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venerdì 15 gennaio 2016

Recensione Narrativa: IL RITRATTO DI DORIAN GRAY di Oscar Wilde



Autore: Oscar Wilde.
Genere: Fantastico/Drammatico.
Anno: 1890.
Pagine: 150.

Commento di Matteo Mancini.
Manifesto del decadentismo, un po' sulla scia delle opere di Huysmans, che non necessita presentazioni, un caposaldo della narrativa britannica capace di suscitare un'infinita serie di polemiche al momento della sua uscita nell'ipocrita e perbenista società vittoriana. "L'arte è indipendente dalla morale" cercherà di giustificarsi Dorian Gray/Oscar Wilde dalle accuse che gli vengon mosse contro, come se la sua vita, per il resto, fosse irreprensibile. All'epoca l'autore ha già trentasei anni, è un apprezzato commediografo e celebre poeta irlandese (è nato a Dublino), ma soprattutto è conosciuto per le sue pose provocanti da esibizionista, le battute sempre pronte e spiritose nonché il fare da dandy che andava a osteggiare in giro per Londra e anche all'estero, Italia e Stati Uniti compresi. E' un animale da salotto, coltissimo, sa un po' di tutto, ma soprattutto ha grande dialettica ed è un instancabile oratore scevro da preconcetti e spesso controcorrente con la morale dell'epoca. Sostiene con forza la necessità del bello, si nomina quale leader del movimento esteta ponendosi come emblema anticonformista e antiborghese, a evidenziare il proprio netto distacco dal materialismo e dall'utilitarsimo che domina la società. In altre parole va a suggerire, come farà in Italia D'Annunzio, che la vita di una persona deve essere come una vera e propria opera d'arte. Non è la vita a imitare l'arte, piuttosto quest'ultima a dare come risultato la vita. L'apparenza e il dominio dei sensi sono i pilastri di questa filosofia, finalizzati alla ricerca del piacere, al godersi le proprie ricchezze sfiorando la dissolutezza e poco importandosi del futuro, del calcolo. "L'arte deve essere fine a sé stessa, non ha intenti morali, religiosi o didattici." Wilde afferma che il mondo è alla stregua di un palcoscenico dove ogni persona deve mirare a ricoprire il ruolo di protagonista. 
Il vignettista Punch lo tratteggia con verve ironica per giocare sul suo gusto estetico, sulla sua ricercatezza nel vestire e su quella autoironia che lo porta a definirsi "un genio" e a darsi una serie di titoli altisonanti. Scrive recensioni e saggi su opere teatrali e poesie, senza dimenticare l'umorismo che lo caratterizza e che usa per rendere briosi i suoi scritti, finché nel 1888 da alle stampe una raccolta di fiabe e racconti. E' in questi anni che la produzione di Wilde diventa fitta, inizia a scrivere romanzi, drammi, racconti e saggi e riscuote subito gran successo.
Il suo spirito libero e il suo fare divertito e divertente, spesso cadenzato da espressioni paradossali (celebre il suo Posso resistere a tutto ma non alle tentazioni) che necessitano un'intelligenza attiva in chi l'ascolta, iniziano però a ruotargli contro. "L'arte non deve rendersi popolare per farsi meglio comprendere, è il popolo che deve diventare artistico!" I recensori però prendono a ignorarlo, perché non gli perdonano i modi altezzosi e impertinenti, mentre chi gli sta intorno inizia a vederlo come un giullare, inoltre lo sperimentalismo di Wilde porta il poeta a intraprendere vie sessuali all'epoca sanzionate dal codice penale. Finisce così sottogiudizio per reati contro natura (tra cui la sodomia) e viene condannato a due anni di lavori forzati, ironia della sorta ad attivare la via giudiziale era stato proprio lui che si riteneva offeso da certe voci sul suo conto mosse dal padre del suo fidanzato di fatto. La condanna ha risvolti pesanti, perché su Wilde cade la tanto attesa ignominia che comporta il ritiro di tutti i suoi spettacoli e opere. Dichiarato insolvete, Wilde subisce anche l'onta di non vedere più i propri figli, spediti all'estero e costretti a cambiare il cognome. Il popolo la prende bene, addirittura festeggia, soddisfatto nel vedere cadere nella polvere un tipo come Wilde. Quando il poeta esce dal carcere, ormai povero e abbandonato, si trasferisce nella città dell'anello d'ostacoli di Dieppe, ma passa di città in città per tre ulteriori anni, sotto lo pseudonimo di Sebastian Melmoth (in onore allo zio materno Maturin e al suo famoso romanzo gotico), ormai privato della carica emotiva che lo aveva da sempre caratterizzato. Muore nel 1900 per i postumi di un'operazione all'orecchio e suona un po' da beffa per un purista dei sensi come lui, nato grazie  all'impegno di un celebre oculista (suo padre era un rinomato dottore specializzato in questa branca), va beh le accuse per il poco tatto e il gusto discutibile, però ci pare davvero troppo e per favore non chiamate in causa l'olfatto, perché potreste offendere i canoni della bellezza mettendo in dubbio la perfezione del naso e come sapete, o meglio dovreste, ciò è prerogativa della sola pazza penna di Gogol, uno che con i Ritratti e le recensioni accomodanti, insomma, ci siam capiti...


Una vignetta di PUNCH.

E allora vediamo di addentrarci in questo The Picture of Dorian Gray, romanzo breve datato 1890 subito additato come immorale dai ben pensanti dell'epoca per la sua apparente valenza da promotore e ispiratore di vite dissolute. Un atteggiamento quest'ultimo che costrinse, o quanto meno spinse, Oscar Wilde a scrivere nel 1891 una prefazione alla propria opera per difendersi dalle accuse. Difesa senz'altro condividisibile soprattutto alla luce di un'attenta analisi dell'elaborato che, come cercheremo di spiegare, può essere interpretato in chiave diametralmente opposta rispetto a quella colta in prima analisi e che si sintetizza in questa massima di Sir Henry, il maestro di Gray: "Se reprimiamo i nostri desideri ci riduciamo a orribili marionette, ossessionate dal ricordo delle passioni delle quali avevamo troppa paura e delle forti emozioni a cui non avemmo il coraggio di abbandonarci" da qui la liberazione totale a ogni desiderio e tentazione come viatico per esorcizzare rimorsi e frustrazioni.

La storia è ben nota a tutti, grazie anche alle numerose trasposizioni cinematografiche che si sono evolute nel corso degli anni. Basti pensare che risale al 1910 il primo approdo al mondo del cinema, addirittura per mano di un regista danese, seguito da versioni americane, russe, tedesche e ungheresi uscite con uno scarto inferiore a dieci anni dal capostipite. Negli anni '70 usciranno la versione italiana, a cura di Massimo Dallamano con Il Dio Chiamato Dorian (1974), e addirittura una versione spagnola in chiave femminile (Doriana Gray), dall'alto contenuto erotico, firmata dal maestro del cinema a luci rosse Jess Franco. Ancora oggi persistono a uscire nuovi adattamenti che hanno coinvolto persino il mondo dei fumetti, per non parlare degli sceneggiati televisivi e degli omaggi musicali. Un background che ha trasformato il personaggio nato dalla penna di Oscar Wilde in un vero e proprio divo, un destino che forse neppure l'autore avrebbe mai potuto immaginare.

La trama è piuttosto semplice, strumentale alla volontà di Wilde di tracciare un manifesto di un edonismo decadente, elitario e maledetto. Tutto parte da un pensiero del protagonista, un giovane e illibato ragazzo di origini nobiliari a cui un pittore di talento, ma incapace di esternarlo, confeziona un autoritratto che sarà il capolavoro dannato di una carriera insulsa. Vedendo l'opera completata, il giovane sarà colto dalla tristezza, un sentimento dettato dall'abile e sentito lavoro dell'artista che ha visto in Gray un eccezionale fonte di ispirazione al punto da trasferirne l'anima su tela. «Che tristezza! Io diventerò vecchio, orribile, spaventoso, ma questo ritratto rimarrà sempre giovane. Non sarà mai più vecchio di quel che non sia in questo particolare giorno di giugno... Oh, se fosse il contrario! Se fossi io a restare sempre giovane e il ritratto a invecchiare! Per questo... darei qualsiasi cosa... darei persino l'anima!» Così il giovane Dorian Gray invoca una transazione che si materializza, ma senza intervento divino o maligno, quanto meno all'apparenza. Non c'è un vero e proprio patto diabolico di faustiniana memoria, si verifica e basta. Così Dorian Gray vive la sua vita mantenendo la gioventù nel fisico e nei modi, mentre il ritratto si deriora, si trasforma, non dico invecchia poiché la definizione più corretta è legata a un termine che si avvicina alla corruzione etico/morale. Il ritratto infatti va ad assumere il ruolo di specchio dell'anima, mostrando, a ogni cattiveria messa in atto dal protagonista, il deturpamento di quella perfezione che ne rappresentava l'innocenza iniziale. "Per ogni peccato commesso una macchia ne avrebbe insozzato e deturpato la bellezza. Il ritratto avrebbe costituito l'emblema della coscienza". Dorian Gray se ne rende conto presto, nasconde l'opera d'arte in soffitta, la tiene coperta perché se ne vergogna, dimostrandosi quanto mai ipocrita. Giura più volte a sé stesso di cambiare atteggiamenti, di voler esser buono, ma si tratta di sentimenti non di vero pentimento piuttosto di esternazioni di quell'egoismo che costituisce la caratteristica principale del personaggio, sfoghi dettati dalla paura di non salvarsi al cospetto di un eventuale qualcuno che sta in alto, di Dio forse, senza però volerne ammettere l'esistenza. E così, poco a poco, guidato da un mentore luciferino (nell'accezione "pura" del termine) che fa dell'edonismo una scuola di vita (una sorta di dotto Lucignolo della fiaba di Pinocchio), Gray prende la via della perdizione morale a cui però corrisponde l'ascesa in quella sociale. Un'ascesa comunque che ha il suo prezzo da pagare sull'altare del giudizio altrui. Dorian Gray è un amante dell'arte al punto da reputare che la vita stessa debba trasformarsi in un'opera d'arte, un'opera che deve tendere al bello superficiale senza scopi d'ascensione o di profondità intellettuale di rilievo socio-culturale. La forma sulla sostanza, l'apparenza sui contenuti. "Lo scopo della vita deve essere il piacere dei sensi... Soltanto le persone superficiali non giudicano dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l'invisibile". Un modo di vivere che porta all'autodistruzione, alla perdita delle vere amicizie, addirittura all'incapacità di amare e al non credere a una vita oltre la morte. Dorian Gray non ama le persone, piuttosto quello che rappresentano. E' un cinico narcisista che non si dona mai agli altri, anzi pretende l'esatto opposto in virtù di una superiorità artistica che egli pensa di personificare. E' questo il motivo per cui indurrà al suicidio l'unica donna da cui sia stato davvero rapito. Un'attricetta talentuosa disposta a rinunciare alla sua arte perché subordinata a quella che per lei è il vero scopo della vita, cioè l'amore. Una rivelazione che indurrà Gray a mollarla in asso, poiché innamorato delle doti artistiche della giovane e non del suo cuore. La sua reazione sarà talmente violenta da spezzare l'animo della giovinetta che deciderà di assumere un cocktail di barbiturici e congedarsi dalla vita, reputandosi responsabile della propria rovina. Così il mentore Henry convincerà Gray di non avere alcuna colpa per la morte della poveretta, rea di aver offeso l'arte con il suo atteggiamento: "Le donne apprezzano la crudeltà... Noi le abbiamo emancipate, ma esse son rimaste delle schiave in cerca di un padrone. Amano essere dominate." Gray arriva così ad apprezzare il gesto della giovane che ha sacrificato la sua vita per il perduto amore, un modo che vede come redenzione al precedente atteggiamento superficiale. Dunque se ne sente onorato più che rattristato, ne intravede un ruolo da eroina dannata la cui storia può essere ostentata nei salotti bene alla stregua di un dramma teatrale di rilievo shakesperiano.

Al cospetto della corruzione dell'anima.

Wilde infarcisce la narrazione di aforismi ed espressioni paradossali, ma soprattutto mette molto del suo modo di pensare, del suo stile di vita. In alcuni tratti si può giungere a sostenere che vi sia una sovrapposizione tra Gray e l'autore che sfiora l'autobiografia e che culminerà in un profetico destino infausto. Fin qui si potrebbe ben capire l'atteggiamento di presa di distanza messo in atto dalla critica dell'epoca, se non fosse che Wilde inserisce dei moniti, pone il suo "eroe decadente" sotto una cattiva luce. Mostra infatti, pur non narrandone i fatti, salvo l'assassinio del pittore autore del ritratto (ucciso da Gray perché ritenuto colpevole della maledizione che lo costringe ad ammirare, giorno dopo giorno, la lenta morte della sua anima), la costante deriva del protagonista, che finisce isolato ed evitato da buona parte di coloro che lo hanno consciuto poiché i suoi insegnamenti hanno portato alla perdizione i vari giovani che hanno deciso di seguirlo. "Sembra che i tuoi amici perdano ogni senso dell'onore, di bontà, di purezza. Tu hai instillato in loro la follia del piacere e se sono sprofondati nell'abisso sei tu che ce li hai condotti. Ce li hai condotti, eppure puoi sorridere" così lo accusa l'autore del ritratto, una sorta di grillo parlante, ovvero l'anima buona contrapposta al mentore responsabile di aver fatto nascere il germe del piacere nell'animo di Gray, un po' come la serpe che ha convinto i due ospiti dell'eden ad assaggiare la mela del peccato. Atteggiamenti che porteranno Gray a non accettare la verità delle cose, a non prendersi le sue responsabilità, ma a proiettarle sul pittore stesso reputandolo il vero responsabile della sua caduta negli inferi della perdizione. L'epilogo della storia costituisce ulteriore conferma, Gray crede, o forse spera, di liberarsi dalla realtà dei fatti, ovvero che è una persona malvagia, distruggendo il quadro come se questo gesto potesse cancellare l'onta dei suoi peccati e derimerne l'anima. Una decisione che porterà alla sua stessa morte, un po' come in William Wilson di Edgar Allan Poe. Una conclusione cruenta che fa de Il Ritratto di Dorian Gray un'opera tragica cadenzata da un inizio e da un epilogo che la pongono nell'ambito della narrativa fantastica, ma con una parte centrale che invece poco ha da spartire col fantastico, rientrando invece in quella corrente filosofico/esistenziale che è il decadentismo alla Huysmans, non a caso è direttamente citato il romanzo Controcorrente quale fonte di ispirazione.

Un romanzo dunque in cui l'autore, a differenza del protagonista, compie una redenzione con la distruzione dello stesso Gray. Quest'ultimo infatti capisce di aver sbagliato nella sua vita, comprende che l'anima e dunque la valenza di una vita ascetica non sono credenze religiose fini a loro stesse, ma sono "terribili realtà" come lui stesso cerca di spiegare al mentore ("L'anima può essere comperata, venduta, barattata; può essere avvelenata o resa perfetta. C'è un'anima in ciascuno di noi; lo so."). Passaggi questi ultimi che pongono Il Ritratto di Dorian Gray sotto una diversa lente che trasforma l'elaborato da immorale a morale, addirittura potremmo definirlo di interesse religioso e ascetico ovvero l'esatto contrario di quanto potrebbe sembrare a inizio testo, in un costante gioco alla ricerca del paradosso d'effetto che sembra costituire la croce e delizia dell'autore. Una via fatta di una discesa verso il piacere che assume però la valenza di una salita da percorrere con azioni e pensieri che si tramutano in un modo di vivere falso, che promette la bellezza come scopo cui tendere ma che conduce all'isolamento, alla pazzia e all'allontanamento delle persone che potrebbero ricondurre sulla retta via ovvero all'esatto contrario del valore ricercato che però diviene proprio la bellezza effettiva finale. Chiarificatore di questa ascesa/discesa è quel "viso avvizzito, rugoso, repellente" che costituisce il risultato perseguito alla fine dal cammino senza aver avuto niente di sostanzioso quale contropartita. Dunque una vita come fuga dal vero senso che sta alla base dell'esistenza verso mistificazioni del reale paragonabili ad ameni panorami degenerati dal menzoniero effetto delle droghe mortali. A tal riguardo è importante ed eloquente il passaggio del romanzo in cui Gray entra nella sala dei fumatori d'oppio, frequentazione finale per cercare di evadere da quella realtà che inizia a intravedere nella parte terminale dell'opera ovvero una realtà che risponde al nome di fallimento esistenziale. Come potremmo infatti definire il pensiero che Dorian Gray ha di sé stesso ormai giunto al cospetto della morte? "Sapeva di aver insozzato se stesso, di aver riempito di corruzione la propria mente e di orrore la propria fantasia; di aver esercitato un'influenza deleteria sugli altri e di aver provato in questo una gioia terribile; e sapeva che di tutte le vite che si erano incontrate con la sua, quella che aveva portato all'ignominia era la più bella e promettente. Ma tutto ciò era irreparabile? Non c'era nessuna speranza per lui?" Queste le domande che Oscar Wilde lascia ai lettori e a cui sarà egli stesso costretto a dover rispondere, vittima di un destino, in un certo senso, identico a quello del suo personaggio. Quello che di certo non è errato è rispondere con un'aforisma tanto caro all'autore: "La vita imita l'arte molto più di quanto l'arte non imiti la vita."