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mercoledì 24 dicembre 2014

Recensioni Narrativa: TUTTO QUEL BLU di Cristiana Astori


Autore: Cristiana Astori.
Genere: Thriller.
Anno: 2014.
Editore: Mondadori, collana Il Giallo Mondadori.
Pagine:257.
Prezzo: 4,90 Euro.

Commento di Matteo Mancini.
Terzo capitolo della mini saga che vede per protagonista la cacciatrice di pellicole Susanna Marino, personaggio creato dalla scrittrice piemontese Cristiana Astori in occasione dell'uscita del romanzo Tutto quel Nero (2011) e riproposto nel romanzo Tutto quel Rosso (2012).
Il volume qui oggetto di esame, uscito come i precedenti per la collana Il Giallo Mondadori, costituisce il terzo e, per ora, ultimo capitolo della serie. L'autrice ce lo presenta quale sequel ideale dei precedenti sforzi, prendendo le mosse proprio laddove si chiudeva il secondo episodio. Assistiamo infatti alla laurea della protagonista, con tutti i problemi connessi al difficile sbocco nel mondo del lavoro. L'inizio è lento, quasi teso a tracciare un profilo della società moderna. I giovani non riescono ad affermarsi come vorrebbero, non godono della comprensione dei genitori tanto che la protagonista viene rimproverata per aver studiato una materia (lo studio del cinema), all'apparenza, non spendibile sul mercato: "Te l'avevo detto io che non ti conveniva studiare" sbuffano i genitori della Marino che avrà modo di commentare in modo graffiante e comprensibile: "La classica saggezza retorica del genitore che ha sempre consigli da impartire per trasformarti in un clone a sua immagine e somiglianza." Sorte pressoché analoga si riscontrerà pure nella situazione di un giovane adolescente, che non conosce il padre, soffocato da una madre con un passato libertino ma passata agli ideali propri di un integralismo religioso che limita le forme di libertà. Il giovane si troverà così costretto a interloquire con un fantasma, il cantante degli AC/DC (Bon Scott) deceduto nel 1980 e ritornato dal Paradiso (o dall'Inferno) per compiere una missione (forse per riscattare i peccati di una gioventù bruciata): aiutare il ragazzo a ritrovare suo padre. Quindi assistiamo a due giovani in fuga dalla realtà. La Marino trova la sua pace nella ricerca di pellicole perdute, sogna il cinema e diviene parte integrante dello stesso in un gioco bizzarro dove il reale diviene fantastico e il fantastico diviene reale (eloquente, da questo punto di vista, Tutto Quel Rosso, ma anche questo numero, dove si verificano fatti identici a quelli mostrati nella finzione cinematografica); l'adolescente, invece, è proiettato in una realtà parallela che, allo stesso modo di quella della finzione, interagisce e determina la realtà.
Un altro tema trattato nella prima parte del romanzo è quello del problema del lavoro. Per lavorare, sembra suggerire la Astori, occorrono aiuti, spinte politiche, infatti la nostra verrà avvicinata da assessori e personaggi che le prometteranno un posto in un'istituzione pubblica a condizione di essere eletti. Insomma, un quadretto generale a immagine e somiglianza della nostra società, in particolare di quella contemporanea, caratterizzata dalla corruzione e da inflitrazioni, più o meno, mafiose negli organi di governo.

I tre capitoli della serie.

In questa cornice la Astori va a delineare l'intelaiatura del romanzo strutturato su tre livelli inizilamente l'uno indipendente dall'altro, ma che poi andranno a convergere e a intersecarsi verso la parte finale. Così abbiamo la nostra Marino che viene incaricata, da un detective privato a sua volta assoldato da un cliente sconosciuto, di recuperare la VHS del film L'Autuomo (1984) del regista Marco Masi. Naturalmente si tratta della traccia principale sviluppata parallelamente alle vicessitudini di un giovane adolescente, in fuga dalla madre, alla ricerca del padre potenzialmente minacciato da un assassino che uccide tutti coloro che si chiamano come quest'ultimo. Il giovane vaga dalla Lombardia al Piemonte protetto dal fantasma di Bon Scott. Le due tracce sono tenute unite dagli omicidi, sporadici, di un killer che uccide scimiottando il modus operandi del killer di Terminator (1984), uscito, guarda caso, proprio lo stesso anno del film di Masi. Seguiranno inoltre altri eventi strani (pirati della strada, topi di appartamento, pestaggi) su cui si innesteranno una serie di colpi di scena funzionali a depistare le indagini degli inquirenti (ancora una volta abbiamo poliziotti ottusi e pasticcioni) e dei lettori.
La Astori gioca molto sulle coincidenze, chissà forse fa parte di quelle persone secondo le quali la realtà non è mai frutto del caso e che credono che dietro a ogni coincidenza si nasconda un filo invisibile orchestrato da chi sta oltre la cortina del sensibile (da qui l'interferenza, come già avvenuto nel primo romanzo, di persone che non sono più tra noi). Di fatti è curioso, ma non certo casuale nella scelta operata dall'autrice, che Bon Scott sia nato lo stesso giorno di Soledad Miranda (il nove luglio), ovvero l'attrice tributata nel primo capitolo, e che lo stesso interferisca, proprio come aveva fatto la Miranda, nei fatti della vicenda.
Compaiono poi altre coincidenze come, a esempio, la citazione di un Marco Masi, omonimo del regista, che faceva il calciatore nel Pisa. Curioso poi notare come l'autore della colonna sonora di Terminator (peraltro citata in parte nel volume, il riferimento va a Bad to the Bone), Brad Fiedel, sia quasi omonimo dell'ex portiere della nazionale di calcio statunitense che si chiamava Brad Friedel. In una sorta di scambio di pedine che ricorda le battute di una partita di dama giocata da due scacchisti intrepidi e burloni. Per chi non ha letto il romanzo potrebbero sembrare aspetti marginali, ma non è così. Si tratta di elementi che diventano centrali data la presenza di un assassino che uccide tutti coloro che hanno un nome determinato, legato peraltro a un personaggio storico della trilogia e che, chiaramente, non corrisponde a Sarah Connor.

Cristiana Astori in assetto T 1000.

Il ritmo è meno sollecito rispetto ai due precedenti capitoli. Cala la componente orrorifica, ma anche il giallo subisce un ridimensionamento. Il tema centrale è quello del primo volume, la ricerca della VHS scomparsa (in luogo della pellicola), cambiano però le ragioni che stanno alla base di questa ricerca, anche se la protagonista ne è all'oscuro. Questa volta non ha a che fare con collezionisti malati e fanatici, sotto c'è qualcosa di più bieco e spiccio che non svelo per ragioni di opportunità.
L'attenzione principale dell'autrice, più che all'intreccio, è dedicata alla caratterizzazione psicologica dei personaggi. Lo abbiamo già detto a inizio articolo, e poi all'atmosfera generale che pervade il romanzo. Lo stile è fortemente visivo, asciutto, privo di fronzoli. Sembra quasi di leggere una sceneggiatura finalizzata a un'ipotetica messa in scena dominata da una fotografia dalle tonalità blu e fredde. Molte, inoltre, le citazioni di canzoni che gravitano attorno al blu, a sottolineare un gusto musicale assai sviluppato nell'autrice e che funge da commento sonoro della vicenda.
Un altro aspetto che traspare, ma non è certo una novità, è l'amore verso il cinema visto nell'ottica del fruitore finale, ovvero dello spettatore. La Astori regala spaccati che sembrano usciti dalla penna di Quentin Tarantino (mi riferisco a sequenze come quella presente in Bastardi senza Gloria quando si parla di come venivano materialmente realizzate le vecchie pellicole). Nell'ocassione ci si sofferma sulle abitudini illegali che negli anni '80 dominavano il mercato nero dei videonoleggi, periodo che ricordo bene anche io. Per mezzo del racconto del gestore di un videonoleggio chiamato Videodrome, in omaggio all'omonimo film di Cronenberg (nome peraltro del videonoleggio di un critico cinematografico di Livorno che furoreggia in internet ovvero il ferrato appassionato Federico Frusciante; chissà se la Astori abbia voluto omaggiarlo...), viene descritto come venivano "piratate" le vhs di film ancora distribuiti nelle sale e quindi prima che uscissero per il mercato home video. Nel mio piccolo ricordo quando, verso la fine degli anni '80, di ritorno dagli allenamenti della scuola calcio, mi fermavo in compagnia dello zio al videonoleggio a vedere la sterminata pila delle cassette vuote ammasate in ordine negli scaffali. Ricordo che avevo la fissa per la locandina de Il Replicante, film che poi riuscii a farmi noleggiare. Ebbene, rammento sempre come venissi preso in disparte da parte del gestore che mi diceva: "lascia perdere quelle, ho qui gli ultimi arrivi da Napoli. Ne ho visti un paio che sono una forza...!" Così venivano smerciate una serie di videocassette "sotto banco", perché pirata. Ricordo di aver visto in questo modo film come Leviathan, Predator e Terminator il Giorno del Giudizio, tempi che mi sono tornati alla memoria con grande nostalgia durante la lettura, perché una volta recuperare certi film non era a portata di click come oggi. La Astori è brava a rendere centrale questa pratica, con uno sviluppo decisivo ai fini della risoluzione del giallo. Ancora una volta abbiamo un omicidio avvenuto all'interno di una saletta cinematografica, sviluppato in modo tale da dar vita a una scatola cinese fondata su una matrice metacinematografica. Non posso dire di più onde evitare di svelare aspetti troppo rilevanti.

Una foto metacinematogfrafica, tra sceneggiatori, scrittrici, critici cinematografici,
presentatori Tv e organizzatori di Festival.
Foto de LA SERRA TREMA 2014.

Bello e sentito, nonché condiviso dal sottoscritto, il ringraziamento che viene fatto a fine romanzo, in un'ottica circolare dove nel momento dei saluti si innesca un nuovo inizio, alla stregua di un'avventura che non ha un vero epilogo così come è priva di un vero prologo, in un panta rei di eraclitiana memoria in cui tutto scorre, si trasforma, si modifica ma non termina mai il proprio corso. "Questa storia è nata non solo dalla mia passione per i film degli anni ottanta, ma anche e soprattutto dal desiderio di riprodurre lo sguardo con cui in quel decennio si vedevano certi film... storie dai personaggi "grandi" e dagli effetti speciali pionieristici, ma che ti facevano venir voglia di provarci, e di sognare almeno per un istante di diventare come James Cameron o John Carpenter. Ed è questo cinema che ringrazio, insieme alla possibilità di averne potuto godere proprio in quegli anni, quando particolari film erano introvabili e ogni visione era una conquista, e da ragazzina tutto ti colpisce, ti meraviglia..." 
In questo ringraziamento risiede lo spirito della trilogia, il manifesto che ne sta alla base e che la rende degna di un grosso plauso. E se Tutto quel Blu è forse inferiore rispetto ai precendeti capitoli (soffre di un pizzico di dejà vù e spinge più sul lato romantico/sentimentale, piuttosto che sul brivido), sono certo che quel mondo che la Astori va a ringraziare (quello dei vari Masi, Cavallone, Jess Franco, Mattei, Lenzi, Margheriti fino a Dario Argento e Lucio Fulci) è altrettanto grato a un'autrice che ha regalato tre volumi di pregevole livello, pubblicati, peraltro, in una collana storica e "mainstream" come Il Giallo Mondadori. Non a caso nei volumi dell'Astori, in veste di personaggi, fanno la comparsa individui reali, legati al mondo del cinema e della musica; in questo numero abbiamo critici del calibro di Steve Della Casa, lo stesso Masi e Bon Scott, uomini che, con la loro presenza, rendono più affascinante la lettura. Si può pertanto dire che, per una volta, l'underground è salito in superficie a far sentire la propria voce, in barba a quelle critiche, giustamente riportate a inizio romanzo, avanzate da accademici con la puzza sotto il naso e che si rispecchiano nella battuta messa in bocca al relatore della tesi della Marino: "Argento è un autore di genere, e quindi il suo contributo di regista è limitato all'arte dell'intrattenimento. Non ha nulla a che spartire con la cultura cinematografica." Un'analisi che, in certi ambienti, riguarda anche la letteratura di genere, sempre snobbata a favore di quella definita autoriale.

La dedica di cui Cristiana mi ha fatto dono in Tutto Quel Nero.

E adesso, visto che la Astori è attenta alle coincidenze, pubblico alcune considerazioni personali che mi hanno fatto sorridere (di divertimento) nel corso della lettura. La prima riguarda il giorno di uscita del romanzo, il 5 dicembre, che è la data del compleanno di mio padre.
La seconda considerazione è legata al volume che ho comprato subito dopo Tutto Quel Blu, cioè 1984 di George Orwell. Data quest'ultima su cui si regge l'intero romanzo, essendo la stessa dell'uscita dei film L'Autuomo e Terminator. Curioso poi notare come lo stesso 1984 ruoti attorno al tema delle telecamere e delle riprese.
La terza e ultima curiosità, la più succosa, che, forse, sorprenderà anche una maestra del giallo come Cristiana Astori, è legata a un fatto avvenuto molti anni fa. Si può dire che ho quasi vissuto una situazione analoga (chiaramente non estremizzata come nel romanzo) a quella in cui si viene a trovare uno dei personaggi principali del romanzo, senza chiamare in causa Piano 17 dei Manetti Bros (dove c'è un personaggio con il mio stesso nome e cognome). Nel 2001, mentre me ne stavo a tavola a pranzare, il telegiornale se ne venne fuori con una notizia che mi ghiacciò, almeno per un secondo. Sentii infatti proferire dal giornalista la seguente frase: "Assassinato, a Foggia, il giovane ventenne Matteo Mancini. Ucciso con venti colpi di pistola...". Ebbene, non solo il tipo era mio omonimo, ma era nato anche il mio stesso anno!? Non pubblico il commento (un po' opportunista) che feci all'epoca, subito dopo aver appreso la morte del ragazzo... Qua l'articolo:

 http://archiviostorico.corriere.it/2001/settembre/03/Agguato_davanti_bar_Ucciso_operaio_co_8_010903799.shtml

L'omaggio inverso con cui si chiude TQB.

Chiudo con un momento di romanticismo, di cui Tutto quel Blu tende a far sfoggio rispetto ai due precedenti capitoli, che pone fine alla storia quasi a voler far scendere una lacrimuccia sul volto dei lettori più sensibili e legati ai ricordi passati. Percepisco in questo una Astori meno "cattiva" e più protettiva (si veda anche gli atteggiamenti del padre del ragazzo o della coppia di protagonisti verso quest'ultimo). A parlare, con fare paterno, è Bon Scott, prima di congedarsi dal suo giovane amico e tornare da dove è arrivato (un po' come il Terminator del Giorno del Giudizio): "Lo vuoi sapere quale è stato il mio ultimo pensiero mentre collassavo nella Renault 5 in Overhill Road? Be'... non ho pensato alla mia musica, né agli amici e alla tournée, e neanche a quanto ero stato coglione per andarmi a rovinare in quel modo. Il mio ultimo pensiero è andato a quella ragazza dai capelli rossi che stava nel banco davanti al mio in prima superiore, a quello che avrei voluto dirle e non le ho mai detto... e al fatto che se le avessi parlato forse sarei stato una persona diversa  e non mi sarei ridotto a quel modo... Addio, Bad Boy, e ricorda, sii perfezionista, sempre.

sabato 13 dicembre 2014

Recensione narrativa: L'ISOLA DEL DR.MOREAU di H.G. Wells


Autore: Herbert George Wells.
Anno: 1896.
Editore: Newton
Pagine: 96
Prezzo: 1.000 lire.

Commento di Matteo Mancini.
Capolavoro, datato 1896, firmato dal più grande pioniere tra gli autori di fantascienza vissuti a cavallo tra il 1800 e il 1900: Herbert George Wells.
Nato nel Kent, in Inghilterra, nel 1866 nel giorno corrispondente all'equinozio d'autunno, si tratta di uno dei primissimi lavori dell'autore, preceduto dal famosissimo La Macchina del Tempo (1895). All'epoca Wells ha da poco deciso di dedicarsi a tempo pieno all'attività di scrittore, dopo che la madre aveva fatto di tutto per convincerlo a intraprendere il lavoro di impiegato in un grande magazzino. Appartenente a una famiglia di modesti commercianti, dimostra fin dall'adolescenza una fragilità d'animo e una timidezza che lo porta a isolarsi e a rifugiarsi nella lettura di racconti di stampo avventuroso. In particolare, come gran parte dei grandi scrittori dell'epoca, rigetta la società in cui vive che definisce "sordida": come può l'umanità affrontare l'era della scienza con un bagaglio di idee sulla vita, sul sesso e sulla morale che risalgono al medioevo? 
Si specializza in materie scientifiche, soprattutto in biologia, botanica e matematica, studi che si riveleranno determinanti per la stesura delle successive opere e per la sua adesione alle teorie evolutive di Darwin e Spencer che diventeranno i suoi veri e propri cavalli di battaglia. Il suo fine principale è quello di far emergere dalla sua produzione narrativa un messaggio volto a spingere l'umanità ad abbattere la cristallizzazione in cui versa per ricostituire una nuova aristocrazia retta dalla scienza. Così commentano gli autori del volume Maestri della Letteratura Fantastica, edizioni Edipem: "Niente si salva da questa penna diabolica, che elimina, in una prospettiva onirica e scientifica, i conformismi e le pesantezze di una società retriva".

Herbert G. Wells.

Quando Wells scrive L'Isola del Dr. Moreau (Island of Doctor Moreau), ha appena trent'anni, eppure è proprio in questa fase che firma i suoi maggiori capolavori, sebbene la sua carriera si estenda per ulteriori sessanta anni. Non a caso l'anno dopo l'uscita del romanzo qui oggetto di esame pubblicherà L'Uomo Invisibile (1897) e La Guerra dei Mondi (1897) che, insieme ai due romanzi già citati e a Nei Giorni della Cometa (1906), andranno a costituire il quintetto base della sua opera. In quegli anni furoreggia il francesce Jules Verne, vero e proprio anticipatore del c.d. romanzo scientifico che Wells andrà a sviluppare ulteriormente, eppure la penna del Kent si ispira ad altre due opere: Frankenstein (1818) di Mary Shelley e Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde (1886) di Stevenson. Dal primo viene ripreso il concetto dei corpi assemblati, con porzioni provenienti da creature diverse, per creare una creatura nuova; dal secondo invece arriva la figura del c.d. mad doctor, che viola le più elementari norme etico-deontologiche, alla ricerca della scoperta che possa sconvolgere l'umanità. Aumenta inoltre l'impatto violento-crudele anche perché il protagonista, che da origine al titolo, conduce esperimenti non su cadaveri e e nemmeno su se stesso, bensì su animali. Il romanzo avrà fortissimo successo al punto da giungere in Italia fin dal 1900 col titolo L'Isola delle Bestie, influenzerà altresì un altro romanzo di grande successo ovvero Il Pianeta delle Scimmie (1963) del francese Pierre Boulle, il quale riproporrà il tema del confronto tra la difficile convivenza tra le bestie umanizzate e l'uomo.

Una foto tratta dalla trasposizione cinematografica del 1977.

Il soggetto è molto semplice sebbene l'autore lo vada a infarcire di profondi contenuti sociologici, fantascientifici e soprattutto filosofico/religiosi. Vede un biologo impegnato in ricerche che lo hanno portato a essere escluso dall'ordine dei medici per aver praticato esperimenti disumani. Rifugiatosi con alcuni collaboratori in un'isola del Pacifico, il dottore farà importare una serie di animali di diversa specie al fine di compiere operazioni sugli stessi per umanizzarli. Una storia all'epoca pazzesca (in parte premonitrice di quanto sarebbe poi successo con la chirurgia plastica) che però Wells narra con grande tatto metaforico. "Le creature che voi avete visto non sono altro che animali plasmati in nuove forme... Cominciate a rendervi conto che è possibile trasportare il tessuto da una parte all'altra in uno stesso individuo o da un individuo a un altro alterando così anche la sua reazione chimica e il suo metodo di sviluppo, modificare l'articolazione delle sue membra e, infine, cambiarlo nella sua più intima struttura?"

La struttura è quella del racconto narrato in prima persona da un naufrago finito, suo malgrado, nell'isola del dottor Moreau a causa delle bizze del comandante ubriacone che lo aveva salvato dal mare in cui era naufragato per poi scaricarlo sull'isola in questione insieme a un puma e a un bastimento di conigli. Naturalmente, come si conviene a una storia del genere, la natura prenderà il sopravvento sull'illusione umana di poter controllare le mutazioni indotte dalla scienza e scoppierà il caos finale, con il ritorno alle vecchie origini. Tematica, quest'ultima, che sarà ripresa anche da Michael Crichton per il suo Jurassic Park.

La storia viene preceduta da una premessa piuttosto classica per l'epoca, ovvero il racconto parte da un nipote del protagonista della vicenda il quale dichiara di pubblicare il resoconto del parente ormai defunto e rinvenuto per mera coincidenza. Curiosamente chi afferma di aver rivenuto la storia si firma Edoardo Prendick, mentre il protagonista dei fatti è Eduardo Prendick, in un'assonanza di nomi che rievoca lo scherzo radiofonico che nel 1938 organizzerà Welles (all'epoca imegnato anche in spettacoli di magia e illusionismo) il quale leggerà brani de La Guerra dei Mondi di Wells convincendo buona parte della popolazione di essere sotto attacco dei marziani. In questo scioglilingua generale, risulta assai buffo notare come il nome di Welles sia Orson ovvero un nome che richiama i personaggi oggetto degli esperimenti di Moreau.

Questa, in sintesi, la premessa citata: "Eduardo Prendick, un modesto gentiluomo che doveva essersi imbarcato a bordo del Lady Vain a Callao e che si credeva perduto a 5'3' di Latitudine Sud e 101' di Longitudine Ovest, fu raccolto da un canotto il cui nome era illeggibile... Fece un racconto così strano che lo si suppose demente. Il suo caso era stato classificato dai fisiologi del tempo come un curioso caso di mancanza di memoria cagionato da sforzi fisici e mentali. Il racconto che segue, fu trovato fra le sue carte dal sottoscritto, suo unico nipote ed erede; esso però non era accompagnato da nessuna nota che accennasse a un desiderio di pubblicazione. La sola isola che esista nella regione dove mio zio fu raccolto, è l'Isola di Noble, una piccola isola vulcanica, disabitata. Fu visitata nel 1891 da Lord Scorpion."

Omaggio della Bonelli al romanzo.

La prima parte del romanzo è dedicata al naufragio della nave in cui si trova mister Predick e al salvataggio dello stesso operato per caso da una nave di passaggio. L'uomo, ormai senza cibo da giorni, viene curato e messo in condizione di tornare a muoversi. Sul cargo viaggia una strana ciurma che risponde agli ordini di un comandante pazzo che urla e sbraita come un ubriaco isterico. Oltre a questi ci sono una serie di animali in gabbia con conigli, cani e un puma. Il tutto verrà  scaricato su un'isola semi-deserta dove padroneggia un uomo un tempo molto rinomato in Europa ma allontanato per le sue pratiche barbariche. Qua Prendick scoprirà la presenza di strane creature parlanti che vagono per l'isola e che, inizialmente, danno la sensazione di essere uomini deformi o comunque bizzarri scherzi della natura. L'uomo, attirato dai latrati e dai lamenti del puma, farà irruzione in quella che viene chiamata "La Casa del Dolore" e vedrà il dottor Moreau impegnato nel compiere strane operazioni e a infliggere strane torture agli animali. In realtà il biologo sta trasformando gli animali in bizzarre caricature umane, lavorando addirittura sulla mente delle stesse per portarle a ragionare, a parlare e persino a rispettare un abbozzo di regolamento dell'isola.

All'innegabile taglio avventuroso, senz'altro prevalente sugli altri, Wells inizia a poco a poco a colorare la storia con evidenti schizzi horror (per lo più inseguimenti, in una foresta che sembra una giungla, operati da alcune creature ribbelli che hanno saggiato il sapore del sangue), anche perché il Dr. Moreau, come il Dr. Hammond di Jurassic Park, non si fa mancare nulla e oltre alle pecore, alle scimmie, alle volpi e alle iene, utilizza, nel suo giocare a essere Dio, orsi, cani, tori e infine un puma, creando inoltre delle creature ibride frutto dell'unione di più animali. Proprio come per i dinosauri di Crichton questi esseri, inizialmente, sembrano non in grado di procreare e finché resta in vita il Dottore riescono anche a essere tenuti sotto controllo, pur vivendo allo stato brado, scimmiottando gli usi dell'uomo e camminando tutti su due gambe. Si tratta di un'evoluzione della storia, per l'epoca, già di per sé spettacolosa, ma ecco che Wells dimostra di essere non un buon scrittore, bensi un grande maestro della narrativa fantastica. Lo scrittore del Kent, infatti, inserisce un substrato sociologico che viene ad assumere il significato di fondo dell'opera, mostrando la condizione dell'uomo comune della società dell'epoca (ma sara solo di quella?). Pubblico qui di seguito alcuni passaggi che aiutano a comprendere: "La loro relativa sicurezza era dovuta al limitato livello intellettuale di quelle bestie. Nonostante la loro accresciuta intelligenza e la tendenza degli istinti animaleschi a risvegliarsi, avevano alcune idee fisse impiantate da Moreau nelle loro menti, che condizionavano assolutamente la loro volontà. Erano realmente ipnotizzate: era stato detto che certe cose non si potevano fare, che altre non si dovevano fare, e tali proibizioni si erano impresse tanto bene nei tessuti del loro cervello, da togliere ogni possibilità di disubbidienza e di contestazione... Montgomery e Moreau avevano una cura costante nel mantenerli nella più completa ignoranza del gusto del sangue, poiché temevano la inevitabile suggestione di quel sapore."

Dal passaggio di cui sopra appare evidente la critica di Wells al mondo in cui vive. L'autore inglese vuole sottolineare la necessità di rompere gli schemi, di liberarsi dai preconcetti e di perseguire la vera libertà interiore, sottolineando allo stesso tempo come chi detenga il potere abbia tutto l'interesse a non permettere ai controllati (da leggersi quali cittadini) a estrensicare la loro vera natura (di qui il significato metaforico del sangue quale diritto da perseguire per certi animali costretti qua a torture psichiche e fisiche, fino a dover mutare comportamenti e usi a discrezione del loro padrone).

Herbert G. Wells.

La parte finale del romanzo vede la morte del Dr. Moreau, impegnato ad abbattare l'uomo puma fuggito per far man bassa di prede. A questo punto, proprio quando il lettore inizia a pensare che la storia vada a scemare, Wells piazza un altro spunto da grande scrittore. Le Bestie umanizzate, a tal riguardo segnalo un altro romanzo che ha attinto da qui ovvero Le Catene di Eymerich del grande Valerio Evangelisti, rompono il loro blocco iniziale e iniziano ad assumere comportamenti animali. Perdono l'uso della parola, tornano a quattro zampe e iniziano a cacciare. Allo stesso modo, come in una sorta di disturbo post-traumatico da stress (Wells antiicipa anche questo) alla stregua di quanto colpirà i soldati americani dal ritorno dal Vietnam, Prendick verrà influenzato dalla situazione disumanizzandosi e trovando poi assai difficoltoso il rientro nella società. "E' curioso sapere come mi fossi abituato presto agli usi di quei mostri e come avessi acquistato fiducia in me stesso. Ebbi le mie lotte e potrei mostrare le tracce dei loro denti; ma ben presto essi acquistarono un totale rispetto per il mio modo di lanciare pietre e per quello di maneggiare la scure... Trovai che il sentimento d'onore di quegli esseri era basato solo sulla capacità di infliggere ferite profonde... Uno o due che in qualche scontro avevo ferito, mi portavano il broncio, ma questo me lo dimostravano solo con delle smorfie dietro le spalle e a una distanza che li metteva al sicuro dalla mia portata". Ebbene, quanto appena scritto da Wells non è che la perifrasi di uno stato di guerra. 
Oltre agli scontri, per tenere sotto controllo gli animali, timorosi dei comandamenti imposti da Moreau pena punizioni corporali, Prendick farà cenno a una sorta di occhio che scruta dall'altro, un eye in the sky, anticipando in questo George Orwell (il riferimento va al capolavoro 1984).
Il passaggio in questione nel testo:

«Lui non è morto! Anche adesso vi guarda!Queste parole li fecero trasalire: venti paia di occhi mi guardarono.
«La casa del dolore è finita» continuai «ma essa risorgerà di nuovo. Voi non potete vedere il padrone, ma anche adesso egli vi ascolta.»
«E' vero, è vero!» disse l'uomo cane.
"Tutti rimasero scossi dalla mia sicurezza. Un animale può essere furbo e feroce abbastanza, ma occorre che sia un vero uomo per poter mentire."
«L'uomo dal braccio fasciato dice cose assai strane!» mormorò uno di quegli individui.»
«Vi dico che è così» aggiunsi «Il padrone e la Casa del Dolore risorgeranno... Guai a chi disubbidisce alla legge.»


L'epilogo è una chiusura circolare del romanzo, con il protagonista che riesce a scappare dall'isola, in un coast to coast da Apia a San Francisco, pur trovandosi costretto a non esternare quanto gli è successo perché tutti, altrimenti, lo prenderebbero per matto.
"Nessuno mi credeva; io sembravo agli uomini quasi tanto strano quanto lo ero sembrato alle bestie umanizzate. Forse avevo conservato in me qualche cosa della naturale selvatichezza dei miei vecchi compagni...", qua Wells anticipa un principio cardinale che sarà costituito dagli studiosi di criminologia e cioè che la vittima porta su di sè sempre qualcosa della scena del delitto e che lo stesso avviene sulla scena del delitto dove rimane quasi sempre qualcosa del soggetto agente. Parafrasando, il concetto è lo stesso. Dunque Wells si dimostra, anche per queste cose, un grandissimo. E lo è ancor di più nelle ultime battute dove evidenzia il disagio del fuggiasco: "Il mio malessere assumeva le forme più strane. Non riuscivo a persuadermi che le donne e gli uomini che incontravo non fossero un altro popolo di animali passabilmente umani, plasmati con l'immagine esterna della nostra specie, ma che sarebbero presto regrediti fino a mostrare ora questo e ora quel segno bestiale." Dunque una chiusura in cui Wells diviene psicologo e abile conoscitore di sociologia. CAPOLAVORO.

La locandina del film che è stato tratto dal libro nel 1977.

I Comandamenti del Dottor Moreau:
Non andare a quattro gambe, questa è la legge;
Non lappare per bere;
Non mangiare né carne né pesce;
Non scorticare la corteccia degli alberi;
Non dar la caccia gli altri uomini;
Gravi sono i castighi di coloro che infrangono la legge. Nessuno le sfugge.
Sua è la Casa del Dolore, Sua la mano che opera, Sua la mano che ferisce, Sua la mano che guarisce.



La copertina dell'album musicale della colonna sonora
della trasposizione cinematografica di Sergio Martino
ispirata al romanzo di Wells.


Una scena del film di S. Martino.


lunedì 1 dicembre 2014

Recensione Saggio ALDO LADO & ERNESTO GASTALDI - Due Cineasti, Due interviste di Jan Svabenicky


Autore: Jan Svabenicky.
Genere: Libro Intervista.
Editore: Il Foglio Letterario.
Anno: 2014.
Pagine: 170.
Prezzo: 14 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Debutto in Italia dell'accademico Jan Svabenicky, studioso e appassionato di cinematografia italiana abitante in Rep. Ceka, a Pribor, città natale del padre della psicanalisi Sigmund Freud. Dopo aver pubblicato nel 2009 una monografia per conto dell'Università di Olomuc dedicata al cinema western italiano, Svabenicky approda nella nostra penisola all'età di trentatre anni, subito ingaggiato da Gordiano Lupi e dal suo Il Foglio Letterario, casa editrice particolarmente sensibile a certe tematiche. Lo studioso ceko, che sarà ospite nel mio terzo volume sullo Spaghetti Western con tre gustosissimi articoli, raschia dal suo corposo campionario di interviste effettuate nel corso degli anni e propone una duplice intervista a due cineasti assai importanti della cinematografia nostrana: Aldo Lado & Ernesto Gastaldi.

Il volume, preceduto da due rapidi saluti di Sergio Martino e di Pino Donaggio, è un vero e proprio libro intervista. L'autore rivolge una serie di domande ai due personaggi scelti, sviscerando la loro produzione a partire dalle prime collaborazioni (in veste di aiuto registi) per poi proseguire fino a coinvolgere l'intera produzione. A tal riguardo, in calce al volume sono elencati tutti i film che hanno visto per protagonisti Lado e Gastaldi, con tanto di schede comprensive dei dati relativi al cast tecnico e a quello artistico. 

Sono circa cinquanta pagine a testa quelle che Svanenicky utilizza per chiedere spiegazioni e dettagli sui vari film curati dai due professionisti. L'opera va avanti a suon di domanda e risposta. Gli argomenti cadono soprattutto sui soggetti e sui membri dei vari cast tecnici, con richieste relative alla personalità e ai modi di lavoro dei vari montatori, addetti alle colonne sonore, registi e direttori della fotografia. Stranamente si tende a soprassedere sugli attori, che vengono lasciati un po' sullo sfondo. L'intento perseguito dall'autore è nobile e dichiarato. Si vuol dare un contributo alla storia del cinema italiano facendo da filtro e da spunto per innescare i ricordi di Lado e Gastaldi e salvarli grazie alla magia della carta stampata. L'autore ceko si dimostra inoltre assai interessato alla storia nel nostro paese, non perdendo occasione per chiedere se i copioni dei vari film siano stati più o meno ispirati dalla cronaca dell'epoca e se avessero delle sotto trame di natura politica.

Tra le gustose curiosità che emergono nel corso del testo si segnala la rivelazione di Aldo Lado relativa alla collaborazione con Dario Argento nel 1969, col regista veneziano che afferma di aver scritto, insieme a Dario Argento, il copione de L'Uccello dalle Piume di Cristallo, ma di esser poi stato convinto, dietro pagamento di denaro, a rinunciare a mettere il proprio nome nei credit.  Non di secondaria importanza è il racconto delle vicessitudini patite da L'Ultimo Treno della Notte nel corso dell'esame per il visto censura (si parla di esaminatori costretti, dalla violenza delle immagini, a vomitare).

Interessante la storia di Gastaldi che parla di come riuscì a entrare al Centro Sperimentale Cinematografico, ma anche di come nacque l'idea di girare il giallo Libido, prodotto per scommessa con Mino Loy e Luciano Martino che si interrogavano su quali caratteristiche avrebbe dovuto avere un regista di gialli.
Lo sceneggiatore biellese rivela inoltre di aver avuto il rammarico di non aver potuto girare un suo vecchio copione che anticipava di svariati anni Ritorno al Futuro. La colpa ricadrebbe su produttori poco ferrati in sci-fi, tanto da irritare Gastaldi anche per le modifiche volute da Petri rispetto al suo adattamento da Sheckley de La Settima Vittima poi girato negli stabilimenti cinematografici di Tirrenia (dietro casa mia) col titolo La Decima Vittima.

Questo, in definitiva, il primo lavoro italiano di Svabenicky, che scorre velocemente e senza annoiare, con gustosi annedoti tutti legati alla produzione cinematografica dei due personaggi intervistati. Lettura spassosa indicata ai soli appassionati di cinematografia italiana.
Jan Svabenicky è comunque un nome che saprà farsi notare e che dimostra, fin da questo suo debutto, una grande competenza e passione per il cinema di genere e non solo per quello. Sono certo che passerà presto a volumi in cui dar briglia sciolta ad analisi e ricostruzioni personali sui film o sui generi che riterrà opportuno trattare. Tenete allora in mente questo nome, non ne rimarrete delusi.