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sabato 25 aprile 2020

Racconto del 2020 di Matteo Mancini: FRATELLI DI ITALIA



Nel giorno del 25 aprile, festa di liberazione, pubblico un mio racconto scritto nel periodo del Corona Virus. Nel testo non parlo esplicitamente del virus per evitare di rendere obsoleto il testo una volta passato il periodo. A ogni modo il riferimento all'incubo che attananglia il mondo in questo perioro è piuttosto marcato.


FRATELLI D'ITALIA

di 

Matteo Mancini

Mi affaccio alla finestra, la mia ultima visuale sul mondo... un mondo lontano, alieno. Vorrei gridare che ci sono, che vivo ancora... ma le mie parole si disperderebbero in un vento freddo che sferza le nubi, facendole correre ignare di tutto e di tutti, nell'azzurro che incastona l'intero creato. Le vedo sorvolare lassù, in alto, indifferenti. Scivolano in quel cielo che sembra essersi dimenticato di noi. Noi, le creature predilette dal gran Dio, sconfitte da un nemico invisibile, che neppure si vede a occhio nudo. Un mostro da cui non siamo riusciti a difenderci, inebriati dalla nostra arroganza, dalla cura nella difesa del patrimonio piuttosto che della vita. Pensiamo sempre troppo tardi a quali siano i veri beni da difendere, poiché le posizioni di privilegio sono troni da cui è difficile discendere. Le cose che possediamo alle fine ci possiedono e ci conducono alla tomba con l'illusione di deliziarci.
Abbiamo violentato tutto per anni, deforestizzato i polmoni del mondo, sostituendo l'ossigeno con i veleni vomitati da ciminiere e tubi di scappamento e ora ne paghiamo le conseguenze. La ribellione della natura è stata imprevedibile, eppure in linea con i meccanismi che regolano la catena alimentare. Ha mutato un virus che colpiva le bestie per infettare la creatura ribelle che ha debellato il padreterno. Così è stato introdotto un nuovo competitore dell'uomo, un avversario contro il quale gli scienziati non sono stati capaci di vincere. Un essere non essere che muta di continuo forma, induce a pensare di esser stato debellato e poi ritorna più aggressivo di prima.
Che diavolo sta succedendo? È una prova che dobbiamo superare per ascendere a un'esistenza che rinnovi gli antichi valori, una lezione da assorbire a caro prezzo oppure l'inizio della fine su cui i nostri pastori ci hanno sempre voluto tenere desti.
A mio avviso è la condanna alla nostra superbia. Una di quelle piaghe uscite dalla Bibbia che pende dalla mensola sotto la quale prego ogni notte prima di andare a letto, dopo essermi affacciata sull'uscio, oltre il quale mio figlio sogna un futuro che forse non potremmo mai dargli.
Sul tavolo c'è ancora l'ultima copia del quotidiano che ero solita leggere. Ora non escono più i giornali, tutto è fermo. La prima pagina mi ricorda la catastrofe. Milioni di morti in tutto l'emisfero. Per giorni fuori hanno marciato i militari, scesi in campo a sostituire le decimate forze di polizia. Gli ordini in corso sono tanto dolorosi quanto inevitabili: sparare a vista contro ogni violatore dei precetti dettati dai decreti della Presidenza del consiglio. Ogni mattina, alle ore 11,00, un altoparlante applicato su un elicottero dell'aeronautica ricorda gli articoli e le punizioni per i trasgressori. La legge marziale ha debellato ogni diritto costituzionale. Siamo in guerra, una guerra mai affrontata dall'uomo. Una guerra nuova, una guerra batteriologica. Una situazione folle che ha portato alla decisione di oscurare tutti i canali e persino chiudere le comunicazioni internet. Il mondo e tutte le attività che lo riguardavano sono state sospese, forse interrotte per sempre. Siamo i protagonisti inattesi di una della pagine più importanti della storia del mondo. È come se la vita avesse subito una pausa, i giorni hanno perso il loro valore. Non esistono più festivi, né il sabato o la domenica. Ventiquattro ore sempre uguali che si rincorrono non più cadenzate dagli avvenimenti che erano soliti rendere più leggera la nostra attesa della morte. Il silenzio è la colonna sonora di questo spettacolo spettrale. La noia la fidata compagna.
Fuori non si vedono uomini. Gli animali selvatici hanno preso possesso di quanto un tempo ci apparteneva. Sulla strada cinghiali, volpi e daini corrono liberi, in un'inattesa vittoria sulla razza che li aveva soggiogati. In cielo, oltre poiane e gabbiani, volano droni che spiano movimenti sospetti da parte dei contravventori. Sono stati programmati in modo da trasmettere le coordinate dell'avvistamento, così da consentire alla pattuglia più vicina di individuare i disubbidienti e reprimerne con la forza la violazione. Uscire significa morire, se non per il nemico mondiale che ci attanaglia, per nostra stessa mano. Si può solo aprire la porta per prendere i sacchetti settimanali della spesa, pasti gentilmente offerti dallo Stato e consegnati dall'esercito. Per il resto si deve stare in casa, a impazzire in continui rimuginamenti mentali che si sgretolano al cospetto del grande mistero della vita.
Leggo di continuo i nomi di alcuni amici che ora non ci sono più. Me li sono appuntati in un'agenda, quando ancora era possibile informarsi. Non li incontrerò mai più, sebbene veda ancora qui davanti a me i loro sorrisi e ne oda le voci. Per ognuno ho un ricordo, un momento speso in comune. Tutto scorre, passa e se ne va. Sembrano le immagini di un film felice a cui un montatore privo di senno, pressato da un produttore a caccia di incassi, ha tagliato l'epilogo per inserirne un altro in balia dell'orrore. Siamo sul filo di un rasoio che minaccia di ridurci in brandelli. Cancelliamo i giorni che cadono da un calendario in vista dell'unico appuntamento rimasto.
L'assillo di veder riapparire sui monitor l'uomo di cui ormai noi tutti temiamo le parole mi consuma. Pur di esorcizzare il panico, mi rifiuto di accendere la televisione che trasmette vecchi film in sequenza. È un incubo che non finirà più, un gorgo da cui spero di liberarmi, insieme al mio piccolo che ora, nel sonno, corre felice tra i prati inseguendo con gli amici una palla su un campo di gioco.
Sono stanca, distrutta nel corpo e nella monte. Mi addormento con la testa affondata tra le braccia e nuoto nel mondo dei sogni, la dimensione ulteriore in cui tutto è possibile. Vengo rapita da Morfeo, trascinata da una mano invisibile che mi afferra e mi induce a danzare seguendo le note di un concerto di violini zigani. Sono leggera, libera. I miei piedi staccano dall'erba e sospesi mi sostengono a mezz'aria. Poesia e magia mi donano l'evasione che mi dona il lusso di non impazzire. È l'amore l'emozione che mi dona minuti che non seguono le logiche dettate dal moto del pianeta terra. Sono felice, aperta a quanto di bello la vita abbia da offrire, ancora portatrice delle tante aspettative che un'adolescente porta con sé. D'un tratto riapro le palpebre e di nuovo vedo il mondo. Il sole dilaga dalla finestra del mio salotto. Mi investe. Per un attimo sono cieca, finché in lontananza sento un rombo che diviene sempre più forte. I vetri iniziano a fremere, vibrano così forte che inizio a tremare.
Corro ad affacciarmi al portale che mi ricorda di essere nella realtà. È allora che li vedo. Il cuore mi balza in gola, le lacrime mi sgorgano dagli occhi. Chiamo a ripetizione il nome di mio figlio. Lo faccio in modo compulsivo. Le mie parole vengono però cancellate dal tuono che irrompe su tutto. Gli animali scappano impazziti sulla strada, li intravedo appena poiché la mia attenzione è rapita dalla triplice scia che intacca l'azzurro sovrastante. Una stella fatta dai colori verde, bianco e rosso si allarga in cielo. Sono fumogeni che proteggono la fonte del suono.
Esco di corsa sulla strada. Gli occhi mi bruciano dal pianto. Cerco l'abbraccio dei vicini, la condivisione del momento, ma non vedo nessuno.
Dai fumogeni fuoriescono sette aerei che piroettano e si capovolgono. Sono le frecce tricolore!
Guardo allora in direzione della città che si affaccia ai margini della campagna. L'aria, fresca, mi accarezza i capelli che, disciolti, si perdono nel vento. Solo ora mi accorgo, allo scemare del turbine scatenato dagli aerei, delle note che risuonano siderali. Dalle minuscole sagome degli stabili che si ergono nella desolazione risuona l'inno... l'inno della speranza. Un sorriso mi si allarga sulla faccia ed è allora che mi sento scuotere il braccio, mentre le labbra compongono il testo che fin da piccoli ci hanno insegnato. Siamo tutti fratelli d'Italia.
«Mamma... mamma... cosa faremo domani?»

«Sogneremo» sussurro, mentre sento scivolar via le mani del mio salvatore.

Aprile, 2020.

sabato 18 aprile 2020

Recensione Narrativa: LA TANA DEL SERPENTE BIANCO di Bram Stoker.



Autore: Bram Stoker.
Titolo Originale: The Lair of the White Worm.
Anno: 1911.
Genere: Horror.
Editore: Nero Press Edizioni, 2016.
Pagine: 254.
Prezzo: 10,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Testamento letterario di Abraham "Bram" Stoker che lo pubblica a Londra, corredato dalle illustrazioni di Pamela Colman Smith per la Rider and Son, un anno prima di morire, inseguendo quel successo ottenuto con Dracula (1897) e non più ripetuto. Lo scrittore irlandese vi giunge dopo aver pubblicato, a partire dal 1872, una serie di racconti fantastici di matrice grandguignolesca, tra cui il famoso Dracula's Guest (L'Ospite di Dracula), e altri dodici romanzi, molti dei quali di natura fantastica. Complice la morte dell'autore, ma anche di uno stile giudicato rozzo da più lettori, tra i quali gli scrittori Les Daniels ("stile goffo") e H.P. Lovecraft, che scrive nel suo L'Orrore Soprannaturale nella letteratura che Stoker "sciupa del tutto una magnifica idea con uno sviluppo dell'intreccio quasi infantile e una tecnica scadente", il romanzo subisce da parte della Foulsham & Company una serie di pesanti tagli, quantificabili in cento pagine, tanto da uscire nel 1925 in una versione fortemente rimaneggiata, destinata anche al mercato statunitense, con una riduzione dei capitoli dai quaranta originali a ventotto. Un'edizione che amplifica lo stato confusionario di cui era già investita la versione integrale, a causa soprattutto dei tagli praticati sul finale della storia, con cinque capitoli in meno degli undici previsti, così da rendere ancor più incoerente l'epilogo. Nonostante ciò la versione rimaneggiata soppianta, sul mercato, quella originale tanto da essere, per anni, l'unica disponibile persino in Inghilterra. Solo nel 1986 viene di nuovo ristampata, col titolo Dracula and The Lair of the White Worms, la versione pubblicata nel 1911 da Bram Stoker. Una situazione di caos che testimonia i problemi di un romanzo assai ampolloso apparso fin da subito bisognoso di scremature per potersi dire sufficientemente riuscito. Da sottolineare come il critico horror RS Hadji abbia inserito The Lair of the White Worm in dodicesima posizione nella classifica degli horror meno riusciti di sempre. Nonostante tutto The Lair of the White Worm, divenuto anche spunto per la realizzazione nel 1988 di una trasposizione cinematografica (sgangherata) affidata all'irriverente regista Ken Russell, è considerato, insieme a The Jewel of Seven Stars (Il Gioiello delle Sette Stelle, 1909), una delle opere più conosciute dello scrittore.

Edito anche come The Garden of the Evil, The Lair of the White Worm è un tardo romanzo gotico presentato per la prima volta al pubblico di lettori italiani, nel 1992, col titolo de La Tana del Verme Bianco per effetto di una traduzione di Alda Carrer realizzata per conto della Garden Editoriale e più in particolare per la collana Horror Story. Un ritardo di ottanta anni, stimolato dalla ripubblicazione in Inghilterra della versione integrale, idoneo a svegliare dall'oblio più editori, giusto per sfruttare il nome di Stoker associato al capolavoro Dracula, tanto da dar seguito ad altre quattro versioni edite in un arco temporale di ventidue anni. Escono infatti, a stretto giro di posta, le traduzioni di Rosa Russo per Fanucci Editore (1994) e di Franco Basso & Stefano Giusti per Mondadori (1995). Cinque anni dopo Giugliano cura una nuova versione per la Donzelli Editore imitato nel 2016 da Sergio Vivaldi per la Nero Press Edizioni, che confeziona un'economica edizione tascabile tuttora di agevole reperibilità.

La storia prende le mosse, un po' come Dracula, da leggende popolari, questa volta inglesi per poi perdersi in discussioni di matrice darwiniana che si dilungano senza alcun supporto scientifico. "Quando il mondo era giovane, esistevano mostri di dimensioni tali da poter vivere migliaia di anni. Alcuni di loro devono essersi sovrapposti all'età cristiana. Il loro intelletto potrebbe esser miglorato nel tempo. Se tale miglioramento sia veramente stato, se avessero persino sviluppato una forma anche rudimentale di pensiero, sarebbero le creature più pericolose mai vissute... Creature di questo tipo potrebbero aver perso qualcosa della propria grandezza, rimpicciolendosi, ma potrebbero esser cresciute in altri aspetti, come l'intelligenza. Potrebbero esser diventate umane, o qualcosa di simile."
Stoker attinge dichiaratamente dalla storia del "Serpente del Castello di Lambton" e da quella della "Donna-serpente di Bamborough. La leggenda narrava di un pescatore, infastidito per non esser riuscito a pescare alcunché, punito per aver proferito a voce alta bestemmie nei confronti di Dio. Un atteggiamento che lo aveva portato a dover combattere con un animale sconosciuto, dalla forma allungata, rimasto incagliato alla lenza della sua canna da pesca e successivamente liberato in un pozzo. Qui la bestia era cresciuta a dismisura fino a non esser più contenibile, tanto da esser in grado di avvolgere col suo corpo per tre volte un colle. Ferita da più cavalieri, il verme era stato capace di ricomporsi e solo lo scontro finale con chi lo aveva pescato ne determinò la morte.

Dal folklore Stoker trasla il suo soggetto collocandolo nell'ambito dell'aristocrazia del Derbyshire, caricandolo di un substrato misterico dove trovano spazio, pur restando sempre confinati in un sottofondo funzionale a creare atmosfera, il mesmerismo, le capacità ipnotiche e persino il voodoo. Un mix di classicismo gotico ed esoticità che promette molto bene, ma di cui Stoker non sembra intravederne le potenzialità. Invece di orientare la storia sull'azione e sulla figura del serpente bianco, l'autore appesantisce il tutto con una serie di intrighi amorosi che rendono il romanzo tutt'altro che moderno e che fungono da vero cuore della vicenda. Stoker amplifica la rete amorosa su cui già si era mosso in occasione di Dracula e, pur riducendone la carica erotica, propone una lunga serie di corteggiamenti, a volte incrociati e non sempre corrisposti, che riguardano un po' tutti i personaggi della storia. Inutile dire quanto il ritmo risenta di queste decisioni che allungano il narrato, tornando più volte su loro stesse.

La copertina di un'edizione straniera
pubblicata col titolo alternativo.

Protagonista è un giovane australiano di origini inglesi, che giunge nel territorio conincidente all'antica Mercia perché deve prendere possesso delle proprietà che uno zio è intenzionato a lasciargli in eredità. Qua si trova al centro di una serie di intrighi che coinvolgono un altro giovane uomo, di ritorno pure lui dall'estero per prendere possesso della più grande proprietà terriera della zona e per giunta confinante a quella dello zio del protagonista, e una vedova dai modi subdoli intenzionata ad accaparrarsi il nuovo venuto per assestare le decadute finanze di famiglia ("Questa è una donna con tutta la saggezza e l'intelligenza di una donna, unita alla spietatezza di una prostituta e alla testardaggine di una suffragetta. Ha la forza e l'impenetrabilità di un dinosauro. Non ci sarà spazio per la correttezza nella lotta che ci attende"). Nell'ambito di questo intrigo, che coinvolge anche due giovani cugine preda delle attenzioni dei nuovi arrivati, si alimentano gelosie funzionali a corrompere gli animi e a generare inamicizie. E' in questo ambito che prende sempre più piede la leggenda del serpente bianco. Una leggenda che qua si trasforma in un qualcosa che deborda dal folklore per prendere la via, ancor più inverosimile, di una sorta di licantropia o comunque assurda e ingiustificata evoluzione di specie.
La trama diviene confusionaria, molto ingenua, con i vari uomini e donne che si incontrano ripetitivamente nei salotti o nelle torri dei propri castelli sebbene non si sopportino e maledicano l'occasione. Qui si sfidano in lunghe sedute in cui, all'insegna di un'ipocrisia più sfrenata fatta da finte buone maniere e regole di bon ton, cercano di ipnotizzarsi o di resistere agli assalti mentali quasi come se si fosse in un gioco benedetto dal narcisismo e dall'egoismo personale.
Supportato da un vecchio consigliere, il protagonista si metterà a indagare insospettito dai modi della vedova. Questa infatti si muove con una agilità animale, ha un'avversione per le manguste che, non appena la vedono le saltano al collo, e, sfilando tra siepi e boschi, spia le mosse delle altre parti dando dimostrazione di essere nictalope. Di lei si innamora perdutamente il rozzo servo di colore dell'uomo che subisce la corte della donna senza esserne interessato; un individuo originario dell'Africa nera, capace di "odorare la morte" e di rendersi artefice di riti voodoo ma anche di biechi furti e scorrettezze di ogni sorta. L'africano reputa la vedova una Dea, ne intuisce qualcosa che sfugge agli altri, ma viene respinto con disprezzo e pagherà con a pelle questa sua passione. Stoker da ampia dimostrazione dell'epoca che fu, caricando di uno spiccato disvalore razziale l'uomo e riparando solo in parte con l'aggraziata descrizione della bellezza esotica della ragazza, anch'essa di colore, di cui si innamora il protagonista.
In questo clima di tranelli e agguati, inizia a diffondersi il sospetto che un'enorme creatura bianca serpentiforme dagli occhi verde smeraldo si aggiri nella zona. Il sospetto viene alimentato da una leggenda che grava proprio sulla proprietà della vedova, secondo cui, nascosto in un pozzo presente all'interno, si troverebbe il nascondiglio di un enorme essere antidiluviano simile a un serpente ed erede della fantastica stirpe dei draghi. Il sospetto assume sempre più la valenza della concretezza quando il protagonista e il suo consigliere intravedono di notte, sulle cime degli alberi, uno strano baluginio verde accompagnato da estensioni di bianco intenso e da un odore nauseabondo difficilmente comparabile ad altri olezzi. Un essere che finirà per braccarli anche in pieno oceano, nuotando in mare aperto tanto da esser confuso, da lontano, per una balena.
Anche quando il romanzo prende la via, per così dire, criptozoologica, Stoker finisce per rompere il pathos, tornando alle vicende amorose che riguardano i vari personaggi. In particolare insiste sulla figura del grande latifondista, che la vedova vorrebbe avere per sé, che viene sempre più preso, fino alla follia, dai suoi studi sul mesmerismo e sulle scienze occulte, venerando un aquilone dalla forma di falco che ha fatto issare sopra la propria terra per tenere lontani gli uccelli venuti in massa da ogni parte d'Inghilterra. Un individuo che finisce persino per citare le tentazioni bibliche cui Satana sottopose Dio e che, come ogni bestemmiatore, finirà travolto da un fulmine che distruggerà la sua onnipotenza ("Quando il Signore del male trasportò Lui in cima a una montagna e mostrò a Lui i regni della Terra, stava facendo quello che nessun altro pensava potesse fare. Si sbagliava. Si è dimenticato di Me. Vedrai. Ti invierò la luce così che tu possa vedere. La invierò fino ai bastioni del Paradiso.") unitamente alla sua proprietà e, al tempo stesso, al serpente. Una parte finale dove, nel pastone generale predisposto da Stoker, trovano spazio riferimenti esoterici allineati alla tradizione cristiana, quali quelli che associano la figura del drago-serpente a quella del demonio. Eppure Stoker sembra aver perduto il polso della situazione. Non sfrutta quanto la sua storia gli offre, ma procede imbabolato dai fatti narrati dando l'impressione di aver dato alle stampe un romanzo in fretta e furia senza sottoporlo ad adeguata supervisione mirata al dovuto perfezionamento dei tanti spunti dislocati lungo il testo.
Belle, pur se assai macabre, le descrizioni grandguignolesche, di cui Stoker aveva già dato ampia dimostrazione nei suoi validi racconti, che descrivono, con tocco pulp, la fine del serpente bianco. "L'interno aveva l'aspetto della battigia di un mare di sangue. Ognuna delle esplosioni dalle profondità aveva lanciato fuori dal pozzo, come  se fosse stata la bocca di un cannone, una massa di sangue mescolato a sabbia, insieme a una melma repellente, in mezzo alla quale si trovavano grandi pezzi rossi di carne e grasso strappati. Mentre le esplosioni continuavano, altri pezzi di carne repellente venivano lanciati in alto e la loro enorme massa ricadeva pesantemente al suolo... Molti frammenti tremavano, si dibattevano, si contorcevano come se stessero ancora subendo il loro supplizio..."

Questo il contenuto di un romanzo che continua a ricevere forti critiche, persino tacciato di contenuti razzisti, ma anche di ingenuità e di una scarsa verosimiglianza. Potremmo definire The Lair of the White Worm un ultimo e tardo esempio di romanzo gotico, ormai soppiantato dall'emergere di autori quali Arthur Machen, William Hope Hodgson e Matthew P. Shiel, legato al clima positivista di fine ottocento che qua, tuttavia, prende strade che vanno oltre ogni possibile evoluzione concepibile fino a giungere ad associare una donna a un serpente preistorico. Non manca chi, analizzando il romanzo, abbia collegato la figura del serpente bianco a un passato che deve essere eliminato, perché non più in linea con il progresso, così da tramutare il mostro in veicolo attraverso il quale proporre la lotta tra la moderna società e le forze oscurantiste del passato. E' per via di tale impostazione che il valore della ricchezza, individuata nel denaro e in quanto possa costituire fonte di reddito, assurge a emblema cui ambire nell'ottica di una promozione sociale vista quale unico fine della vita moderna. Non a caso la morte del serpente coincide con la scoperta di un giacimento minerario che farà la fortuna del protagonista. "La giusta ricompensa per chi agisce in grazia di Dio" commenta, con un pizzico di sana ironia, uno dei tanti rencensori che si trovano sulla rete. Una prospettiva di analisi che attribuisce quel quid in più a un romanzo troppo spesso liquidato quale pessimo esempio di narrativa e opera da dimenticare.

L'autore
BRAM STOKER

"Adam non aveva mai annusato niente del genere. Lo confrontava con tutti gli odori tossici di cui aveva esperienza: il drenaggio degli ospedali di guerra, dei mattatoi, i rifiuti delle sale di vivisezione. Niente di simile, mai, pur mantenendo qualcosa di ognuno di loro, con più l'asprezza dei rifiuti chimici e gli effluvi velenosi delle acque di sentina di una nave dove erano stati affogati dei ratti."

venerdì 10 aprile 2020

Recensione Saggi: RICCARDO PALETTI di Vittorio Gargiulo e Guido Schittone



Autori: Vittorio Gargiulo e Guido Schittone.
Genere: Saggio Sportivo.
Pagine: 80.
Prezzo: Fuori catalogo.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Volume memorialistico dedicato al giovane pilota di F1 Riccardo Paletti, scomparso nel 1982 nel corso del Gran Premio del Canada, a seguito del tamponamento della Ferrari di Didier Pironi.
Guido Schittone, inviato dal 1984 al 1989 di Autosprint nonché caporedattore del gruppo Mediaset settore motori e telecronista dei Gran Premi di Formula 1 trasmessi da Italia 1, guida un gruppo di autori in quello che vuol essere un volume memorialistico, a spiccata impronta fotografica, dedicato allo sfortunato Riccardo Paletti.
Pubblicato senza finalità di lucro (non è stato destinato al mercato editoriale) con una tiratura estremamente limitata, appena 1.200 copie, il volume si presenta quale vera  e propria primizia destinata a finire nelle biblioteca degli integralisti della formula 1.
Il testo ha una struttura suddivisa in tre capitoli per un totale di ottanta pagine e poco meno di 60.000 battute. Si apre con una breve introduzione sul pilota, cui segue il ricordo del padre e infine quello di svariate persone che lo hanno conosciuto. Non si sceglie la struttura del saggio convenzionale, ma si da il là a un volume che cerca la condivisione di ricordi nell'intento di destare emozioni e rinverdire momenti sfumati al decorrere del tempo, ma rimasti indelebili nei cuori e nella memoria delle persone che hanno conosciuto Riccardo.
Vengono così offerti dei flash, talvolta scollegati tra loro, da cui affiora la dolcezza, la sensibilità e la timidezza di un pilota forse atipico, vuoi per quegli occhialoni da vista che affioravano dal casco, vuoi per la compostezza e la folta chioma riccia che ne contraddistingueva la fisionomia. Ricordi di qualunque tipo. Da episodi maturati in pista, ai sogni rivelati a compagni di viaggio fino ai banali momenti privati, vissuti in un parco o in una palestra di karate, che caratterizzano la vita di ciascuno di noi. Episodi che coinvolgono nel progetto uomini del mestiere, quali il fondatore della Onyx (Mike Earle) squadra presso la quale Paletti si è distinto nella formule minori o il direttore sportivo dell'Osella (scuderia di F1 di Paletti) Gianfranco Palazzoli, ma anche giornalisti, compagni di scuola, insegnanti, colleghi di lavoro del padre e semplici amici. Il volume non si concentra sul Riccardo Paletti sportivo, né sulle cronache sportive o i risultati che lo hanno riguardato, né su un'analisi tecnica mirante a focalizzare l'attenzione sullo stile di guida del pilota. Il testo va oltre a tutto questo. Il Paletti di dominio pubblico viene scavalcato dal Paletti riservato e intimo. Il testo di Schittone, che si limita a fare il garante a una vera e propria antologia costiuita dai ricordi di molteplici co-autori, è un concentrato di brevi episodi che portano al centro dell'esame la natura umana dell'uomo pilota, i suoi sentimenti e la sua generosità, ma soprattutto la sua passione sfrenata per la velocità. "Mi ostino a cercare il successo al volante di un missile di F1, perché è ciò che di meglio so fare. Non cerco né soldi né gloria, ma cerco un mio posto nel mondo: forse è un po' colpa mia se ho imparato soltanto a guidare." Purtroppo Paletti, sebbene abbia conquistato l'olimpo che si era prefissato di scalare, vi è restato troppo poco, perdendo la vita tra le fiamme, in un sinistro all'apparenza banale, dopo poche centinaia di metri dal via e a pochi metri dalla madre giunta appositamente in pista per vederlo scattare per la prima volta dalla griglia di partenza di un gran premio di Formula 1.
La fortuna concede opportunità ma, al tempo stesso, è pronta a voltare le spalle e gettare nella polvere chi, poco prima, giocava sul velluto. E' la vita e le sue crudeli regole. Non possiamo che attenerci a questo, sperando in un disegno divino superiore che ristori di tutte le sofferenze patite in vita e trasformi in felicità ogni dolore che sfugge all'umana comprensione.

mercoledì 8 aprile 2020

Recensione Narrativa: LA BAMBINA CHE AMAVA TOM GORDON di Stephen King.



Autore: Stephen King.
Titolo OriginaleThe Girl Who Loved Tom Gordon.
Anno: 1999.
Genere:  Drammatico con elementi horror.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 300.
Prezzo: 9.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Opera minore nella produzione di Stephen King assai vicina, per tipologia di costruzione e sviluppo, a Il Gioco di Gerald. I due romanzi presentano molte analogie, a partire dal periodo in cui sono state scritti. King pubblica Il Gioco di Gerald nel 1992 dando seguito, sette anni dopo, a The Girl Who Loved Tom Gordon, a sua volta preceduto da otto romanzi e una raccolta. E' un King molto prolifico quello del periodo e la cosa si riflette nel testo. Alla stessa maniera de Il Gioco di Gerald, l'autore offre la sensazione di scrivere senza una bussola orientativa, lasciandosi prendere la mano nelle descrizioni scenografiche. Parte da un mero accadimento, una bambina che, stanca dei litigi tra il fratello e la madre, si perde in un bosco ai confini tra il Maine e il New Hampshire durante una gita fuori porta (dopo essersi appartata per fare la pipì), e porta avanti il tutto immaginandosi cosa potrebbe succedere. Da qui King immagina il vagare nel bosco, per giorni, della piccola protagonista, una bambina di nove anni infatuata del baseball e più in particolare del lanciatore Tom Gordon, asso dei Red Sox, da cui viene rapita per il vezzo di indicare il cielo prima che i compagni gli saltino addosso all'epilogo di ogni partita vinta.
Questo è La Bambina che Amava Tom Gordon, una disperata odissea in modalità point to point, tra le mille insidie che può offrire un bosco, tra paludi in cui si sprofonda, animali selvatici e nugoli di insetti che ronzano attorno alla testa e dispensano pinzi e punture. Se ne Il Gioco di Gerald King mostrava tutti i tentativi della protagonista nel liberarsi dalle manette che la serravano alla base del letto, qua descrive la lotta per la sopravvivenza della piccola Trisha, costretta a cibarsi di bacche, felci e frutti di bosco, abbeverandosi nei torrenti (con crampi e vomito a fungere da controindicazioni) per poter mantenere accesa la luce della vita. La piccola, invece di fermarsi in un dato punto del bosco, prende come punto di riferimento un ruscello e lo segue, soluzione che la porterà ad allontanarsi sempre più dal centro abitato. Da Il Gioco di Gerald arriva anche il riferimento al c.d. uomo nero pronto ad approfittare delle difficoltà del momento. Qua viene rappresentato da una strana creatura inizialmente assente, quindi vagamente percepita e poi sempre più pressante in vista del confronto finale. King utilizza i deliri dettati dalla febbre che, a poco a poco, investe la piccolina per sfumare e rendere più credibile "il mostro." Il suo "uomo nero" qua viene ad assumere le vesti di un orso percepito dalla protagonista quale creatura criptozoologica. Alcuni recensori hanno impropriamente associato tale essere al Wendigo, sebbene le due creature abbiano poco o nulla in comune. Laddove il wendigo si ricollega a una creatura di matrice divina collegata alla tradizione indiana, il mostro del romanzo ha poco di ultraterreno e molto invece di naturale. La percezione di essere un qualcosa di diverso è dovuta all'immaginazione infantile della piccola protagonista, peraltro vittima di una forte situazione di stress.

L'aspetto più interessante del romanzo è l'accenno che King fa all'affidamento al divino che persino il non credente tende a fare quando è travolto da circostanze che vanno oltre l'ordinario. Purtroppo si tratta di un mero cenno, senza troppo approfondire la questione. King percorre una via personale. Supera il concetto del Dio antropomorfo che benedice le sue creature con la sua compassione e la sua protezione, in favore di una soluzione più legata all'istinto naturalistico della sopravvivenza. Per tale via arriva a teorizzare l'esistenza del Subudibile. "Io non credo in nessun Dio veramente pensante che prenda nota della caduta di ogni uccello in Australia e ogni insetto in India, un Dio che registra tutti i nostri peccati in un librone d'oro e ci giudica quando moriamo... non voglio credere in un Dio che crei, volontariamente persone cattive e poi volontariamente le spedisca ad arrostire all'inferno che ha creato lui. Questo no... Credo piuttosto a una misteriosa forza insensata e rivolta al bene... La forza che evita agli adolescenti ubriachi di schiantarsi in automobile quando rientrano a casa dal ballo di fine anno o dal loro primo grande concerto rock... C'è qualcosa che ci impedisce di mollare anche quando vorremmo: il subudibile."
Ecco che il tema dell'essere superiore a cui rivolgersi funge quale ancora di salvezza della povera Trisha. Una speranza che procede di pari passo alle passioni. Trisha non perde infatti la passione per le cronache delle partite dei Red Sox, che ascolta grazie al walkman che ha con sé. La voce dei commentatori e le imprese dei propri paladini tengono in vita la piccola, offrendole l'illusione di mantenere un legame col mondo. Sono queste le colonne portanti della resistenza. Trisha immagina altresì di essere accompagnata da amici immaginari, tra i quali lo stesso Tom Gordon, che le suggeriscono le decisioni e, soprattutto, non la fanno sentire sola nella desolazione più estrema che può trasmettere la fitta boscaglia. 

L'apice del testo si raggiunge nella scena in cui Trisha immagina di incontrare, nel cuore del bosco, tre individui avvolti da sai che li rendono simili a sacerdoti. Il primo rappresenta il Dio di Tom Gordon, "quello che indica il cielo quando salva la partita", ed è il Dio onniscente proprio delle religioni convenzionali, un Dio che non può scendere in aiuto dei comuni mortali, perché ha troppo da fare. "Di regola non interviene nelle questioni umane, anche se è un appassionato di sport." Il secondo è il Subudibile, ma anche lui dichiara alla piccola Trisha di non poterla aiutare. Infine c'è il Dio dei Perduti, a differenza degli altri due ha sembianze meno rassicuranti e un volto costituito da "un grumo deforme di vespe che si arrampicano, l'una sull'altra, spingendosi a vicenda e ronzando." Questo Dio sembra quello ad avere più attenzioni nella vicenda, sebbene non si tratti di attenzioni protettive. King, per suo tramite, rappresenta la paura, il vero demone dell'uomo. Veicolata da creature e da situazioni sfavorevoli, la paura è un impulso esterno che agisce sulle corde emotive dell'uomo inducendolo ad assumere scelte comportamentali scellerate che portano  alla morte. La paura diviene allora il motore che determina la morte, ma non la mera causa di essa. La causa resta soggettiva ed è attribuibile alla scorretta gestione che ne fa colui che viene attinto dalla paura ovvero dalle insidie che la vita propone sul cammino di ognuno di noi. King invita prima a guardare dentro di noi stessi, se vogliamo confidare in un aiuto esterno e non fare viceversa. E' il vecchio proverbio dell'"aiutati che Dio ti aiuta." Trisha sconfiggerà il nemico non grazie all'intervento divino, ma al suo sangue freddo e alla sua determinazione nel non voler mollare mai. E' dunque un King che invita alla battaglia quello de La Bambina che Amava Tom Gordon, un King che ti dice di giocare la tua partita e di non farti prendere dalla disperazione, perché la tua unica chance di vittoria è la calma. Trisha si adatta all'ambiente, non si lascia piegare dallo sconforto e, dimostrando una maturità anni luce superiore a quella tipica dei bambini della sua tenera età, affronta faccia a faccia il nemico, evitando di dargli le spalle ed evidenziando così la codardia del male. Il male ti può nuocere solo se glielo consenti. Questa è la via attraverso la quale confidare nel successivo 'aiuto di un Dio superiore, un Dio che nella fattispecie si sostanzia nelle vesti di un cacciatore armato di fucile che giunge solo dopo che Trisha ha superato la prova. Il messaggio finale è estremamente ottimista e all'insegna dell'happy end caro alle major editoriali e cinematografiche americane.

In definitiva La Bambina che Amava Tom Gordon è un esercizio di stile, già praticato in precedenza da King in occasione de Il Gioco di Gerald (che gli è superiore), diluito in modo da evolvere da semplice racconto a romanzo breve. Denso di descrizioni e motivi anche di scarso interesse, promette di decollare ma non lo fa mai, tenendosi in uno stato di tensione continua che non cambia mai registro. Presenti alcune pennellate gore, con cervi decapitati e altri animali morti, ma alla fine resta una storia drammatica con vaghe reminescenze horror. A ogni modo King è sempre King e, alla fine, del buono si trova sempre. Di certo, è tra i romanzi di minor impatto, anche se lo potremmo definire un romanzo di formazione che segna il passaggio dall'adolescenza alla maturità.

STEPHEN KING
grande tifoso dei RED SOX
dedica il suo romanzo a un lanciatore della squadra del cuore.


"Io non credo in nessun Dio veramente pensante che prende nota della caduta di ogni uccello in Australia e ogni insetto in India, un Dio che registra tutti i nostri peccati in un librone d'oro e ci giudica quando moriamo... non voglio credere in un Dio che crei volontariamente persone cattive e poi volontariamente le spedisca ad arrostire nell'inferno che ha creato lui. Questo no. Però credo che ci debba essere qualcosa."