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sabato 8 ottobre 2011

Aforismi Matteo Mancini, "terzo episodio"



Riflessioni varie del sottoscritto sintetizzate in undici aforismi che pubblico qui per condividerli, ma soprattutto perché altrimenti finirei col perderli.

1) "L'arte dell'autocoscienza è la più geniale forma di scienza" (Matteo Mancini)

2) “Quando si insegna qualcosa a qualcuno, se si vuol far sì che questo qualcuno riesca a sviluppare se stesso, la prima cosa da insegnare è acquisire autocoscienza e non caricare di nozioni e metodologia come invece si è soliti fare. Le nozioni e la metodologia sono aspetti secondari, mentre l'autocoscienza è propedeutica rispetto a qualunque insegnamento perché è la madre di qualunque comportamento senziente” (Matteo Mancini).

3) “I comportamenti e gli approcci non devono mai essere demandati al caso o alle consuetudini, ma tenuti ben saldi come le redini di un cavallo. Se vi fate scarrozzare da cavalli imbizzarriti potreste finire in un dirupo, solo la coscienza profonda di voi stessi, e non il destino, vi condurrà dove vorrete arrivare” (Matteo Mancini).

4) “Non metterete mai a frutto le potenzialità derivanti dalla vostra autocoscienza se vi farete condizionare dai comportamenti e dai giudizi altrui che spesso sono diretti a frenarvi e a minare il vostro ego” (Matteo Mancini).

5) “Chi non capisce il significato delle proprie azioni e delle proprie emozioni corre l'inevitabile rischio di finire imbrigliato dalle inibizioni e dagli schemi imposti dagli altri, perché la mancanza di autocoscienza favorisce la sfiducia in se stessi: È sicuro solo chi sa cosa deve fare e sa cosa deve fare solo chi ha autocoscienza” (Matteo Mancini).

6) "Chi impara a conoscere profondamente sé stesso avrà la possibilità di superare i propri limiti e otterrà la chiave per aprire gli scrigni che celano le corazze difensive o le sembianze mendaci erette attorno all'anima delle persone che lo circondano. L'autocoscienza vi darà la dote di guardare dentro gli occhi degli interlocutori, di osservarne i movimenti e le gestualità e di scorgere in essi barlumi di anima, sia essa nobile o malvagia. L'autocoscienza è una dote non di poco conto: ricercatela e promuovetela” (Matteo Mancini).

7) La professionalità e la serietà di un individuo si riflettono in qualunque cosa egli faccia. Non esiste una professionalità o una serietà settoriale. Diffidate da chi si manifesta carente in una settore specifico della vita di tutti giorni e non fa nulla per migliorare, poiché spesso farà lo stesso anche nel resto. La serietà e la professionalità sono qualità che si estendono a 360 gradi, perché costituiscono l'approccio con cui un individuo affronta la vita. Dunque chi vi dirà di impegnarsi di più in qualcosa piuttosto che in qualcos'altro a cui comunque si dedica si autodefinisce non serio e non professionale,senza alcun margine di fuga" (Matteo Mancini)

8) "Le mezze misure sono un'ipocrisia: quando si fa qualcosa lo si deve fare puntando al massimo, altrimenti è bene dedicarsi a qualcos'altro poiché il tempo è un bene che non va mai buttato; esso è limitato per definizione, neppure il denaro lo può quantificare" (Matteo Mancini)

9) "Chi osserva troppo cosa fanno gli altri, spesso, spreca l'occasione per concentrarsi su se stesso, con spiacevoli risultati futuri." (Matteo Mancini).

10) “Per vivere felici, bisogna cercare la via di divertirsi in qualunque cosa si faccia. Il divertimento può andare di pari passo con la professionalità e la serietà, dunque è poco efficiente volerlo confinare nella sfera dei giochi o dei passatempo. Il divertimento deve stare al vertice della vostra piramide e va ricercato, in un modo o nell'altro e sempre nel rispetto degli altri, in qualunque cosa si faccia, lavoro compreso. Solo la malattia può allontanare il divertimento, mai il resto. (Matteo Mancini)

11) Il divertimento di un singolo, in qualunque campo si manifesti, contagia la massa di coloro che hanno a che fare con quel singolo e porta all'incremento delle prestazioni collettive. Il divertimento delle persone è dunque un interesse collettivo da ricercare e promuovere in ogni contesto” (Matteo Mancini).

lunedì 3 ottobre 2011

Recensione saggi sportivi: IL PICCOLO AVIATORE - Vita e Voli di Gilles Villeneuve (Andrea Scanzi)





Autore: Andrea Scanzi
Anno: 2002
Editore: Limina.
Pag: 158
Prezzo: 12 euro

Commento Matteo Mancini


Con "Il piccolo aviatore" ha inizio la ricerca di monografie dedicate ai miei personaggi sportivi preferiti. L'obiettivo è quello di dedicare una parte della mia biblioteca ai miei modelli sportivi.

Sebbene io non sia un ferrarista, non potevo non iniziare da quello che è il mio sportivo preferito di sempre (a pari merito con Bruce Lee), un personaggio per cui stravedo: Gilles Villeneuve. Così mi sono imbattuto in questo libro firmato da Andrea Scanzi, un giornalista con la passione per lo sport in generale, ma anche per la musica e la narrativa (passioni che si evincono in modo netto anche dalla lettura di questo lavoro).

L'opera è divisa in ventisette capitoli (in onore al numero della monoposto pilotata da Villeneuve) che ci presentano Gilles a 360 gradi, dai suoi successi con le motoslitte, passando per il debutto nella Formula Atlantica per arrivare all'approdo tribolato in Formula 1 avvenuto su McLaren (perchè Gilles diceva sempre che un buon pilota non dovrebbe mai debuttare su una monoposto di secondo ordine, a costo di non debuttare mai perché la pazienza di scrutare il talento di un uomo è prerogativa di pochi eletti - Enzo Ferrari sarà uno dei pochi a farlo con Gilles, in McLaren gli preferiranno Tambay).

Scanzi ci parla del Villeneuve privato, della sua bramosia di correre anche per le strade pubbliche (distruggerà ben tre autovetture del padre), del suo amore per la velocità in ogni contesto in cui essa si potesse sviluppare (dalle auto, alle barche, fino agli elicotteri per terminare con la pazzesca sfida di velocità, vinta da Villenueve sulla pista di un aeroporto, tra la sua Ferrari e un Jet militare), dell'amore per il lusso (spendeva soldi a raffica comprando oggetti inutili e intere vagonate di riviste su motori, perché temeva che la morte lo avrebbe potuto rapire presto), dell'ossessione di perdere la vista e i capelli e infine del suo profondo attaccamento alla famiglia dalla quale si faceva seguire in ogni parte del mondo facendola alloggiare all'interno di un mega camper (era l'unico pilota a fare una cosa del genere).

Non mancano approfondimenti sulle doti caratteriali di Gilles, sul suo lato introverso, triste (anche quando vinceva era raro vederlo raggiante sul podio) e sulla sua onestà disarmante, per nulla offuscata dall'irruenza con cui attaccava in pista avversari mandandoli spesso a muro e suscitando le critiche dell'intero circus che lo bollava come "pilota pericoloso e spericolato" (sarà merito solo della caparbietà e della lungimiranza di Enzo Ferrari se Gilles non verrà licenziato dalla Ferrari).

Scanzi, da grande appassionato, non perde occasione per citare altri piloti che con Villeneuve hanno intrecciato la loro vita (ci sono capitoli dedicati a Ronnie Peterson, a Didier Pironì - e la maledizione che lo perseguitò a partire dal tradimento di Imola - ad Amon, a Purley ed altri ancora), inoltre regala aneddoti anche su personaggi eroici e fuori dagli schemi filosoficamente vicini alla figura del pilota canadese come il pugile Muhammad Alì.

Ciascun capitolo è preceduto da una citazione musicale, spesso ripresa da canzoni di Ivano Fossati, Fabrizio De Andrè, Giorgio Gaber o Bruce Springsteen.

Lo stile è sobrio, efficiente e scorrevole. Ne deriva una lettura spassosa per gli amanti della formula 1 (e non solo), impreziosita da frasi storiche di Gilles e dai ricordi di chi con Villeneuve ha condiviso parte della vita.

Scanzi torna spesso sulla immaturità consapevole di Gilles nonché sui suoi eccessi studiati quasi a tavolino. Consapevole perché basata su un ragionamento filosofico piuttosto palese. Villeneuve non voleva snaturarsi era fedele a se stesso e mai avrebbe potuto modificare il proprio atteggiamento a beneficio di una condotta più conscienziosa ma al tempo stesso castrante e ipocrita; perseverava nella sua filosofia estrema distruggendo veicoli, buttando al vento punti preziosi e rinunciando alla vittoria finale pur di cercare di strapparne una parziale. Questo era il suo spirito, una spinta che lo portava sempre a pretendere il massimo e a non arrendersi mai anche quando non c'erano più le condizioni per andare avanti o quando sarebbe stato matematicamente preferibile alzare il piede dall'acceleratore.
"Non mi importa niente del mondiale, a me interessa correre" era solito dire a chi gli chiedesse spiegazioni.

Questo atteggiamento venne e viene tuttora giudicato come il suo punto debole, per altro non contrastato da chi gli stava intorno, a partire da Enzo Ferrari che con lui aveva un rapporto quasi paterno (c'è un capitolo anche dedicato a questo).
Sul punto è emblematica un'intervista di Clay Regazzoni riportata all'interno del saggio: "Villeneuve era unico. Aveva potenzialità enormi. Potenzialità rimaste in parte inespresse. Ha vinto poco per quel che valeva. Avrebbe avuto bisogno di qualcuno che avesse avuto il coraggio di sgridarlo, di dirgli cosa andava fatto e cosa no. Aveva bisogno di un uomo capace di gestirgli il talento, ma a Maranello nessuno si permetteva di criticarlo. Ferrari lo viziava, gli concedeva tutto".

Pareri del genere saranno poi espressi anche per un altro immenso e sfortunato pilota che, come Villeneuve, troverà la morte in un folle e ardito sorpasso durante una gara del mondiale DTM: STEFAN BELLOF (guarda caso, pare che lo stesso Enzo Ferrari - amante dei piloti estremi alla Tazio Nuvolari - lo avesse opzionato per portarlo alla Ferrari per la stagione 1986).
Lo stesso Lauda, nello scagionare la manovra di Moss che portò al volo fatale di Villeneuve, disse: "solo Villeneuve poteva scegliere l'azione più rischiosa, cercando di superare una macchina più lenta seguendo la traiettoria più difficile".

Sul punto potrebbe essere interessante discutere sul quesito che lo stesso autore pone a se stesso ovvero se abbia un senso esigere raziocinio da chi senza follia non potrebbe vivere. A mio avviso la risposta a tale domanda non può che essere negativa. Villeneuve, così come Bellof, correva per il gusto di divertirsi, per la necessità di superare sé stesso e di farlo in un modo personalizzato, unico, fuori completamente dagli schemi poiché solo in tal modo poteva rappresentare veramente la propria personalità (da qui le varie prodezze sempre oltre il limite immaginabile per i colleghi). Pretendere di ricondurre questi soggetti all'interno dei ranghi convenzionali significherebbe violentarli e portarli a un deterioramento delle loro prestazioni, poiché senza divertimento e senza una sfida (con se stessi), finirebbero anche i loro stimoli e la voglia di continuare a correre.

Il libro offre anche curiosità singolari come i trucchi adottati da Gilles per partire più velocemente al momento della partenza (era considerato un maestro in questo, capace di recuperare manciate di posizioni in pochissimi metri). L'aviatore infatti, prima della gara, era solito far slittare le gomme nel punto in cui sarebbe dovuto partire in modo da gommare l'asfalto e avere così maggiore aderenza.
"Tutti dicono che sono un temerario, perché ancora prima della gara faccio delle prove sulla linea di partenza, sgommando e lasciando dei segni neri sull'asfalto. La credono una follia, ma è una follia molto utile" confessò una volta ridacchiando sotto i baffi.

L'opera si chiude con un Gilles Villenueve disilluso, deluso per il naufragio (dovuto al ritiro di alcuni sponsor che lo utilizzarono per ragioni speculative) del progetto di creare una scuderia tutta sua dove far correre il fratello, tradito da Pironì, in rotta con la moglie, in polemica con la Ferrari (colpevole di non averlo difeso a dovere dopo il tradimento di Imola operato da Pironi) e abbandonato quasi al suo atroce destino e a una morte che sentiva sempre più vicina: "chi ti dice che il prossimo anno io sia ancora qui?" rivelò al suo manager pochi giorni prima di morire. Presagi terrorizzanti che caratterizzeranno anche la fine di Senna (basta vederlo, spento, rassegnato, prima della partenza del gran premio - ancora una volta - di Imola).

L'epilogo del saggio però Scanzi lo dedica, con quella che in un album musicale si potrebbe definire una doverosa bonus track, al figlio Jacques Villenueve e all'impresa mai riuscita al padre: la vittoria del titolo mondiale. Un'impresa però che non darà a Jacques quell'amore incondizionato che i tifosi tributavano al padre, a quella figura triste e malinconica che gettava il cuore oltre all'ostacolo. Un uomo coraggioso capace di compiere giri su tre ruote o senza alettone anteriore, di duellare a colpi di ruote sulle fiancate dell'avversario e di compiere manovre al limite del pensabile; un pilota così folle da varcare il confine della genialità in un volo costante verso le stelle che tappezzano il firmamento.
Lettura consigliata. Voto: 7.5


PS:

Chiudo con un passaggio chiarificatore del personaggio Villeneuve ripreso da uno stralcio riportato da Scanzi al termine del libro e firmato da Pierangelo Sapegno:
"Gilles era come un figlio dei fiori, era un naif della velocità, era uno che offriva la sua vita fuori dai tempi e fuori dagli schemi, era Harry il coniglio di John Updke che non aveva tradito la sua giovinezza.
Era il riscatto di tutti quelli che non avevano avuto il coraggio di restare sempre uguali a se stessi, alla propria giovinezza, alle passioni del cuore. E' solo vissuto per gli altri, inutile com'era la sua corsa e com'erano i suoi ideali, spettacolare com'era la sua velocità, sconfitto come lo erano stati tutti i suoi fratelli di vita, quelli che lo adoravano come uno di loro. E' morto come aveva vissuto, dando tutto in un inutile sorpasso.
Quelli che non cambiano sono una memoria, uno sguardo struggente sul passato. Villeneuve è stato anche questo, perché è rimasto sempre uguale al suo sogno, morendo come un bambino, sparato contro il suo gioco.
Villeneuve è la nostra parte ribelle, che ha paura della morte ma che la cerca, è la nostra voglia di avventura, di scappare.
Nessun pilota è stato tanto amato vincendo così poco, il coraggio di Villeneuve non era roboante ma fatto di generosità. Il suo grande cuore era nascosto dietro quella faccia di bambino indifeso. Gilles era davvero un umile, non si era costruito così, non posava mai. Si tirava da parte appena poteva. Solo Senna, dopo, sarà ricordato come lui, ma Senna aveva vinto tutto. Solo la forza, la ribellione e l'intelligenza di Cassius Clay possono essere paragonati alla fine, triste e leggendaria, di Villeneuve."


Qua uno dei video tributo dedicati a Gilles
http://www.youtube.com/watch?v=qrnzPhwM8iQ

sabato 1 ottobre 2011

Recensione Narrativa: CAMBIO DI STAGIONE (Maurizio Cometto)




Autore: Maurizio Cometto.
Anno: 2011
Editore: Il Foglio Editore
Pag.: 270.
Prezzo: 15.00

Commento Matteo Mancini:
Dopo l'ottima antologia "L'incrinarsi di una persistenza", Maurizio Cometto - scrittore di punta della collana "fantastico e altri orrori" delle edizioni Il Foglio di Gordiano Lupi - torna a proporre un lavoro tutto suo e lo fa in un modo decisamente originale.

Presentato come un romanzo, "Cambio di stagione", in realtà, è un'antologia di racconti che sarebbe piaciuta molto a Gustav Meyrink. I testi, difatti, sono incatenati tra loro in un percorso iniziatico finalizzato al superamento (seppur inconscio) della morte e delle svariate dimensioni parallele che, secondo l'autore, strutturerebbero la realtà che ci sta intorno. A quest'ultimo riguardo è curioso il rapporto che c'è nel racconto "Sogni" tra Fabrizio, il protagonista di tutte le storie, e il suo alter ego Maurizio (credo che questo nome non sia casuale), quasi a sottolinerare un'immedesimazione dell'autore col suo personaggio.

Il lettore, anche se lo scoprirà solo con l'ultimo racconto (a mio avviso il migliore del lotto), è alle prese con un'opera che, seppur basata su argomenti diversi, rievoca il nucleo centrale del film "La nona porta" di Roman Polanski, sostituendo però alle tavole del pittore Aristide Torchia dei veri e propri racconti (che poi, nell'ultimo elaborato, diventeranno dei geroglifici da interpretare proprio come quelli del film).

Abbiamo così nove storie (come nove erano le tavole del film di Polanski) apparentemente l'una scollegata dall'altra, fatta eccezione per i personaggi e il contesto ambientale (la Torino contemporanea) che restano costanti. La particolarità sta nel fatto che queste storie si sviluppano da una base di partenza comune per proiettarsi in contesti, di fatto, paralleli e indipendenti in cui interviene un elemento paranormale a stravolgere la quotidianità.

Troviamo così in "Lo smeraldo a Porta Nuova" una luce verde (prestate attenzione alla chiusura dell'antologia dove il verde riemerge dall'occhio di un gatto quasi a voler suggerire il rinnovarsi del cammino che il lettore e il protagonista hanno percorso, a sottolineare, per l'ennesima volta, quel circolo vizioso presenza costante di tutte le nove storie) che induce tutti gli operai a dimettersi (testo piuttosto carpenteriano che mi ha ricordato il film "Essi vivono") e poi gatti che scompaiono nel nulla e miagolano dalla cornetta di un telefono (omaggio, più o meno, volontario a Matheson e al suo "Una chiamata dal lontano") e ancora una bizzarra lotta contro un tumore che sembra svilupparsi, oltre nel corpo di una donna, anche all'interno di una fermata ferroviaria e via proseguendo con una marcia dei mille rovesciata (quindi dal sud verso il nord) per contrastare l'ascesa della Lega Nord (una vera chicca intitolata "I restauratori") e chi più ne ha più ne metta.

Tutti i testi sono intrisi da un forte impatto metaforico. La disillusione e il pessimismo (fondato) di Cometto emergono in modo netto e marcato. Così viene a galla la crisi del capitalismo occidentale (non è forse un caso che Anubi, ovvero la divinità che ha il controllo sul sistema, venga definito "Il signore dell'occidente") con tutte le relative conseguenze: le fabbriche che chiudono travolte da vortici interni ("Centrifuga lunga"), corse al potere che generano invidie che travolgono vecchie amicizie ("Cambio di stagione"), tentativi di sovvertire il sistema politico e crisi dei valori interiori che si manifestano con la cancrena dell'anima ("Necrosi").

Non mancano le citazioni, sia musicali, narrative e cinematografiche (curiosa la filastrocca del racconto "L'altra casa" che pare citare quella del film di Dario Argento "Non ho sonno" che guarda caso era ambientato proprio a Torino).

Lo stile è asciutto, privo fronzoli e virtuosismi e senza disdegnare pennellate oniriche. Tra i testi più visionari sono da menzionare "L'invisibile battaglia" (belle le descrizioni del tumore che aggredisce le mura di una stazione deserta) e "L'angelo della morte" (autentico delirio - seppur lucido - metafisico, spiriturale e filosofico con Cometto che porta in scena Anubi, mummie e amuleti per teorizzare l'esistenza di una dimensione zero come via per vincere la morte, in una sorta di omaggio ribaltato a "Il signore del male" di Carpenter da cui si mutua il concetto del sogno premonitore proveniente da un'altra dimensione e anche il passaggio da una dimensione all'altra sostituendo però lo strumento del trapasso dallo specchio alla televisione).

A trovare qualche neo, forse, si potrebbe sostenere che alcune storie si sviluppano troppo lentamente, ma ciò è imputabile a una scelta chiara e ben definita di Cometto. L'autore infatti predilige sviluppare le sue storie con una prima parte blanda e tranquilla per poi far salire la tensione fino al delirio finale.

Tra i testi dell'editoria fantastica indipendente (e non solo) - credo di poter dire - "Cambio di stagione" è l'antologia più brillante e matura che mi sia mai capitato di leggere. Un testo che miscela narrativa fantastica a una certa atmosfera esoterica/spirituale con un tocco di contemporaneità che riflette la crisi di una società ormai giunta sull'orlo del collasso. Lettura più che suggerita per un autore che merita il grande salto nell'editoria professionista. Voto: 8.5