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giovedì 19 marzo 2015

Recensione Saggi: LE CENTO CORSE di Renzo Castelli.



Autore: Renzo Castelli.
Sottotitolo: Uomini e cavalli in un secolo di storia pisana.
Editore: Tacchi.
Pagine: 200.
Prezzo: Fuori catalogo.

Commento di Matteo Mancini.
Bel volume che diviene eccelso se si considera che, per ragioni assurde e inspiegabili, volumi del genere non vengono pubblicati. Eppure si sta parlando di uno sport, l'ippica, un tempo considerato di primario livello anche in Italia, grazie al coinvolgimento di autorità e di uomini di primaria importanza nell'ambito nazionale. Soggetti come il Re di Italia, il regista Luchino Visconti, il mago Federico Tesio e giù a scendere in una lunga sequela di personaggi di spessore eccezionale. Non a caso, se si va a spulciare nelle pubblicazioni emergono molti documenti risalenti all'ante guerra. Ai giorni attuali, complice il momento di crisi (aspetto comunque marginale nel settore delle pubblicazioni a tema), il panorama ippico sembra riconducibile, quanto a divulgazione notizie e investimenti sotto il profilo culturale e informativo, a un club delle boccette, dal sapore tendente al settario, in cui si guarda con ostilità chi proviene dall'esterno e in cui ognuno guarda in casa propria. Ciò che interessa è il movimento scommesse, per chi organizza, o la vittoria dei premi per chi partecipa. Viene investito poco o nulla sull'esaltazione sportiva dei vari protagonisti, siano essi fantini, allenatori, proprietari o, meno che mai, cavalli. Persino un libro eccellente come quello di Franco Varola, intitolato Il Mito di Tesio, ha dovuto subire lo smacco della non pubblicazione in Italia. La decisione degli editori locali si fa persino tragicomica, poiché il volume, che parla dell'ippica italiana, fu pubblicato in Inghilterra, in inglese, nel 1984 e stampato in Italia solo nel 2004, a Varola deceduto. Davvero imbarazzante.

E allora ecco che non si può che parlare positivamente di questo lavoro di Renzo Castelli, giornalista pisano appassionato di ippica e uno dei pochi (ma pochi davvero) che ogni tanto pubblica libri sul mondo del galoppo soprattutto pisano. In questo blog abbiamo già recensito il suo volume su Ribot e il romanzo Un Brocco per Vincere. Scriviamo oggi questa pagina proprio perché ci troviamo a undici giorni dalla prossima edizione del Pr.Pisa, premio principale della città in ambito ippico, e a cui Castelli ha dedicato questo volume.

Si tratta di un testo composto da 200 pagine con 290 foto a corredo, col quale Castelli ricostruisce la storia del Premio utilizzando la classica quale bussola orientativa attraverso la quale parlare dei protagonisti delle varie epoche, e soprattutto degli eventi e delle mutazioni della città, in un periodo che va dagli anni '20 dell'ottocento al 1989, anno d'uscita del testo, avvenuta in coincidenza con la centesima edizione del premio.

Ricordo che fu regalato svariati anni fa, quando andavo alle superiori, peraltro senza copertina esterna. Ho un immagine di questo volume, nero e cartonato, mentre mangio una schiacciata con la Mortadella in via Luigi Bianchi, a Pisa, e alla tv scorrono le immagini di una partita di qualificazione tra l'Italia e la Moldova con la porta di questi ultimi, se non ricordo male, difesa da un tale Romanenco che indossa una maglia marca Puma, la stessa che aveva il portiere della Rep.Ceka, Petr Kouba, che perse in finale contro la Germania gli Europei del '96 (ho gli inni nazionali, con il difensore Miroslav Rada che strizza l'occhiolino in camera, e la sintesi registrata dalla partita, nonché la sequela dei rigori della semifinale contro la Francia). Probabilmente si trattava di una partita del '97, ma la potrei confondere con un'altra contro l'Ucraina (scarterei la soluzione perché in porta ci sarebbe stato il giovane Shovkovskij). Di certo c'è una partita di mezzo dell'Italia. Torniamo però in tema, dopo questa piegata esterna in territori da cross-sportman.

Castelli adotta uno stile giornalistico molto scorrevole, brioso, impreziosito da alcune interviste fatte nel tempo a grandi personaggi dell'ippica pisana come gli eredi di Polifemo Orsini (primo fantino italiano ad aver vinto il Derby reale in sella a Van Dyck, nonché primo italiano a vincere il Premio Pisa nel 1909 dopo 21 edizioni andate a beneficio dei jockey stranieri), il Presidente storico dell'Alfea Harry Bracci Torsi (vincitore anche del G.P.Merano con Chivas Regal), Federico Regoli, Enrico Camici, Silvio Parravani, Peo Perlanti e altri.

Al centro del tutto c'è il quartiere di Barbaricina, fondato dagli inglesi e costruito in funzione dei cavalli tanto da beneficiare, al tempo, del nome de Il Paese dei Cavalli (che è anche il titolo di un altro libro dedicato da Castelli a San Rossore). Tutto nasce nel 1829 con la realizzazione della pista disegnata da Leopoldo II di Lorena, per dar inizio a una serie di sfide ufficiose tra benestanti inglesi, su cui si scommettevano importanti somme. Solo nel 1854 però fu organizzata la prima riunione ufficiale di corse (due riunioni l'anno), sotto il patrocinio del Duca d'Aosta, andando avanti, un po' a corrente alternata, fino al 1885, anno di istituzione della I edizione del Premio Pisa. La corsa si svolse in un clima non di grande interesse, anche perché il pubblico elitario era interessato soprattutto al Pr.Serchio che si correva lo stesso giorno, con montepremi superiore e spettacolarità maggiore dato che i concorrenti erano chiamati a saltare una serie di ostacoli in una primordiale edizione di una corsa in siepi. 
Non ancora reputato classica, peraltro riservato ai cavalli di tre anni e oltre (dall'anno dopo correranno solo i tre anni) , sui 1.800 metri, con metà del montepremi realizzato grazie alle donazioni dei commercianti, il Pr. Pisa vide trionfare Rosenberg, che qualche mese dopo vincerà anche il Derby, montato da Walter Hemming da Liverpool.

Curiosa la quarta edizione, nel 1888, anno in cui a Whitechapel imperversava il misterioso killer poi denominato Jack lo Squartatore. Anche l'edizione del Pr.Pisa si tinse di thrilling. Lo starter invalidò la prima partenza, ma i concorrenti non sentirono il richiamo. Vinse Dario, ma la corsa fu annullata e lo starter richiamò i concorrenti per la seconda partenza. Non si presentarono in tre, tra cui il vincitore e il favorito. Vinse Filiberto del Principe Ottajano per le ire del pubblico che si scagliò contro lo starter, costringendolo a rifugiarsi in pineta fino a tarda sera. Roba che nemmeno al palio di Siena...
Il 1888 però fu anche l'anno in cui irruppe una figura determinante per l'ippica pisana: Il bresciano, da Chiari, Giacinto Fogliata. Polemista d'oc, laureato in veterinaria e grande appassionato di ippica. Fondò un giornale, Il Giornale di Ippologia, in cui attaccava tutti: allenatori (troppo antiquati), allevatori (per le importazioni sbagliate), veterinari (scarsa propensione all'aggiornamento), Jockey Club (penalizzava la pista) e adottò un atteggiamento di favore verso i fantini locali. Nel 1891 fondò l'Alfea organizzando corse in parallelo all'altra società presente, entrando presto in polemica anche con la stessa, perché poco lungimirante e poco propensa alle innovazioni. Fogliata è preso dall'ossessione di trasformare Barbaricina in una nuova Newmarket, non riuscirà nel suo intento anche perché morirà troppo presto.

Intanto nel 1909 Pisa conobbe un allenatore-allevatore che farà la storia dell'ippica: Federico Tesio, fondatore della Razza Dormello Olgiata. Il piemontese si aggiudicò la 22° edizione del Premio, dopo le tre pause del 1899, 1900 e 1901, con Angelica Kauffman. Sarà lui il vero dominatore della classica vincendola 15 volte (proseguirà poi la Razza Dormello Olgiata). Castelli riporta uno stralcio dell'intervista fatta negli anni '60 a uno dei suoi fantini, Federico Regoli (che vinse la prima edizione sui 1.500 metri, nel 1917, in sella a Giampietrina), il quale rivela la ferocia dei metodi di allenamento di Tesio: "Tesio era di una severità che sfiorava la crudeltà. Dal lotto dei puledri pretendeva ogni anno di estrarre un campione e lo faceva sacrificando tutti gli altri in lavori severissimi. Se oggi usassimo quei metodi di selezione rimarremmo senza cavalli già a marzo... Lui era qualcosa di diverso da un allenatore, nessuno potrà mai essere come lui. Si interessava di astrologia, filosofia, botanica, perfino politica e poi applicava tutto nello studio del cavallo."

Seguirono le battaglie tra Polifemo Orsini, detto Briglia d'oro, e Federico Regoli, entrambi ingaggiati da Tesio. Ci fu anche la vittoria del fantino ungherese, Nagy, con Sigfrido nel 1922, anni in cui il Pisa calcio condotto da un altro ungherese (tra i primissimi a vivere a Tirrenia), Ging/King, perse la finale per aggiudicarsi il titolo di campione di Italia. Nel 1925, dopo il primo pari merito della storia del Premio, Pisa beneficiò dell'incremento delle giornate di corse che passarono da due a cinque riunioni. Vi furono poi i successi di Caprioli e della Razza del Soldo (il primo nel 1932 con Agrifoglio, bissato quattro anni dopo da Archidamia), rivale storica di Tesio.
I pisani videro inoltre in pista  anche Nearco, leggenda a quattro zampe della Razza Dormello, che corse in una corsa secondaria nel 1938, lasciando poi a un compagno di scuderia, Gabbro con Gubellini, l'onore di aggiudicarsi l'edizione del Pr.Pisa dell'anno. Le cinque edizioni che seguirono, in un clima da guerra, furono una lotta tra la Razza del Soldo e Santa Lucia. Nel 1942 venne introdotta per la prima volta la scommessa accoppiata, nonostante i tre soli partenti; vinse Arco. L'edizione del 1943, l'ultima prima dell'interruzione e dei bombardamenti sulla città, fu testimone della lite furibonda tra Pandolfi (che vinse) e Caprioli, con frustate tra i due e scazzottata che costrinse i commissari a intervenire e a placarsi solo dopo l'intervento dei gerarchi del regime.

Dopo tre anni di interruzione si ritornò a correre nel 1947. Nuovi fantini, sempre del posto, divennero protagonisti. Su tutti Roberto Renzoni (che si aggiudicò le prime due edizioni) e soprattutto Silvio Parravani che vinse le quattro successive, facendo però la conoscenza, nell'ultima di queste vinta con Simon Mago, di due nuovi emergenti: Enrico Camici e Idalgo Gabbrielli, rispettivamente al secondo e terzo posto. Fu quest'ultimo a rompere l'egemonia del collega, in sella a Master, nel 1953, lasciando Parravani solo al terzo. Fu poi il turno di Enrico Camici, che diverrà il fantino di punta della Dormello Olgiata, nonché lo storico fantino di Ribot. Anche lui di Barbaricina, vincerà la sua prima edizione nel 1955 proprio col mostro, facendo quindi un filotto di cinque vittorie consecutive. Ne vincerà una sesta, con Rieti, nel 1965, dopo esser stato beffato di un muso l'anno prima da Tifone per i colori della mitica Scuderia Diamante (conosciuta anche in siepi) e da Kiev, della scuderia Aurora (autrice nell'anno prima quasi di uno storico en plein con cinque vittorie su sei, in una riunione di febbraio, con la sesta corsa persa di un muso per opera di un giovanissimo Gianfranco Dettori in sella ad Alfeo), un anno dopo. Si piazzerà terzo nelle tre successive edizioni, compresa quella dello scandalo del 1968 quando il Premio fu declassato ad handicap, suscitando le ire di Bracci Torsi che riuscì subito a convincere il Jockey Club a ripristinare il valore della corsa.

Negli anni '70, periodo di grandi trasformazioni strutturali delle infrastrutture pertinenziali alla pista, ci fu la beffa subita proprio di Bracci Torsi, il presidente dell'Alfea, che vide perdere il suo Pripjat (nome quest'oggi infausto essendo la città fantasma abbandonata dopo il disastro nucleare di Chernobyl), montato da Ferrari, a causa di un terrendo paludoso da cui emerse Diamant della scuderia Ignis. Quindi, nel 1971 e nel 1972, i successi di Weimar, ultimo grande cavallo della Scuderia Aurora (al uo terzo e ultimo Pr.Pisa), capace di imporsi in giro per l'Italia in una serie di classiche, e di Azzazel su Black Velvet, con la prima vittoria di un altro fantino pisano: Peo Perlanti.
L'edizione del '73 vide, curiosamente, in seconda posizione un cavallo di fatto omonimo dell'unico cavallo di famiglia che corse l'edizione, nel 1982, cioè Veratrum montato proprio da Peo Perlanti che poi vincerà l'edizione appena citata, quella del 1982 (in pista anche la leggenda inglese Lester Piggott), in sella a How to Go della Incolinx nell'unica edizione in cui un cavallo di famiglia prese parte alla corsa, peraltro con velleità di piazzamento, Veratro. Quest'ultimo, acquistato con uno stratagemma dalla scuderia Pacini che lo aveva affidato a Franco Scuro, scese in pista con i recentissimi colori di Tamara Garibaldi (prima aveva corso con quelli dell'allenatore Alvaro Beretta). Garibaldi prenderà parte ad altre due edizioni, arrivando ai margini del marcatore, con Grenoble e Delium, oltre che a tentare le siepi con Serum, figlio di Mattonaia (cavallina acquistata da Garibaldi all'asta ANAC di Settimio Milanese, perché passata per ultima e alquanto arzilla) e fratellastro di un cavallo nato da Stone: Keoma. La scuderia di famiglia proseguirà invece con altri colori, prendendo parte anche a una Coppa del Mare.


VERATRO al rientro vittorioso di un
Premio di preparazione al Pr. Pisa del 1982.
(Foto di archivio tra i ricordi di famiglia).

Tra gli altri successi si ricorda l'unico trionfo della Lady M (vincitrice anche del G.P.Merano) con Giadolino, nel 1976, quindi le vittorie dei futuri stalloni Capo Bon (padre di "paperino", cavallo di casa avuto nei primi anni '80, amante delle corse di testa e che a Firenze riuscì nell'impresa di sbagliare percorso), Stone e Isopach (quest'ultimo di proprietà dello straniero Hunt). Nel 1981, anno di nascita del sottoscritto, successo di una femmina: All Silk - Tutta Seta, della scuderia Andy Capp, quindi il flop clamoroso di My Top della Siba nel 1983 (vincerà poi il Derby di Roma), per la felicità della Razza La Tesa. La vera edizione del centenario, che non è quella di Capolago (che invece si aggiudicò la centesima edizione) di cui ricordo la foto sul traguardo esposta al Bagno Balena di Marina di Pisa (era il 1992, ricordo), fu vinta dal grigio Spegash (omaggio al mantovano volante, idolo delle siepi, Spegasso?) della Rencati su Sirlad Junior. Edizione thrilling l'anno successivo con la beffa per la Rencati che vide distanziare il suo Svelt a vantaggio dell'unico successo griffato Cieffedi, con South Thatch. Seguirono il doppio successo dei grigi, con la favola Genevien (cavallina, praticamente di scuderia, nata a seguito dalla disgrazia capitata alla madre Geni che fu sul punto di essere abbattuta) montata da Willy Carson e l'ultimo successo Dormello con Dordone (cavallo che ho visto correre anche io a Pisa). Quindi, nel 1989, vittoria per lo Sheikh Mohammed, vera e propria leggenda dell'ippica inglese, con Flight of Destiny.

Il volume si ferma qua, posso solo ricordare la prima edizione del Pr.Pisa a cui ho assistito ovvero quella del 1992, edizione speciale anche per i protagonisti coinvolti.  Ricordo una grande confusione, con un sacco di spettatori e ippodromo gremito come spesso capitava a Pisa (anche nelle corse della settimana). Arrivai in pista con una macchina fotografica spartana, credo di aver scattato una sola foto quel giorno. Mi venne detto: "Vedi quel fantino lì...? E' tra i più grandi al mondo..." Io presi la macchina fotografica e, spintonando a destra e a sinistra per farmi spazio al tondino, scattai la foto a quello che sarà il vincitore della corsa: lo straniero Worldwide, con in sella Gianfranco Dettori, definito dagli australiani "Il Mostro" e vincitore l'anno prima con Pian di Caiano. Ricordo la dirittura di arrivo tra Worldwide e That'll Be The Day, con in sella a quest'ultimo un giovanissimo Frankie Dettori, figlio dell'altro Dettori e capace di diventare una leggenda più del padre pochi anni dopo. I due lottarono davanti a un altro straniero, che poi sarebbe diventato uno specialista dei Cross-Country, Improvement (finirà nella scuderia della M.G. Manzione). Purtroppo non scattai la foto a Frankie Dettori, peccato... resto comunque molto affezionato a quella che scattai, senz'altro la migliore tra quelle che feci all'epoca insieme a una scattata a Willy Carson su Priner Italic (leggendario finale tra lui e Lester Piggot nella più famosa edizione del Derby di Epson che vide contrapposti Roberto e Rheingold).

WORLDWIDE vincitore dell'edizione del 1992 con in sella
Gianfranco Dettori.
(Foto di Matteo Mancini).

Un'altra edizione che vidi fu quella del 1995, vinta da un altro straniero: Sharpest Image di cui ricordo un posteriore e una muscolatura enorme, quasi doppia rispetto a quella degli altri (Riccardo Menichetti avrà in allenamento un altro cavallo con questo nome, dunque doppio anche dal punto di vista della nomenclatura). Vinse di una testa su Blue Risky. Fui altresì presente nel 1998 dove ricordo Le Revolte, acquistato all'estero, al debutto in Italia per i colori Briantea. Concluse terzo, alle spalle del solito straniero (quando venivo io vincevano tutti gli ospiti esteri, segno però che le edizioni erano internazionali e forse, anche per questo, tra le più importanti di tutta la storia del Premio) Timekeeper, secondo Deep Sea con Frankie Dettori, quarto un altro straniero, che non ha a che fare con Stephen King nonostante il nome: Night Flyer. In quella edizione corse anche Delium del ricordato Garibaldi (acquistato per caso perché presentato insieme ai cavalli allevati dal signor Tognetti che Garibaldi comprò in blocco), che ho visto per l'ultima volta in una festa di famiglia a Marina di Pisa, di ritorno da Santa Margherita Ligure, quando avrei dovuto debuttare in una partita di Coppa Italia tra due squadre di serie B di calcio a 5 (rimasi in panchina invece).

Questi i ricordi personali per un articolo che è un po' recensione di un volume che forse meriterebbe un completamento stante i quasi trent'anni trascorsi dalla sua uscita, che a me sembrano pochi perché ricordo come ieri le corse sopracitate, un po' un resoconto storico sui vincitori delle varie edizioni e un po' memoriale personali con almeno una dozzina di aneddoti non riportati.

L'acquisto del volume è consigliato agli amanti di ippica, ma riuscirete a trovarlo...?

Rimando all'articolo pubblicato al link sotto riportato per le statistiche e gli aneddoti, curati proprio dall'autore del volume in questione.

http://www.sanrossore.it/sanrossore/pdf/Paese_dei_Cavalli_6_1.pdf

I protagonisti dell'Edizione del 1982 in cui corse VERATRO,
sulla sinistra sembra esserci una coppia FAVERO, il secondo,
con giubba a scacchi bianco-rossa, giubba Magog con berretto diverso,
è LESTER PIGGOTT.
(Foto presa da LE CENTO CORSE, ricordo di famiglia).

venerdì 13 marzo 2015

Recensione Narrativa: IL NUMERO UNO di Hans Ruesch.


Autore: Hans Ruesch.
Anno: 1938.
Genere: Romanzo sportivo (Sport-Roman).
Editore: Fucina
Pagine: 240.
Prezzo: 16,00 euro.

Commento di Matteo Mancini
Autentica perla nell'ambito della narrativa legata al mondo dello sport e, più specificatamente, dell'automobilismo.  Si tratta probabilmente del miglior romanzo in assoluto legato al mondo dei piloti pionieri, ovvero i protagonisti della c.d. epoca d'oro dell'automobilismo, quando il mitico Tazio Nuvolari realizzava magie pazzesche (tipo guidare con una chiave inglese al posto del volante danneggiato) per batttere gli avveneristici mezzi tedeschi dell'Auto Union e della Mercedes affidati ad assi come Rudolf Caracciola, Berndt Rosemeyer, Richard Seaman e Achille Varzi.
Il testo, pur non risentendo dei decenni trascorsi, ha quasi ottanta anni sulle spalle, ma nonostante la sua eccelsa qualità era caduto in un oblio riconducibile a un ostracismo che, per motivi politici e di impegno sociale, ha flagellato il suo autore. E' stato riportato in auge nel 2007 dalla piccola ma qualificatissima Fucina Editori di Milano, specializzata in saggistica legata al mondo delle competizioni motoristiche. La casa editrice, per mezzo di Luca Delli Carri, che ha curato un'interessante intervista all'autore (una sbobinatura dei due incontri), unita a impressioni personali e a una vera e propria recensione generale sulla produzione dell'autore, ha riacquistato i diritti dal diretto interessato in modo da far conoscere ai giovani un testo che ha saputo vendere, tra gli anni '40 e '50, qualcosa come un milione e mezzo di copie.
Ma chi è l'autore e come è nato il romanzo?


Il romanzo viene pubblicato nel 1938 in tedesco, col titolo Gladiatoren, e porta la firma di Hans Ruesch, un pilota svizzero nato a Napoli, che in quegli anni si diletta, da privatista indipendente, in competizioni motoristiche in giro per l'Europa.
Nato nel 1913 da genitori svizzeri, Ruesch ha due grandi passioni fin dalla nascita: lo sport e la scrittura. Fantastica da bimbo, complice una brutta frattura a una gamba, sui testi di Emilio Salgari. Li legge praticamente tutti, è un lettore instancabile il giovane Hans, tanto che viene presto spedito in collegio in Svizzera. E' costretto a imparare alla perfezione ben tre lingue (italiano, francesce, tedesco), a cui si aggiunge il latino, aspetto che in seguito lo aiuterà non poco. Si appassiona agli sport invernali, soprattutto al bob (ricorda in questo il Marchese De Portago, pilota spagnolo di origini irlandesi che si dilettò, oltre che in F1, anche nelle corse ippiche a ostacoli sfidando il percorso del Grand National di Aintree). Il suo talento è tale da portare la nazionale Svizzera a selezionarlo per le Olimpiadi di Garmisch del '36. La sua vera passione però sono le corse automobilistiche. Debutta giovanissimo, a diciannove anni, due giorni dopo il compleanno del sottoscritto (il 17 luglio). Acquista una MG, vettura inglese, e inizia con le gare in salita. Tenta in tutti i modi di entrare in una squadra ufficiale, ma la nazionalità svizzera (a cui non vorrà mai rinunciare a beneficio dell'italiana) lo frena non poco perché gli inibisce la possibilità di entrare nei team italiani. Le difficoltà però non lo fanno desistere, compra un Alfa Romeo e nel '33 partecipa alla Mille Miglia (lo farà altre due volte, ottenendo come miglior piazzamento un quarto posto), oltre che a numerose gare in salita e qualche gran premio (miglior risultato 3° posto nel GP di Norvegia nel '35 e primo nel Gp di Bucarest nel '37). Ottiene il primo grande risultato nell'ottobre del '33, quando realizza il record mondiale sul km con partenza da fermo, alla guida di una Maserati. L'apice della propria carriera di pilota, però, lo tocca nel 1936. E' in quest'anno che riesce a iscriversi al Gran Premio di Donington, grazie all'invito dell'asso inglese Richard Seaman (il pilota reputato più forte dell'Inghilterra dell'epoca). Seaman è in lotta serrata con una rivelazione, il cinese Bira, che rischia (a sorpresa) di soffiargli il campionato inglese, e sa che Ruesch ha da poco acquistato da Enzo Ferrari un vero bolide: l'Alfa Tipo C 8C-35, monoposto Grand Prix da 330 cavalli, con cui Nuvolari aveva vinto la Coppa Ciano nel 1935. I due si accordano per correre insieme il gran premio (all'epoca si poteva fare con punteggio dimezzato), condizione necessaria per permettere allo svizzero di correre. Ruesch domina la corsa con due minuti sugli inseguitori, poi lascia il mezzo a Seaman (uno che toglierà a Hitler la voglia di vedere le corse, vincendo il Gran Premio di Germania sotto gli occhi del dittatore) che controlla la situazione e artiglia i punti che gli permettono di vincere il titolo. E' un acuto a cui fanno seguito numerosi successi in giro per l'Europa (27 su circa 100 corse), ma Ruesch inizia a pensare alla carriera di scrittore. Nei tempi morti, nei box, prende i primi appunti di quello che diventerà Gladiatoren, ovvero il suo romanzo sul mondo delle corse ("Della prima gara in circuito alla quale ho partecipato ricordo che eravamo in sedici partecipanti. Di questi sedici, dodici sono morti in corsa nel corso degli anni. Noi, i vecchi, non consideriamo i piloti di oggi dei piloti, perché non abbiamo mai considerato le corse moderne delle vere corse."). Lo scrive in tedesco e lo ultima nel 1938, proprio quando chiude con le competizioni ed emigra negli Stati Uniti. Tornerà a correre nella riunione estiva del 1953, chiudendo definitivamente la carriera, dopo quattro uscite, a Merano a causa di un sinistro identico a quello in cui aveva perso la vita uno dei principali protagonisti di Gladiatoren. Quando si dice l'ironia del destino...

Copertina d'epoca de IL NUMERO UNO.

La scrittura lo porta a leggere in continuazione ("Scrivevo tutti i giorni, perché non si deve mai smettere di scrivere. Se uno non ha niente da scrivere deve scrivere lo stesso. Anche se non deve lavorare a un romanzo, anche se non deve scrivere un articolo, uno scrittore non deve mai stare fermo."). Conosce Remarque che gli suggerisce di approfondire la lettura di Hemingway e di Conrad, in risposta Reusch gli chiede una frase di promozione del suo primo romanzo, ma il tedesco è freddo e astioso: "Nemmeno per sogno. Io ho dovuto combattere in modo tremendo per trovare un editore, mentre se io scrivessi un complimento per te tutti vorrebbero pubblicare il tuo libro..." Remarque scriverà in seguito anche lui un romanzo sulle corse, Il Cielo non ha Preferenze, usando però tale mondo più da cornice di una storia tragica piuttosto che da spunto di riflessione sulla psicologia e sulla filosofia dei piloti (come invece aveva fatto Ruesch).
Nel 1940 il volume viene edito anche in Italia, da Garzanti, che lo pubblica col titolo I Gladiatori. Il vero successo però arriva col secondo romanzo, dal titolo profetico: Top of the World (Paese dalle Ombre Lunghe). Lo pubblica questa volta in inglese, a New York, e ottiene un successo così forte da scomodare Hollywood che acquista i diritti di entrambi i romanzi di Ruesch. Nel frattempo, I Gladiatori, viene distribuito da Ballantine anche in America col titolo The Racer (1953) e ristampato l'anno dopo, in Italia, col titolo con cui oggi lo conosciamo. Ruesch è al settimo cielo, frequenta Hollywood, diviene amico di Charlie Chaplin (testimonierà a favore del famoso attore, in un processo che lo vedrà coinvolto). Nel 1955 esce sui grandi schermi Destino sull'Asfalto con Kirk Douglas protagonista, primo kolossal di Hollywood sull'automobilismo. Subito seguito, nel 1959, da Ombre Bianche per l'interpretazione di Anthony Quinn.
Ruesch ce l'ha fatta. E' diventato uno scrittore di successo e inizia anche ad avere fama e denaro (grazie soprattutto alle trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi). Pubblica altri libri di un certo pregio commerciale e tutti di argomento diverso l'uno dall'altro, come Paese delle Ombre Corte (1959) e Partita di Caccia (1964), finché non decide di intraprendere una battaglia nobile che lo porterà al crollo e al boicottaggio da parte del mondo letterario, finendo isolato e ostaggio di una marea di processi in giro per l'Europa. All'insaputa dell'editore, la Rizzoli, nel 1976, da alle stampe un volume in cui attacca in modo deciso e circostanziato l'industria farmaceutica e la pratica della vivisezione animale. L'opera, L'Imperatrice Nuda, ottiene recensioni favorevoli e sarà considerata negli anni una pietra miliare del genere, ma non piace per nulla ai poteri forti. La stessa Rizzoli fa di tutto per boicottarla, perché fa venire i pruriti ai finanziatori dell'editore. Viene così ordita una campagna contro l'autore che lo porta al netto declino (in Stati che si professano Liberal-Democratici e non a Cuba, n.d.r.). Anche le precedenti opere, che pure avevano venduto anche tre milioni di copie, vengono quasi censurate, tolte dalle librerie e biblioteche. E' la triste punizione nei confronti di chi ha cercato di combattere per una giusta causa, una causa però tale da rischiare di determinare gravi danni economici a chi lucra a danno altrui. Ruesch avrà la soddisfazione di esser definito "la bandiera per chi lotta per i diritti degli animali" senza però ottenere appoggio da chi avrebbe potuto. Una gemma quasi nel deserto la sua, perché per gli altri risuona la classica e pragmatica riflessione: "Troppo rischio per un uomo solo", tanto per fare il verso a un famoso film, questa volta italiano, che, ironia della sorta, ha per protagonista proprio un pilota.

Luca Delli Carri che, in occasione della ristampa de Il Numero Uno, si è incaricato dell'onore di intervistare l'autore così lo ha definito: "Quando incontri gente come Ruesch è come trovarsi in mezzo al mare su una piccola barca, con un transatlantico che ti passa di fianco, sfiorandoti; rimani senza respiro, e la sensazione dura a lungo, per tutto il momento in cui la grossa nave passa; il cuore batte forte; solo poi torni a respirare, a vivere; non sai cosa, ma qualcosa di importante è appena successo nella tua vita." Parole che proiettano Ruesch in una dimensione che sa di immortale e che, alla luce di quel che si legge dalla storia di questo uomo, sono più che meritate. Un campione dello sport prima, poi affermatissimo autore che decide di rischiare tutto per un'ideologia nobile: la difesa degli animali contro pratiche, a suo dire (verosimilmente a ragione), inutili e prive di supporto scientifico, e dunque ipocrite, false, strumentali solo a fare cassa sulle sofferenze di esseri incapaci di difendersi. Quanto più di meschino non si potrebbe fare, specie se si è consci dell'inutilità degli esperimenti in questione. Dunque un uomo meritevole del massimo rispetto, un "condottiero" che non si è mai nascosto e che si è battuto proprio come i piloti di un tempo sapevano fare ogni volta che salivano su un bolide da competizione, con l'incertezza poi di potervi scendere tutti di un pezzo una volta ultimata la corsa..

L'opera censuratissima di RUESCH di cui lo stesso andava maggiormente fiero, 
ma che ne decretò il declino e la persecuzione processuale.

Gladiatoren, poi ribattezzato The Racer, è il romanzo di debutto di Hans Ruesch. Lo scrive a 25 anni, nei ritagli di tempo, ma piazza subito un piccolo grande capolavoro. Il volume, ristampato in Italia col titolo Il Numero Uno, ha come principale obiettivo l'introspezione nei diversi profili mentali dei piloti dell'epoca d'oro delle corse, ovvero del periodo ante guerra. Ruesch, da buon ex pilota, mette molto delle esperienze acquisite sul campo, evita ipocrisie e racconta il tutto con una vena melanconico-drammatica, a tratti cruda ma assai vicina alla realtà. Non a caso quasi tutti i personaggi che il lettore andrà a incontrare sono ispirati a personaggi reali, così come le auto menzionate sono proiezioni immaginifiche (nei nomi) delle principali case automobilistiche dell'epoca. Più che il soggetto, all'autore interessa caratterizzare l'ambiente delle corse (grande cura nella descrizione dei tracciati) e ancor di più la filosofia e la psicologia di uomini disposti al più grande dei sacrifici (la vita) pur di battere i rivali alla guida di proiettili viaggianti.
Il soggetto è orchestrato sula parabola, dapprima ascendente e poi discendente, di un pilota tedesco (Erwin Lester) che riesce a entrare in una squadra di vertice, la Gayer (altro non è che la Mercedes), dopo aver preso parte a svariate competizioni da privatista e aver digerito molti bocconi amari. Il giovane arriva quasi al punto di esser costretto ad abbandonare la carriera, in quanto impossibilitato a poter competere alla pari con i piloti dei team ufficiali e non ritenuto all'altezza per guidare una Burano (cioè la Ferrari). Ogni tentativo del tedesco, infatti, sarà respinto dal team principal italiano che finirà per ingaggiarlo solo come venditore. Solo l'improvviso ingresso nel circus delle corse di una nuova squadra con ambizioni di vertice, per giunta della stessa nazionalità del protagonista, permetterà a Lester di poter dimostare tutto il suo valore. E' il classico colpo di fortuna che capita solo a pochissimi eletti.

Ruesch parte subito forte, aprendo la storia con il duello tra il protagonista e il blasonato brasiliano Sandiego durante una Millemiglia. Prologo dunque colorato da tinte epiche, in virtù di una descrizione minuziosa delle modalità di svolgimento delle competizioni dell'epoca e dei trucchi, più o meno volontari, per sorprendere gli avversari (tipo guidare di notte a fari spenti). Ruesch è perfetto, lo aiuta il fatto di aver corso lui stesso in queste prove, e con un stile asciutto, mai banale, riesce a trasmettere persino i sapori e le sensazioni dei suoi protagonisti. L'analisi dello svizzero è profonda, sentita, mai smielata o condita di virtuosismi gratuiti. Le rinflessioni del suo protagonista sconfinano nella filosofia e sono rese con un lessico elegante da scrittore di razza. Dapprima è consumato dall'ansia di poter correre su una macchina vincente, sensazione amplificata dal passare infruttuoso degli anni, poi da quella di sbaragliare la concorrenza degli anziani compagni di squadra (raffigurati, a ragione, come degli ostacoli che soffocano il talento altrui) infine di controllare il successo trasformandosi lui stesso in uno di quegli anziani un tempo odiati. Calzante, a tal ragione, il seguente stralcio: "I giovani sono i migliori, sempre. Ma non hanno modo di provarlo. I vecchi si tengono solidamente aggrappati alla cima della montagna del successo, e dalla loro posizione possono facilmente respingere i giovani che ansimano ai loro piedi. I giovani hanno maggior diritto a quel posto, perché sono più forti e più bravi e più capaci; hanno tutte le carte in mano fuorché una: essi sono al disotto e i vecchi li possono tenere a distanza colpendoli a calci sul capo... Piloti più giovani e forse più capaci di me cercheranno di colmare la differenza tra la loro vettura e la mia a prezzo di un maggior rischio e talvolta pagheranno la loro temerarietà con la propria vita. Altri si ritireranno, amareggiati e delusi..."

Inevitabili i conflitti tra compagni di squadra, perché, come si suol dire, il primo rivale è sempre colui che dispone della stessa macchina poiché non si possono accampare scuse a giustificazione di un insuccesso. "La prima corsa era terminata e fra i quattro assi erano scoppiate le ostilità: ognuno contro tutti e tutti contro ognuno." Gli scontri saranno tanto duri da far sbottare il titolare della Gayer che vuole invece vincere con una macchina, a prescindere da chi la guidi: "Io voglio una squadra disciplinata, altrimenti non so di che farmene. Sul principio ho lasciato che i miei piloti si combattessero fra loro, perché volevo che le nostre vetture venissero forzate al massimo; ma ora dobbiamo raccogliere il frutto delle nostre fatiche, ora abbiamo bisogno di vittorie, e non possiamo permetterci d'avere un campo diviso, con i membri che si bisticciano come tante prime donne... Dal nostro vivaio di principianti mi alleverò un pugno di piloti capaci che mi obbediranno come tante reclute e allora potrò mandare a spasso tutti i signori campioni".

Emergono così profili e strategie diverse, Ruesch elenca, utilizzando i vari personaggi, i diversi prototipi di pilota (quello pulito, quello che rischia tutto, lo spaccone, il calcolatore, il dandy, e via dicendo), ognuno con il suo cruccio particolare (esempio Dell'Oro, la caricatura di Nuvolari, indossa foulard giallo e pretende che gli si colorino i raggi delle ruote di giallo). La caratteristica pressoché costante che lega tutti questi soggetti è l'atteggiamento machiavellico, ciascun pilota è disposto a indurre in errore anche il compagno di squadra, talvolta a tradirlo, pur di vincere ("Nel nostro mestiere i grandi sono di solito poco amabili e poco amati. Chi vuole arrivare in alto deve aver voglia di battersi, e non di indietreggiare, nemmeno dinanzi al sangue: ne a quello dei rivali né al proprio."). Ne derivano personalità prive di amicizie, che hanno conoscenze solo perché sono campioni in pista e vincono gare. Individui che non guardano al futuro, a cui interessa poco costruire relazioni interpersonali perché sono abituati alla droga del successo, al bisogno della competizione e quindi dell'affermazione sull'altro. Per uomini del genere non esistono compromessi, c'è solo la voglia di emergere e di demolire i rivali per dimostare chi è il più abile alla guida. Così Lester risponde all'amarezza della moglie: «Non abbiamo amici, ma in compenso abbiamo molti nemici e questi valgono altrettanto. Anche i nemici pensano, parlano, sognano di noi, e probabilmente più spesso di quanto farebbero gli amici. Anche il luoro cuore batte più forte quando ci vedono; e anch'essi ci ricorderanno dopo che saremo morti.»

In tutto questo si inseriesce la relazione amorosa tra Lester e una giovane rampolla di una famiglia bene. Ruesch tratteggia le problematiche di un rapporto di questo tipo, evidenzia le sofferenze della donna che vede il proprio uomo scendere in pista temendo ogni volta che possa non farvi ritorno. Impossibile cambiare questi uomini, sebbene la donna tenti in tutti i modi di trasformare il proprio amore nella sua proiezione mentale ideale. Non mancano infatti scene di morte o infortuni talmente gravi da lasciare menomati i piloti, con le donne che soffrono accanto a loro o restano ghiacciate ai box colte da un terrore paralizzante. Lo stesso protagonista resterà coinvolto in uno schianto che lo costringerà a camminare sostenendosi a un bastone (l'ispirazione è Rudolf Caracciola). In tutto questo si inserisce la volontà del pilota di razza di non farsi una famiglia, perché avere figli comporta delle responsabilità e questo incide sull'atteggiamento mentale, contaminando l'estro di pazzia di cui un corridore non può fare a meno: "qualsiasi affetto o senso di responsabilità è deleterio in questo mestiere. E se poi nascono figli? Allora ci si preoccupa per la loro sicurezza più che della propria carriera, e quando un corridore comincia a temere per la propria pelle, è giunto il momento di cambiare mestiere." E' la famosa civilizzazione di cui si parla anche in Rocky III, quando l'allenatore di Rocky cerca di convincerlo a ritirarsi perché ha smarrito la cattiveria agonistica (dote indispensabile per primeggiare, lo rimarca più volte anche Lester).

Le donne, in queste storie, non sono figure ornamentali, anzi... Hanno un'influenza importante sulla tranquillità dei propri uomini, addirittura dimostrano di avere un carattere più forte, persino prevalente tanto da spingere i compagni, una volta lasciati, a meditare il suicidio spettacolare in gara. E' proprio la donna (non solo la compagna del protagonista, ma anche altre figure femminili) a tenere vivi i compagni, a motivarli, a fungere da elemento portante, persino a comportarsi da procuratori andando a coinvincere il capo squadra con un temperamento in stile Adriana di Rocky Balboa.
"Ma crede che uomini del genere possano mai diventare autentici campioni?" chiede la moglie del protagonista al capo squadra che vorrebbe dei piloti soldato. "Ripensi un po' a tutti quelli con cui ha avuto a che fare e che erano veramente grandi! Crede che uno dei suoi giovincelli rispettosi rimarrà al volante quando la scatola del cambio si surriscalda e comincia a bruciargli i piedi? Che resisterà per ore e ore sempre con massimo rendimento quando la pioggia gli sferza la faccia come aghi e una pietra gli spezza un dente... E se un uomo ha da essere ostinato, ardito e prepotente sulla pista, egli sarà così sempre, e non soltanto quando glielo ordina lei! Herr Direktor, se lei si intendesse di creature umane quanto di macchine da corsa, allora sarebbe felice che mio marito sia come è: allora capirebbe ch'egli è fatto della stoffa degli assi! " Donne dunque forti che uniscono questa invidiabile dote caratteriale al fascino tipicamente femminile ma che, alla lunga, vengono a sentire la mancanza di quel romanticismo e di quella passione che simil soggetti, talvolta, non possono offrire perché legati a un futuro aleatorio e incerto, al bisogno di sfidare continuamente la morte e, in cuor loro, di morire da eroi in gara così da poter cristallizzare un mito che altrimenti finirebbe col ridemensionarsi al decorrere degli anni.
A differenza del film di Stallone, l'epilogo è triste, privo di speranze. L'amore di coppia si sgretola, per la freddezza di Lester che è diventato una macchina apatica che vince senza più entusiasmarsi e che non ha altre passioni al di fuori delle corse. La sua compagna si innamora di un emergente irlandese (costruito a immagine e somiglianza di Richard Seaman) compagno di squadra di Lester e che entra in forte competizione con lo stesso (sembra un po' ricordare la storia di Achille Varzi che soffiò la donna  a un collega). Finirà vittima di un incidente così grave da chiedere al rivale, una volta ricoverato in ospedale, di sopprimerlo perché non potrà più avere una vita normale. Ruesch, velatamente, piazza così un ottimo e avveneristico spunto anche sull'eutanasia. Lester intanto medita, a sua volta, il suicidio, perché non accetta la separazione e si accorge solo adesso di quanto una forte figura femminile sia importante. Il finale rimane ambiguo, ma non promette niente di buono...

Il Numero Uno, nonostante l'ambientazione di metà anni '30, è un romanzo che non risente degli anni, ben sviluppato e che può essere letto, per gli spunti psicologici e filosofici, anche da chi non è interessato agli sport dei motori. Davvero una prova eccelsa che la Fucina Editore ha fatto assai bene a rispolverare dall'oblio. Assolutamente consigliato l'acquisto. Perla.

La locandina della trasposizione cinematografica de IL NUMERO UNO.


"I libri ci accompagnano nella nostra vita, come fossero degli amici dei quali di tanto in tanto ci ricordiamo e ai quali pensiamo, con affetto, magari sfruttandoli anche, per una citazione, o per sostenerci in un momento difficile. Sono niente, eppure possono diventare tutto" (Hans Ruesch).