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giovedì 31 dicembre 2015

Recensione Narrativa SINFONIA DEL TERRORE (IL GOLEM) di Frank Graegorius aka Libero Samale.




Autore: Frank Graegorius, pseudonimo del dottor Libero Samale.
Anno: 2005 (romanzo però scritto negli anni '60, uscito col titolo Il Golem nella serie I Racconti di Dracula).
Edizione: Greco & Greco.
Genere: Horror.
Pagine: 135.
Prezzo: 10,50 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Romanzo scritto a metà del secolo scorso, probabilmente nel 1963, per essere inserito nella serie horror italiana I Racconti di Dracula ideata dal nobile siciliano Antonino Cantarella e ribattezzata, dopo decenni, come la Weird Tales Italiana, una serie dove trovavano spazio attori shakesperiani e registi di spaghetti western poi passati a fare da periti di balistica per il Tribunale di Roma. Serie questa che costituisce il fiore all'occhiello della narrativa horror nostrana ma che purtroppo, non essendo legata a grandi editori, è di fatto sconosciuta e di difficile reperibilità. C'è allora da elogiare il lavoro di Sergio Bissoli, scrittore e saggista e grande cultore della narrativa fantastica italiana (non chiamatela di genere, perché è riduttivo) degli anni '60 e '70, e non solo di questa, naturalmente. Una passione che lo ha spinto, quando ancora gli autori della collana erano in vita, a mettersi in contatto con ciascuno di loro. L'impresa potrebbe sembrare, seppur ardimentosa e volenterosa, tutt'altro che difficile da compiere, penserete voi. E invece fu titanica poiché questi autori, per ragioni contrattuali (dovute all'idiozia del pubblico italiano, sempre orientato a cassare i propri artisti, sia che siano registi sia che siano scrittori), erano costretti a nascondersi dietro pseudonimi inglesi arrivando persino a ricreare delle biografie di comodo e di fantasia.  Perché questo? Perché se i lettori avessero saputo che gli scrittori erano italiani mica avrebbero comprato le copie, ne sa qualcosa anche Riccardo Freda quando uscì il primo horror movie italiano, I Vampiri, e il pubblico fuori dalla sala mormorava che non sarebbe entrato perché mica era un film americano... Sotterfugi che però non furono sufficienti a frenare la curiosità di Bissoli. L'autore era innamorato della collana, voleva conoscere questi fantomatici scrittori australiani, americani e inglesi di cui non vi era altra traccia nel mondo editoriale. A questo infatti erano giunte le sue indagini. Niente di niente. Alla fine però la soluzione che ha condiviso con tutti gli appassionati, mettendo nero su bianco gli scambi epistolari intrattenuti con questi autori, riportandoli all'interno di un saggio La Storia dei Racconti di Dracula pubblicato per le edizioni Profondo Rosso. Un volume quest'ultimo un po' caro, ma indispensabile per la tradizione horror italiana, in cui rivela aneddoti e ripercorre la genesi e la fine di questo bel momento della narrativa horror italiana.

Oltre a Bissoli un grande elogio è da fare alla piccola Dagon Press, casa editrice minusola, autofinanziata, sempre tesa a proporre ai suoi fan volumi inediti in Italia della Grande Narrativa Fantastica, ma anche a riproporre i romanzi brevi dei più grandi autori della serie I Racconti di Dracula, proprio su consiglio e aiuto di Sergio Bissoli. Il romanzo qui esaminato fa parte di questa serie, in cui fu proposto con il più appropriato titolo de Il Golem, omaggio forse anche all'omonimo romanzo dell'austriaco Gustav Meyrink, e riproposto con tale titolo dalla Dagon Press e, prima di loro (unico caso tra tutti i Racconti di Dracula), dalla Greco & Greco che lo ha messo sul mercato nel 2005, sempre con Bissoli in cabina di regia, col titolo Sinfonia del Terrore.

Vediamo un po' ora chi è l'autore. Si tratta dello psichiatra, autore di svariati testi dedicati alla mente e alle cure delle malattie mentali, Libero Samale. "Autentico genio della narrativa nera" lo definisce il suo cultore e studioso Sergio Bissoli. Personaggio monumentale il Dottor Samale, appassionato di occultismo, pratiche medianiche ma anche, e soprattutto (per quel che interessa a noi), di narrativa. Possedeva una collezione di oltre seimila libri, oltre a volumi acquistati in giro per il mondo tutti incentrati su riti magici e leggende popolari. Sì, perché il dottor Samale era anche un inguaribile viaggiatore, con la mente come il più illustre predecessore Emilio Salgari, ma anche col corpo. A differenza del gusto esotico del collega di penna prediligeva i paesi dell'est Europa, perché più calati nell'atmosfera magica. Ecco che le sedi dei suoi viaggi innumerevoli ricadevano in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania. Andava in giro non tanto per turismo, ma per fare conoscenze, per crescere spiritualmente e culturalmente. Più le persone erano strane o davano dimostrazione di possedere qualità che andavano oltre i canoni del comune vivere, più diventavano sue amiche. Si parla di una vera e propria schiera di medium, sciamani, occultisti, personaggi enigmatici con cui era in relazione e con cui si misurava, sfidando ordini e confrontandosi con movimenti esoterici più o meno segreti. Un vezzo che poi è comune a molti autori di narrativa fantastica di fine ottocento primi del novecento, basti ricordare, uno su tutti, l'immenso Conan Doyle che passava da uno spiritista all'altro per testare le sue teorie sull'Aldilà, fino a scontrarsi con l'amico Harry Houdini.
Figlio di un perseguitato politico, originario della Basilicata, dal carattere chiuso ma buono d'animo, e di una coraggiosa professoressa fiorentina i cui fratelli (gli zii di Libero), da fonti acquisite su internet, erano gli ingegneri che progettarono i ponti sull'Arno sia a Firenze che a Pisa, Libero vede la luce proprio in Toscana, a Firenze, terzogenito, dopo Vera e Sonia così chiamate dalla madre perché accanita lettrice e appassionata del romanzo Guerra e Pace di Tolstoij.
Cognome atipico quello dei Samale, si pensa di origine araba, una famiglia che fa dei peregrinaggi il proprio marchio di fabbrica. Dopo pochi anni dalla nascita, Libero si sposta in giro per l'Italia, soprattutto in Emilia, con la famiglia. La sorella Vera si trasferisce addirittura in Inghilterra dove si stabilizza e diviene insegnante. Libero invece frequenta l'università, come Conan Doyle sposa medicina, più per volere del padre che per inclinazione naturale. Curiosamente eredita dal principale personaggio dello scrittore scozzese, ma di origine irlandese, la passione per il violino e una sconfinata curiosità aperta su più campi del sapere. Incredibile poliglotta, capace di comprendere persino ebraico e arabo, si appassiona presto alla narrativa, senza però dimenticare gli studi che completa a Bologna. Diventa medico e parte dal basso. Dapprima presso la mutua, poi fa tappa in più studi dell'Emilia facendo esperienze persino in Croazia. E qua che conosce la sua futura moglie, una pianista di Pola, che sposa trasferendosi a Imola. La cittadina in cui ha sede il famoso autodromo di Formula 1 si presta per uno degli aneddoti più curiosi della famiglia Samale, almeno per chi scrive. Durante i bombardamenti per la liberazione dell'italia dalle truppe nazi-fasciste, il dottor Samale sta dormendo in una stalla per paura che qualche bomba possa cadere sulla casa, eventualità che puntualmente si materializza. Il fischio delle bombe che piovono e il boato sono lancinanti, le lingue di fuoco colorano le tenebre avviluppando la timidezza propria della notte. Urla, pianti e grida strozzano i cuori, come pugni in pieno stomaco che cacciano via gli ultimi vortici di ossigeno. La gente scappa in ogni dove, la pazzia consuma la ragione, rende simili agli animali, tutto istinto e zero controllo. La signora Nilde, questo il nome della moglie, però è donna coraggiosa, non si fa prendere dalla situazione, fa la cosa saggia. Si alza, si lancia fuori dalla stalla e accorre verso la casa squartata dalle lame grezze liberate dalle carlinghe dei maiali volanti, come li chiamava lo scrittore inglese della RAF Leslie Allin Lewis. Il passo è veloce, la fronte imperlata dal sudore. Entra in casa, non fa caso all'acro odore del fumo, che gli aggredisce le narici, né ai rumori che violentano la quiete simili al terrore che esplode in un mattatoio. Accorre per salvare quel poco di cibo che può portare via. Una salsiccia, dei frutti, un pezzo di pane... non è che in quel periodo ci fosse molto di più. Il Dottor Samale, invece, che fa? Insegue la moglie, ma non per aiutarla o confortarla. Prima di tutto vengono i i libri... Sfida la morte come un personaggio delle sue storie, magari armato di fioretto piuttosto che di sciabola, vola sulle fiamme, le attraversa, benedetto da una forza ultraterrena sensibile al sapere occulto serrato in impenetrabili strati di fogli. Quindi esce e, in mezzo al frambusto, zigzaga nella follia propria della bestialità umana con pile di volumi sulla schiena da collocare al riparo dalla proverbiale bomba a cui la cultura certo poco importa... Mitico!

Finita la guerra, arrivano tempi migliori per il dottore. E' ancora medico della mutua a Bologna, ma cinque anni dopo la sua carriera inizia a decollare, parimenti alla passione per la letteratura. Inventa, insieme a un collega, la Chionina per arginare la tubercolosi, scrive persino un trattato in materia e brevetta la scoperta, ma ha la sfortuna di esser superato da un medicinale inglese più incisivo. Inizia allora a interessarsi di psicologia medica. Passione quest'ultima che lo porterà a specializzarsi in psichiatria e a traferirsi a Roma. E' nella capitale, poco prima degli anni '60, che forgia l'interesse che lo lancerà nella scrittura, ovvero la passione per l'esoterismo. A "iniziarlo", oltre al pittore Ivan Mosca, è un collega psichiatra dal nome quanto mai adatto all'argomento: Servadio.
Dal 1960, a quarantasei anni, sotto il nome di Frank Graegorius, Libero Samale da sfogo alla propria passione e scrive qualcosa come cento romanzi, prevalentemente horror con risvolti esoterici e ambientazioni sparse in giro per l'Europa. Soluzione quest'ultima che permette all'autore di inserire leggende e folklore locale di cui ha preso cognizione diretta grazie agli innumerevoli viaggi intrapresi.
Un ictus lo colpisce nel 1984, lo rende semi infermo. Il danno è tanto grave che muore dopo appena nove mesi dalla lesione per un'ulteriore emorragia. Viene sepolto nel cimitero di Prima Porta, a Roma.

Libero Samale era uno scrittore che trattava temi macabri, con grande gusto nell'evocare atmosfere dense di mistero, oniriche e tendenti al claustrofobico, in questo forse il migliore in Italia. Meno ridondante e ripetitivo di Lovecraft, di certo meno pessimista e più legato alla tradizione esoterica (piuttosto che a inventare nuovi mondi o a toccare la fantascienza), ma forse meno capace di tenere compatto l'intero involucro al cui interno si compongono i passi di una storia. Di certo dotato di una verve ironica capace di renderlo simpatico. All'amico Sergio Bissoli, una volta, raccontò: "Un editore mi ha proposto di scrivere romanzi rosa... A me che scrivo romanzi gialli e neri, come i colori della bandiera asburgica. Via, su... Siamo seri!" Divertente il riferimento alla bandiera asburgica, davvero una chicca, specie quando dice di esser seri, in ossequio, penso io, al notorio umorismo asburgico. Una frase da cui però si evince anche lo spirito dell'autore, il suo approccio alla narrativa, un approccio che non è affatto dettato da ragioni commerciali. Samale utilizzava la scrittura come via per restare giovani, una magia autoindotta che traccia percorsi invisibili per evadare dalla monotonia che spesso caratterizza la vita di tutti i giorni, da qui la ricerca del fantastico, dell'avventura, buttando un occhio, e qualcosa di più di un occhio, verso quell'altrove su cui i sofisti affermavano di non doversi interrogare. "Scrivete soprattutto per voi" soleva dire ai colleghi in crisi di riscontri, anche per evitare che subissero fuorvianti influenze.

LIBERO SAMALE
aka
FRANK GRAEGORIUS

Abbiamo parlato dell'autore, adesso passiamo al testo, uno dei primi di Samale, uscito nel 1963, col numero 42 nella collana I Racconti di Dracula. Il titolo di uscita originario è fin da subito evocativo circa il contenuto del romanzo. Samale lo intitola, giustamente, Il Golem, scelta dettata dalla creatura leggendaria della tradizione ebraica protagonista nella parte terminale dell'elaborato, piuttosto che omaggio al famoso romanzo di Gustav Meyrink edito, col medesimo titolo, nel 1913 e divenuto uno dei romanzi importanti, se non il più importante, nel panorama letterario fantastico teutonico delle immediato dopo guerra. Vedremo nel testo come sia intenzione dell'autore avvicinarsi alla tradizione che sta alla base della figura del golem, anziché ispirarsi all'introspezione evocata dal collega austriaco che usa il golem in forma indiretta e non come un essere votato alla protezione degli ebrei da soprusi e angherie. Meyrink tende a nascondere addirittura la creatura, la trasforma in un qualcosa di ectoplasmatico, una specie di spettro che ricompare ogni 33 anni in un ghetto praghese, creando quel disordine ricordo della nefasta fuga verificatesi secoli indietro, quando il rabbino interessato dalla genesi dell'essere ne perse il controllo, un po' come, ci perdoneranno i puristi, raccontato da Crichton nella fuga dei dinosauri nel parco del Jurassic Park. Samale è vicino alla tradizione, se vogliamo il suo romanzo si accosta, pur restando più fedele alla tradizione, al capolavoro dell'espressionismo tedesco, anch'esso intitolato Il Golem e anch'esso privo di relazioni con Meyrink (contrariamente a quanto abbia sostenuto qualcuno su alcuni volumi). Film quest'ultimo uscito nel 1915 e diretto da Henrik Galeen e da Paul Wegener (cinque anni dopo sarà girato un prequel). Un film che parte dalla tradizione per preferire, in corso d'opera, sviluppo più vicini, se vogliamo, al Frankenstein di Mary Shelley (1818) piuttosto che ai lavori di Meyrink o alle leggende di Rabbi Low. Romanzo, quest'ultimo, a sua volta anticipato da L'Uomo della Sabbia - Der Sandmann (1815) di Ernst Theodor A. Hoffmann che per primo, pur se in chiave originale e fantascientifica (essendo il Dottor Spalanzani uno scienziato, non un mago o un alchemico o un cabbalista), ha portato in narrativa la figura dell'automa.
Ma vediamo prima di chiarire che cosa sia il golem. Innanzi tutto individuiamo l'area e la tradizione di appartenenza. Il golem viene spesso definito una "figura stanziale", poiché strettamente correlata alla tradizione cecoslovacca e, ancor più nel dettaglio, ai quartieri ebraici praghesi. Si tratta di un'analisi un po' superficiale, che trova forse corrispondenza nella narrativa ma non certo nella tradizione culturale dove ha una valenza e un significato molto più ampio e profondo, che si dilata per tutta la storia dell'uomo. Una figura che è in stretta relazione con la "genesi" dei testi sacri, significando "golem" materia grezza, informe, se vogliamo un qualcosa da plasmare come l'argilla e la terra nelle mani di Dio nell'ultimo giorno, dei sette (che poi son sei effettivi), dedicati alla creazione. Un termine che ai tempi moderni, in ebraico, viene usato anche per individuare i robot antropomorfi.
La parola compare per la prima volta proprio nei testi sacri, nel Tanakh, al verso sedici del salmo 139. Si tratta di un sostantivo che richiama il verbo "avviluppare" da intendersi, secondo interpretazioni esegete di studiosi della materia, "cosa ravvolta in sé stessa, ancora informe", in altri termini embrionale e dunque ancora imperfetta, accostata ad Adamo prima che Dio lo dotasse di un'anima. Il golem viene poi definito ne la Vulgata (382) di San Girolamo, ovvero la prima traduzione in lingua latina dall'ebraico della Bibbia, quale "Imperfetto, il non sviluppato, l'esistenza che precede l'essenza, la confusione che implica l'ordine e così via, di anologia in anologia". Dunque un termine e una figura antichissima, legata alla nascita delle religioni monoteiste e più fedelmente di quella ebraica, da cui poi si è quasi liberata per entrare nell'immaginifico dove prendono forma leggende e da queste la narrativa. E così, dalla genesi dell'uomo per opera di Dio, si è giunti alla genesi imperfetta per mano dell'uomo stesso, più nello specifico, dei maestri della Kabbalah in grado di plasmare una creatura gigantesca di argilla, secondo i dettami de Il Libro della Creazione (lo Sefer Yetzirah), e di renderla "viva" in virtù della conoscenza degli alfabeti delle 121 porte da ripetere sugli organi della creatura nonché della conoscenza delle parole proferite da Dio nell'atto della creazione di Adamo. A quest'ultimo riguardo, aspetto questo ripreso anche dalla narrativa, è fondamentale l'incisione della parola "AEMETH" ("verità") sulla fronte della creatura o sotto la sua lingua piuttosto che dietro i denti. Una combinazione di lettere, a emulare la parola proferita da Dio al cospetto di Adamo, in grado di animare la creatura, arrestabile in seguito solo cancellando il dittongo "AE" così da creare la parola "METH" ("morte"). Da qui il mito da non confondere con quello dell'homunculus, essere anch'esso antropomorfo, ma di creazione alchemica piuttosto che cabbalistica, risultato finale di un processo "sporco" e ancor più "blasfemo" rispetto alla tradizione del golem, che invece è legata alla tradizone divina, poiché tende a scimmiottare, per altra via, il tema della creazione addirittura prevedendo la presenza di sterco di cavallo e di seme umano. Da qui il monito dei maestri della Kabbalah: "L'uomo che crea la vita in modo artificiale, uccide la presenza di Dio suscitando l'idolatria, poiché passare dal simbolo mistico alla realtà uccide Dio in quanto la formula completa informa un altro testo."
E qual'era allora lo scopo di queste creature antropomorfe, mute e prive di anima? In origine era quello di proteggere la popolazione ebraica dai soprusi e dalle angherie, ma anche di rispondere agli ordini del loro creatore per eseguire lavori pesanti. Quest'ultima evoluzione è dovuta soprattutto alle storie che gravitavano, nel XVI secolo, attorno alla figura del rabbino Jeudah Low di Praga. Secondo la leggenda, questo rabbino, nel 1580 plasmò dal fango della Moldava il Golem e perseverò in queste creazioni per impiegare gli esseri per le ragioni sopracitate. Purtroppo però era incapace di controllarli nel lungo periodo, a causa dalla costante ma graduale crescita di dimensione degli stessi. Allora ecco l'intervento volto a eliminare il dittongo della vita, fin quando un giorno perse il controllo di una sua creatura che devastò l'intero villaggio. Leggenda quest'ultima che sta alla base delle storie della narrativa e che, come vedremo, è lo spunto di ispirazione del romanzo di Libero Samale aka Frank Graegorius.
Per dirla in termini semplici, con la figura del Golem l'uomo gioca a fare Dio, emulandolo nell'atto di creare vita, partendo dal medesimo fango e argilla e usando la stessa "magia", definiamola così, per dare vita e corpo alla creazione, senza però esser in grado di infondere l'anima e la carne al uomo plasmato. Da qui un essere imperfetto, privo di emozioni, paure, parola e pensiero... un automa, appunto.
Su questo tema rinvio all'articolo dell'amico Giuliano Conconi che sulla materia ha compiuto un vero e proprio studio. Trovate qua un sunto:   http://nerocafe.net/nero-history/la-leggenda-del-golem/

La locandina della I Edizione.

Chiarito di cosa si stia parlando, analizziamo il romanzo di Samale. Centotrentacinque pagine circa, tredici capitoli seguiti dalla conclusione, storia tutta ambientata in una notte, in un paese di campagna sul confine della Slovacchia.
Protagonista è un giovane procuratore legale, Jan Hodza, che ricorda vagamente il Jonathan Harker del Dracula di Stoker. Come il più famoso collega, Jan viene inviato dal suo studio in un paese periferico di campagna, Poldice, per relazionarsi con un ricco mercante. Questa volta il giovane non deve trattare un acquisto, bensì una vendita sui Monti Tatra (località che da il nome a un lussuoso marchio di auto ceke, n.d.r.). Lo accompagna nel viaggio un losco e ambiguo contrabbandiere, tale Milan. Il cliente, un po' come Dracula, è un misantropo che esce poco di casa e su cui girano strane voci di stregoneria. A differenza però dell'antagonista di Stoker, il cliente di Jan, tale Simeon Goldstein, è un cabbalista votato al bene, quanto meno nelle intenzioni.

La sfortuna del protagonista è di giungere in paese nella serata sbagliata, la notte definita del diavolo. Muore infatti un giovane di tubercolosi e il popolo, fatto di bigotti e di pagani che finiscono col rinnegare la parola di Dio rappresentata dal tentativo di un prete che cerca di farli ragionare, si scaglia contro il vecchio cabbalista. Lo accusano infatti di stregoneria, inoltre lanciano proclami antisemiti e il vecchio è un ebreo. Il protagonista deve star ben attento a dire dove si reca, un po' come l'Harker di Stoker quando giunge in Romania, anche se a differenza del romanzo dell'irlandese gli indigeni stanno progettando di assaltare la magione dell'uomo. Se gli zigani rumeni sono al servizio del principe della notte, quelli ceki sono tutti contro il cabbalista. Diciamo che Simeon è una sorta di negativo di Dracula e dunque un corrispettivo benigno. I locali, un volgo degenere, si fanno infatti forza della carica di una strega, la regina degli Zigani, che è l'elemento di maggiore personalità del paese in cui trova spazio un campo di nomadi. La vecchia, insieme alla sua combriccola, va in giro a estorcere denaro sotto la minaccia di maledizioni, garantisce guarigioni in cambio di denaro, scredita medici e uomini di religione, ma soprattutto si scaglia contro il grande rivale ebreo. Samale non spiega più di tanto il motivo, lo pone solo come lotta tra la bellissima figlia della zingara, anch'essa strega che evoca demoni e ipnotizza con il ricorso di droghe, musica e suggestione, e la nipote del cabbalista, entrambe interessate al giovane procuratore piovuto in paese. La prima usa la seduzione erotica e il ballo, la seconda la dolcezza timida e casta. La prima è falsa ma eccitante (carica erotica enorme ed elegante ben resa da Samale), la seconda sincera e castigata. La zingara è attratta dalla purezza del giovane, la vuole contaminare per inebriarlo e portarlo alla perdizione strappandogli via l'anima e, non da ultimo, i suoi patrimoni. Diametralmente opposto l'obiettivo dell'altra. Se quest'ultima vuole il cuore del giovane per condividere la vita fino all'intervento della morte, la prima desidera domarlo per provare a se stessa quanto sia forte. Dunque la dicotomia dell'altruismo funzionale al donarsi all'altro contro l'egoismo funzionale all'affermazione personale. E' il vecchio tema della magia bianca contro la magia nera, su cui si innesca la passione amorosa di cui il protagonista è pedina vittima degli eventi, assimilabile a una biglia che schizza da una parte all'altra, protagonista di un flipper impazzito e schiavo di ingranaggi più grandi.

Tutto succede in ventiquattro ore, un incubo dove fanno il loro gioco le droghe, l'alcool, le allucinazioni più perverse, agevolate da quadri sinistri, tarocchi, riti magici e musica ipnotica. Jan riesce a resistere grazie alla forza d'animo, a una purezza che gli permette di contemplare il golem, prima che questo entri in azione, senza subire danno alcuno, contrariamente alla leggenda che dice che chi guarda il golem muore poiché ciò è prerogativa degli eletti. E' per questo che il vecchio Simeon gli affida la nipote, come se l'arrivo del giovane fosse il risultato di un destino già scritto e di cui il vecchio ha sempre saputo.
L'incontro tra i due avviene nella casa del vecchio ed è una visione che stordisce Jan, sempre sul filo da cui è facile cadere negli abissi del non ritorno ovvero quelli della pazzia. Il vecchio è un ottantenne ancora in forma, è seduto con un libro in grembo ed è contornato da strani quadri. Ha alle spalle un'enorme gigantografia che rappresenta un vecchio disteso in una bara scoperta (ancora rimandi indiretti a Dracula), sulla quale se ne sta appollaiato un corvo (animale dalla forte ma contraddittoria carica simbolica), oltre al quale divampano fiamme che avvolgono una grottesca creatura androgina, metà uomo e metà donna, sospesa fra nubi tempestose. Samale/Graegorius impreziosisce il testo di molte descrizioni come questa, dotando il tutto di un forte simbolismo non sempre facilmente intelliggibile. Purtroppo la parte centrale è un continuo passsare da realtà a visioni, molto affascinante senz'altro ma che dilata il contenuto, col povero Jan costretto a subire un bombardamento di immagini e di incubi per poi tornare a immergersi nella follia di una notte degenere (forse ancor più folle delle visioni arcane), sperando di salvare Simeon e la sua nipote dalla spinta omicida di un intero popolo. Tra le visioni è centrale quella di un mascherone scolpito nel marmo, una faccia ipocrita, vagamente asimmetrica nei lineamenti con un sorriso "faunesco" distorto, accompagnato dall'iscrizione in caratteri gotici "In Hoc Signo, Perdes".

Solo negli ultmi capitoli, quando i due giovani saranno nelle grinfie della giovane strega ormai sul punto di soccombere, entrerà in azione il golem. Se da una parte Graegorius riesce a creare aspettativa e a suscitare orrore (su tutti è da segnalare l'attacco dei topi che cercheranno di sbranare i due prigionieri protagonisti, incapaci di difendersi perché legati), pecca un po' nella costruzione dei dialoghi, a mio avviso troppo cinematografici. C'è invece da elogiare il rispetto della tradizione dell'antica figura ebraica. Il golem, antropomorfo e costruito di argilla, da statua, entra in azione grazie a una pergamena contenente il nome di Dio e che Simeon gli infila in bocca. Ecco che si anima per portare aiuto al suo creatore e si scaglia contro la popolazione impazzita, facendo scempio e distruggendo quanto gli capiti a tiro. A violenza si risponde con violenza, curioso che il nome di Dio venga quindi fatto inserire in bocca alla creatura, quasi come verbo, come voce silente dato che l'essere è muto, ma di questi tempi si potrebbe anche capire il perché, visto che non succede poi molto di diverso in nome della religione. I nomadi vengono travolti, così come i popolani ignoranti. A ogni gesto l'essere cresce di dimensioni, diventa una sorta di dinosauro. Ideale metafora che vuole che dalla violenza nasca ulteriore violenza in una spirale crescente di morte e di distruzione, aspetti questi ultimi che Graegorius andrà a descrivere con scenari proprio di un campo di battaglia. "Il fragore cadenzato, che aveva già scosso la terra tornò a farsi udire sovrastando il vocio scomposto della folla... Quel tremito si trasformò in un terremoto che sussultò e ondulò a lungo", questo è il clima apocalittico in cui va a versare l'epilogo, proprio come quando in Jurassic Park le creature estinte da Dio per lasciar spazio all'uomo vengono riportate in vita da quest'ultimo in quella che altro non è la base iniziale della genesi: la manipolazione del DNA, da intendersi come la lavorazione dell'argilla e della terra usata da Dio all'alba del mondo. Un gioco pericoloso, come sottolinea Spielberg quando parla della genetica (da leggersi creazione) quale forza più dirompente che esista col rischio di usarla come un bambino (leggersi uomo) che giochi con la pistola (leggersi distruzione) del padre (leggersi Dio).
Graegorius introduce qua un contenuto di valenza metaforica, qualificando l'essere come un qualcosa di neutro, originariamente inoffensivo come tutte le creazioni dell'uomo, ma che assume connotati negativi in funzione dell'ambiente in cui viene inserito o che comunque funge da catalizzatore delle passioni umane con conseguenze negative se queste assumono valore distruttivo. E' un po' l'esempio costituito dall'energia nucleare, nata non certo per essere distruttiva o per placare un popolo (quello giapponese) fin troppo belligerante e tutt'altro che arrendevole, ma che poi... abbiamo visto le conseguenze. "Il golem diventava sempre più alto, sempre più grosso, come se la malvagità umana accumulata dentro di lui nutrisse il suo corpo d'argilla via via che centuplicava il suo furore."

Gli ultimi due capitoli del romanzo sono notevoli, Graegorius si serve di una figura leggendaria per ricreare riflessioni che si sviluppano su versanti esoterici ma anche essoterici. Da quest'ultimo punto di vista si pongono riflessioni relative alle capacità distruttive delle scoperte dell'uomo, che finiscono per prendere una piega contraria alla creazione e alla costruzione, al miglioramento umano. Dalla genesi nasce così la morte, un po' come minacciato da quei moniti che abbiamo evidenziato quando abbiam parlato dei pericoli connessi alla creazione del golem, al voler ergersi quale soggetti che giocano nell'imitare Dio senza rendersi conto che questo non è stato concesso all'uomo, il quale è solo un ospite di un mondo creato da altri. Atteggiamenti arroganti che portano alla guerra, perché, in fondo, l'uomo, o meglio la massa, è cattiva, regala spesso il peggio per la volontà di sopraffare chi è diverso, chi è migliore o chi, come diceva Socrate, assume l'atteggiamento del tafano per cercare di convincere che è più importante la cura dell'anima rispetto al materialismo. Notevole conclusione, che non anticipo, ma che è in perfetta linea con la tradizione ebraica del sacrificio e in cui il cabbalista capisce di aver peccato, perché ha agito in nome di Dio creando distruzione, contravvenendo a uno dei dettami donati sul Sinai. "Ho voluto imitare Leon Ben Bezabel, per proteggere la mia famiglia. Ma ho peccato. Ho scatenato le forze dell'inferno e, quel che è peggio, mi sono servito del nome del signore di Giustizia!" Ecco che, implicitamente, Graegorius propone il tema del rapporto magia bianca - magia nera, evidenziando come il confine sia molto sottile e come sia difficile restare in una zona franca quando si ricorre alla magia per perseguire risultati esterni. La magia è sempre pericolosa, perché si fonda sull'evocazione di intelligenze esterne per ottenere come risultato il controllo, il potere e il dominio, tutti aspetti negativi. Il vero asceta deve invece sviluppare il proprio io, aiutare gli altri a fare altrettanto e non perseguire biechi risultati apprezzabili in termini economici o di potere. Ecco allora che il golem, come spiega Goldstein, nella visione di Samale, "è la stessa umanità destinata a perire per colpa della sua bestialità"

La ristampa in catalogo della DAGON PRESS
corredata da analisi che rendono più appetibile la lettura.

In definitiva Sinfonia del Terrore alias Il Golem è un breve romanzo dell'orrore, che si legge molto velocemente e scorre in modo fluente, testimonianza di una narrativa fantastica italiana che in modo assurdo si persevera, salvo pochi appassionati, a voler continuare a tenere sepolta nell'undergroung. Ci sono dei limiti, forse l'opera paga qualcosa nel fatto di essere diluita da una duplice anima, da una parte quella visionaria che si sviluppa in una dimensione fantasiosa e claustrofobica, una sorta di peregrinaccio mentale indotto da svariate componenti e fatto di colori, fughe in dedali sotterranei, apparizioni oniriche e inquietanti; dall'altra, la più interessante, quella terrena, che diviene teatro di scontro tra il male e un bene che si trasforma anch'esso in male, per mano di una creatura neutra figlia della mitologia religiosa ebraica che si anima però in funzione del mondo in cui viene chiamata a vivere; un mondo che non può che essere animato da propositi malvagi e, a loro modo, distruttivi, dove corruzione (carnale ed economica), ignoranza e materialismo trovano sempre terreno fertile. Un humus che dona frutti avariati e velenosi come quelli che costarono la cacciata dall'eden di quella prima creatura che, secondo alcuni racconti, costituì l'evoluzione dal golem all'uomo e che ne testi risponde al nome di Adamo. Mitologia e religione che si inseguono dunque in un'eterna corsa, sotto la benedizione di quella narrativa reputata da molti come minoritaria, ma che invece costituisce spesso campo di capolavori incompresi: lunga vita dunque alla narrativa fantastica e ai suoi immortali autori. 

mercoledì 16 dicembre 2015

Recensione Narrativa: IL CASO DI CHARLES DEXTER WARD di Howard P. Lovecraft



Autore: Howard Phillips Lovecraft.
Anno: 1927 (uscito postumo nel 1941).
Genere: Horror.
Pagine: 131.

Commento di Matteo Mancini.
Romanzo breve, definito da molti autobiografico, scritto da Howard Phillips Lovecraft nei primi mesi del 1927, ma uscito solo una quindicina di anni dopo, nel 1941, per volontà degli allievi dell'autore ormai morto da qualche anno. 
La storia, inscenata nella città natale di Lovecraft, a Providence ("eterno rifugio dei dissenzienti, dei liberi pensatori e degli individui più strani"), ruota attorno al tema della negromanzia e della vita oltre la morte. I fatti sono narrati in un lento crescendo, preceduti da un antefatto storico distante oltre un secolo rispetto alla trama principale, con un personaggio sfuggito dalla caccia delle streghe di Salem.
Protagonista è un giovane ragazzo appassionato di antichità che ha una vita sociale prossima allo zero, poiché adora vivere per lo studio e la contemplazione dell'architettura e dell'arte antica. Un individuo che si interessa di storia, genealogia, architettura, appassionato di lunghe passeggiate nei centri storici e che ignora del tutto il mondo moderno, da cui non è affatto attratto. Si tratta di un personaggio che Lovecraft caratterizza ispirandosi a un giovane di nome Mauran che viveva vicino a casa sua, ma che delinea mettendo molto di sé stesso. Lovecraft infatti usava criticare il progresso, si definiva conservatore, amante del bello classico ed era allergico a mode e consumismo. Dunque un approccio al mondo non molto dissimile a quello del primo Dexter Ward.  
La scoperta di un oscuro ascendente, trucidato in una spedizione punitiva orchestrata da un gruppo di villeggianti convinti di avere a che fare con uno stregone alchimista con la passione per i cimiteri e la letteratura esoterica, porta Ward a interessarsi di occulto e a ripercorrere il percorso iniziatico dell'avo, vagando di biblioteca in biblioteca, alla caccia di documenti ingialliti, lettere e testimonianze consegnate a reperti cartacei sepolti in un mare di faldoni. Scoprirà peraltro, rinvenendo un ritratto dell'uomo, di avere gli stessi lineamenti dell'oscuro avo, aspetto questo che viene colto con grande felicità dal ragazzo che farà asportare il quadro per portarselo in camera da letto. Così il giovane inizia a modificare le proprie abitudini, tende a isolarsi sempre più, abbandona gli studi convenzionali per sposare la via degli esperimenti alchemici, con l'obiettivo di evocare i morti allo scopo di acquisirne le conoscenze e controllarli. Una pratica quest'ultima che comporta la profanazione di cadaveri per sottrarne le ceneri, quindi procedere con formule magiche ed esperimenti che sottraggono ore ore alla vita comune e costringono a rinchiudersi sprangati in un laboratorio a cui è bandito l'accesso a chiunque. Fondamentali sono gli scritti del vecchio antenato, tale Curwen, da decriptare in quanto codificati con chiavi di lettura non di pronta soluzione.
Spetterà al medico di famiglia, il signor Willett, allarmato dai genitori di Ward storditi per il cambiamento di vita del figlio e per gli strani urli che provengono dal laboratorio, indagare sulla costante e inevitabile discesa verso la pazzia del giovane, sempre più ossessionato dai suoi studi e sempre più disturbato da convinzioni di persecuzione. Deriva, quest'ultima, che porterà Ward a essere internato in manicomio, epilogo inevitabile per chi intende affacciarsi sull'indicibile mondo dell'ignoto senza averne la preparazione e il distacco necessario per resistere alle nefandezze liberate dalle catene del tempo e dalle dimensioni inviolabili dai comuni mortali. Willett scoprirà, a sue spese, che la magia  non è una diceria e che gli spiriti ultraterreni, nella fattispecie cosmici, esistono davvero e sono in grado di ritornare in vita e scatenare eventi connessi a pratiche di vampirismo, possessione fisica e annichilimento mentale. Bellissima, al riguardo, la parte finale dove, da provetto detective dell'occulto, il signor Willett visiterà i sotterranei della fattoria che era stata dell'avo di Ward e si imbatterà in un abisso di perdizione, dominato da lamenti di creature ultraterrene e da un olezzo nauseabondo che farà svenire il padre di Ward.
Una piccola curiosità è costituita dal fatto che l'indirizzo in cui risiede il dottor Willett è lo stesso in cui risiedeva, al tempo dell'opera, Howard P. Lovecraft.

Venendo alla componente tecnica, Lovecraft dota il romanzo di un imprinting degno di un giallo di indagine, anche perché Ward si contorna di una coppia di collaboratori di cui non è dato sapere niente e che sono in comunicazione con maghi che vivono a Praga e in Transilvania. L'elemento fantastico e il finale in cui si registrerà uno scontro tra magia bianca e magia nera forniscono l'elaborato di quel contenuto tale da non poter esser ritenuto un'opera di narrativa poliziesca, ma il background c'è tutto. La narrazione è lenta, torna spesso su sé stessa e ricerca di creare atmosfere angosciose, di ansia e di mistero, con punte di orrore puro (si veda la descrizione delle bestie aliene o l'assalto alla fattoria di Curwen nella prima parte della storia). Purtroppo molti aspetti restano incompleti, c'è quasi la sensazione che l'autore abbia messo troppa carne al fuoco (i fenomeni di vampirismo, appena accennati, sembrano quasi buttati lì senza alcuna giustificazione). Alla fine Willet risolve l'intrigo, con un finale abbastanza positivo (anche se non si capisce perché l'antagonista abbia fatto tanto lavoro per poi accontentarsi di vivere in manicomio, tenendo una condotta sospettosa e prendendo una deriva sempre più esaltata) ma che lascia un po' perplessi, facendo egli stesso ricorso a rituali e formule magiche senza averne una formazione base.

Un cenno finale per l'amore del solitario per la sua Providence, qua evidente ai massimi vertici stimolato dalla lontananza nel biennio newyorkese e dal rientro alimentato da una saudade tale da spingerlo a esternare la propria passione su carta, plasmando continui passaggi descrittivi, messi nero su bianco, con l'amore di chi si sente legato a una data terra da un cordone ombelicale da cui è difficile staccarsi. Lo stesso Ward, di rientro a Providence dai viaggi in Europa, esprimerà pensieri e osservazioni in linea ai sentimenti propri del Lovecraft di rientro da New York. Dunque ancora una volta una pennellata autobiografica, una sorta di omaggio sentito per il paese in cui il piccolo Lovecraft ha conosciuto la luce, uscendo dalla placenta della madre come un grande antico risucchiato dalla sua dimensione da oscuri sortilegi cadenzati da avventati officianti.

Il Caso di Charles Dexter Ward è dunque una delle opere più introspettive di Lovecraft, vagamente legata al mito dei grandi antichi e che si potrebbe benissimo scorporare dagli stessi essendo strutturata su tematiche che coinvolgono l'occultista Levi, Borello e persino Pico della Mirandola. A mio avviso non è tra i lavori più riusciti del maestro di Providence, anche se ne raccoglie il pessimismo, il distacco dal materialismo dirompente che caratterizza la società capitalista degli ultimi cento anni e l'inevitabile convinzione di impossibilità di fuga dalla pazzia per chi, troppo sensibile, intenda placare la sete di conoscenza abbeverandosi al cospetto di entità ultraumane a cui poco interessa la sorte degli uomini e che salmodiano verità che bruciano le menti. Da leggere per gli appassionati dell'autore, chi conosca poco Lovecraft invece dovrebbe orientarsi a racconti meno impegnativi.

sabato 12 dicembre 2015

Recensione Cinematografiche: THE PROGRAM di Stephen Frears






Produzione: Tim Bevan, Eric Fellner, Tracey Seaward e Kate Solomon.
Soggetto: David Walsh.
Sceneggiatura: John Hodge.
Regia: Stephen Frears.
Montaggio: Valerio Bonelli.
Colonna Sonora: Alex Heffes.
Interpreti Principali: Ben Foster, Chris O'Dowd, Guillaume Canet, Jesse Plemons, Dennis Menochet, Lee Pace, Dustin Hoffman.
Durata: 103 min.

Commento Matteo Mancini.

Nei cassetti della memoria, poi neppur tanto sbiaditi dal tempo, affiora il ricordo di un ciclista, un ventunenne capace di debuttare nella più ambita corsa a tappe del mondo. Proprio così. C'era una volta un giovane campione del mondo su strada venuto dall'altra parte del mondo, incapace però di resistere ai ritmi spezzati e discontinui degli scalatori, quegli scatti che tagliano le gambe; ma soprattutto, c'era una volta un uomo capace di sconfiggere un tumore ai testicoli e di sopportare una delicata operazione alla testa, per ritornare alle competizioni più forte di prima. E c'era una volta un eroe capace di vincere sette tour de France consecutivi (record assoluto alla Grande Boucle), dopo aver visto negli occhi la dea falciatrice e averla ricacciata con forza nella nebbia della attesa indeterminata, nebbia da cui però sono uscite altre ombre e sospetti che uccidono anch'essi seppur in modo invisibile. Signori, c'era una volta un uomo, una star capace di abbagliare mostri sacri della storia sportiva, una maglia gialla che affiorava dalle pendenze di una salita cancellando il fondo fatto di vette innevate... signori, c'era una volta LANCE ARMSTRONG e veniva da Plano seguendo un programma.
A quattro anni dal ritiro delle competizioni di Armstrong, un poker di produttori porta al cinema la storia di quest'uomo. Il nome di spicco che sta alla base del progetto, tra i finanziatori, è quello del neozelandese Tim Bevan, produttore esecutivo di altre celebri pellicole sportive, Rush (2013) di Ron Howard e Senna (2010) di Asif Kapadia su tutte, ma soprattutto premiato ai BAFTA per La Teoria del Tutto (2014), La Talpa (2011) ed Elizabeth (1998) quali migliori film britannici. Produttore attivissimo nel Regno Unito, sulla cresta dell'onda fin dalla seconda metà degli anni '80 ed esploso negli anni '90 grazie alla realizzazione di film quali Fargo (1996) e Il Grande Lebowski (1998), poi seguiti dagli scatenati Johnny English (2003), Wimbledon (2004) e Hot Fuzz (2007) per un totale superiore a cento pellicole che ne fanno forse il più importante produttore sul mercato inglese. Lo supporta nello sforzo il socio Eric Fellner, con cui ha iniziato a collaborare a partire dal 1993, in occasione della produzione del western Posse, La Leggenda di Jessie Lee (1993) diretto da Mario Van Peebles, proseguendo con Triplo Gioco (1993) e via via con un lungo e duraturo sodalizio. 
Assai meno esperta è invece Tracey Seaward, la terza anima economica del film, che ha prodotto un altro Triplo Gioco (2002) che non ha nulla a che fare con quello di Bevan e Fellner, ma soprattutto è coproduttrice di War Horse (2011) di Spielberg. Sebbene sia meno blasonata, sotto il profilo quantitativo, è a lei che si deve la scelta del regista avendo prodotto le due pellicole più importanti dello stesso e cioè le candidate all'oscar The Queen (2006) dallo sceneggiatore di Rush (Peter Morgan), e Philomena (2013). Fa invece esperienza Kate Solomon alla sua prima grande produzione dopo aver tentato, con poca fortuna, la carriera di regista.

Il film nasce così dall'incontro di due forti blocchi di produttori, quello costituito dal duo Bevan-Fellner e quello rappresentato dall'emergente Tracey Seaward che porta alla scelta dell'inglese Stephen Frears quale regista a cui affidare il soggetto. Frears è un candidato all'Oscar che ha conquistato la critica in occasione di Rischiose Abitudini che gli valse proprio una nomination nel lontano 1990. Regista esperto, ultrasettantenne, ha preso le mosse nei serial televisivi inglesi di fine anni '60, proseguendo in tale settore fino agli albori degli anni '90, togliendosi le maggiori soddisfazioni negli ultimi quindici anni di carriera grazie all'approdo al cinema. A parte la commedia Lady Henderson Presenta (2005) premiata col Golden Globe, è proprio con la Seaward che strappa altri prestigiosi premi, gira persino un bizzarro western, Hi-lo Country (1998), che gli vale l'Orso di Berlino quale miglior regista. Non da meno è la ricostruzione della battaglia politica tra Cassius Clay e il governo degli Stati Uniti relativa all'intervento in Vietnam, che porterà alla carcerazione del grande pugile, immortalata nella pellicola Muhammad Ali's Greatest Fight (2013). Questo il curriculum del regista che si presenta all'appuntamento con Armstrong fresco fresco dal successo riscontrato da Philomena, con cui ha fatto incetta di premi, tra i quali il Premio Osella, alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

Frears può così concentrarsi sulla parabola di uno sportivo passato da semi-dio a un semi-demone. Per metterla in scena si sceglie di prendere a modello, come linfa da cui attingere dati, un volume di un giornalista irlandese che per primo ha osato sospettare della regolarità nella preparazione atletica di Lance Armstrong. 'Prima del tumore prendeva pesanti distacchi dagli scalatori e ora vedi come va in salita...' È la penna di David Walsh quella che stimola gli autori del film, che si leggono e acquistano i diritti di Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong (2013). Piuttosto curiosamente, visto la mancanza di legami con i diretti interessati, viene dato incarico allo scozzese John Hodge di stendere la sceneggiatura. Hodge è uno sceneggiatore poco prolifico, ma ha alle spalle pellicole cult. Classe 1964, ha debuttato a trent'anni quale sceneggiatore di fiducia del talentuoso emergente Danny Boyle, mettendo la firma sui copioni di quattro suoi film amatissimi dal pubblico, tra i quali Trainspotting (1996) e The Beach (1997), per poi passare ad altri registi senza particolari risultati fino al ritorno con Boyle in occasione di Trance (2013).

STEPHEN FREARS

Hodge si concentra non tanto sulla carriera sportiva di Lance Armstrong, sui suoi successi al tour o sulle sue battaglie con gli storici avversari, i vari Jan Ullrich, Joseba Beloki o Marco Pantani, no... niente di questo, non sono neppure menzionati; così come non viene offerto alcun cenno al tributo che regalò allo sfortunato campione del mondo italiano Fabio Casartelli, suo compagno di squadra deceduto in una discesa al tour, andando a vincere in solitaria tre giorni dopo la tragedia. 
Hodge, basandosi sul lavoro di Walsh che è parte integrante della storia quale personaggio attivo, punta tutto sulla caratterizzazione ambigua e truffaldina di Lance Armstrong e sul rapporto tra lui, la squadra (la U.S. Postal col fido direttore sportivo Bruyneel) e il doping. Ne deriva un attacco fortissimo sul piano etico e professionale, che pittura Armstrong quale un manipolatore, addirittura ai limiti di un boss mafioso che controlla l'intero gruppo, minaccia chi intende mettergli i bastoni tra le ruote, per poi costruirsi attorno un immagine di copertura da benefattore. Ne è un esempio lampante l'avvertimento al ciclista italiano Simeoni, reo di aver testimoniato contro il medico che ha stilato il programma farmacologico (di cui al titolo) che sta alla base della preparazione di Armstrong. Vediamo infatti l'americano dirigersi, in corsa, accanto all'avversario, poggiargli una mano sulla spalla come se stesse salutando un amico per poi minacciarlo e fare il cenno alla telecamera di cucirsi la bocca. Tutto vero, sia chiaro, ma reso in modo ingiusto. Hodge non fa cenni al fatto che il doping, allora, fosse una pratica estesa nel gruppo, tanto che molti avversari di Armstrong, tra tutti Ullrich (Rumsas e altri), verranno poi in seguito squalificati per le medesime ragioni. Chi non mastica ciclismo, e non ha vissuto quei tempi, potrebbe esser portato a pensare alla presenza di una squadra, la US Postal, che ha truffato tutti, unica artefice di questo programma di doping scientifico che sfuggiva a ogni controllo. Addirittura si arriva a suggerire, o a dare l'idea, che l'EPO, ovvero la nuova frontiera delle emotrasfusioni (bella la sequenza con il dottore che spiega la pratica a Lance che si allena con la maschera da cui attinge ossigeno) sia stata un'ideazione del gruppo di Armstrong finalizzata ad aumentare la resistenza fisica e l'afflusso di ossigeno nei tessuti. Vero in parte, non essendo stato l'unico a farlo, né tra i primi. Si trattava in realtà di pratiche conosciute nell'ambiente. Non si fa poi cenno che il contrasto di questi atteggiamenti è mirato, in prima battuta, alla tutela degli atleti. Doparsi, oltre a truccare una corsa (risultato che non si crea, se si dopano tutti), comporta seri pericoli per la salute di chi corre, è questo il motivo per cui esistono le regole tese al contrasto del fenomeno. Sarà scontato dirlo, ma è bene farlo.
Grande attenzione poi al battage pubblicitario messo in piedi da Armstrong per costruirsi l'immagine di un eroe che ha sconfitto il cancro grazie alla forza di volontà, allo spirito di sacrificio, alla famiglia (che poi non viene neppure mostrata, mentre lui ne parlava sempre), ai valori della lealtà. Una serie di bei discorsi, come lui stesso dici, che hanno la funzione di fornire il proprio esempio per fungere da ispirazione a chi si trova a dover combattere contro la malattia. Atteggiamento lodevole, seppur viziato da meschini, o presunti tali, obiettivi personali, poiché offre comunque un esempio che infonde forza in chi lo sta a sentire e dunque, seppur viziato da negatività, positivissimo. Nel film ciò viene proposto però si tende più a far sorgere nello spettatore un pensiero della serie: 'Guarda che falso...!'
Ancor più marcata, in tal senso, la caratterizzazione del gregario Floyd Landis, che addirittura arriverà a prendere in giro la comunità religiosa in cui è nato, proprio lui che ha in casa immagini religiose che ammoniscono gli ingiusti dicendo che finiranno all'inferno. 
Non viene poi fatto nessun cenno al fatto che tutti, all'epoca dei successi dell'americano, sapevano che Armstrong utilizzava sostanze particolari, si diceva dei salvavita che si pensava potessero esser responsabili del miglioramento delle prestazioni ma che non si potevano reputare dopanti proprio perché funzionali alla cura. Non viene detto niente di tutto questo, tanto che agli spettatori non scafati potrebbe sembrare tutto inverosimile. Ho letto infatti commenti di gente che dice: 'Si capiva che era dopato, come faceva altrimenti a vincere in quel modo...? Tutti erano conniventi, quindi...' Come ho spiegato questa conclusione è inesatta e facilona.

BEN FOSTER, 
somigliante a Martin Brody,
lo sceriffo di Amity nel film di Spielberg,
sembra voler simulare la pinna di uno
squalo.

Purtroppo Frears, che pure è bravo nelle poche scene di azione - bello il prologo che omaggia la nostra fiction su Bartali, L'Intramontabile, quella con Favino, per intenderci, quando parla della voglia anteposta alle gambe, e al cuore e all'anima quali elementi imprescindibili per giungere alla vittoria anteposti al fisico - è più interessato alle magagne che allo spettacolo sportivo. Così indugia su Armstrong che si buca (mi è tornata in mente una vecchia ripresa di Fabio Cannavaro seduto su un lettino che scherza e fa battute con gli aghi delle flebo nelle vene), che invita i compagni a fare altrettanto e studia il doping perché bisogna vincere a tutti i costi. Ne esce fuori un personaggio antipaticissimo, ben reso dall'attore americano Ben Foster che appare con un look che lo rende identico al vero Armstrong. Il bostoniano è bravissimo nel ruolo. Trentacinque anni, nel cinema dal 1996 con Scacco all'Organizzazione e con ruoli spesso secondari. Lo si ricorda soprattutto in X-MEN Conflitto Finale (2006), Quel Treno per Yuma (2006), Alpha Dog (2006) e nell'horror 30 Giorni di Buio (2007). Foster convince appieno e si erge rispetto a tutti i colleghi. Ha un che di Roy Scheider, cosa che forse lo rende ancor più simpatico e fa sorgere in mente la maglia gialla dello scorso anno Vincenzo Nibali, detto appunto Lo Squalo. Duetta spesso con Jesse Plemons, chiamato a interpretare il più combattuto Floyd Landis. Quest'ultimo infatti viene presentato come un uomo indolente, che ha dei sensi di colpa profondi, ma che si dopa, andando contro ai suoi principi formativi, perché così si deve fare (almeno così sembra suggerire il regista). Una sorta di talento soggiogato al carisma del capo squadra e del direttore sportivo che vende le bici dei corridori per sostenere il doping. Plemons, arriva pure lui dagli Stati Uniti, è meno somigliante al personaggio che va interpretare e non offre una prestazione particolarmente esaltante. È comunque sufficiente, come lo sono tutti gli altri partecipanti. Meritano una menzione il francese Denis Menochet, nei panni del direttore sportivo della Us Postal che avalla in tutto e per tutto le pratiche di Armstrong (era il fattore francese in Bastardi senza Gloria di Quentin Tarantino), e l'altro francese Guillaume Canet, nei panni del medico Michele Ferrari, che viene mostrato quale innovatore delle pratiche doping nel ciclismo, una sorta di scienziato pazzo dei tempi moderni che ricerca soluzioni vincenti in anticipo sui controllori. Attore prolifico in Francia, dove si esibisce anche quale regista, i più lo ricorderanno nella sua prima esperienza all'estero con The Beach (2000) di Boyle e in Vidocq (2001) che gli valse il riconoscimento del Premio Jean Gabin.

Il vero DAVID WALSH

Piccolo cammeo per il grande Dustin Hoffman, nel ruolo di un matematico ingaggiato per la sua dote nel calcolare percentuali in campo imprenditoriale (lo vediamo alla fine lanciar in aria un mazzo di carte da gioco), chissà se sia un omaggio a Raiman. Purtroppo è una partecipazione marginale. Completa il campo l'irlandese Chris O'Dowd che interpreta il giornalista David Walsh ovvero l'autore del volume su cui Hodge, sceneggiatore di fiducia di Danny Boyle, ha messo in piedi la sceneggiatura del film, e che, ironia della sorte, è nato a Boyle nella contea di Roscommon. Si tratta di un comico irlandese, memorabile nello scatenato A Cena con un Cretino (2010), che mette da parte la propria verve per un ruolo di inchiesta. Da infatti corpo a un giornalista d'assalto, seppur pacato e gentile nei modi, che si batte per uno sport pulito. Si troverà contro tutti, persino i colleghi, riottosi a mettersi contro uno che ha amici importanti in tutto il globo, dai Presidenti degli Stati Uniti a tirar giù tra i cantanti, giudici e compagnia bella. A mio avviso si tratta di un personaggio che, nella storia di Armstrong, dovrebbe restare marginale e invece è uno degli attori principali, aspetto questo che si ripercuote sulla parte agonistica che Hodge avrebbe potutto approfondire e che invece è tagliata quasi del tutto.

Questo l'apparato artistico che, tutto sommato, funziona bene pur senza esaltare, a parte Foster che si rivela il più azzeccato. 
Sul versante tecnico c'è forse da fare qualche appunto sulla colonna sonora che non è sempre ben usata. Ho infatti avuto l'impressione che in alcune sequenze si sarebbe potuto mettere basi più emozionanti, mentre invece si è optato per i rumori di scena. A ogni modo sono presenti un mix di brani, dagli storici Simon & Garfunkel con Miss Robinson a brani più contemporanei, alternati a basi strumentali. Le musiche originali, non certo le sue migliori, portano la firma di Alex Heffes, giovane compositore inglese conosciuto soprattutto per gli horror Cappuccetto Rosso Sangue (2011) e Il Rito (2011), con l'apice raggiunto con la nomination ai Golden Globe ottenuta grazie alle musiche di Mandela: Long Walk to Freedom (2013). Sua la musica anche di un altro film incentrato sulle lotte per l'affermazione dei diritti civili nel continente nero ovvero il pluri premiato L'Ultimo Re di Scozia (2006). Heffes arriva al film dopo aver musicato il documentario Palio (2015), dai produttori del film movie Senna, diretto da Cosima Spender e dedicato al Palio di Siena che dovrebbe esser prossimo a uscire negli Stati Uniti.


Il montaggio, ottimo, è invece del poco conosciuto in Italia (dato che non gli è dedicata neppure una pagina su wikipedia) Valerio Bonelli, piccolo tecnico sorto dall'underground italiano e passato subito nell'entourage di Ridley Scott, facendo da assistente al montaggio in pellicole quali Il Gladiatore (2000), Hannibal (2001), Black Hawk Down (2001) e in The Martian (2015) che dovrebbe esser prossimo a uscire anche in Italia. Tecnico di belle speranze, dunque, emigrato in Inghilterra perché, forse, in Italia non godeva di grande considerazione o non aveva spazio. Ha preso le mosse da 'primo' montatore nel 2005, andando a montare nel giro di un paio di anni cult quali Hannibal Lecter, Le Origini del Male (2007) di Webber e Philomena di Frears che dunque lo conferma al timone in The Program.

La fotografia, patinatissima, è invece frutto dell'estro di Danny Cohen, operatore passato alla fotografia con esperienze persino in pellicole italiane quali I no Spik Inglish (1995) dei Vanzina o The Full Monty (1997) da non accreditato. A fine anni '90 si alterna tra cortometraggi, sceneggiati e serial tv inglesi, tra cui The Book Group (2003). Si fa conoscere in prima persona al cinema con l'horror Creep (2004) per poi alternarsi tra tv e cinema e ottenere i maggiori successi nell'ultimo decennio culminanti con la nomination all'oscar ottenuta con Il Discorso del Re (2010) di Tom Hooper e con quattro nomination ai BAFTA ottenute, oltre che col citato film, con Longford (2006), Les Miserables (2012), sempre di Hooper, e Joe'S Palace (2007) di Poliakoff. 

Dunque, come si vede, un cocktail di attori e tecnici di prima scelta, avvezzi ai premi e dunque tali da suscitare grosse aspettative negli spettatori internazionali. Purtroppo però Hodge e Frears hanno scelto una via difficile, forse più di nicchia che per il grande pubblico. Rispetto ad altri film sportivi, Frears non ricerca la spettacolarizzazione del gesto atletico, non tratta la storia sportiva e gli avversari del protagonista, ma sposta tutto sul suo atteggiamento politico, sul doping e sulla natura di un ambiente inquinato, quello dalla US Postal, senza però mostrare che anche gli altri non erano da meno.
Tecnicamente, pur non essendo adrenalinico (a parte l'eccellente prologo), il film scorre via bene, merito di Foster che è bravissimo, difficile fare meglio. Le quasi due ore scorrono via veloci e il film si lascia vedere con piacere. Ripeto, non mi è piaciuta la strumentalizzazione relativa alla caduta etica di Armstrong, usata per attaccarlo e distruggerne l'immagine, peraltro in modo lecito e veritiero sia chiaro, ma senza dare atto che era la situazione ambientale a determinare e a favorire tali derive. Della serie: o fai in quel modo o arrivi esimo... E di chi è la colpa di tutto questo? Dei ciclisti o dei direttori sportivi? Io non credo, la colpa è dei controllori, semplice... ma il film non ne fa menzione, troppo facile così... E' ipocrisia spiccia e facilona, un po' bacchettona mi verrebbe da dire senza voler vedere dove sta il vero problema. Comunque questa è una mia opinione, ben vengano film come questo e ben vengano personaggi come David Walsh che lottano per un mondo, in questo caso dello sport, più pulito e orientato ai veri valori dello sport che sono lo spettacolo, la dura lotta (le c.d. sportellate nel mondo automobilistico) e il sacrificio negli allenamenti, peculiarità a cui sponsor e soldi devono piegarsi e non viceversa come già spiegato in certi passaggi esemplificati nella tesi di laurea del sottoscritto che, ironia della sorte, era proprio incentrata sulla repressione penale del doping e che vanno a coinvolgere anche pratiche quali la pay per view con eventi sportivi che si moltiplicano e atleti costretti a dover effettuare recuperi fisici poco in linea con le qualità dei comuni mortali.

Curiosità personale, ho assistito alla proiezione del film in un piccolo, ma storico cinema di Pisa, il LANTERI, alla presenza di un numero di spettatori pari a quelli di una squadra ciclistica impegnata in una competizione a tappe. All'uscita dalle sale qualcuno ha detto: 'Ora ho capito perché non c'era nessuno...' mi sarebbe piaciuto vedere alcune righe scritte da questa persona per sondarne il commento.

Chiudo con uno stralcio giornalistico, che rende bene l'idea dell'ipocrisia che imperversava nell'ambiente ciclistico di quegli quegli anni. Ricordo peraltro l'episodio, verificatosi il giorno del mio ventesimo compleanno (2001), perché prese la maglia gialla un corridore (sarà poi squalificato pure lui per doping, a fine carriera) per cui facevo il tifo: Stuart O'Grady, eccelso pist-card e discreto velocista. Quel giorno l'australiano prese la maglia gialla grazie a una "fuga bidone", così chiamata perché composta da un gruppo di corridori giudicati di scarso valore. Arrivarono al traguardo con un vantaggio di oltre mezz'ora sul gruppo dei migliori. Vinse la tappa l'ottimo olandese Erik Dekker, corridore da classiche ma incapace di fare imprese in una corsa a tappe, se non parziali. Accarezzai addirittura l'idea, folle, che O'Grady potesse fare l'impresa fino ai Campi Elisi e vincere il tour de france...! E non ero neanche il solo a fantasticare simili scenari da clinica psichiatrica. Rammento però anche i più equilibrati commenti degli appassionati di allora. "Non ce la farà mai... vedrai quando arriveranno le montagne!". E infatti O'Grady, pur lottando con i denti, crollò al momento delle prime rampe, subendo i consueti pesanti distacchi. Il tour lo vinse, naturalmente, Lance Armstrong. Quel giorno però, oltre a questo evento piuttosto curioso, tenne banco l'allontanamento di un corridore di 28 anni al debutto nella Grand Boucle, di fatto sconosciuto, "brocco" e lontantissimo in classifica. Risultò infatti positivo a un controllo anti-doping tale TXEMA DEL OLMO, della Euskatel, squadra basca. La squadra di appartenza si affrettò subito nell'escluderlo dalla corsa, era sospettato di esser ricorso alla pratica dell'EPO (quella che nel film si imputerebbe alla squadra di Armstrong). Divertente, alla luce delle evoluzioni successive, la giustificazione: "al fine di evitare interferenze sul NORMALE svolgimento della competizione e RISPETTARE I VALORI ETICI E MORALI INERENTI AL TOUR DE FRANCE". "Normale" risultato finale di quella edizione? Primo Armstrong (poi radiato, anni dopo); secondo Ullrich (ha confessato che faceva uso di doping, squalificato); terzo il compagno del gregario squalificato di cui sopra, JOSEBA BELOKI, che si ritirerà a 33 anni perché coinvolto in uno scandalo doping. Come direbbe Brad Pitt nel film ispirato a quello di cui sotto: "Divertente...!

Onore allora ai protagonisti di quella pazzesca fuga in salsa SFIDE, una sorta di Quella Sporca Dozzina di Aldrich, agli ordini delle due precedenti maglie gialle, rispetto al detentore Voigt, di quell'anno, STUART O'GRADY e MARC WAUTERS, furono: CHANTEUR, GONZALEZ, KNAVEN, DIERCKXSENS, DEKKER, TEUTENBERG, DE GROOT, SIMON, TURPIN, DURAND, l'italiano LODA della Fassa Bortolo e il kazako KIVILEV. Di tutti questi, solo quest'ultimo, ebbe la forza di contenere i più grandi, chiudendo il tour, da perfetto sconosciuto, in quarta posizione. Una felicità che potè godere per poco, perché morirà poco più di un anno dopo in una banale caduta di bici nella Parigi-Nizza, determinando da parte degli organizzatori la scelta di istituire l'obbligatorietà dei caschetti. Alla luce dell'ordine di arrivo finale, Andrej Kivilev è il vincitore morale, e non solo tale, dell'edizione del 2001, un'edizione vinta in chiave Tarantino come un perfetto sconosciuto a cui non è stata riconosciuta la GLORIA che avrebbe meritato sul campo. Chapeau, come direbbe il compianto De Zan sr. 


Scritto da Matteo Mancini, 10 ottobre 2015.


L'Omaggio della Maglia GIALLA
al vincitore morale dell'edizione 2001
ANDREJ KIVILEV.



giovedì 26 novembre 2015

Recensione Saggi: GRANDE TORINO PER SEMPRE! di Franco Ossola.




Autori: Franco Ossola.
Sottotitolo: Storia affettuosa e romantica di una squadra di calcio unica e irripetibile.
Genere: Sport-Calcio.
Anno: 1998.
Editore: Editrice il Punto.
Collana: Il Vantaggio.
Pagine: 144.
Prezzo: 28 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Franco Ossola è il figlio di Franco Ossola, non è un gioco di parole o una ripetizione connessa a un refuso del recensore, si tratta invece di un architetto e scrittore di Torino nato da colui che ispirò un bellissimo e indovinato commento di Gianni Brera: "Franco Ossola giocava per invenzioni continue  con una misura di tocco assolutamente rara". Stiamo parlando di una delle due ali che fecero grande il calcio italiano, l'ala mancina.
Famiglia di sportivi, lo zio, Aldo Ossola, era cestista della mitica Ignis Varese, ebbe la sfortuna di non conoscere mai il padre, deceduto nella tragedia di Superga, e forse anche per questo battezzato dalla madre col medesimo nome. Vedremo come l'omonomia, nella storia del Torino calcio sarà costante incredibile, come un bizzarro e beffardo scherzo del destino che, a volte, si diverte a tessere sottili trame di una precisione assurda, ma che non si possono che leggere come casualità alquanto intinte di un'ironia nera.
Il Franco Ossola in questione è stato eccelso atleta, un velocista per la precisione, e di che tempra. Ha fatto parte della staffetta 4x200 della nazionale italiana che stabilì il record del mondo nel 1972. Dunque uno sportivo degno del nome che gli è stato dato dalla madre e che di certo avrebbe inorgoglito il padre anch'esso campione. Un nome dunque pesante portato con una leggerezza degna di chi coglie certi traguardi. Per nulla secondario neppure nei colpi di penna, o meglio con le leve delle vecchie macchine da scrivere. Tifosissimo del Toro, come inevitabile che fosse, ha collaborato con vari giornali sportivi, ma soprattutto ha dato avvio a una serie di pubblicazioni legate al Torino calcio. Si è aggiudicato il prestigioso Premio Bancarella Sport nel 1998 con Cento Anni di Calcio Italiano (Newton Editori) e il Premio Speciale del CONI nel 1999 con il volume qui oggetto di esame, andando così a bissare entrambi i premi, vinti in precedenza per la prima volta con Il Romanzo del Grande Torino (Newton Editori) nel 1995, volume poi trasposto nel film tv RAI interpretato da Fiorello per la regia di Bonivento.

FRANCO OSSOLA.

In occasione di questo volume, formato gigante con copertina cartonata, Franco Ossola opta per un taglio veloce, rapido, suddivendo il testo in tre grandi parti suddivise poi in capitoli. Il volume si avvia con una prima parte, la più corposa, dedicata al presidente Ferruccio Novo, artefice della creazione di quella che diverrà, col decorrere degli anni e grazie a innesti sempre azzeccati, la squadra che sfiderà il tempo e i numeri offerti dalle altre squadre, vincendo ogni prova e inchinandosi solo al triste fato, un epilogo che però spedirà il Toro nella leggenda, seppur a caro prezzo. Con Novo facciamo la conoscenza, uno per uno, dei diciotto giocatori, più i due tecnici, che persero la vita in quel tragico incidente. Per ognuno di loro Ossola offre almeno due pagine, con foto e commenti brevi lasciati dalle più grandi firme del giornalismo italiano che con tre righe offrono la loro visione su ogni singolo giocatore. Figurano così gli epitaffi a firma di diciotto giornalisti o sportivi diversi, tra questi i grandi Gianni Minà, Sandro Ciotti, Carlo Bergoglio, Gianni Brera, Enzo Bearzot (che è stato capitano del Torino oltre che allenatore della nazionale italiana del 1982) e via dicendo. Piccoli commenti che però impreziosiscono e rendono, qualora ce ne fosse bisogno, ancor più autevole il testo cui funge da corollario una splendida galleria di fotografie disseminate su tutte le pagine.
Ossola però non si "limita" a questo. Il suo è un tributo a tutti i giocatori che hanno indossato almeno una volta la maglia del Torino dal 1942 al maggio del 1949. Per ciascuno di loro l'autore regala un trafiletto che ne descrive le caratteristiche tecniche, con tanto di foto. Ne deriva quindi un elogio e un voler consegnare alla memoria dei posteri tutti i protagonisti che hanno contributo, chi più chi meno, a iscrivere il nome del Torino nel libro dei record calcistici.
La prima parte si chiude con il rapporto tra nazionale italiana e Torino, con la leggendaria sfida nel maggio del 1947 contro l'Ungheria con ben dieci giocatori del Torino a vestire le divise azzurre, in quella che fu definita dai giornalisti dell'epoca la Nazional-Torino. Unico a mancare, arriverà poi qualche mese dopo, il portiere Bacigalupo, ancora troppo acerbo ad avviso del commissario tecnico Vittorio Pozzo. Segue poi l'interessante capitolo dedicato alle sfide internazionali della squadra, non molte in verità anche perché le competizioni europee all'epoca erano state soppresse per difficoltà negli spostamenti (si pensi che il presidente Novo fu uno dei primi in Europa, si dice il primo in Italia, a organizzare trasferte aeree per le sfide interne). Di rilievo la tourné in Brasile che vide il Torino pareggiare due partite, vincere col Portoguesa e soccombere col Corinthias, dispensando comunque un gran calcio al punto da far innamorare un giovane José Altafini tanto da farsi affibbiare il soprannome di Mazzola (il capitano della squadra piemontese).

La scheda di BACI, così era soprannominato
il numero uno che fece le "scarpe" a Bodoira.
dal volume di Ossola.

Più descrittiva la seconda parte, dedicata al ricordo delle partite di quegli anni, in particolare all'atmosfera che si respirava allo stadio Filadelfia, definito la fossa dei leoni, alle abitudini dei tifosi di allora, al rapporto molto più personale di adesso con i giocatori. Bello questo passaggio di Ossola che vengo qua ad offrire ai pochi lettori di queste mie righe e che introducono l'inizio dei famosi quarti d'ora granata, un lasso di tempo dove la squadra di casa travolgeva ogni avversario che avesse davanti : "Dagli spalti, il trombettiere Bolmida sfilava la cornetta lucente e stordiva l'aria. Sul campo Mazzola raggrumava le maniche fino alle spalle. Loik gli si faceva vicino, Castigliano prendeva a schiumare, il docile Grezar mutava cipiglio. La difesa saliva, gli attaccanti con sguardi di intesa registravano il passo, la falcata radente, il tiro. Quando tutto era pronto, quando i misteriosi, silenti accordi segreti fra gli atleti erano pattuiti, riconfermati, partiva la danza, il forsennato balletto della squadra. Come una tempesta sull'oasi fino a quel momento serena, si scatenava la forza. La vittoria ne risultava come unica conseguenza..." Non esagera Ossola quando dice quanto affermato, le statistiche stanno lì a testimoniarlo. Cinque campionati vinti su cinque disputati, scarto di sedici punti sulla seconda classificata nella stagione 1947-48, ma soprattutto imbattuto in casa in 93 incontri dal 17 gennaio del 1943 al 30 aprile del 1949, con uno score di 83 vittorie e 10 pareggi. Semplicemente mostruoso. Solo tre squadre sono riuscite nell'impresa di vincere al Filadelfia, contro quello che sarebbe diventato il Grande Torino, e cioè le due milanesi e il Livorno tutte e tre nel primo campionato, quello del 1942-43. In quel Torino e in quelle partite solo quattro "grandi" in campo: Loik e Mazzola (freschi acquisti dal Venezia dove si sollevò un moto di protesta placato solo dall'esibizione dell'oneroso assegno sganciato da Novo), quindi Menti e proprio Ossola, che aveva debuttato in serie A in un Novara vs Torino il febbraio del 1940. Ed è stato il "piccolo" Livorno l'unica squadra, esattamente in quel campionato, a rischiare di beffare il Torino nei campionati regolari, perdendo il titolo, di fatto, all'ultima giornata per un sol punto e con gli scontri diretti a favore. Davvero un'impresa sfiorata per le "triglie" e mai più ripetuta, complice lo scoppio della seconda guerra mondiale e l'interruzione di ogni torneo. Negli anni successivi gli scarti sulla seconda saranno maggiori: otto nel girone piemontese sulla Juventus nel 1944; tre nel 1945-46 sull'Inter; dieci nel 1946-47 sulla Juve; sedici sul Milan nel 1947-48; cinque sull'Intern nel 1948-49
Proprio in relazione a questi dati, Ossola chiude il volume con una parte in stile almanacco dove sono riportate le partite e i tabellini di tutte le sfide giocate dal Grande Torino, a partire dal campionato del 1942. Molto interessante e utile per stilare graduatori e aneddoti curiosi.

Completano il volume altri omaggi offerti da firme quali Carlo Bergoglio, Renzo De Vecchi, Giglio Panza e Bruno Perrucca tutti chiamati da Ossola a offrire una descrizione personale sulle caratteristiche tecnico-tattiche dei diciotto calciatori scomparsi.

Dunque un testo veloce, di pronta lettura, soprattutto per chi ricerca dati e statistiche, non troppo elaborato. Lo potremmo quasi definire una sorta di almanacco altamente illustrato con libere concessioni da volume saggistico, peraltro allargate dal contributo storico offerto da firme prestigiose che si aggiungono a quella di Ossola.

Per chiudere, dato che abbiam parlato di destino beffardo e clamorosi casi di omonomia, saluto i lettori con una cartolina che è quella di una squadra che è felice per aver salutato l'addio alle competizioni agonistiche di una star del Benfica, tale Ferreira, e che fa ritorno a casa salendo a bordo di un aereo pilotato dal tenente colonnello Luigi Meroni. Sì proprio così, come la famosa ala che farà impazzire i tifosi una ventina di anni dopo e che morirà tragicamente investito da colui che diverrà poi, una quarantina di anni dopo, il presidente del Torino. Un destino beffardo, incredibile, per una trama che sembra da romanzo e che corrisponde a realtà. E se Franco Ossola sgroppava sulla fascia sinistra di quel mitico Torino, Luigi Meroni, il calciatore che non ha di fatto conosciuto il padre proprio come l'altro Franco Ossola - scomparso quando aveva appena due anni - inebriava tifosi e avversari sulla fascia opposta: la destra. Possiamo quindi immaginare questi due grandi nomi, che hanno avuto altri due perfetti omonimi legati alla storia del Grande Torino, come le mitiche ali di quell'aereo che per un tragico destino, fatto calare da una nebbia assassina, si infranse sulla collina di Superga abbattendosi su quella che dovrebbe essere il simbolo della pace divina: una basilica. Chissà... difficile a volte comprendere certi eventi. Mi piace immaginare come un modo celato e velato, incomprensibile agli uomini come direbbero i sofisti, con cui Dio avoca a sé gli sportivi, da leggersi uomini, capaci di emozionare fino al profondo gli sportivi veri, quelli che vanno oltre le fedi sportive e che apprezzano il vero spirito agonisticio, ovvero quelli che cercano e amano le leggende. Così Gianni Brera salutò Meroni, il calciatore: "A Gigi, estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni."

LUIGI MERONI,
giocatore che avrebbe potuto far parte di
quel magnifico GRANDE TORINO e 
che per un tragico destino
compare nella lista dei deceduti come
tenente colonnello chiamato a condurre quell'aereo mai atterrato.

Recensione scritta il giorno dopo l'anniversario, il novantasettesimo, della nascita di Giuseppe Grezar, il mediano della squadra, che debuttò in maglia granata il 17 settembre del 1939 contro il Novara e che Angelo (Rovelli) ha così ricordato: "Non plateale, ligio alla sobrietà del gioco, al passaggio misurato per conservare al massimo la linea giusta di tutto il complesso di squadra."


sabato 21 novembre 2015

Recensione Saggi: 100 Anni da Ricordare, Soc. degli Steeple-Chases, AA.VV.



Autori: Renzo Castelli, Mario Fossati, Luigi Gianoli, Piero Mei e Marco Vizzardelli.
Sottotitolo: Società degli Steeple-Chases d'Italia, 1892-1992.
Genere: Sport-Ippica.
Anno: 1992.
Editore: Fabbri Editori.
Pagine: 160.
Prezzo: 15 euro (prezzo medio tra le varie offerte).

Commento di Matteo Mancini.
Volume fuori catalogo, ma rintracciabile su e-bay o presso librerie specializzate nella vendita di libri usati, pubblicato in occasione del centenario della Società degli Steeple-Chases d'Italia, un'organizzazione deputata a organizzare corse di cavalli in ostacoli o riservate alla categoria gentlemen ed amazzoni sia in piano che in ostacoli.
Si tratta quindi di uno dei rarissimi volumi italiani dedicati al mondo dell'ippica, l'unico, tra quelli da me conosciuti, incentrato sull'ostacolismo. In Italia infatti, per motivi oscuri, la realizzazione di questo tipo di volumi viene, di fatto, osteggiata dagli stessi potenziali soggetti interessati. Basti pensare che sul tema "corse dei cavalli" sono stati pubblicati circa una decina di volumi, la metà dei quali dedicati alla Razza Dormello Olgiata o scritti dal creatore della stessa: "il Mago" Federico Tesio. Non parliamo poi di ostacoli poiché, se andate a cercare al di fuori dell'ambito dei volumi dedicati all'equitazione, non troverete nulla. Un'apatia e un disinteresse che di certo non fa bene all'ambiente, interessato, evidentemente, ad aspetti ben distinti dalla cultura di settore o alla celebrazione dei cavalli, ma ai premi, al volume delle scommesse e alla fredda esecuzione di un lavoro fatto sì di sacrifici ma, per motivi incomprensibili, da lasciare confinato in una cricca di addetti ai lavori o di consumati frequentatori di ippodromi, un modo come un altro per catalogare come settario o quanto meno corporativo il settore. Per rendere ancora più evidente quanto affermato basti pensare che un volume come Il Mito di Tesio, di gran lunga il migliore tra tutti i volumi pubblicati in materia ippica in Italia, è stato pubblicato dapprima in Inghilterra e solo dopo venti anni in Italia, alla morte del suo autore, Franco Varola, per merito della piccola casa editrice Equitare. Bravi loro a proporre ai lettori italiani un testo del genere, una vergogna per tutti gli altri, dato che ricordo la pubblicità a questo volume esplicitata su riviste di settore risalenti proprio al 1984.

Veniamo al testo in questone che, in un panorama del genere, si erge quale volume imperdibile, orientativo e un vero e proprio miraggio dalla consistenza di un'oasi in pieno deserto. In prefazione non si capisce bene, ma la sensazione che ho avuto è che la Soc. Steeple-Chases di Italia abbia individuato cinque giornalisti autorevoli impegnati nel mondo dell'ippica e abbia delegato loro il compito di tracciare un personale ricordo, o comunque un lavoro di ricerca, sui 100 anni della società e sui protagonisti che hanno animato corse e hanno contribuito al miglioramento del settore. Così spiega l'editore, la prestigiosa Fabbri Editori: "La Società degli Steeple Chases di Italia compie 100 anni. La sua storia rappresenta un capitolo importante dello sport italiano. Con questo libro, abbiamo voluto ripercorrerne le tappe, riproponendo a quanti conoscono e amano i cavalli, e in particolare il mondo delle corse, una raccolta di testimonianze, di cronache, di immagini tratte dagli archivi storici e dalle collezioni degli appassionati, belle e avvincenti anche per chi di questo mondo è solo spettatore. I testi, firmati da personaggi del giornalismo che questo sport amano e seguono da tempo e da vicino, sono liberi e personali contributi: ricordi, riflessioni, interpretazioni che ci fanno rivivere, inquadrandola da diverse angolazioni, la grande, entusiasmante storia dell'ostacolismo e del galoppo amatoriale in Italia."

Dunque un volume che ha il valore di una vera e propria manna, ma che non è stato massimizzato a dovere. L'imprinting richiesto dall'editore, ovvero quello del "libero e personale contributo", determina, spesso, nel corso della lettura una sovrapposizione tra i temi toccati dai vari autori, così da creare un testo a tratti ripetitivo con buona pace delle pagine limitate che scorrono via e che sarebbero potute esser utilizzate per dire altro. Mi rendo conto che, dato il panorama pressoché nullo in cui si inserisce quest'opera, è un voler cercare il pelo nell'uovo, ma credo che sia giusto registrare le sincere impressioni di un lettore come il sottoscritto.

Al pisano Renzo Castelli, uno dei pochi in Italia a scrivere volumi sul mondo dell'ippica (quasi tutti recensiti dal sottoscritto su questo blog, a partire dal gioiellino, ormai un po' superato dagli anni, Le Cento Corse dedicato al Premio Pisa, ma anche alla città ed edito dalla Tacchi Editore), e dunque da elogiare a prescindere, spetta il compito di dare il via a questa galoppata, tra fence e muri, che si snoda fino ad attraversare fiumi di impianti morti, come il Mirabello, in un'ipotetico cross multidisciplinare come quello che si vedeva (io non ne ho memoria, ahimè) decenni fa a San Rossore, quando i cavalli andavano a sfiorare il fiume morto per solcare la soffice erba dell'anti-ippodromo, dall'altra parte delle tribune. Uno spettacolo unico, si dice, un'emozione pura!
Renzo Castelli, passione da storico, ricostruisce la nascita o meglio "le radici" dell'ostacolismo, parla di caccia alla volpe, di scuole militari d'equitazione, ma prima ancora di Nerone e poi delle primordiali point to point disputate in Inghilterra nell'anno mille, in un campo chiamato Smithfields per la precisione, al fine da spingere gli osservatori ad acquistare i cavalli più apprezzati a colpi d'asta. E da qui a risalire, fino all'arrivo negli ippodromi, alla prima edizone del Grand National di Aintree e poi in Italia, con la prima prova assoluto in in ostacoli disputata nel 1739, addirittura in una piazza di Livorno. E ancora in avanti, un po' nella disorganizzazione di un settore in ascesa ma poco regolamentato, con corse occasionali in giro per l'Italia, fino alla creazione del Jockey Club e da questo alla fuoriuscita della Società degli Steeple Chases.

Si supera il fiume, ma non il Lambro, dato che si
tratta di un dipinto inglese
(Da Etsy.com)

Si dedica invece all'aspetto burocratico/amministrativo Luigi Gianoli (scomparso qualche anno dopo l'usicta del volume, autore di molti volumi tra i quali Il Purosangue, Longanesi, 1975, nonché storico collaboratore de La Gazzetta dello Sport). Lo storico amico di Gianni Brera, rimarca e si sofferma su concetti e passaggi storici già evidenziati dal collega Castelli. Grazie al suo lavoro facciamo tuttavia la conoscenza dei nomi che stanno alla base della Soc. degli Steeple-Chases, dal conte Felice Scheibler, fondatore della società, fino al meranese Piero Richard, in una girandola di Presidenti della società che si intrecciano alle storie di altri "immortali" uomini del settore come Federico Tesio, Ranieri di Campello, Vincenzo Pollio e Mario Argenton. Una parte senz'altro necessaria, un tributo agli uomini che hanno forgiato del movimento dettandone la via maestra, ma forse noiosetta. Di certo sono più brillanti i contributi del giovane Marco Vizzardelli (giornalista dello Sportsman, a secco di pubblicazioni), che regala una parte sentita come testimonia il tocco melanconico (bella la descrizione dell'impiato Mirabello di Monza) e poetico (bella la descrizione della figura dei gentleman e delle amazzoni) che sta alla base del contributo, e di Mario Fossati (deceduto un paio di anni fa, anche lui scuola Gazzetta dello Sport) che potremmo definire concentrati rispettivamente sulla figura dei cavalieri e dei cavalli che hanno fatto la storia del settore, con descrizione di nomi e gesta sul campo.

Come secondo contributo abbiamo invece le pagine offerte da Piero Mei, giornalista targato Il Messaggero (ne è stato caporedattore) autore di vari libri sulla storia delle Olimpiadi, che opta per una via di mezzo tra quanto narrato dai colleghi. Di fatto Mei parla un po' di tutto, ma si concentra sul versante tecnico. Parla di allenamenti, allevamenti e attitudine morfologica e naturale del cavallo a saltare, vista più come una costrizione piuttosto che una predisposizione sulla scia di quanto affermava Federico Tesio. Addirittura l'autore si spinge a immaginare possibili sviluppi futuri delle corse, con ostacoli sempre più variegati e intervento degli sponsor, a suo avviso, necessari nel lungo termine per permettere al circus di autofinanziarsi (ipotesi affascinante, ma ahimè tuttora disattesa) onde evitare il collasso (come infatti si sta verificando). E' il capitolo più curioso del volume, quello che porta a riflettere e regala spunti interessanti di sviluppo e di analisi.

Quindi un testo che per gli appassionati di storia dell'ostacolismo diviene una pietra miliare, peraltro corredato degli albi d'oro dei più importanti premi (a mio avviso un po' lacunoso perché mancano gli albi di premi come Nazioni, Grande Steeple delle Capannelle e altri minori che si sarebbero potuti inserire, dato che si tratta di un volume che si pubblica in occasione di un anniversario) e da una serie interminabile di foto in bianco e nero e a colori di cavalli e cavalieri. Il formato è quello "gigante", con copertina rigida e pagine lucide stile enciclopedia. Da avere nella propria biblioteca se si è amanti dell'ìppica, ma si poteva renderlo ancora migliore, lavorando su un'armonizzazione cronologica del testo in modo da evitare di ricadere sui medesimi aspetti e sugli stessi aneddoti, di certo avrebbe potuto e dovuto costituire uno stimolo ad avviare una produzione di volumi che invece non c'è stata e di cui anche oggi, evidentemente, qualcuno non ne sente la mancanza a buona pace di chi parla di "cultura sportiva" in ambito ippico.

Passaggio da CROSS COUNTRY
(da encore-editions.com)

"Il Grand National è stato definito da Fred Winter, fantino inglese con 319 cadute a carico nella sua gloriosissima carriera, «il modo più pazzo di guadagnarsi da vivere»" (Piero Mei).

"Pazzia? Chiedete a un tifoso autentico d'automobilismo, se per lui Gilles Villenueve fosse pazzo. Vi dirà che così è, o può essere, lo sport. Nella sua accezione più nobile. Ma, anche senza arrivare a questi estremi, è straordinario che vi siano stati cavalieri dilettanti che abbiano accoppiato a una riuscita d'alto livello nel loro sport, esiti eccelsi nella loro professione. Il che, in breve, significa essere grandi uomini... In un mondo che si picca di insegnarci che nulla si fa per gratis, e si vanta d'insegnarlo, in un mondo nel quale la professionalità ha sorpassato la nozione di valore, per diventare talvolta stucchevole luogo comune, il dilettantismo ad alto livello dei gentleman riders rischia di proporsi come CONTRO-VALORE INDISPENSABILE. E' straordinario che esistano persone che, in possesso d'una regolare professionalità al di fuori dell'ippica, cioè di una normale attività lavorativa, trovino tempo e voglia per dedicarsi ai cavalli..." (Marco Vizzardelli).