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martedì 16 giugno 2015

Recensione Narrativa: LA VERGINE DI NORIMBERGA di Bram Stoker.




Autore: Bram Stoker.
Anno: 1914.
Edizioni: Longanesi, 1978.
Genere: Narrativa dell'orrore.
Pagine: 137.
Prezzo: Fuori catalogo.

Commento di Matteo Mancini.
Pubblicazione Longanesi data alle stampe a metà anni '70 quale estratto dell'antologia Dracula's Guest & The Other Weird Stories pubblicata in Inghilterra nel 1914, due anni dopo la morte dell'autore, dalla moglie Florence Balcombe. Sono sei le storie scelte dalla casa editrice di Milano, all'epoca diretta da Mario Monti, tra le nove originali, con la scelta di un titolo che antepone un'altra storia a quella che, per ragioni commerciali, dava il titolo all'antologia. Qualche decennio dopo, la Stampa Alternativa proporrà l'intera antologia originale sotto il titolo de L'Invitato di Dracula. Stiamo infatti parlando dell'autore di Dracula ovvero l'irlandese Abraham Stoker, meglio conosciuto come Bram Stoker, una vera e propria leggenda della narrativa gotica e horror.
Nato nella periferia di Dublino, Irlanda, al numero 15 di Marino Crescent, nel novembre del 1847  da una famiglia di impiegati, Stoker trascorre un'adolescenza problematica. Viene colpito da una malattia che lo costringe a subire un importante handicap che gli impedisce di potersi sostenere sulle gambe. Fino a otto anni Stoker non cammina e deve vivere sacrificato su un letto, finché d'improvviso, senza che i medici riescano a capirne la ragione, guarisce del tutto. All'epoca si parla di miracolo tanto che Stoker inizia a interessarsi di sport, in particolare il rugby e l'atletica, e diviene uno studente modello. Si laurea in matematica al Trinity College di Dublino da cui era uscito anche il maestro irlandese John Sheridan Le Fanu, sponda giurisprudenza, di cui lo stesso Stoker diverrà presto accanito lettore. La specializzazione in matematica porta Stoker ad accettare l'impiego da contabile presso l'amministrazione pubblica, anche se la vera passione per lui è il giornalismo e il teatro. Forte di uno stipendio sufficiente a campare, il giovane irlandese accetta di scrivere recensioni teatrali per Dublin Evening Post senza percepire compensi. E' il giornale presso il quale lavora anche Le Fanu e dove Stoker inizia a frequentare il padre di Oscar Wilde, anch'esso conosciuto al Trinity College. Tra i due, grandi amici, scoppia un pazzesco duello epistolare per strappare il cuore (visto il calibro dei due coinvolti mi sembra il termine più appropriato) di Florence Balcome. La spunterà Stoker che la sposerà il 4 dicembre del 1878, per la sventura del regista tedesco Murnau che, nel 1922, si troverà contro una donna assatanata per non aver ricevuto i diritti di autore consequenziali all'uscita di Nosferatu, evidente plagio al Dracula del marito. Risultato finale? Bancarotta dei produttori del film, con la Balcome che, incassata un'ingente quantità di soldi, farà orecchie da indiana non sentendo giustificazioni alcune e arrivando a chiedere la distruzione della pellicola!!! Quando si dice una donna vampiro e la citazione non va ai genitori di Sergio Leone che nove anni prima, con la regia del padre e l'interpretazione della madre (tale Bice Waleran), daranno in proiezione La Vampira Indiana che, a differenza della fatica di Murnau, è oggi introvabile.
Stoker pubblica il suo primo racconto nel 1872, The Cristal Cup cui fanno seguito una serie di altre opere che scompariranno presto nell'oblio. La seconda svolta nella vita di Stoker, dopo la guarigione prodigiosa, si concretizza nel 1878 quando diviene grande amico nonché confidente e successivamente procuratore dell'attore Henry Irving da cui era rimasto impressionato nove anni prima vedendolo recitare al teatro di Dublino. E' quest'ultimo a introdurlo nel mondo culturale inglese, Stoker si trasferisce a Londra e ricopre l'incarico di direttore del Lyceum Theatre di Irving che lo mette poi in contatto con la cerchia di scrittori facente parte dell'ordine esoterico della Golden Dawn, tra questi Conan Doyle (con cui Stoker instaurerà una lunga amicizia esaltata da continue collaborazioni, scambiandosi reciproche prefazioni l'uno ai lavori dell'altro) e William B. Yeats.

Il nuovo incarico porta Stoker a vagare in giro per il mondo, al seguito di Irving. Il legame tra i due è talmente forte che lo scrittore irlandese mette al proprio primo genito il nome di Irving. Compie una trasferta negli Stati Uniti che lo porta a stringere una profonda amicizia con Mark Twain e a perseverare, senza grande fortuna, nella scrittura. E' allora però che si verifica il terzo punto focale nella genesi dell'artista. Nel 1890 Stoker conosce un professore ungherese, Arminus Vambery, che gli racconta la storia di due personaggi: l'impalatore rumeno Vlad Tapes III e la contessa sanguinaria Erszebet Bathory. Le storie ravvivano l'humus culturale di Stoker, il quale si ricorda dei racconti di Le Fanu (Carmilla su tutti) e di Polidori e inizia a interessarsi in modo netto alla narrativa macabra. Scrive due buoni racconti, che confluiranno nell'antologia voluta dalla moglie nel 1924, The Judge's House (1891), rivisitazione in termini molto più lugubri e sinistri de Il Ritratto di Nikolaj Gogol che fungerà da ispirazione a Lovecraft sia per Il Modello Pickman ma soprattutto per I Ratti nel Muro, e, guarda caso, The Squaw (1893) ovvero "L'indiana", storia di vendette feline e di strumenti di tortura (si parla della Vergine di Norimberga, cioè lo strumento preferito dalla Bathory)! Questi due racconti sono i primi assaggi di Stoker all'orrore e segnano i primi mattoncini che portano alla grande costruzione, il capolavoro dell'autore e dell'intero genere: Dracula, che, dalle sue tenebre, vede la luce nel 1897 dando vita alla quarta fase dello scrittore, il quale, da qui in avanti, vivrà sui proventi delle proprie opere, complice anche la morte di Irving.

Stoker inizia a pubblicare romanzi su romanzi, molti dei quali di significato estoterico/occulto tanto che una famosa raccolta saggistica francese arriverà a porsi un curioso interrogrativo: "lo scrittore ha voluto iniziare a qualcosa i suoi lettori, così come lui stesso era stato iniziato alla Golden Dawn? La domanda è stata posta ma non risolta" (cfr I Maestri della Letteratura Fantastica, edizioni Edipem, pag.65). Sebbene lo scrittore realizzi opere di tutto rispetto, quale il soprannaturale di ambientazione egizia Il Gioiello delle Sette Stelle (The Jewel of Seven Stars) o il più famoso e ancora esoterico La Tana del Serpente Bianco (The Lair of the White Worm) - quest'ultimo peraltro trasposto nel 1988 in una sgangheratissima versione cinematografica diretta da un regista di calibro ovvero l'irriverente Ken Russell che molti ricorderanno per l'iper satirico e blasfemo I Diavoli (1971) - il suo nome resta quasi esclusivamente legato a Dracula. Si tratta di una sorte ingiusta, poiché, pur essendo inferiori, le opere successive, avviate da Il Mistero del Mare (The Mystery of the Sea, 1902) incentrato sul tema della preveggenza e tale da esaltare Conan Doyle, sono indubbiamente dotate di gran fascino. Ne è una conferma la narrativa breve di cui la raccolta qui oggetto di esame costituisce la summa e la sintesi, tanto da scomodare Stephen King che definirà questi racconti "assolutamente magnifici."


Abbiamo già parlato della genesi di questo volume, qui possiamo aggiungere che viene realizzato mettendo insieme nove racconti (nel testo curato dalla Longanesi saranno sei, quattro in quello curato dal regista teatrale Riccardo Reim, nel 1993, per la Newton) di genere orrorifico, scritti in un arco temporale superiore a venti anni e con alcuni di essi inediti, mentre altri usciti su giornali o riviste periodiche. Difficile esprimersi su quale di essi sia superiore, poiché si tratta di un lotto molto equilibrato, caratterizzato da un evidente gusto del macabro e dall'innegabile capacità del suo autore nello scandire un ritmo sollecito (eccetto il dilatato Le Sabbie Mobili).
Tra i sei racconti scelti dal trio Tasso-Usellini-Volta spicca L'Ospite di Dracula, testo tra i più famosi dell'autore per via della leggenda che lo vorrebbe quale prologo di Dracula e addirittura quale scritto eliminato dal romanzo stesso. Nella realtà si tratta di un racconto uscito postumo alla morte dello scrittore, con abile scelta commerciale voluta dalla moglie, una che certo non era disinteressata a un tema quale il diritto d'autore. Protagonista è un giovane inglese caratterizzato nel modo tipico amato da Stoker, cioè quale intrepido amante dell'avventura che non ha paura di niente e nessuno, almeno finché non gli si presenta sotto gli occhi l'imponderabile (così l'autore irlandese presenta tutti i suoi personaggi, in un'ottica da superuomismo quasi nietzschiano). A nulla servono i tentativi del cocchiere tedesco, che il protagonista non riesce a seguire perché parla un'altra lingua, di dissuaderlo dalla volontà di andare a visitare un cimitero antico disperso nella foresta nera di Monaco. E' infatti la Notte di Valpurga, giornata simbolo nei rituali sabbatici (esaltata da un celebre romanzo, peraltro, dell'austriaco Meyrink), e di fatti l'inglese, abbandonato dal suo cocchiere, si troverà al cospetto di creature della notte e in particolare di un lupo famelico che sarà sul punto di sbranarlo, se non fosse per l'arrivo di certi cavalieri... Il colpo di genio, per il buon esito dell'antologia, sta nella sorpresa finale quando si scoprirà che a salvare il temerario, in forma indiretta, è stato il Conte Dracula in persona che, con un'epistola da Bistrita (luogo affrontato dalla Florence quella Viola in una trasferta in coppa Uefa qualche anno fa), ammonisce le autorità tedesche: "Abbiate cura del mio futuro ospite: la sua sicurezza è per me preziosa... E' un inglese, quindi ama l'avventura... Non perdete un solo istante se avete qualche preoccupazione per lui. Ho i mezzi per ricompensare il vostro zelo." Grande epilogo per un racconto che fa del fascino e del gusto per il necrofilo il proprio biglietto da visita, eloquenti in tal senso le scene nel cimitero silvano. Non a caso, a mio modo e molto alla lontana, lo omaggiai in un racconto intitolato L'Alchimista (2010) e presente nella mia antologia Sulle Rive del Crepuscolo (2011), edita dalle GDS di Milano.

La raffigurazione clou del racconto L'Ospite di Dracula.

Se L'Ospite di Dracula è l'elaborato più famoso, anche per essere stato inserito in un numero interminabile di antologie dedicate al tema "vampiri", merita, a mio avviso, un cenno approfondito il testo Sabbie Mobili, Crooken Sands. Stoker tira in ballo la tematica del doppelganger, citando direttamente un autore tedesco (Heinrich von Aschnberg). Si tratta di una tematica all'epoca molto in voga dopo il racconto William Wilson di Poe, ma soprattutto dopo The Strange Case of Doctor Jeckyll & Mister Hide di Stevenson. Stoker però aggiunge qualcosa di nuovo, va, a suo modo, in profondità dando vita a un racconto che, rispetto a esempio a L'Ospite, tocca temi più profondi. Protagonista è un certo Markam (omaggio a H.P. Lovecraft? Non lo escluderei, poiché la moglie del Solitario di Providence, tale SONIA GREENe, era legata agli ambienti frequentati da Stoker) che si reca in vacanza nelle Highlands (fatto pure io, alla maniera di Salgari, nel racconto Sotto le Stelle di Orione) vestendosi in modo tale da dare la parvenza di essere un capo clan, così come questi erano raffigurati nelle litografie e nelle operette. L'uomo, padre di famiglia e piuttosto facoltoso, è infatti rimasto impressionato da Il Re Burlone che ha visto in scena all'Empire. Decide così di scimmiottare questi soggetti, suscitando l'ilarità generale. Un vecchio pescatore di balene però, che vive in solitudine e viene considerato matto da tutti, lo ammonisce: "Vanità delle vanità. Guardate i gigli del campo essi non si affaticano per farsi belli, non tessono, eppure Salomone (nome non a caso se si conoscono certe c.d. chiavi care a Stoker e riconducibili a un certo Liddell MacGregor Mathers, prima ancora di lui a un certo manuale) in tutta la sua gloria non ne raggiungeva nemmeno uno in bellezza. Uomo! Uomo! La vanità è pari alle sabbie mobili che inghiottiscono tutto quello che viene a loro portata. Guardati dalla vanità! Guardati dalle sabbie mobili che bramano di averti, e che ti inghiottiranno! Abbi occhi per vederti. Impara a conoscere le tue vanità. Trovati a faccia a faccia con te stesso, e in quel momento conoscerai la forza fatale delle tue vanità". Markam sul momento reputa un pazzo scriteriato il suo interlocutore, poi però resta protagonista di una strana avventura in cui per poco non resta morto. Scivola infatti in una pozza e scopre di esser preda di sabbie mobili, prima di cadere aveva visto davanti a sé un altro uomo, vestito come lui e in tutto e per tutto identico. Gli incubi cominceranno a perseguitarlo e graviteranno sempre attorno al pescatore e a quelle sabbie. A generare il caos mentale è il vestito da capo clan che sembra aver offeso delle forze dell'altrove e che sembra avere quell'influenza che certi maestri della letteratura (Machen su tutti) ricollegano ai simboli, uno su tutti un certo Chevalier che ha scritto persino un copioso manuale a tema. Scoprirà poi che si tratta di qualcosa ben superiore a un incubo, qualcosa che lascia segni indelebili nella realtà. "E' una cosa molto strana, ma sembra che l'uomo disponga di un dono particolare" gli diranno i cittadini della zona, un posto in una baia vicina a Yellon, "che si tratti della seconda vista, cui noi scozzesi siamo pronti a credere, o qualche altra forma di intuizione, non saprei, ma niente di tragico succede in quel posto senza che gli uomini con cui egli vive non siano pronti a riferire parole premonitrici." Anche qua Stoker piazza un finale doppio, che offre una duplice chiave di lettura della vicenda. Da una parte la componente esoterica multidimensionale al cui cospetto l'uomo è un idiota arrogante che crede di saper tutto e che invece è un perfetto ignorante, dall'altra quella più concreta e reale legata all'esperienza del comune vivere e al concetto relativo al fatto che "c'è una spiegazione per ogni cosa". Dicotomia vecchia quanto il mondo e su cui Socrate, pur non scrivendo rigo, ha fatto scuola. Al lettore scegliere la soluzione che preferisce... Sta in questo il fascino della narrativa fantastica di serie A.

Molto sottovalutato ma bellissimo è Le Mani Insanguinate, A Dream of Red Hands, storia di delitti, incubi dettati dal pentimento e dal senso di colpa, sogni premonitori e redenzione, il tutto in proiezione di una vita ulteriore, quella davvero reale, da conquistare col sacrificio. Sembra quasi un testo di Arthur Machen, dotato di una grandissima forza visionaria e soprattutto di un underground religioso, chiaro esempio di racconto archetipo di una certa scuola britannica dell'epoca.
"So che questo sogno non esce da quella silenziosa oscurità dove i sogni abitano, ma è mandato da Dio come punizione! Mai, mai riuscirò a passare il cancello, perché quelle mie mani insanguinate sempre insanguineranno la mia veste!" così si esprime il protagonista, che soffre di insonnia, all'amico confidente. Stoker offre un bellissimo squarcio dell'aldilà, mostrando l'accesso alla porta del paradiso, sorvegliato da angeli cherubini muniti di spade infuocate. Davvero un bell'esempio di racconto fantastico, un po' sulla scia di Delitto e Castigo, ma in salsa totalmente esoterica e pur sempre gravitante attorno alla necessità, per l'uomo nobile di animo (come lo è il protagonista che si è macchiato di una colpa dovuta a un amore troppo forte per la donna sbagliata), di espiare in vita le proprie colpe così da liberarsi da quei fardelli che trascineranno nell'abisso una volta superato l'ostacolo costituito dalla vita di tutti i giorni. Lo definisco ostacolo perché come si potrebbe definire un qualcosa che potrebbe generare insidie per lo sviluppo o il benessere successivo? Ditemi un po' voi... prego.

Gli altri tre testi sono meno potenti e convergono in direzione della narrativa di intrattenimento. Si tratta comunque di elaborati che suscitano emozioni, come il convulso Il Funerale dei Topi (The Burial of the Rats, uscito inedito nell'antologia voluta dalla Balcome), action-movie in terra parigina e in mezzo ai topi, col protagonista braccato dai vecchi soldati napoleonici ormai divenuti barboni e costretti a vivere ai margini della città. Stoker qua dimostra un grande senso del ritmo e un gusto per il truculento, per l'epoca, assai spiccato. Lo stesso può dirsi per The Squaw, L'Indiana, da noi tradotto con il meno idoneo La Vergine di Norimberga (1893). Storia di vendette feline, strumenti di tortura e vecchi racconti di maledizioni indiane. Stile rapido, scorrevole e dettagli all'insegna dello splatter. Bel racconto del terrore ma nulla più, con un protagonista che cade vittima della propria superficialità e del continuo desiderio arrogante di beffeggiare la morte e le creature dell'altrove. Sulla stessa lunghezza d'onda è La Casa del Giudice, che riprende la tematica dei topi che corrono tra i muri di una vecchia casa abbandonata e l'idea dei personaggi immortalati in un quadro che fuoriescono per generare scompiglio (Gogol docet con Il Ritratto). Anche questo è un signor racconto dell'orrore, come abbiamo detto ispirerà due racconti di Lovecraft, ma non scava oltre non avendo come fine ultimo quello di cercare metafore o ammonimenti ai c.d., in certa narrativa di genere, viaggiatori sprovveduti che si addentrano tra righe che farebbero bene a evitare prima di sparare certi sproloqui.

Questo è quanto per un'opera sicuramente da avere in biblioteca e per uno scrittore che è rimasto vittima del suo stesso personaggio, Dracula, tanto forte da succhiare linfa e notorietà a tutti i fratelli pieni generati dalla medesima penna. In conclusione, un ultimo e doveroso saluto all'attore Christopher Lee ovvero il Dracula per eccellenza della settima arte. Ho l'orgoglio di poter affermare che ha lavorato in un film girato dietro casa mia, negli Studios Pisorno di Tirrenia, e che è definito il film più fedele dell'opera del maestro irlandese: Il Conte Dracula (1970), a cui prese parte anche l'indimenticabile Soledad Miranda che ha vissuto, per il tempo strettamente necessario, proprio a Tirrenia. Cronache di un fantastico tempo che fu, quando il nome di Tirrenia girava in giro per il mondo.

Proprio di Lui parlai lo scorso anno, dal palco, con l'autrice de TUTTO QUEL NERO (Giallomondadori)
con lo sceneggiatore di DRACULA 3D (Dario Argento) e con l'esperto
di B-Movie nonché grandissimo appassionato di Jess Franco.
Moderatore lo sceneggiatore de IL COLORE VENUTO DALLO SPAZIO
a LA SERRA TREMA.
Non perdete la prossima puntata, che andrà in scena il prossimo week-end, e che verterà su 
DYLAN DOG.


sabato 13 giugno 2015

Recensione Cinema JURASSIC WORLD di Colin Trevorrow



Regia: Colin Trevorrow.
Anno: 2015.
Genere: Fantascienza.
Prodotto: Patrick Crowley e Frank Marshall.
Produttore Esecutivo: Steven Spielberg.
Budget: 150 milioni di dollari.
Soggetto: Rick Jaffa e Amanda Silver.
Sceneggiatura: Rick Jaffa, Amanda Silver, Colin Trevorrow e Derek Connolly.
Interpreti Principali: Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Ty Simpkins, Nick Robinson, Vincent D'Onofrio e Jake Johnson.
Fotografia: John Schwartzman.
Colonna Sonora: Michael Giacchino.
Durata: 130 minuti.

Commento di Matteo Mancini.
Era il lontano 1993, un pomeriggio di settembre, quando, in compagnia di due amichetti dodicenni, vidi in un cinema di Livorno Jurassic Park. Fu amore a prima vista tanto che convinsi mia madre a comprare una serie di inserti De Agostini che uscirono in edicola poco dopo il film, finché un giorno non mi vidi rispondere che quella roba non serviva a niente e che non mi sarebbe stata di alcun aiuto per lo studio. Così fine della collezione, che comprendeva anche uno scheletro gigante fosforescente al buio di un T-Rex, da costruire pezzo per pezzo come il galeone di Dylan Dog. In compenso però uscì l'album delle figurine e Piero Angela fece trasmettere dalla RAI una catena di documentari sui dinosauri in uno speciale dal nome inequivocabile: Il Pianeta dei Dinosauri. Uscirono poi film clone, di livello assai inferiore, come Carnosaur (1993) o addirittura la parodia di Jerry Calà Chicken Park (1994). Qualche anno dopo entrai in possesso di un bomber nero griffato "Jurassic Park", che possiedo e indosso ancora, con l'immagine sul retro di un Velociraptor. Fu dunque uno degli ultimi film che fece, a suo modo, epoca, segnando anche il passaggio tra la computer grafica, allora agli albori, e l'effettistica legata sia all'impiego di robottoni giganti, un po' come fatto quasi venti anni prima da Spielberg in occasione de Lo Squalo, sia alla vecchissima stop motion ideata da Harryhausen. Non mancarono i sequel, sia dei cloni che dell'originale. Ho ancora viva nella memoria l'immagine della locandina de Il Mondo Perduto (1997) incollata su un cartellone stradale in quel di Cecina. Non lo andai a vedere al cinema e feci bene, anche perché quando lo guardai in televisione non mi entusiasmò come il primo. Lo stesso Spielberg, probabilmente, non ne fu soddisfatto, peraltro stravolse del tutto il secondo romanzo di Michael Crichton, padre letterario della saga, andando a effettuare una poco felice commistione tra Io Sto con gli Ippopotami e King Kong. Ancora meno convinto pur se, a mio avviso, divertente fu il terzo episodio, uscito a distanza di quattro anni dal secondo. Rispetto ai precedenti passò quasi inosservato nei cinema (fu addirittura candidato al razzie award quale peggior sequel della stagione). Determinante, in negativo, fu la scarsa cura della sceneggiatura (sviluppo risicatissimo, durata addirittura inferiore all'ora e mezzo, con sequenze scartate dai primi due capitoli), una serie di ingenuità e soprattutto il passaggio di consegne di Spielberg a favore di un suo galoppino che avrebbe dovuto già girare Il Mondo Perduto: Joe Johnston. La costante parabola discendente intrapresa della saga, comunque sempre capace di recuperare i fondi spesi, non spinse Spielberg alla resa, anzi... Fu subito intavolata una trattativa prima con Alex Proyas, il regista de Il Corvo, che avrebbe voluto coinvolgere i rettili marini, quindi direttamente con Michael Crichton, per dare il là al quarto episodio. La scomparsa prematura dello scrittore americano, avvenuta a inizio 2008, fece naufragare il progetto proprio nel momento in cui era stata dichiarata la volontà di stenderne il copione. Solo a distanza di sette anni, quattordici dal terzo episodio e addirittura ventidue dal giorno di uscita del primo, il quarto capitolo ha visto la luce, per volontà di un giovane regista capace di convincere Spielberg con una sola pellicola. Nasce così Jurassic World.



E così a 22 due anni da quel settembre del 1993 e a quasi due dalla mia ultima presenza in sala (vidi Rush di Ron Howard), mi rilancio nei cinema per non perdermi questa sorta di remake. A Pisa è in programmazione solo al Cinema Odeon di Piazza San Paolo all'Orto, quello delle quattro Repubbliche Marinare, per via dei nomi attribuiti a ognuna delle quattro sale che lo compongono. Scelgo la versione 2D che è in programma in Sala Venezia (in sala Pisa c'è la 3D) e attendo, essendo giunto con un anticipo di quaranta minuti. Probabilmente sono uno dei pochi reduci della vecchia guardia a essere ancora presente e, in tutta sincerità, non sono neppure tanto convinto che sia un film di valore, ma la presenza di Steven Spielberg mi ha convinto ad acquistare il biglietto. Sebbene sia venerdì, sulle prime, non sembra esserci una gran calca. Molti genitori con prole al seguito (un po' come successe a me nel lontano '93), qualche coppia di fidanzatini e un discreto caldo umido a corollario per la leggera pioggerella scesa nel pomeriggio. Sono il terzo a entrare in sala, in scia però ai primi due, sarò poi il primo ad abbandonarla non appena sullo schermo correranno via i titoli di coda. Ricevo in sorte un biglietto che pare essere un simpatico scherzo del destino: poltroncina 22, come gli anni che separano il film dal primo capitolo, fila H che sarà poi la lettera su cui, a fine film, si poserà il grande protagonista del primo capitolo per lanciare il suo tremendo urlo al cielo, quasi come una sorta di esultanza visto l'epilogo finale, a simboleggiare il successo sia sull'uomo che sulla sua scienza, rappresentato dalla ripresa del controllo dei dinosauri sull'isola stuprata da chi cerca sempre di tramutarsi in Dio. Sono appena le 20.40, la sala è abbastanza vuota penso quasi anche a scegliermi la poltroncina nel caso in cui il cinema resti vuoto e invece comincia a entrare un gran numero di persone. In un amen la sala si riempie e calano le luci dopo il trailer del nuovo Terminator in programmazione a luglio. Lo spettacolo ha inizio...

Il regista COLIN TREVORROW.

Il film viene prodotto, grazie alla collaborazione di Steven Spielberg, da una serie di individui che hanno nell'ex regista Frank Marshall e nell'ex direttore delle seconde unità Patrick Crowley i soggetti più rappresentativi. Entrambi ormai da anni nel mondo delle produzioni cinematografiche vantano un passato importante anche in tutt'altra veste. Marshall, da non confondere con Neil Marshall (quello di The Descent), è un fedelissimo di Spielberg (a cui ha fatto da aiuto e da direttore delle seconde unità in svariati film, non ricoprendo più questo ruolo da Seabiscuit) per aver prodotto film quali I Predatori dell'Arca Perduta (1981), Poltergeist - Demoniache Presenze (1982), L'Impero del Sole (1987), Il Sesto Senso (1999), Signs (2002), SEABISCUIT - UN MITO SENZA TEMPO (2003), Young Black Stallion (2003) The Bourne Supremacy (2004), Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo (2008) e molti altri ancora in una carriera che ha avuto inizio a partire dagli anni '70. Ha inoltre ricoperto il ruolo di produttore esecutivo in una lunga serie di film di grosso successo con perle assolute quali WAR HORSE (2011), Cape Fear -  Il Promontorio della Paura (1993), Ritorno al Futuro III (1990), Indiana Jones e l'Ultima Crociata (1989), Ritorno al Futuro (1985), Ai Confini della Realtà (1983), I Guerrieri della Notte (1979) e molto altro ancora, tentando con minor fortuna persino la carriera di regista (Aracnofobia, Congo, Alive). Una carriera quindi prestigiosa per un professionista che è stato primo protagonista nella storia del cinema degli ultimi anni. Più giovane e dunque meno qualitativo, ma non secondario, il curriculum di Crowley che ha inizio nel 1979. Parte subito come direttore della seconda unità de La Signora in Rosso (1979) lavorando in tutta una serie di B-Movie, per tutti gli anni '80, tra cui anche i due sequel di Robocop con i quali inizia ad avere ruoli importanti sotto il profilo produttivo, producendo il terzo capitolo.Compie il salto di qualità grazie alla saga avviata da The Bourne Identity (2002) che produce integralmente, intervallandola con alcune pellicole minori quali I Poliziotti di Riserva (2010).
Sono 150 milioni i dollari che i due, con la benedizione di Spielberg, affidano a Colin Trevorrow per la realizzazione del film, qualcosa che suona quasi quanto il triplo del budget avuto per Jurassic Park. E' una somma importante messa nelle mani di un regista semisconosciuto che si è fatto apprezzare con una sola pellicola indipendente, peraltro autoprodotta: Safety not Guaranteed (2012). Scelta alquanto coraggiosa, curiosa e per questo lodevole, a favore di una nuova leva che si trova a lavorare da un low budget (750.000 dollari) a un kolossal nel giro, come direbbe un Jucas Casella provetto, dello schiocco di dita di una mano. Trevorrow si porta dietro lo sceneggiatore di origine irlandese Derek Connolly, avuto nel suo unico precedente film, ed è quasi un omaggio e un'iniezione di fiducia verso un altro perfetto sconosciuto, proprio per questo ultra motivato e galvanizzato dall'importante occasione ricevuta. E' con lui che va a rielaborare il copione scritto da due astri nascenti del cinema di intrattenimento americano. Si tratta dell'affiatatissima coppia Rick Jaffa e Amanda Silver, salita agli onori della cronaca a fine anni '90 con lo sci-fi horror Relic (1997), trasposizione cinematografica (non troppo riuscita) da Preston Douglas, ma soprattutto con la saga avviata da L'Alba del Pianeta delle Scimmie (2011), dagli stessi scritta e prodotta, che li andrà a spalancare l'accesso ai super blockbuster Avatar II e Avatar III che dovrebbero rispettivamente uscire nel 2017 e nel 2018. Un lotto di individui composto da grande esperienza da una parte, giovani promesse sul punto di esplodere definitivamente dall'altra e nel mezzo perfetti sconosciuti con un'occasione che appena tre anni fa non avrebbero mai immaginato e a tirare il redini del gioco lui... il numero uno: Steven Spielberg.


Il grande coacervo dei soggetti coinvolti a vario titolo nella lavorazione opta per la realizzazione di una specie di remake modernizzato. Si parte da Crichton, scrittore autore del romanzo da cui tutto ha avuto inizio, e dall'idea di Hammond di realizzare un parco divertimenti e la si trasforma in realtà cinematografica. Il Jurassic Park ora è attivo, ha solo cambiato il nome per prendere le distanze dal passato, e si è evoluto in grande stile. Ci sono parchi acquatici dove un enorme Mosasauro si esibisce in numeri da Orca Assassina, palle invisibili per i dinosauri dotate di vetrate antisfondamento e comandi da vettura che permettono ai visitatori di vagare in area ristretta come in una specie di safari, voliere enormi dove volteggiano gli pterodattili e altre dozzine di nuove attrattive. Il pubblico interviene in massa e prende d'assalto la struttura ormai da anni. Questa è la base di partenza per inserire una storia con caratterizzazioni dei personaggi molto vicine a quelle volute da Spielberg nel primo capitolo. Due ragazzotti protagonisti di cui uno, quello più piccolo, "secchione", una coppia di adulti che si respingono pure essendo, di fatto, prossimi a fidanzarsi, il nuovo titolare del parco megalomane, il filo militare idiota che vorrebbe utilizzare i velociraptor quali nuovi soldati da assalto e infine l'informatico sfigato ma simpatico. Come nel primo si verificherà un contrattempo non attribuibile ai limiti della struttura, ma all'atteggiamento superficiale dell'uomo e uno dei bestioni uscirà dal recinto di contenimento generando il panico in giro. Questa in sintesi la trama, per una sceneggiatura che ha comunque il merito di ricercare alcuni spunti interessanti. Primo tra tutti è la relazione tra uomo e animali, col primo che tende a sfruttarli oltre il limite, facendo fare loro cose innaturali (si veda il triceratopo cucciolo costretto a fare da cavallino per i bimbi che si allenano a equitazione), e poi crede quasi di renderli felici. C'è poi chi invece vede in queste bestie estinte 65 milioni di anni fa una risorsa militare, grazie alle evolute ma pericolosissime tecniche di addestramento. Il protagonista, il bravo Chris Pratt nei panni di O.Grady (non per fare il verso allo storico velocista austrialiano che prese la maglia gialla in una clamorosa fuga bidone che gli valse oltre trenta minuti in classifica di vantaggio), si diletta nei panni di un provetto Jean Ray, ammaestrando un lotto di quattro velociraptor. Si tratta probabilmente dell'aspetto più interessante della pellicola, forse lontanamente ispirato a Tentacoli (1977) di Assonitis, dove per uccidere il mostro di turno si misero in scena le orche reputate da tutti delle assassine. Comandi vocali, comandi dettati dal movimento delle mani o dal supporto di strumenti che permettono di trasmettere messaggi cifrati un po' come fatto dalla CIA. Gli sceneggiatori sono bravi a non cadere nel ridicolo, mettendo fin da subito in mostra le grosse difficoltà di controllo su queste creature. "Non è il controllo il punto, ma il reciproco rispetto" ammonisce i colleghi Pratt.
Purtroppo però gli sceneggiatori si concedono qualche libertà di troppo, pur non cadendo nel ridicolo come in alcune sequenze del terzo capitolo. Così fanno entrare in scena un dinosauro nuovo, creato in laboratorio grazie alla genetica, in modo da poter soddisfare le sempre più crescenti richieste del pubblico. Quest'ultimo aspetto è dettato da una giusta lettura degli autori delle cose che ci circondano. Si è ormai persa l'abitudine di apprezzare la bellezza della natura o la semplicità delle cose così piccole che neppur si riesce a vedere, ma si va sempre alla ricerca dell'esagerazione. Eloquente al riguardo la scena successiva al salto fuori dall'acqua del Mososauro, con qualcuno che sugli spalti, spippolando i numeri al cellulare, assiste come se avesse visto emergere un delfino tanto da domandare al fratellino: "la vuoi vedere una cosa davvero pazzesca?" Cambia contesto e vediamo la telecamera soffermarsi in primo piano sullo stemma di una Mercedes, quando è il caso di dire pubblicità non occulta. Così come non sembrerebbe occulto il riferimento al piccolo e sottovalutatissimo b-movie Il Migliore Amico dell'Uomo diretto da Lafia nell'anno di uscita di Jurassic Park. Viene infatti realizzato un dinosauro mettendo insieme tutte le caratteristiche principali dei sauri più letali unite a quelle di creature tutt'oggi viventi. Ne deriva un bestione capace di mimetizzarsi e addirittura di sottrarsi scientemente ai rilevatori di calore (mi pare una boiata) e persino comunicare con i raptor mandandoli all'attacco dell'uomo, nonché uccidere gli altri esseri viventi per il gusto di farlo. Soluzione queste che non portano beneficio alla sceneggiatura, ma che sono strumentali alla spettacolarità della trama. Addirittura questo mostro arriva a falsificare le tracce per depistare gli inseguitori, soluzione inverosimile al mille per mille.
Mi ha convinto poco poi l'atteggiamento da militari idioti, tipo quelli di 28 Giorni Dopo, delle squadre di emergenza che finiranno col fare più danni della grandine. E' proprio questo infatti il modo in cui gli sceneggiatori portano avanti la storia, ogni accorgimento adottato per scongiurare o contenere il disastro andrà ad aumentarne la gravità. Troppo facile inoltre il modo in cui si riuscirà ad aver ragione degli Pterodattili, abbattuti come se fossero piccioni, ma forse questo ci potrebbe anche stare.
Non manca un'evidente citazione a Predator (a voi scoprirla) e un'altra ad Aliens vs Predator, in un epilogo che sembra quasi voler suggellare una pace tra le due creature che avevano animato il primo capitolo e si erano scontrate per l'egemonia del film  negli ultimi minuti di proiezione. Questa volta la parte finale è in perfetto stile Pacific Rim con scontri tra titani, soluzione quest'ultima assai spettacolare al cinema ma che da poco spessore alla trama. Trevorrow è comunque bravo a regalare dettagli, omaggi al primo capitolo (si torna nei luoghi del primo parco con tutti i gadget, le jeep e le sale di allora ormai invase dalla vegetazione) e si dimostra a perfetto agio con un giocattolone come Jurassic World. Alla fine ci si diverte, il ritmo è buono, gli attori simpatici (ci sono quelle battutine che già caratterizzavano il primo film di Spielberg). Tra questi si distingue il protagonista Chris Pratt, 35 enne che cerca di confermarsi quale attore emergente, nei panni di un giovane un po' Brody e un po' Matt Hooper di turno (per citare Lo Squalo), il veterano e militaresco Vincent D'Onofrio (indimenticabile Palla di Lardo in Full Metal Jacket) che esulta (pur non essendone responsabile) per la catastrofe che si sta consumando così da poter avanzare i suoi progetti di sfruttamento bellico, e la bella ma con un personaggio un po' sbadato e scemotto Bryce D. Howard (ammirata nella saga Twilight e in Spiderman 3), figlia proprio di quel RON HOWARD che ho visto per l'ultima volta al cinema prima di ritornare a vedere Jurassic World, chiamata a interpretare una donna in carriera che ha messo da parte la vita privata in favore della lavorativa e che scoprirà il fascino dell'avventura.

Dal punto di vista visivo il film è ottimo, così come gli effetti speciali anche se la computer grafica è davvero tanta e non sempre tale da non tradire la sua provenienza. La colonna sonora ripropone gli storici brani di John Williams, affiancandoli a nuove tracce firmate da Michael Giacchino che però subisce e sente il peso del più blasonato collega.

Tensione, ilarità, azione, scene ai confini dell'horror (senza però andare sullo splatter in modo da rendere fruibile il prodotto anche ai bambini) fanno di questo Jurassic World un ottimo sequel, migliore dei precedenti, che tuttavia paga molto sul versante dell'originalità. Da vedere al cinema per passare due ore di divertimento. In sala nessun risolino e battutacce, ma grande attenzione e atmosfera di chi ha apprezzato la visione. Non delude le attese, forse ce ne sarà un quinto ma questa volta occorrerà ricorrere all'originalità, altrimenti sarebbe giusto fermarsi qui.