo alle prese con un'antologia quasi di esclusivo intrattenimento che si legge bene, ma che rischia di non insinuarsi a lungo nella mente del lettore.
Tra i racconti più meritevoli rimarco: per contenuti quello di Claudia Salvatori (gioiellino), per ritmo quello di Stefano di Marino (adrenalinico), per capacità di suscitare angoscia i racconti di Giulio Leoni (luciferino) e Carmen Iarrera (profetico), per ricostruzione storica e intreccio giallo il testo della Pastor (poeniano). Si attestano su buoni livelli anche i racconti di Zucca, Rosati e Dazieri. Sufficienti Evangelisti (per le descrizioni e il tocco pulp), Vallorani e Macchiavelli. Mezza occasione sprecata il racconto di Arona, rimandati gli altri cinque. Giudizio complessivo: più che sufficiente. Voto: 6,5