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martedì 26 giugno 2012

Recensione GIOVENTù CANNIBALE - AA.VV. a cura di Daniele Brolli



Autore: AA.VV.
Curatore: Daniele Brolli
Editore: Einaudi.
Anno: 1996
Pagine: 212
Prezzo: 11 euro.

Commento di Matteo Mancini
Antologia considerata da molti un cult della narrativa irriverente pulp italiana. Pubblicata nel 1996 a cura di Daniele Brolli e ripubblicata nel 2011 grazie all'enorme successo commerciale del progetto.
Per comprendere la portata di quanto appena affermato basta, a esempio, consultare il sito anobi.com. Sono ben 1546 gli utenti del sito che dichiarano di possedere il libro nella loro biblioteca. Addirittura 115 le recensioni, un numero enorme se paragonato ad altri libri del genere e se si considera la natura del libro: un'opera estrema, per pochi palati, infarcita di violenze e crudeltà spesso gratuite e che nulla hanno a che fare con l'horror.

Nel testo troviamo riuniti dieci autori all'epoca in rampa di lancio e oggi, alcuni di loro, affermati anche a livello internazionale. Tra essi Andrea G. Pinketts, Alda Teodorani, Daniele Luttazzi (in molti lo ricorderanno anche sulle reti RAI in veste di presentatore irriverente), Niccolò Ammaniti e Aldo Nove.

Il libro ebbe un impatto massmediatico talmente forte da dar vita a un vero e proprio fenomeno: quello degli scrittori cannibali. Per dirla in breve si tratta di scrittori che sposano un linguaggio spesso sporco, crudo, duro e senza ipocrisie di fondo (cadendo però talvolta nel gratuito, a mio avviso) che mutua e va ad amplificare lo stile degli autori pulp americani (anche il Chuck Palahniuk di Fight Club, romanzo coevo all'antologia) ricorrendo anche a soluzioni e sviluppi di impronta cinematografica che potremmo definire da bad boy (il riferimento più evidente va a Tarantino).

Devo essere sincero, nel suo complesso l'antologia mi ha deluso e neppure poco. Spesso (chiaramente è una mia opinione), si tratta di racconti con soggetti impersonali dove l'autore è più interessato a scioccare chi legge con crudeltà, splatter - a volte poco funzionale alla storia e buttato lì tanto per schifare chi legge – e storie che non hanno nulla da lasciare come messaggio al lettore se non quello di averlo disturbato per la loro follia terrena. Dunque niente tagli fantastici, ma orrore ordinario (da intendere quello che può avvenire davvero nelle nostre città) estremizzato al mille per mille disinteressandosi di attivare l'intelligenza dei fruitori del libro.

Come detto, tuttavia, non tutti i racconti sono così. Il più interessante, non però il migliore nel suo complesso, è il racconto Cose che io non so di Matteo Galiazzo, peraltro uno degli autori meno noti della compagnia.
Galiazzo propone un racconto che è più una riflessione filosofico-religioso-spirituale altamente irriverente e dissacrante che un vero e proprio elaborato creativo. Protagonista è una giovane ragazza, figlia di una coppia testimone di geova, che scrive lettere a un assassino incriminato per omicidio e stupro. La giovane è convinta che il malvivente sia l'alter ego di Gesù (!?). La donna infatti ha una sua teoria sulla creazione del mondo e sul mistero della vita, ed è una teoria senza dubbio originale e curiosa.
Dunque un racconto coraggioso e, in alcuni passaggi, di cattivissimo gusto (penso alla descrizione alternativa relativa alla morte di Gesù che l'autore immagina essere avvenuta non sulla croce ma con una modalità assai più tremenda e insostenibile per buona parte dei lettori) impreziosito da un tocco di ironia e soprattutto da un'impronta filosofico-spirituale personale (unico caso in tutta l'opera). Proprio quest'ultimo elemento fa della storia una delle poche da salvare dell'intera antologia, a prescindere dal condividere o meno certe scelte dell'autore. Dico questo perché alcune graffiature splatter e gore, a mio avviso, si rivelano eccessive e di cattivo gusto, per non dire fastidiose e poco rispettose.
Bene invece per la teoria di Galiazzo relativa a un universo non convenzionale e soprattutto alla genesi del mondo vista come un qualcosa di simile a un polmone che si espande per effetto dell'inspirazione di Dio. Il “polmone” sarebbe l'universo e tutto ciò che si crea durante la sua espansione sarebbe il resto (la vita, i mondi, le stelle). Giunto all'apice dell'espansione il polmone si ritrarrebbe determinando un processo inverso fino a tornare al punto di origine (cioè la fine del mondo). In questa seconda fase la storia si ripeterebbe ma rovesciata rispetto all'inizio.
Dunque un testo che è più una disquisizione filosofica che un vero e proprio racconto. Non c'è infatti una concatenazione di fatti, ma meri spunti e riflessioni con qualche flashback funzionale alla riflessione.

Se il racconto di Galiazzo è il più personale per il soggetto quello del grande burlone Andrea G. Pinketts lo è per lo stile farsesco e comico. Sebbene con un titolo orribile, Diamonds are for never, è il testo più divertente ed esilarante. Lo stesso Pinketts si diverte a scriverlo nello scegliere accuratamente i termini per fare continui giochi di parole. Il soggetto, tutt'altro che esaltante (seppur strutturato da maestri), ha una costruzione tarantiniana con più vicende che si intrecciano tra loro.
Abbiamo un suicida che si getta dal ponte di un'autostrada mandando inconsapevolmente all'aria il piano di fuga di un bandito che ha rubato ottanta diamanti a una banda di fratelli mafiosi. L'uomo, per sottrarsi dai due che lo vogliono uccidere, sta viaggiando su un bus organizzato per una gira fuori porta in cui viene promossa la vendita di un'affettatrice. L'obiettivo è quello di far scoppiare un incendio e sparire nel nulla con il bottino, ma il suicida del ponte innesca una serie di eventi tragici che coinvolgono anche una famiglia borghese strampalata.
I riferimenti a Tarantino emergono, seppur in chiave parodistica, anche nella lunga serie di citazioni di film, attori, musiche, nonché nei monologhi sopra le righe del protagonista e nei modi di fare coloriti dei delinquenti che gli danno la caccia quando cercano di far confessare la nonna del manigoldo. In conclusione un racconto molto divertente e impreziosito da un po' di gore. Pulp nel vero senso della parola.

Se i due tesi sopraelencati sono i più personali, sebbene per motivi diversi, Giorno di paga in via Ferretto di Paolo Caredda è il più completo e ben scritto, probabilmente il migliore del lotto. Anche in questo caso siamo alle prese con uno scrittore semisconosciuto che non si è ripetuto in seguito. Ciò nonostante il suo racconto è tecnicamente il più virtuoso. Scritto con uno stile e un lessico elegantissimo, l'opera snocciola citazioni cinematografiche (persino gli sci-fi di Antonio Margheriti), sportive, sui cartoon (Danguard, Transformers) e tossicologiche messe al servizio di un testo di una crudeltà unica e al tempo stesso ultra malinconico. Grandi descrizioni della Genova attuale e di quella che fu, del mondo delle reti televisive locali, delle speranze vane di coloro che non emergeranno mai ma che fanno di tutto per sfuggire al loro destino.
Protagonista è una sorta di sicario ingaggiato da uno spasimante respinto per punire una soubrette, ormai divenuta adulta e caduta in disgrazia, che lo ha umiliato in passato. Il mandante vuole falciare definitivamente ogni sogno di riscatto della sua vecchia fiamma.
Caredda colpisce nel segno con una crudeltà terrificante, ma sempre con grande tocco, senza cadere in volgarità e gore facile come invece fanno molti dei suoi colleghi. Niente male.

Queste sono, a mio modesto avviso, le tre opere che si salvano in un contesto fatto di violenza gratuita e testi privi di un'anima di fondo. Tra i meno peggio, quanto meno grazie a un buon lavoro di caratterizzazioni e una struttura ben marcata, c'è Il Rumore di Stefano Massaron. Massaron propone i ricordi di un uomo ossessionato da un rumore (quello fatto dal corpo di una bambina obesa che si è lanciata dalla finestra di casa dopo uno strupro) che ha udito quando era bambino e connesso a una sua malefatta. Un racconto ben sviluppato, ma che non aggiunge nulla al panorama narrativo (sembra una storia di cronaca nera).

Gli altri sei elaborati, mi dispiace dirlo, sono pessimi alcuni (non me ne vogliano gli amici scrittori) ai limiti del presentabile.
Deludono Aldo Nove (che ho assai apprezzato altrove) con un delirio folle e malato incentrato su due ragazzi svogliati che comprano in un supermarket una videocassetta intitolata “Il mondo dell'amore” (titolo anche del racconto). L'intenzione dei due è quella di acquistare un filmetto porno per potersi masturbare in compagnia (!?). In realtà hanno acquistato, senza saperlo, una videocassetta che parla di castrazione e di amore omosessuale. I due finiranno così per amputarsi i peni per provare un rapporto lesbico (!????). Come definire un testo del genere se non out of mind?

C'è anche chi fa di peggio. Daniele Luttazzi con Cappuccetto Splatter decide di riprendere la favola di Cappuccetto Rosso darle un taglio urbano e riproporla facendo il verso allo stile narrativo di American Psycho (quindi descrizione maniacale di tutte le marche di vestiti, prodotti e di qualsiasi altra cosa come nel romanzo di Bret Easton Ellis) senza mettere nulla di suo e dando i natali a un qualcosa privo di senso e intriso di una violenza oltre ogni limite. Di cattivissimo gusto.

Volano bassissimo anche Matteo Curtoni con Treccine Bionde, altro trip fuori di testa con una serie di ragazzine che seppur uccise e sventrate perseverano a ballare in discoteca calpestando le loro interiora (!?), e Massimiliano Governi con Diario in Estate (storia di un amore nato sotto la cattiva stella e alimentato da droghe e violenza).

Grossa delusione il testo di uno scrittore di calibro quale Niccolò Ammaniti, qui coadiuvato da Luisa Brancaccio, che con Seratina propone un testo ben scritto e ritmato (questo va sottolineato), ma completamente vuoto. Quello di Ammaniti è una sorta di gita notturna di un trio di tossici che errano per la città di notte a far danni della più bieca specie il tutto per vincere la noia. Così passano il tempo libero tra piste di coca, zoo chiusi e importunando trans delle vie di Roma.
Non mancano violenze prive di senso compresa l'uccisione di un canguro all'interno di uno zoo e di un secondo cucciolo abbandonato in mezzo alla strada e travolto dalle auto, ma anche sventramenti di carcasse in putrefazione, rapporti sessuali squallidi e via dicendo. Buono stile di scrittura, ma testo privo di anima. Ricorda un po' la struttura della prima parte di Arancia Meccanica, ma senza alcun messaggio di fondo.

Delude anche l'amica Alda Teodorani (anche lei da me apprezzata in altre antologie) brava tuttavia a dare al suo E Roma Piange solo un'atmosfera scenografica al limite del magico (i tramonti rossi della città, i sospiri del vento). Il resto è impersonale e il soggetto è banale. Ancora una volta abbiamo un sicario ridottosi però a vivere vendendo fazzoletti di carta (!?). L'uomo viene ingaggiato da un borghese morente per fare pulizia di barboni. Diviene così un sadico e sanguinario assassino (roba stile Armin Meiwes) con un movente che mi sembra più che futile. Racconto ben scritto, elegante, ma infarcito di una violenza a tratti gratuita anche se disturbante. La Teodorani non risparmia evirazioni, mutilazioni della più fosca specie, sgozzamenti e via dicendo il tutto in modo gratuito e duqnue fuori luogo.

Questo in sintesi il contenuto dell'antologia. Dieci racconti fulminanti, nella loro lunghezza, fa eccezione solo il quasi romanzo breve di Paolo Caredda; si va dalle 7 pagine del testo della Teodorani alle 40 di quello di Ammaniti,caratterizzati da un'irriverenza e uno spirito polticamente non corretto di fondo. Purtroppo mancano quasi sempre quella natura, condivisibile o meno per il singolo lettore, di critica sociale di fondo e quel gusto per l'elaborazione di intrecci complessi, densi di azione e sopra le righe che dovrebbero giustificare progetti del genere onde evitare che scadano nel trash puro e semplice. Sopravvalutata e nemmeno poco. Insufficiente nel complesso. Voto: 4.5+