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mercoledì 15 dicembre 2010

Recensione film: "Le Colt Cantarono la morte e fu... Tempo di Massacro (Lucio Fulci)




Produzione: Italia 1966

Produttore: Oreste Coltellacci, Ugo Santalucia e Lucio Fulci.

Regia: Lucio Fulci

Soggetto e Sceneggiatura: Fernando Di Leo.

Interpreti Principali: Franco Nero, Nino Castelnuovo, George Hilton, Giuseppe Addobbati (John McDouglas), Tchang Yu, Janos Bartha, Romano Puppo.Musiche: Lallo Gori

Durata 90 min.

Giudizio: ***


La trama

Tom Cobett (Nero) viene richiamato al paese di origine da Carrdine, un vecchio amico di famiglia (Bartha), per essere messo a conoscenza di una notizia segreta. Giunto in paese, Tom scopre che un signorotto locale (Castelnuovo) e suo padre (Addobbati) hanno messo sotto il loro totale controllo la città, ma non riesce a parlare con Carradine perché lo stesso viene assassinato da una banda di criminali. Aiutato dal fratello (Hilton), un pistolero con la passione per la tequila, Tom riuscirà a liberare il paese dall’oppressione e a conoscere quel segreto per cui era stato contattato.


Commento

Film di discreto successo (20° classificato nella graduatoria dei film più visti del ‘66) assai importante per il genere e soprattutto per la carriera di un regista che avrebbe fatto la storia del cinema di genere nostrano. I critici dell’epoca individuarono la caratteristica preponderante del film nell’alto tasso di violenza sadica, anche se, tengo a precisare, non raggiunge mai i livelli di “Django”. Visto con gli occhi di oggi giorno, infatti, “Tempo di massacro” non è un western violentissimo; lo stesso regista girerà nel 1975 un western molto più crudo e cupo dal titolo “I quattro dell’apocalisse”, nonostante ciò fu oggetto di censure e di scelte commerciali che portarono alcune case di produzione spagnole a declinare l’offerta di collaborazione per la produzione del film. Dietro alla mdp troviamo Lucio Fulci, un regista straordinario oggi ricordato, un po’ in modo stretto perché capace di girare anche capolavori impegnati quali “Beatrice Cenci”, per i suoi horror di fine anni ’70 primi anni ’80 capaci di concorrere con i capolavori del suo “avversario” di sempre, cioè Dario Argento, con perle del calibro de “L’Aldilà”, “Zombi 2”, “Paura nella città dei morti viventi” e “La squartatore di New York”. Memorabili, al riguardo, gli scontri tra i due registi che si placarono solo poco prima della morte di Fulci (quando Argento produsse l’horror “M.D.C. – Maschera di cera”, poi girato da Sergio Stivaletti per l’improvvisa dipartita del nostro) e che iniziarono prima superficialmente, per la scelta di Fulci di cavalcare il successo ottenuto da Argento presentando dei thriller dai titoli contenenti nomi di animali (“Una lucertola dalla pelle di donna”, “Non si sevizia un paperino”) e poi con delle vere e proprie dispute legali con Argento – distributore del film “Zombi” di George Romero – che accusò Fulci di plagio in occasione dell’uscita di “Zombi 2” (film, in realtà, totalmente diverso da quello di Romero).Al di là di quanto sopra ricordato, nel 1966 Fulci era poco più di un regista di film comici (molti dei film di Franco e Ciccio e prima di Totò sono stati portati in scena proprio da Fulci) e di testi di canzonette popolari, come “Ventiquattromila baci” di Adriano Celentano, che mai si era cimentato con il cinema d’azione o con opere cruente di cui poi sarebbe diventato un maestro come dimostrano il giallo “Sette note in nero” o il fantasy bizzarro “Conquest” o il terrificante noir “Luca il contrabbandiere”. Nonostante i successi ottenuti al botteghino per merito della comicità dell’accoppiata Franco e Ciccio, la volontà del regista di staccarsi da un filone commerciale che non gli permetteva di dare lustro al suo genio visionario divenne un qualcosa di sempre più ossessiva. Così Fulci decise di autoprodurre un progetto che gli permettesse di confrontarsi con un qualcosa di diverso. La scelta ricadde sul western, perché all’epoca era l’unico genere che offriva una qualche garanzia di successo, e su una sceneggiatura di quel Fernando Di Leo di cui abbiamo già a lungo parlato. “Tempo di massacro”, poi rinominato “Le colt cantarono la morte” perché il titolo era già stato registrato per l’uscita di un romanzo, è dunque il primo film in cui Fulci sperimenta quel gusto per la violenza che lui stesso non perdeva occasione di definire “artaudiano”, citando Antonin Artaud. Tuttavia siamo alle prese con un Fulci ancora embrionale, che si approccia a un cinema che non aveva mai fatto e su cui tornerà solo qualche anno dopo, preferendo girare un altro pugno di film comici prima di approdare, nel 1969, al thriller con “Una sull’altra” subito seguito da due capolavori, “Non si sevizia un paperino” e “Una lucertola con la pelle di donna”, in cui si assiste al Fulci più puro. In “Tempo di massacro” la regia non porta ancora le stigmate del regista, mancano quasi del tutto quelle manie che il “terrorista dei generi”, così definito per la sua caratteristica di deflagrare un genere predeterminato introducendovi elementi atipici, palesava nei suoi film (l’indugiare sugli occhi dei protagonisti, l’ossessione per il tempo che scorre, l’uso abbondante dello zoom, l’amore per la nebbia e via dicendo). Tuttavia, al di là di quanto detto, emerge in modo chiaro e netto un innegabile gusto per quel macabro che, nel corso degli anni, diventerà un vero e proprio marchio di fabbrica della filmografia di Fulci portandolo a essere considerato il padrino del gore italiano. Un ulteriore punto in comune tra “Tempo di massacro” e i successivi lavori di Fulci, soprattutto gli horror, si riscontra nella scelta di proporre un prologo, che precede i credit, caratterizzato da una crudeltà che anticipa i contenuti del film. Nella circostanza si parte con una sequenza tanto disturbante da rendere necessario l’intervento della censura che ha eliminato parte della scena. Abbiamo infatti un gruppo di pastori tedeschi lanciati, in un lungo inseguimento in un bosco, alle spalle di un messicano che finisce sbranato e divorato dagli stessi, con la telecamera che indugia sulla pozzanghera in cui cade la vittima mentre l’acqua si colora di rosso. Una sequenza per l’epoca terribile e mai vista in un western. Come già anticipato, a battezzare il debutto di Fulci nel western, e più in particolare nel cinema di genere, è la sceneggiatura di Di Leo. Lo sceneggiatore, e poi regista pugliese, sforna un soggetto non trascendentale ma ben sviluppato (si parla di un figlio illegittimo che torna, suo malgrado, a rivendicare ciò che gli spetta, suscitando le ire del fratellastro). Rispetto ad altre sceneggiature di Di Leo, lo script è meno impegnato e non sfoggia quei magnifici dialoghi che caratterizzavano i suoi primi western; a fare la differenza, quindi, è lo sviluppo e le caratterizzazioni dei personaggi. Riuscitissimi i personaggi interpretati da Nino Castelnuovo e George Hilton, grazie anche alle ottime interpretazioni dei due attori. Il primo è un bullo che, armato di frusta, compie ogni sorta di nefandezza (fino a ordinare l’uccisione di due bambini e a far crocefiggere un uomo di fiducia del padre su due pali di legno); memorabile, al riguardo, il duello con le fruste tra Castelnuovo e Franco Nero con quest’ultimo ridotto a una piaga, con il volto sfigurato dalle frustate. Più guascone il personaggio di Hilton: un ubriacone che va pazzo per la tequila e che gioca con le piattole, ma anche letale come pochi con la colt che usa solo dopo aver attirato l’attenzione dei rivali proferendo la battuta “Hey, gentleman?”Molto simpatico, anche se già riproposto da Di Leo in altri film, il becchino del paese che qui si contraddistingue per esser un cinese (con immancabile “erre moscia”) amante delle citazioni di Confucio rielaborate in una visione personalizzata e adattata ai tempi moderni. Paradossalmente a essere debole è la caratterizzazione del personaggio protagonista che ha poco o nulla di diverso rispetto alla massa dei pistoleri dello spaghetti western. Il ritmo, seppur calando nella parte centrale, è discreto, grazie a un’attenta regia di Fulci che offre il meglio di sé nella mattanza finale (bella la scena con Nero che sale le scale e la mdp che riprende in primo piano gli stivali che salgono i gradini), dove Hilton e Nero si lanciano le pistole a vicenda scambiandosi i bersagli. Bello l’epilogo dalle atmosfere horror, in parte citato in “Non si sevizia un paperino”.Le interpretazioni, come anticipato, sono buone. Star del cast artistico, per l’epoca, era un Nino Castelnuovo reduce da film di Vittorio De Sica, Nanni Loy e Visconti e soprattutto dalla mini serie tv “I promessi sposi” dove, con grande successo di critica e pubblico, aveva impersonificato Renzo. Castelnuovo, da uomo più pagato del cast, fu inviato a scegliere quale ruolo intendesse accettare; curiosamente optò per il figlio crudele, in quanto stufo di ricoprire ruoli da bravo ragazzo. Nonostante i precedenti trascorsi in film di autore o con soggetti classici, la performance dell’attore lombardo, in una delle sue rare prove in un film di genere - lo rivedremo nel western “Un esercito di cinque uomini” del 1969 e nel thriller dai contenuti erotici “Nude per l’assassino” del 1975 di Andrea Bianchi – si rivelerà molto positiva e mostrerà l’alta attitudine di Castelnuovo nel ricoprire personalità molto diverse tra loro.Per il ruolo di co-protagonista, invece, fu scelto, dopo svariati provini, l’uruguayano e all’epoca sconosciuto George Hilton. Il film per Hilton ebbe un grande impatto positivo e lo lanciò nel cinema italiano. Pagato con poco più di due milioni di lire, Hilton vide crescere l’interesse attorno a sé proprio grazie a questo film, al punto da diventare uno degli attori più richiesti per lo spaghetti western (erediterà persino da Gianni Garko il ruolo di Sartana, con il film “C’è Sartana… vendi la pistola e comprati la bara”) e poi per il thriller (celebri le sue partecipazioni nei primi thriller di Sergio Martino, tra i quali vale la pena di ricordare “Lo strano vizio della signora Wardh”, “Tutti i colori del buio” e “La coda dello scorpione”). La prova di Hilton, nonostante le continue liti con Fulci, è a dir poco maiuscola, addirittura azzarderei a definirla la sua migliore interpretazione di sempre. Nei panni di protagonista, invece, dopo la rinuncia di George Martin, saltato insieme ai produttori spagnoli che rinunciarono al film perché giudicato troppo violento, fu scelto Franco Nero. Decisiva, al riguardo, fu la sorprendente prova offerta dall’attore in “Django”. Franco Nero però non fornisce una prova convincente e, di sicuro, si vede rubare la scena da Castelnuovo e soprattutto da un Hilton in grossa vena. Completano il cast alcuni caratteristici storici del cinema italiano, tra cui un Romano Puppo con un ruolo un po’ più ampio del solito.Ottima la confezione, sia per quel che concerne la fotografia di Riccardo Pallottini, le scenografie e la colonna sonora di Lallo Gori. Eccezionale e trascinante la main theme “A man alone” cantata da Sergio Endrigo, capace di inserirsi in prima posizione nella hit parade giapponese.


Per gli amanti delle citazioni:

1) “Confucio oggi direbbe: in cielo sarà ripagato chi seppellisce i morti gratuitamente in terra, ma Confucio non viveva in questa città. I morti sono tanti che se li seppellissi gratis finirei con il morire anche io. Confucio quindi mi vorrà perdonare se ai Carradine l’eterno riposo costerà tre dollari a testa”