Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

mercoledì 15 febbraio 2017

Recensioni Narrativa: FRANKENSTEIN di Mary Shelley.




Autore: Mary Shelley.
Genere: Narrativa del Terrore.
Anno: 1818..
Pagine: 200 circa, a seconda delle edizioni.
Prezzo: variabile a seconda delle edizioni.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Il destino di un intero genere, la letteratura del terrore, si consuma in una lontana data dell'ottocento (verrebbe da dire diabolica: 6.6.16), un giorno particolarmente funesto con vento e pioggia a costringere quattro personaggi a restare rintanati nella villa in cui sono ospitati, nella periferia di Ginevra. Tra le mura di Villa Diodati, questo il nome della magione, ci sono due mostri sacri della poesia inglese: Lord Byron e Percy Shelley. Con loro ci sono due giovani, non di medesima caratura artistica: la compagna di Percy, la prezzemolina Mary Wollstonecraft Godwin, poi meglio nota come Mary Shelley, e un medico di origini bientinesi che risponde al nome di John Polidori (era figlio del bientinese Gaetano Polidori, segretario di Vittorio Alfieri). I quattro, accompagnati dalla sorella di Mary, tra una baldoria e l'altra, impossibilitati a uscire a causa del maltempo, si intrattengono con una serie di racconti tedeschi sui fantasmi fino a quando, d'improvviso, a uno dei quattro viene l'idea di lanciare una sfida di scrittura creativa (sembra per scommessa). Due mostri sacri contro due pivelli, quanto meno all'apparenza, l'esito sembrerebbe scontato. Appunto, sembrerebbe perché i mostri sacri fanno cilecca, sono i due “pivelli” a scrivere la storia e a entrarvi in modo prepotente con due capolavori, inizialamente attribuiti ai due big ma poi, col tempo, riconsegnati ai loro veri autori. Due storie capaci di modificare e rivoluzionare l'intero genere (gotico, ai suoi primi vagiti con Lewis e la Radcliffe) creando due fortissimi stereotipi che avrebbero invaso migliaia di pagine e pagine di romanzi altrui fino a giungere al cinema in tutte le salse (dalle parodie alle trasposizioni più o meno fedeli). Il vampiro da una parte, Frankenstein e i mad doctor dall'altra. Qui ci interessiamo di questa seconda figura, che Mary Shelley plasma facendo forza delle sue esperienze in Italia. Non si contano i soggiorni avuti nella nostra penisola da Mary e dal marito Percy (poi deceduto tra la costa pisana e quella viareggina). Non a caso, il tema dell'Italia è reso esplicito nel romanzo, con la madre del dottor Frankenstein che viaggia col marito in Italia, prende sotto la propria protezione una giovane di Milano (aspetto che ricorda l'atteggiamento del padre di Mary con la figliastra ma anche l'atteggiamento di Percy con la nipote di Mary), inoltre è decisivo, per la formazione culturale del mostro, l'apporto reso da una famiglia decaduta (ricorda un po' la crisi finanziaria di Percy) che ospita una ragazza turca fuggita da Livorno a cui viene insegnato il francese col mostro (un bambinone gigante che si sveglia da un giorno all'altro e che non ha alcuna cognizione di cosa sia, pur avendo intelligenza umana) che impara di nascosto la lingua umana standosene rintanato in una baracca. Il contenuto però maggiormente legato all'Italia, come spesso avviene in certe opere, non è quello che si coglie prima facie. Si tratta invece di un omaggio molto profondo. Mary Shelley infatti, che ha alloggiato a Pisa in compagnia del marito, è stata probabilmente informata degli esperimenti tenuti da un certo Andrea Vacca Berlinghieri e lo ha, sicuramente, incontrato durante i suoi viaggi. Chi era Vacca Berlinghieri? Era un chirurgo, che ha studiato anche in Francia e Inghilterra, con passioni variegate che comprendevano la chimica, la matematica, la fisica, l'astronomia e l'esoterismo (un po' come il Dr Frankestein che, a sua differenza, è uno Svizzero ma, guarda caso, nato in Italia, in quel di Napoli... proprio come alcuni figli della Shelley tra i quali una certo Florence, maschio a differenza dell'ominima moglie di Bram Stoker, omaggio palese alla Toscana e più in particolare a Firenze dove è nato). Soggetto alquanto bizzarro, ma non troppo se contestualizzato in un certo tessuto sociale, che fece erigere un tempio di natura massonica (anticlericale) in onore del padre in quel di Montefoscoli (periferia pisana). Atteggiamenti che portarono i prelati a considerarlo sotto un aura malefica fino a trovare stratagemmi particolari per benedire la via d'accesso a questo tempio laico, evidentemente considerato diabolico. Pensatore illuminato, progressista, convinto sostenitore della necessità di allungare la vita degli uomin, eventualmente anche con il ricorso a trapianti (pratica all'epoca vietatissima dalla Chiesa), Vacca Berlinghieri aveva anche passioni alchemiche da valutarsi però nel senso più alto della disciplina ovvero nella ricerca e conquista dell'immortalità terrena (la famosa pietra filosofale da leggersi quale elisir di lunga vita, tanto in voga nell'epoca). Si dice che passasse molte ore a sezionare i cadaveri con la speranza di rianimarli con il galvanismo (quindi col ricorso all'elettricità come si vede in alcuni film su Frankenstein e come invece viene omesso nel romanzo). Qualcuno è arrivato a scrivere che abbia persino comprato pezzi di cadavere e abbia realizzato, nel suo laboratorio sotterraneo, un essere antropomorfo nella speranza di portarlo in vita. Beh, più ispirazione di questa... A onor del vero, però, Mary Shelley dirà di essersi ispirata a uno suo sogno/incubo, senza aggiungere altro che possa portare a Vacca Berlinghieri ma per compiere il passo basta unire i punti con una retta immaginaria... La provincia pisana quindi che sale in cattedra nella formazione del romanzo del terrore di caratura mondiale e che, stranamente, non viene quasi mai esaltata nel territorio locale.

Il pisano ANDREA VACCA BERLINGHIERI
vero ispiratore del DR. FRANKENSTEIN

Vediamo però chi era Mary Shelley. Quando scrive Frankenstein, che poi esce due anni dopo rispetto alla sfida (1818) in forma anonima (ma con prefazione di Percy Shelley), ha appena diciannove anni, dunque giovanissima. Arriva da una famiglia altolocata, figlia unica di un filosofo ispiratore del pensiero anarchico, e secondogenita di una delle prime femministe della storia che morì dieci giorni dopo averle dato la vita. Inevitabile quindi lo spirito libertino di Mary, che sposa il radicale Percy Shelley (già sposato, ma liberato dal suicidio della moglie, tradita a ripetizione e con incontri tra Percy e Mary sulla tomba della madre di quest'ultima, al cimitero: quando si dice il romanticismo gotico!?). Curiosa, intraprendente, assetata di sapere e aperta di mente, forma con Percy (ex allievo del padre) una coppia moderna, con i due che si concedono molte scappatelle e rapporti promiscui fregandosene della società bacchettona dell'epoca e soprattutto dei creditori sempre più sulle tracce di Percy (carico di debiti). Viaggiano in Francia, Svizzera e Italia, senza badare a spese ed eccessi, pur essendo a corto di disponibilità. La fortuna però non è benevola con la povera Mary, la flagella nei rapporti più cari. Le porta via la madre quando è ancora piccola, quindi il marito a ventiquattro anni e i figli in tenera età (sopravviverà il solo Florence). Il marito naufraga e muore affogato nella tratta Livorno – La Spezia e cremato sulla spiaggia di Viareggio. Aiutata dai coniugi Hunt, amici di Percy, dopo un soggiorno di un anno a Genova torna in Inghilterra, aiutata dal padre del marito. Qui continua ad avere rapporti molteplici (tra gli altri con Prosper Merimee, l'autore della Carmen), ma senza più sposarsi. Resta con la sola compagnia di Florence Shelley, cadendo in crisi economica nonostante le riedizioni delle opere del marito defunto e pur continuando a scrivere. Frankestein, inizialmente ignorato, prende piede in virtù di un'entusiasta recensione di Walter Scott (l'autore di Ivanhoe) e conseguente riedizione, modificata, nel 1831 a nome Mary Shelley, diventando un best seller ma con diritti ceduti a una potente casa editrice. Mary scrive un altro notevole romanzo, meno noto, che apre la via al romanzo catastrofico fantascientifico (ancora una volta pionieristica) e che si intitola L'Ultimo Uomo, The Last Man (1826), concepito anni prima a Napoli (definita da Mary “il paradiso abitato dai demoni”), e una ventina di racconti e romanzi storici o biografici. Funestata da una serie di emicranie che sfoceranno in un tumore al cervello, cessa di scrivere nel 1839. Muore, dopo anni di malattia, nel 1851.

Mary Shelley

Frankenstein ovvero il Prometeo Moderno è, a tutti gli effetti, un capolavoro da cui emerge la sensibilità femminile. Generato dalla penna della giovane Mary Shelley, nell'epoca della nascita del romanzo gotico avviato da Walpole e proseguita, soprattutto, da Matthew G. Lewis e da Ann Radcliffe, costituisce un romanzo che, oltre a creare un personaggio immaginifico che diverrà uno stereotipo del genere, gioca su più versanti e detta una nuova via al genere. Su quest'ultimo aspetto spicca subito il prologo, che poi è ricollegato all'epilogo, addirittura nei ghiacci del nord con una nave attorniata dagli iceberg e con due strane figure, di cui una gigantesca, che si ricorrono su slitte trainate da cani esausti. Questo il prologo su cui la Shelley innesca attraverso una struttura originale l'intera vicenda, con una storia (quella del dottor Frankenstein) che si inserisce in un'altra inizialmente parallela (quella dell'esploratore pioniere Walton che cerca di raggiungere il nord del mondo) e con le due che poi si intrecciano, grazie alla figura del mostro che esce dal racconto del dottore (che fin lì potrebbe essere anche un resoconto di un pazzo) per irrompere e materializzarsi sotto gli occhi dell'esploratore una volta deceduto il dottore in concomitanza dei fallimenti dei propositi di tutti e tre i soggetti. Un modo di narrare questo in cui la Shelley cambia spesso il punto di vista, facendo narrare i fatti, ora con la forma del romanzo epistolare ora con la narrazione classica ora con i flashback continui, ai distinti personaggi così che, come in un Rashomon ante litteram, si finisca sempre per rimescolare le carte in gioco in modo da far cambiare la percezione dei fatti e delle condotte agli occhi del lettore. Una forma questa che rende il romanzo, a mio avviso, assai superiore rispetto al successivo Dracula di Bram Stoker, anche perché impreziosito di una melanconia e di una persistente aura di sconfitta che davvero intristisce il lettore e, al contempo, lo attacca alle pagine pungolato dalla curiosità figlia della fatidica domanda: “E poi cosa succede?”

Frankenstein è il romanzo della solitudine, una condizione che accomuna i tre soggetti principali. Il dottore che vive sognando di trasformarsi in una sorta di Dio, quale figura del moderno mad doctor, e per farlo si isola dai suoi cari, inseguendo un'impresa che riuscirà a compiere ma che ricadrà su di lui come un macigno per l'incapacità o, forse più propriamente, per la paura di sostenerla. È lo stesso Frankenstein (questo il nome del dottore originario di Ginevra che costruirà, in Germania, il mostro) a dire di essere interessato, piuttosto che alla struttura di linguaggio o alla politica, “ai segreti del cielo e della terra... alla ricerca del metafisico”. È quello che David Punter, nella Storia della Letteratura del Terrore, definisce “un puro indagatore della verità” alimentato da passioni legate all'alchimia, all'esoterismo, poi combinate con la chimica, la scienza e la matematica, e con il fine ultimo della gloria di rendere l'uomo vulnerabile solo a una morte violenta. E così diviene come un Paracelso che cerca di creare il suo homunculus, guidato però, contrariamente a quanto si è soliti leggere in più testi, da una procedura che non è né esoterica né alchemica. Frankenstein, questa è la caratteristica del romanzo che lo pone anche come opera di fantascienza, realizza il suo essere antropomorfo con un vero e proprio processo scientifico, in un laboratorio. La Shelley ne cela i metodi, con un modo tipico della narrativa questa volta esoterica, ovvero come monito per proteggere l'umanità dall'orrore che si cela dietro alla sua scoperta, così da impedire che altri ne possano seguire il percorso. In realtà l'orrore di cui si parla è soggettivo, è più una paura per il diverso e il difforme che un pericolo insito nella natura della creatura ed è proprio questo preconcetto a trasformare un mostro formale in mostro reale. Frankenstein mette insieme una serie di pezzi di cadavere trasformandoli in parti di una nuova creatura, che nasce alla stregua di un neonato per conoscenze ma con l'intelligenza di un adulto. Non è ben chiaro come riesca ad animarla, ma il suo è un vero essere umano che ha un'anima (in questo è addirittura superiore al Golem ebraico, che è fatto con la stessa sostanza dell'uomo ma è sprovvisto di anima, figurarsi dell'homunculus che è invece blasfemo). La sua è una creatura brutta, sì, ma perfetta, addirittura geniale, che riesce a imparare a scrivere semplicemente spiando gli uomini e leggendo i classici che trova in giro, sviluppando sentimenti umani paragonabili agli altri due principali protagonisti della storia. Ciò che lo trasforma in assassino, peraltro alla fine pentito con un'onta che lo porta a optare per un finale tragico (poi non mostrato e dunque romanzo da considerarsi aperto a un sequel che non avrà) che ne dimostra la nobiltà di fondo, è l'atteggiamento diabolico delle persone che trova sul suo cammino. È un rifiutato sociale, un reietto, osteggiato e minacciato di continuo, picchiato, addirittura ferito da un colpo di pistola sebbene abbia salvato una bimba. Un essere costretto a vivere come un animale e alla fine a ribellarsi. Persino il suo creatore lo odia, e lo odia fin da subito, quando non dovrebbe averne motivo, solo perché gli sembra troppo brutto per poterlo presentare in pubblico. Per il mostro non c'è possibilità di inserimento, è una vittima degli eventi più che essere l'artefice delle sofferenze altrui. A differenza degli altri due personaggi, che finiscono nella solitudine per ricercare la gloria (anche l'esploratore si lamenta di continuo di essere solo, e sogna di avere la compagnia di un amico con cui allietare il proprio viaggio, lo troverà in Frankenstein caricato a bordo nave da una banchisa) al mostro la compagnia viene negata. Non gli viene neppure concesso, come invece Dio fa con Adamo, la creazione di una compagna. Il Dottor Frankenstein dapprima sembra acconsentire a questa richiesta, poi però teme la natura e la superiorità fisica delle sue creature (che hanno una resistenza, una stazza e una forza di gran lunga superiore a quella umana) e decide di distruggere la propria opera scatenando l'ira del mostro che non attenderà molto a uccidere tutti i cari del dottore. Glaciale la parte in cui Frankenstein ragiona sulla creazione di un mostro di sesso femminile e poi decide di non portarla a termine perché potrebbe essere la ragione prima da cui possa sfociare una stirpe di esseri capaci di soppiantare la razza umana. Sembra quasi un ragionar su temi che, a distanza di un centinaio di anni, avrebbero fatto presa sulla società europea portando all'antisemitismo e all'ideologia della razza superiore contrapposta alle supposte inferiori.
Molti gli omaggi che la Shelley dissemina nel testo, dalle poesia del marito al Paradiso Perduto di Milton, col mostro che si paragona spesso a Satana considerandosi però di gran lunga più sventurato per non poter contare neppure sul supporto di un altro essere.

Ecco allora che è giusto definire il romanzo come un'opera decadente che Punter, a nostro modo di vedere, a ragione definisce “un libro sul rifiuto dello strano, sia a livello sociale che psicologico”.
Divenuto un classico soprattutto da metà dell'ottocento in poi, grazie a elogi di autori quali Walter Scott, l'autore di Ivanhoe (“L'opera da in modo eccellente l'idea del genio originale dell'autrice e del suo felice potere d'espressione”), e John S. Le Fanu (“E' un romanzo in cui si aprono le porte che sarebbe stato preferibile lasciare chiuse e in cui il mortale e l'immortale fanno conoscenza prima del tempo”) ha ispirato circa cento film, di natura diversa, e con sceneggiature che ne hanno spesso modificato le caratteristiche sia fisiche sia di origine. E così si son visti mostri lenti e impacciati (quando invece il mostro della Frankestein è più che atletico), altri che parlano in modo sconnesso (mentre con la Shelley il mostro è quasi intellettuale), altri che sono malvagi perché il cervello di cui sono dotati era di un criminale e altri ancora animati attraverso un processo spiegato punto su punto quando invece la Shelley ne ha occultato l'origine (da qui deriva l'idea delle scariche elettriche). Per tutte queste ragioni, oltre per la natura di classico e soprattutto per il piacere nel leggerlo (pur essendo straziante per il dramma che andranno a vivere creatura e creatore), deve esser letto e conservato nella biblioteca di ogni amante della lettura (figuriamoci poi se si sta parlando di fan del fantastico).

L'incontro sulle ALPI
tra FRANKENSTEIN e la sua creatura
nel film FRANKENSTEIN (1931)
di Whale.

Infelice! Condividi dunque la mia follia? Hai bevuto anche tu la bevanda velenosa? Ascoltami: lascia che ti riveli la mia storia, e getterai la coppa lontano dalle tue labbra!”



Presentazione DEEP SHOCK di Davide Melini



A cura di Matteo Mancini.
Eccoci, finalmente, a parlare della nuova uscita firmata dall'amico Davide Melini, filmaker romano ormai da anni operativo in Spagna e che ha preso le mosse come assistente ne La Terza Madre di Dario Argento per poi intraprendere un percorso personale con cortometraggi premiati a livello internazionale e selezionati per il David di Donatello (2011) pur continuando anche nel ruolo di assistente alla regia (nelle serie americane Penny Dreadful e Into the Badlands). Dopo circa quattro anni di tribolazione, con un cambio di produzione e rivoluzione dell'intero cast artistico e tecnico, è uscito Deep Shock, l'omaggio cercato e voluto da Melini al cinema horror e thriller italiano anni '70, ideale commistione tra Deep Red e Shock rispettivamente di Dario Argento e Mario Bava. Molti sono gli omaggi a questi e ad altri film del periodo, che Melini ha voluto così ricordare per pagare, probabilmente, un tributo doveroso alle sue principali fonti di ispirazione (non è certo il solo in questo). Ci tiene però a precisare di aver realizzato una rielaborazione dei temi classici e di non essersi limitato a una mera copia o “banale” riproposizione. Dunque il passato e la tradizione come punto di partenza e non già di statico e freddo ritorno in cui vivacchiare senza aggiunger niente di nuovo e di proprio. Se vogliamo quindi un riproporre tematiche già viste con l'occhio e il piglio di un Tarantino continentale.
Abbiamo allora avvicinato Davide, grazie agli strumenti offerti dalla nuova tecnologia che negli anni settanta non eran neppur immaginabili. A riguardo, mi vien in mente una diatriba tra Massimiliano Allegri e Arrigo Sacchi col primo, in vena di burle, a scherzare col grande maestro del calcio totale italiano dicendogli: “Ma 25 anni fa non c'eran nemmeno le televisioni...” E noi allora prendiamo la palla al balzo e realizziamo questa intervista senza microfoni, che eppure, 25 anni fa ai tempi in cui il cinema di genere italiano era ormai prossimo a esser strozzato proprio dalle televisioni, eran indispensabili e lo facciamo senza neppure dare la forma di un'intervista a quanto qui di sotto segue.
Ho preso tutte quelle cose tipiche di quei film (del cinema di genere italiano anni '70, ndr) e le ho trasportate in una storia dei giorni nostri. Volevo ricreare quella magia tipica anni '70, però usando le nuove tecnologie” spiega Melini e noi subito cerchiamo di fare come lui in questo articolo, così per gioco, dando vita a un doppio canale di scambio dati. “Quindi villa, gatti neri, pallina che cade, rasoi, assassino in nero, tuoni, ombre, sangue, mistero, terrazza...” prosegue nell'aggiungere gli ingredienti, assai gustosi, dell'alimento con cui si appresta a deliziare i palati degli aficionados che osservano e attendono tutti intorno. Ma attenzione, ci tiene a ribadire, il suo non è un cocktail come quelli che si intravedevano ne La Dolce Mano della Rosa Bianca (2010), il premiatissimo corto che iniziava all'interno di un pub con una moderna Salma Hayek che danzava in primo piano. No... no... no, cari miei, sottolinea, questa volta è stato fatto un passo in più. “Deep Shock è un film che rispetta i canoni del giallo italiano, ma li mescola con quelli horror” e allora ecco i temi delle visioni, demoni, sfide sataniche, croci rovesciate... “facendolo però in modo autonomo e indipendente, viaggiando sotto i binari del giallo/horror intrecciandoli ogni volta con due storie parallele aventi un'anima a sé stante ma confluenti in un unico film. C'è una parte razionale, che corrisponde al giallo, con il suo inizio-svoglimento-conclusione... E una parte irrazionale, a rappresentare l'horror, con anch'essa il classico sviluppo inizio-svolgimento-conclusione...” E cosa c'è di nuovo allora, potrebbe chiedere il solito impertinente ragazzino sbarbato della prima fila, ancora armato di penna e taccuino come una sorta di Tullio (Kezich, ndr) vomitato dagli anni '70, manco fosse lì presente (pur incarnando il passato) a prendere gli ordini dei commensali? Lo spiega subito Davide, spostando il busto in avanti sul bancone in cui vengon servite le pietanze speciali, alla stregua di un Danny Trejo di derivazione Tarantiniana sul set de Dall'Alba al Tramonto (tanto per parlare di due storie parallele in diversa salsa che confluiscono in una esplosiva di natura tutta sua). “Le due storie si intrecceranno l'una con l'altra in maniera perfetta” ci sussurra per non farsi sentire dagli altri distratti avventori, poi porta le due mani davanti al bocca per serrare il suono e ingabbiarlo in modo che possa giungere ai nostri orecchi come il più grande mistero dell'umanità, un tunnel da cui uscire solo grazie alla finissima strettura finale: “dando vita a un vero e proprio deep shock!”
Sulle labbra si apre un sorriso, a entrambi ovviamente, mentre gli altri, dietro, allungano i capi per cercare di cogliere qualche dettaglio, ma sono ancora ignari di quello che sta per succedere. Eppure il film è già uscito, quando scriviamo queste poche righe: Milano, Torino, Napoli e poi nel tarantino, ovviamente. Di lui han già scritto “dalla mente del più che promettente regista romano, possibile erede di Argento e Bava, affiora con violenta prepotenza Deep Shock.”
Accattivante fin dal trailer (che potete vedere qua https://www.youtube.com/watch?v=wJVeMjjNPfs) proprio per gli ingredienti che si intuiscono e per un bell'uso della fotografia (curata niente meno che da Juanma Postigo, candidato al Premio Goya 2016 per la fotografia di El Violin de Piedra), Deep Shock si presenta come il corto del definitivo salto di Melini, girato con una Red Epic Dragon 6K.
Produzione interamente inglese con apporto decisivo di Luca Vannella (cugino di Melini, addetto al trucco in molti kolossal americani, con titoli quali Avengers, Thor, Harry Potter, Apocalypto, Transformers, tanto per citare qualche nomignolo) e Vincenzo Mastrantonio (altro addetto al trucco in capolavori quali Titanic, Moulin Rouge, La Passione di Cristo), ma anche il pluripremiato hair stylist Ferdinando Merolla (Gangs of New York, Hannibal Lecter Le Origini del Male, tra i tanti) e lo stuntman Bobby Holland Hanton che ha pure indossato i veri panni di Batman (Inception, Il Cavaliere Oscuro Il Ritorno, nei panni di Batman, War Horse). Nomi pazzeschi da cui affiorano i titoli di tutti i maggiori successi degli ultimi anni, dalla Spagna all'Italia fino a Hollywood. Un bel banco di prova per l'amico Melini, che sceglie ancora la Spagna, con l'apporto della fedele produttrice esecutiva Fabel Aguilera, quale teatro in cui inscenare i suoi incubi su carta. Dispiace, ancora una volta, evidenziare il disinteresse italiano per certe produzioni. Melini, che ne è anche lo sceneggiatore, traccia un'esperienza onirica, con una protagonista che fugge dai lutti familiari che l'hanno colpita per rintanarsi in un mondo irreale a sua volta più crudele della realtà di partenza. Apparizioni, strani omicidi l'accompagneranno portandola a lambire i confini della pazzia. Muireann Bird, questa l'attrice protagonista, è la star queen in un cast artistico che annovera anche attori professionisti del calibro di Erica Prior (Second Name, regia Paco Plaza) e Francesc Pages (Darkness di Balaguero) oltre ad altri attori emergenti.
Per chi ne volesse sapere di più indichiamo l'indirizzo del sito ufficiale del film http://davidemelini.com/DEEPSHOCK dove potrete leggere l'insieme completo dei cast, sia tecnico che artistico, con l'invito a sostenere il film e gli artisti italiani che tentano ancora di rianimare quella fiammella costituita dal nostro cinema di genere e che qualcuno, specie quelli con penna e taccuino in mano, si è da sempre ostinato a voler spegnere pure quando dietro alla cabina di regia c'era un certo Leone... A proposito di Leone, è prossimo a uscire anche Lion sempre a firma di Davide Melini... Come disse Maurizio Costanzo (grande sceneggiatore dei gialli italiani del tempo che fu) a Sergio Corbucci: “State in campana lassù sul campanile!


IL GIALLO ALL'ITALIANA è PRONTO A FARE IL SUO RITORNO” 

sabato 11 febbraio 2017

Recensioni Narrativa: DALLE NOVE ALLE NOVE di Leo Perutz




Autore: Leo Perutz.
Genere: Realismo Fantastico / Giallo.
Anno: 1918.
Edizione: Reverdito Editore (Anno 1988).
Pagine: 282.
Prezzo: 24.500 lire.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Primo incontro col praghese Leo Perutz considerato, dal movimento letterario, uno dei maggiori esponenti della narrativa fantastica del blocco germanico/austro-ungarico dei primi novecento. Mi è difficile, essendo la mia prima lettura, scendere in ulteriore dettaglio sulla carriera di questo travagliato autore, costretto a fuggire dall'amata Austria prima dello scoppio della seconda guerra mondiale a causa delle sue origini ebraiche. Si intuisce però, già da questo Zwischen Neun und Neun (Dalle Nove alle Nove), senz'altro una delle sue opere prinicpali al punto da esser definito "il maggior successo editoriale dell'immediato dopoguerra sul mercato tedesco", una profonda diversità da autori quali Meyrink, Ewers o Strobl. Pur individuando in Hoffmann il maestro prediletto, queste le testuali parole dello scrittore, a mio avviso si respira una vicinanza marcata a un autore quale Franz Kafka. L'avventura che ci accingiamo a raccontare, infatti, è strettamente ancorata alla realtà, più in particolare al tessuto socio-economico della Vienna del periodo, ma nonostante questo prende la via del bizzarro, direi più propriamente del surreale di kafkiana memoria, senza però sconfinare nella letteratura del paranormale o del fantastico nel senso più stretto del termine. Perutz dispone di una smisurata abilità nello sviluppare la trama in modo da tenere il lettore attaccato alle pagine con dialoghi e descrizioni minimaliste ma calibrate a dovere. A contrario di Kafka è apparentemente meno autoriale (sottolineo "apparentemente") e più concentrato sul ritmo e i fatti, con un'ironia beffarda che traspira da ogni capitolo e che prende la forma di uno specchio d'acqua sotto il quale hanno gioco delle sabbie mobili in cui il protagonista, senza quasi accorgersene, affonda sempre più. Con questo Dalle Nove alle Nove, periodo di dodici ore in cui si svolgono i fatti narrati (anche se in realtà, come scoprirete alla fine, si tratta di un artificio della fantasia), Perutz usa l'espediente del racconto giallo/poliziesco alla Kafka, modello de Il Processo pure se meno criptico, per raccontare la sua amata Vienna e soprattutto il tessuto sociale urbano e la condizione umana nel suo senso più generale possibile. Così vediamo il protagonista, un abile studente che da ripetizioni a giovani di ricca famiglia cacciatosi in un brutto giro per motivi futili, vagare per la città con un comportamento alquanto bizzarro. Durante questa sua odissea, in cui cerca di recuperare per vie legali una determinata somma di denaro sufficiente a convincere la sua ex ragazza a compiere con lui, in luogo di un altro, la vacanza che la stessa ha organizzato in Italia, incontra, di volta in volta, una moltitudine di personaggi che incarnano i diversi stereotipi degli individui che si possono incontrare in città (dai professori universitari, ai medici, passando per i ricettatori, le bambinaie del parco, ai giocatori di domino, i truffatori e via dicendo). A Perutz interessa più questo che la trama in sé e per sé, la sua è un'analisi filosofica e, per certi versi, spirituale che prende le mosse dalla sociologia. Vuole fare un quadro beffardo della situazione, fatto di continue incomprensioni e punti di vista sbagliati, talvolta determinati da preconcetti (si veda la salumiera che a inizio romanzo pensa di aver subito un furto orchestrato in modo subdolo dal suo cliente) altri da modi di approcciarsi superficiali o comunque disinteressati sotto l'apparenza dell'interesse (vedere come in pochi si accorgino delle discrepanze nelle ricostruzioni fatte dal protagonista). Demba, questo il nome del protagonista, verrà visto in dozzine di modi diversi, alla fine da ubriaco (e lui stesso si convincerà di quanto gli altri gli andranno ad attribuire, tipo di esser in possesso di una pistola), costretto ad accampare le più assurde storie e bugie per motivare il suo strano comportamento, riuscendo spesso e volentieri a convincere l'interlocutore di turno e pure se stesso, tanto da compiacersi delle proprie trovate e dirselo davanti a uno specchio. "Bisogna costringere le persone con l'astuzia, con la superiorità di spirito, la forza di volontà, il potere dello sguardo, approfittando di ogni situazione, e fare quanto ci si aspetta da loro." Si tratta però di conquiste fragili come castelli costruiti sulla sabbia, pronti a cadere al primo soffio di vento perché non strutturati.

Per circa metà romanzo, con arte manipolatoria, lo vediamo vagare senza mai mostrare le mani, tenute rigorosamente sotto il cappotto, come mostra la copertina dell'edizione tedesca con cui abbiam deciso di aprire questo articolo. Perché questo? Lo si capirà solo a metà romanzo, dove Perutz racconta l'antefatto da cui si snoderanno due storie. Una è quella che il lettore sta leggendo, la fantastica in quanto parallela alla reale, oserei dire, l'altra si scoprirà alla fine con un colpo a sorpresa  che spiazza, poi non più di tanto, il lettore o quanto meno dovrebbe farlo nell'ottica dell'autore. Da notare come si respiri una sorta di messaggio metaforico per il quale la vita è paragonata a un'esistenza in catene (vuoi di ragione mentale vuoi di ragione sociale), mentre la morte è vera libertà (almeno così io interpreto, l'altrimenti beffardissimo, l'ultimo capoverso del romanzo). Dalle nove alle nove, in questo potrebbe anche significare la fine che simboleggia un inizio ovvero la morte come nuova vita a cui si giunge con un cammino di illusioni che sbocciano in clamorose beffe orchestrate da un destino divertito e divertente (per gli altri, non certo per chi deve fare i conti con i fatti nudi e crudi che si presentano sul proprio cammino).
L'ironia, pur nella kafkiana situazione di un uomo braccato dalla polizia per un reato in fin dei conti di scarso tenore (il furto di tre libri da una biblioteca universitaria) ma che viene trattato alla stregua di un omicidio, regna sovrana ed è curioso vedere come il protagonista riesca, ogni volta, ad accalappiare in diverso modo il denaro ricercato dovendo poi, per un motivo o per un altro, rinunciarvi, sempre per il vizio che lo attananglia e che non voglio qua evidenziare per non rovinare la lettura. Una sorta di volubilità degli obiettivi materiali e terrestri, che sono sempre a portata di mano ma fuggono sempre perché non ancorati al vero fine che dovrebbe orientare la vita di quello che Meyrink definirebbe l'uomo superiore ovvero colui che cerca il cammino della trascendenza (e che, per forza di cosa, passa da un'iniziazione tribolata e sofferente, altrimenti sarebbe di pronto accesso per chiunque). Per dirla in altri termini, ciò che sulla terra è materiale nell'altrove diviene immateriale per l'incapacità di superare l'ostacolo della morte. Dove si è mai visto, del resto, del denaro che supera il confine della realtà per varcare quello della dimensione ignota agli occhi degli umani?
Perutz, a differenza di Meyrink, a cui non amava esser accostato, esplicitamente non dice mai niente di questo, pare quasi suggerirlo a livello subliminale laddove invece l'austriaco non faceva certo giri di parole.

Belli alcuni passaggi che suggeriscono la sensazione di onnipotenza di un ricercato che passa inosservato agli occhi di polizia e passanti semplicemente camminando sotto i loro nasi, una sensazione però anche questa menzognera cui fa da contraltare la maledizione di una purezza infangata che prima o poi presenterà il suo conto in modo irreversibile e da cui non è concessa via di ritorno. Ecco quindi le successive riflessioni sull'espiazione della colpa e sull'onta incancellabile costituita da un reato passato che, agli occhi della società, non viene ripulito con la semplice condanna di una pena e che porta a un isolamento che non prevede riscatto. "La Giustizia infligge sempre le pene a vita. Chi esce dal carcere, deve nascondere le proprie mani, perché sono disonorate per sempre. Non potrà più porgere liberamente la mano a nessuno, dovrà strisciare attraverso la vita con le mani timidamente nascoste, proprio come me, che oggi per dodici ore, con le mani sotto la mantella."

Paolo Maria Filippi, nella sua post-fazione dell'edizione della Reverdito Editore, giustamente si chiede, in realtà, da chi o cosa scappi il protagonista e se davvero sia lui il colpevole o piuttosto una vittima di un meccanismo oscuro, un po' come il signor K de Il Processo di Kafka. Fa questa sua riflessione per la natura, senz'altro culturalmente più elevata del protagonista rispetto ai meschini o comunque monodimensionali soggetti che si trova a incontrare sul cammino. Un personaggio, questo Demba, che si getta in una missione folle, apparentemente dettata dal tentativo di riconquistare un amore non più corrisposto, dal sapore di supposto riscatto morale o più verosimilmente di ribellione al sistema, una sorta di voler dimostare chi, in realtà, sia il migliore senza poi interessarsi dei premi in denaro o delle conquiste affettive. Una parabola discendente che incarna, se vogliamo, la pazzia dell'uomo che non vede, nonostate i suoi impegni, i risultati sperati e che per questo impazzisce a causa del mancato riconoscimento sociale (si veda l'astio che Demba nutre per il tipo che, con superiorità, non gli rivolge mai parola quando entra nella casa in cui lo stesso svolge le sue lezioni: "Cos'è poi tanto di speciale? Niente studi universitari, niente esame di stato. E non mi stringe la mano, macché! Sarebbe indegno di lui!"). Uno stimolo, se vogliamo, puramente narcisistico e per questo destinato a fallire, perché evanescente proprio per il suo essere materiale (sembrerebbe un controsenso). Così allora arriva a scrivere Filippi: "La colpa esplicita, commessa veramente e riconosciuta (il furto dei tre libri, ndr), rimanda ad un'altra colpa, implicita, sottaciuta, metafora di uno status che va ben al di là di un banale conflitto di proprietà, della quale nulla è detto esplicitamente. " Non so se si possa sostenere la nostra ricostruzione, ma abbiamo cercato di fornire una nostra risposta all'analisi di questo bravo critico. Analisi che porta così a rendere molto diverso Dalle Nove alle Nove da Il Processo, per essere il primo più orientato su un'analisi che mette in correlazione la vacuità degli obiettivi terreni che fingono di offrire una libertà che, invece, si può conquistare solo nell'altrove (dove non vi sono giudici e dove non esiste la materia), laddove il secondo si muove su meccanismi oscuri e prettamente materiali che regolano la società, creando un substrato occulto che, dietro le quinte, muove i fili dei poteri istituzionali. Ed ecco che viene pertinente allora l'apparente sconclusionata dissertazione del protagonista che ribalta un concetto dato per pacifico in ogni società civile e che ruota attorno al concetto di giustizia: "Non deve esserci nessun castigo. Il castigo è follia. E' l'uscita di sicurezza verso la quale ci precipitiamo, quando nell'umanità si diffonde il panico. E' il castigo ad avere la colpa di ogni crimine... Che l'umanità abbia il potere di castigare, è questa la causa di tutta l'arretratezza spirituale..."


.Leo Perutz.

Un'opera questo Dalle Nove alle Nove che calamitò subito le attenzioni di mostri sacri del cinema come il maestro dell'espressionismo tedesco Murnau, che tentò di farne una trasposizione (restando impantanato nel mare dei diritti d'autore e delle mancate autorizzazioni, in quegli anni era rimasto altresì coinvolto nella lunga causa intentata dalla moglie di Stoker per bloccare Nosferatu), e sua maestà Alfred Hitchcock che vi si ispirò per il suo The Lodger (Il Pensionante) uscito nel 1927.
Chiudo con un commento che ho trovato molto chiarificatore circa il contenuto del testo. E' stato pubblicato su Anobi da una tale che si chiama GRAZIA, suona quasi di beffa pure questo dato che si parla di colpe e giudizi, la quale in poche parole sintetizza, a mio modo di vedere, l'anima del testo: "Avrei detto lettura d'intrattenimento. E invece. Tutt'altro. Siamo dinnanzi ad una metafora sulla condizione dell'uomo. Sulla delusione dell'uomo. Sulla fine di tutti i suoi sogni e le sue illusioni. In primis la libertà. Ma anche l'amore. E la giustizia. E il sentimento che coglie e che ben descrive è l'impotenza, l'essere con le mani legate, l'impossibilità di cambiare le cose, nonostante il dibattersi quasi frenetico dell'uomo".