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lunedì 26 dicembre 2016

Recensione Narrativa: JOHN SILENCE E ALTRI INCUBI di Algernon Blackwood.



Autore: Algernon Blackwood.
Genere: Weird/Horror.
Anno: 1908.
Edizione: Utet (Anno 2010).
Pagine: 462.
Prezzo: 19,00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Questa antologia che raccoglie la celebre raccolta sul detective dell'occulto John Silence, divenuta nel tempo cult ai massimi livelli, ci permette in primo luogo di prendere le mosse dallo scrittore dalla cui penna è nato tutto: l'inglese Algernon Blackwood. Non nascondo un immenso piacere di parlare di questo autore che fa parte di un gruppo di artisti di cui ho massima stima letteraria.
Personalità alquanto turbolenta, verrebbe da dire, guardando il suo curriculum. A tal riguardo, pur avendo molti amici, non si farà mai una famiglia propria. Nasce nel Kent, a Shooter Hill, nel 1869 e viene subito castrato nel suo sviluppo da un'educazione evangelica che lo porta a esser tenuto lontano dai tipici svaghi dell'epoca. Tutte le distrazioni provengono dal regno del maligno gli metton in testa i genitori. Il padre è un segretario finanziario delle poste oltre che Cavaliere dell'Ordine del Bagno, mentre la madre ha origini nobiliari. Viene mandato a studiare in giro per l'Europa, in Germania, Francia e Svizzera. Nella prima parte di vita però, al di là di interessarsi alla cultura orientale e all'induismo (suscitando il disprezzo della famiglia), non dimostra grandi talenti se non la passione per il violino (farà anche l'istruttore). Ricordato come un fine umorista e un grande oratore, passa i primi trent'anni all'avventura più assoluta, spesso anche perché mal consigliato e truffato da approfittatori di turno. Emigra in Canada, poi a New York dove vive passando dall'impiego di giornalista presso il Times a quello di albergatore con fallimenti continui che lo portano addirittura a vivere di espedienti, finendo a fare persino il modello per pittori, l'attore teatrale e l'operaio in un saponificio. Tenta addirittura di improvvisarsi pioniere partecipando alla corsa dell'oro nelle lande del far west. La svolta avviene quando il banchiere James Speyer lo assume come suo segretario. Blackwood ha già trent'anni ed è praticamente sconosciuto sia come scrittore che, quasi del tutto, come giornalista. Ritorna in Inghilterra e compie quel passo che lo trasformerà in uno dei maestri più acclamati della narrativa fantastica. Col nome di fratello Umbram Fugat Veritas, ovvero la realtà disperde l'ombra, entra a far parte dell'Ordine Ermetico della Golden Dawn dove farà la conoscenza di un humus letterario di prima classe che lo convincerà a mettere nero su bianco le sue idee e la sua fantasia. Blackwood fa così tesoro dell'esperienza di vita vissuta, per i boschi del Canada, per esaltare l'immanenza della natura sull'insignificanza e l'arroganza dell'uomo, credendo fermamente nell'ignoto. Conseguenziale diviene così la compenetrazione tra fantasia e insegnamenti esoterici che vengon traslati dalle pratiche iniziatiche per confluire in narrativa divenendo un unicum affascinante e di immediato successo. Non scrive subito però, rimane per alcuni anni in fase di apprendimento e quando decide di passare all'azione lo fa subito con decisa presa di pubblico. La sua prima opera è una raccolta di novelle che va sotto il titolo La Casa Vuota e altre Storie di Fantasmi - The Empty House and Other Ghost Story (1906) che vede la luce grazie all'iniziativa di un amico che decide di presentare questi scritti a un editore che ne resta favorevolmente impressionato. Appena un anno dopo esce la novella Colui che Ascoltava nel Buio (1907) sempre afferente al tema fantasmi. Blackwood è poi abile a modernizzare la tematica classica dei fantasmi, spiriti maligni, diavoli, licantropi e mummie portando sul piano fantastico, col John Silence, Phisician Extraordinary, la figura lanciata dal "compagno di scuderia" Conan Doyle, altro affiliato all'Ordine, del detective Sherlock Holmes. Non è il primo a farlo, prima di lui, al di là dei tentativi non centrali di Le Fanu e di Stoker (con i loro Hesselius e Van Helsing), ci aveva già provato Matthew Shiel (il Principe Zaleski) e gli Heron con il loro poco conosciuto Flaxman Low. E' però nel 1908 con il John Silence che la figura viene effettivamente sdoganata nel fantastico e subito presa a modello da William Hope Hodgson, due anni dopo, col suo Carnacki. Torneremo di seguito su questo personaggio. In particolare il personaggio di Blackwood, come avremo modo di delinearlo di seguito, deve molto a Sherlock Holmes sia per il suo essere londinese, sia per le notevoli capacità di osservazione sia per esser spesso coadiuvato da un assistente. A differenza di Holmes, però, il Silence è un vero e proprio occultista dotato di poteri che vanno oltre al comune poliziotto, in più è laureato in medicina ed è un benestante di famiglia.
Blackwood insiste facendo uscire, nel giro di pochi anni, altri racconti che faranno scuola come I Salici (1907) e Il Wendigo (1910), tutti testi in cui le descrizioni, costruite in modo lento per portare il lettore dalla realtà alla fantasia in modo graduale e progressivo, sono centrali e hanno la funzione di suggestionare il pubblico cui sono destinate togliendogli il fiato non solo per la tensione ma anche per la bellezza scenografica. Opere dove la natura si trasforma, di fatto, in divinità (o comunque in forza trascendentale) e dove l'invisibile grava sulla piccolezza dell'uomo, spesso e volentieri arrogante e ignorante comparsa di un contesto in cui crede di esser protagonista. Sono questi i migliori anni del Blackwood scrittore che, nel frattempo, si mette anche a scrivere, tra un romanzo occultistico e l'altro (in Italia non facilmente trovabili), opere teatrali, musical e finisce esportato negli Stati Uniti dove Howard Philips Lovecraft non tarderà molto a eleggerlo quale maestro indiscusso nel suo L'Orrore Soprannaturale nella Letteratura. "Nessuno ha mai raggiunto la sua maestria  con cui accumula, dettaglio su dettaglio, effetti e percezioni che dalla realtà conducono a un'esistenza o una visione soprannaturali" scrive la penna di Providence.
Ribattezzato nell'ambiente letterario Lo Spettro, ovvero The Ghost Man, viene arruolato nella prima guerra mondiale (secondo altre fonti nella seconda) in qualità di agente segreto al servizio di Sua Maestà in quanto abile alpinista e appassionato di sci.
Dal 1934 passa a lavorare in radio e dal 1938 in televisione. Sfugge a un missile V2 precipitato sulla sua abitazione durante la seconda guerra mondiale, sorte simile al corrispettivo collega italiano Libero Samale (Frank Graegorius). E' inoltre ricordato per essere stato il primo volto britannico ad apparire in televisione, nel 1950, durante le trasmissioni sperimentali della BBC nell'atto di parlare di fantasmi durante un programma mandato in onda nella notte di Halloween a cui faranno seguito altre puntate raccolte sotto il titolo Le Storie del Sabato Notte. Muore l'anno dopo a Londra, all'età di ottantadue anni, per una trombosi celebrale.
Mike Ashley nel 2001 gli dedicherà una biografia intitolata The Starlight Man: The Extraordinary Life of Algernon Blackwood.


ALGERNON BLACKWOOD

Veniamo ora a parlare del John Silence, probabilmente uno dei personaggi più famosi nati dalla penna di Blackwood ma non per questo abusato o sfruttato dal suo creatore. A differenza di Conan Doyle, Blackwood non proporrà più il suo celebre detective dell'occulto dopo l'uscita della prima antologia data alle stampe nel 1908. La sua sarà una vera e propria scelta deliberata, cosa che invece non succederà con William Hope Hodgson che non pubblicherà altre storie del suo Carnacki perchè semplicemente deceduto, poco dopo, sul terreno di battaglia, in Belgio, durante uno dei tanti conflitti della prima guerra mondiale. Nonostante l'uscita di una sola antologia, tuttavia, il John Silence è ricordato, in via simbolica piuttosto che reale (lo abbiamo già detto sopra), come il primo vero detective impegnato con serialità in storie del paranormale, vero e proprio ispiratore (pur se con profonde differenze) del “nostro” Dylan Dog al punto che nell'edizione a cura di Flavio Santi, per UTET, compare svariate volte l'esclamazione “Giuda ballerino”. Conseguenziale dunque il ragionamento che porta a fare da ponte storico tra i due personaggi (col secondo nato a distanza quasi di ottanta anni). La sensazione è che si sia trattato di un vero e proprio omaggio del curatore, piuttosto che una fedele traduzione dall'originale ma questo rimane marginale e non cambia la sostanza dei fatti.
Per delineare il personaggio, stante la diversa struttura e realizzazione dei vari racconti (contrariamente a quelli del Carnacki che si avviano sempre alla medesima maniera), sono determinanti il primo e l'ultimo racconto dell'antologia, quantomeno stando all'ordine di presentazione proposto da Santi. Ne Un'Invasione Paranormale ovvero A Psychical Invasion viene fornito il vero e proprio profilo del personaggio di cui il lettore si accinge a leggerne le gesta, spesso e volentieri (ma non in via esclusiva), narrate dal suo fedele assistente (retaggio di Conan Doyle). John Silence, come il corrispettivo Sherlock Holmes, viene giudicato dagli amici come un eccentrico o un cane sciolto, per le sue abitudini e la sua grande capacità deduttiva, ma soprattutto per il suo procedere in modo bizzarro e del tutto sconnesso alle ambizioni della vita comune. Lo spirito di osservazione e la profonda conoscenza dell'animo umano, nonché la capacità di leggere il linguaggio corporeo, non sono le uniche capacità di questo personaggio. Sparito dal mondo per cinque anni, dove sembra sia andato in Oriente, il Silence, poco più che quarantenne, è un vero e proprio sensitivo che conosce l'arte della magia, anche senza darlo troppo a vedere come fa invece il suo collega Carnacki. Alto, con mascelle volitive e una barba nera a renderlo enigmatico al punto giusto, ma soprattutto dai modi gentili, flemmatici tale che in pochi, come dice Blackwood, "avrebbero sospettato dell'energia che gli bruciava dentro come un'immensa fiamma."  Appare dunque molto più professionale del Carnacki, con un modo di fare per niente smargiasso e assai più riservato rispetto a Sherlock Holmes. Non va cioè in giro a lodarsi o a recitare formule magiche riprese da testi più o meno eretici, né ricorre ad amuleti o alla preghiera. Agisce soprattutto a livello mentale o compie atti senza spiegarne la fonte di ispirazione. Questo non deve però portare a reputarlo un mero intellettuale che lavora solo con la mente e risolve i casi, per così dire, dalla poltrona (mi viene in mente una battuta inserita in Uno Studio in Rosso di Doyle). No, signori. Anche il Silence è un uomo d'azione e lo si vedrà correre per boschi e lande in piena notte, alla caccia di entità vomitate dall'altrove o da dimensioni non riconducibili alla tridimensione. Così, al riguardo, si esprime Hubbard, il suo assistente semi-chiaroveggente: “Avevo già avuto esperienza dell'abilità del mio compagno nella corsa in un bosco fitto, e adesso avevo un'ulteriore prova della sua capacità di vedere al buio... Compresi allora quale sensibilità speciale è quella sviluppata dai ciechi: la percezione degli ostacoli.” Pur essendo uno dal grande coraggio e d'azione, il Silence non ha bisogno di armi (intese quelle atte a offendere in un conflitto bellico) essendo le stesse del tutto inutili contro certe forze. Il suo è un continuo allenamento fisico, mentale e spirituale. A differenza di Holmes, a cui è accomunato dalla passione per le materie scientifiche (John Silence è addirittura un medico, mentre il collega è uno studioso un po' di tutto senza avere laurea), il Silence non riceve alcun compenso per i suoi incarichi (“sosteneva che a pagare dovessero essere i ricchi, mentre i più poveri dovevano godere dell'assistenza gratuita” quando si dice un detective di sinistra, ndr... quelli che però più lo interessavano erano "i lavoratori sottopagati, spesso amanti delle arti, che non potevano permettersi una parcella corrispondente a una settimana di lavoro magari solo per sentirsi dire di fare un viaggetto") e viene ingaggiato sempre da persone che sono in difficoltà per disturbi psichici non riconducibili alla medicina che potremmo definire razionalista. Non interviene dunque su casi di omicidi su invito della polizia che brancola nel buio, ma in casi che sconfinano dalla realtà pragmatica per varcare il sottile confine celato da quelle nebbie che rispondono al nome di ignoto. In questo è molto simile al successivo Carnacki di Hodgson. I casi del Silence però non sono mai macchinazioni ordite da qualcuno per acquisire vantaggi venali (come avviene spesso con Hodgson), ma sono sempre flagellati dall'irruzione dell'occulto nella banalità quotidiana. Sono solo questi i casi su cui Silence sceglie di lavorare, andando in giro in mezza Europa (Svezia, Germania, Francia e Inghilterra), in caso contrario dichiara di non essere interessato alla soluzione del caso. Questo avviene perché Silence non vive del proprio lavoro, essendo già ricco sfondato. Il suo dunque è più un lavoro di sfizio, quasi fosse uno studioso che deve fare una tesi di laurea o un accademico alla ricerca delle conferme sulle proprie tesi. Nel primo racconto, dove Blackwood si contraddice, si legge che il dottore non dispone di un laboratorio né di veri segretari, né ricorre a una metodologia strettamente professionale. Ho scritto che si contraddice perché nell'ultimo racconto la storia si svolge proprio nello studio del dottore (unica delle sei) con un cliente che arriva senza appuntamento e pretende di ricevere un consulto. Sto facendo cenno a Una Vittima dello Spazio SuperioreA Victim of Higher Space – indubbiamente, per farmi intendere, il racconto più dylandoghiano del testo. Blackwood dunque si sbugiarda da solo e caratterizza nei minimi dettagli lo studio del Silence, qua assistito da un maggiordomo diverso dal suo assistente esterno. “C'erano due distinte stanze per gli ospiti. Una (per le persone che pensavano di avere bisogno di un'assistenza spirituale quando in realtà erano candidati al manicomio) aveva le pareti imbottite ed era fornita di svariati strumenti nascosti per affrontare e dominare un improvviso accesso di violenza. L'altra, invece, studiata per raccogliere casi autentici di stress spirituale e insolite manifestazioni di natura psichica o paranormale”. Questo tanto per cominciare. Inoltre Blackwood spiega come Silence abbia accessoriato queste stanze. Scopriamo infatti che nella seconda stanza, di fatto una stanza di attesa, è stato praticato uno spioncino aperto in una delle pareti in modo che il dottore possa studiare il cliente prima di riceverlo (“un uomo seduto da solo presenta una sua espressione psichica, e questa espressione è l'uomo stesso. Essa scompare nel momento in cui un'altra persona lo raggiunge”) così da farne un primo screening. In un secondo momento poi, dunque un metodo c'è e come, Silence entra nella stanza e interroga l'ospite facendolo accomodare su una poltrona inchiodata al suolo (per impedirgli la libertà di movimento e tenerlo concentrato), con la possibilità di azionare dei comandi per il rilascio di aromi che si liberano dalle mura con anche la possibilità di scegliere il rilascio di narcotici. Dunque vediamo che, in realtà, l'organizzazione c'è e in modo molto professionale e calibrato. Silence lascia poco al caso e, un po' come Holmes, arriva alla soluzione del caso prima ancora che si sbrogli l'intero bandolo della matassa. Chiarito con chi si ha a che fare, passiamo ora alla sei storie, non prima di aver fatto cenno al suo approccio: "La chiave di volta del suo potere consisteva nel sapere che il pensiero può agire a distanza e, in secondo luogo, è dinamico e può ottenere risultati concreti. Imparate a pensare, avvertiva, e attingerete il potere dalla sorgente."

Una raffigurazione di
JOHN SILENCE,
Alla scoperta dei racconti.

Abbiamo già detto che i sei racconti proposti della serie sono molto diversi tra loro non solo per i contenuti ma anche per la loro struttura. Di lunghezza molto eterogenea, si va dal racconto breve alla vera e propria novella di lunghezza superiore alle cento pagine; divergono anche per la loro impostazione di partenza. Alcuni di essi, i più lunghi, costituiscono narrazioni fatte dal non sempre presente assistente mister Hubbard, altri invece sono in terza persona. In alcuni casi John Silence appare quando la storia è già ben inoltrata in avanti nel suo corso, in un caso appare addirittura alla fine. Dunque grande variabilità che rende ovviamente molto piacevole un'antologia che altrimenti, come succede a esempio col Carnacki, avrebbe rischiato di ripetersi divenendo stucchevole (termine che metto deliberatamente a rimembranza di certe critiche disintegratesi sul muro dell'evidenza). La bravura di Blackwood sta poi nel modernizzare tematiche classiche, riplasmandole e, in alcuni casi, dando vita a visioni, penso di poter dire, originali. Ne è un esempio Un Licantropo in Campeggio, meglio conosciuto come The Camp of the Dog. In questa novella, dallo sviluppo in verità a mio avviso troppo lento, Blackwood riscrive la figura del licantropo miscelandola alla tematica del corpo astrale. Ne deriva un soggetto all'apparenza molto classico costruito sulla tematica tanto cara all'autore, ovvero quella della potenza di un ambiente selvaggio lontano dalla vita urbana e immerso nella più viva (anche se nel testo viene definita morta) vegetazione che riesce a modificare nel profondo gli uomini che si trovano a dover fare i conti con lo stesso. Blackwood costruisce così la storia su tre tematiche che confluiranno in una. Silence giunge solo verso la fine, chiamato dal suo assistente che è il protagonista iniziale della vicenda ma è incapace di sbrogliarla. L'uomo, insieme ad alcuni amici, parte per un periodo di vacanza in Svezia, dove vive in mezzo ai boschi in un campeggio di fortuna collocato in un'isola dove non vi è traccia di animali. Tutto procede con spensieratezza almeno fino a quando un insolito lupo non verrà a fare visita al campo. Non scendo nel merito onde evitare di spoilerare, ma il lettore si accorgerà di come Silence, in modo del tutto originale, arriverà a dimostrare che la licantropia è un fenomeno meramente psichico. Il “mostro” infatti non è da intendersi, in questo caso, come una creatura maligna riconnessa a riti magici o a maledizioni scagliate da esseri malevoli, piuttosto un veicolo di passioni, emozioni e desideri repressi, personificatesi e liberatesi dall'uomo che vanno a rappresentare, svincolandosi dal sonno dello stesso. In altre parole il licantropo diviene una creatura interiore partorita dal subinconscio che si tramuta in carne e ossa nel sonno, quasi come in un sogno o in un incubo, ma che, anziché restare confinato nella testa del suo autore, va fuori e interagisce con le creature che han diritto di stare al mondo. A motivare il tutto, nella fattispecie, un amore apparentemente non condiviso ma nel profondo voluto da entrambi i soggetti coinvolti. Blackwood dimostra, non è il solo caso, una natura romantica spesso riscontrabile negli scrittori di fantastico e del terrore (potrebbe essere un controsenso ma invece è del tutto normale, poiché la sensibilità è sempre la massima caratteristica di un narratore del terrore). Testo dunque molto bello nel soggetto, ma portato avanti in modo lentissimo con dilungamenti talvolta noiosi (a mio modo di vedere) nelle caratterizzazioni dei personaggi. “Il lupo è un fatto psichico di grande importanza, per quanto durante le epoche buie si sia esagerato con le assurde fantasie di contadini superstiziosi, visto che il lupo non è nient'altro che l'istinto selvaggio di un uomo passionale che esplora il mondo con il suo corpo fluido” così spiega Silence.

Se con Un Licantropo in Campeggio Blackwood modernizza la tematica licantropia, in Antichi Sabba (Ancient Sorceries) torna sul classico, con gli unguenti necessari per trasformarsi da uomini in animali, ma lo fa andando ancora una volta a modernizzare la figura lavorando, questa volta, su un altro versante. Introduce cioè i gatti o le pantere mannare, in quello che è, a mio avviso, il capolavoro della raccolta. Silence, nella fattispecie, è quasi assente nella vicenda, partecipa solo in un secondo momento per indagare sul racconto che il protagonista dei fatti gli rivela. Ancora una volta si intrecciano svariate sotto trame come quella del treno che si ferma in una località ai limiti tra il sogno/incubo e la realtà, quella della licantropia diabolica e quella della reincarnazione e, più centrale di tutte, della stregoneria. Il protagonista, un viandante inglese che vaga per la Francia, decide di scendere dal treno su cui si trova, perché infastidito dall'accalcamento che ha intorno. Suo malgrado finisce ospite di una sconosciuta cittadina dove le persone si comportano come gatti e dove, a poco a poco, si troverà sempre più legato, incapace di allontanarsi, specie quando farà conoscenza di una giovane diciassettenne figlia della padrona della locanda in cui è alloggiato. Vivrà così un'esperienza soggettiva, così la qualificherà a posteriori John Silence, in cui si troverà a rivivere le emozioni di un suo lontano passato che lo ha visto partecipe a sabba presieduti da Satana, con streghe e stregoni capaci di trasformarsi in gatti, dopo essersi spalmati sulla pelle dei diabolici unguenti. L'esecuzione del testo, mai noioso, è di una perfezione magistrale e costringe il lettore a leggere senza staccarsi dal racconto. Emerge il consueto stile dell'autore caratterizzato dalla cura nella descrizione degli ambienti e dal suo lento procedere, impreziosito da poetici tocchi di penna in un mix tra romanticismo e perversità malata dove non mancano splendidi ammiccamenti erotici. Lo definirei quasi un racconto multi sensoriale dove i cinque sensi (e anche il mezzo alla Dylan Dog) vengono stimolati al massimo. Spettacolare la parte finale, con la trasformazione di tutti i cittadini, per la sua impressionante forza visiva. Per dare l'idea è come assistere a un'esplosione di luce lunare che si fa strada nel buio fitto dell'abisso della notte, dettando la via alle creature che seguono il canto del male che riecheggia nella vallata. Capolavoro, c'è poco da aggiungere. Uno dei più bei racconti sulla tematica che riconferma la verve romantica dell'autore che, ancora una volta, scende nell'introspettivo: “La vita reale di cui parlo è la vecchia vita interiore, la vita di tanto tempo fa, la vita cui anche tu un tempo sei appartenuto e a cui appartieni.”


Più classico, ma costantemente costruito sul filo della tensione, è La Nemesi del Fuoco (The Nemesis of Fire). Ho scritto classico, ma anche qua Blackwood miscela più sotto trame. A quella della mummia unisce una fenomenologia che, ai tempi odierni, potrebbe esser letta come quella dei foo fighters con differenze comunque apprezzabili non essendoci aerei da disturbare ma semplici colonnelli sprovvisti di velivolo. È infatti un militare a ingaggiare Silence e il suo assistente Hubbard per porre fine agli strani accadimenti che si verificano nel parco ove ha sede la magione avuta in eredità dal fratello. L'area, circondata da un fitto bosco, è oggetto di strani eventi che gravitano attorno a dei globi infuocati che, in alcuni casi, hanno lasciato delle lunghe strisce affumicate sui muri e che ondeggiano in aria anche all'altezza degli alberi. Attraverso un esperimento che prevede l'uso del sangue, Silence riesce a far manifestare la forza occulta che ricorre a un elemento igneo per funestare la vita dei residenti. Silence definisce così questi elementi: “sono forze attive oltre i soliti elementi, terra, aria, acqua o fuoco, nella loro natura essenziale sono impersonali, ma possono essere messi a fuoco, incarnati, animati da coloro che sanno come fare, attraverso le pratiche magiche... Da soli questi elementi ciechi possono compiere ben poco, ma guidati e diretti dalla volontà esercitata di un potente manipolatore possono diventare importanti forze per il bene o il male. Sono la base di tutta la magia.” Nella fattispecie dietro a tutto ci sarebbe una maledizione scaturita a seguito della profanazione di una mummia e al relativo furto dello scarabeo sepolto con la stessa. Tale sacrilegio avrebbe infatti liberato l'elemento igneo programmato da un mago per punire chi avesse osato disturbare la pace eterna della mummia. Bellissimo racconto, pur se lento, con una prima parte introduttiva, una seconda all'insegna dell'azione tra i boschi alla caccia di una creatura invisibile. A seguire una terza esoterica e occulta che ha l'esperimento magico di evocazione come perno su cui ruotare il tutto, per chiudere con un epilogo claustrofobico tra i cunicoli scavati nella sabbia, sottoterra, con la terra che cade ed è sempre sul punto di chiudersi sui tre protagonisti per ingoiarli nelle sue viscere. Meno affascinante di Antichi Sabba, ma probabilmente il racconto che gioca di più sulla tensione e sul mistero.

Molto divertente e veloce il racconto che chiude l'opera ovvero Una Vittima dello Spazio Superiore, con cui Blackwood – lo abbiamo già detto – mostra al suo pubblico il laboratorio di Silence e lo mette al cospetto di una storia dylandoghiana. Silence sarà infatti chiamato ad aiutare un cliente, quasi un alter ego del dottore oserei dire (in grado anche di leggere nella mente delle persone), che, grazie a un lungo studio e alla capacità di rimembrare i ricordi di una precedente vita (ancora il sotto tema della reincarnazione), riesce a superare il limite del mondo tridimensionale entrando nelle dimensioni ulteriori. Blackwood qua si apre a un'analisi della realtà costruita su scala multidimensionale, ma limitata, per gli uomini, alle tre dimensioni. Il protagonista, un po' come in un successivo lavoro di Lovecraft, riuscirà a varcare questo limite non avendo però il pieno controllo delle chiavi (tra cui la musica, concetto già usato da Leslin Allin Lewis sul tema) che consentono di aprire il passaggio dalla c.d. realtà all'altrove (che è anch'esso realtà, nella fattispecie) e di farvi ritorno. Esilaranti i passaggi col cliente che scompare nella nulla sotto gli occhi di un esterrefatto Silence, mentre quest'ultimo prova a tenerlo saldo tra le sue mani.”Lo spazio superiore esiste e il nostro mondo confina con esso e su di esso parzialmente giace, ne consegue necessariamente che noi vediamo solo parti limitate di tutti gli oggetti. Non vediamo mai la loro forma autentica e completa. Vediamo le loro tre dimensioni, non la quarta.”


La precedente versione a cura
FANUCCI.

Inferiori, secondo me, gli altri due racconti. Classico Culti Segreti dove spicca solo la componente melanconica dell'adolescenza con lo stesso Blackwood che, forse, ricorda i suoi passati di studente lontano da casa e immagina di rifare ritorno nei luoghi di studio. Ex studente inglese torna nella campagna tedesca per visitare il paesino presso il quale ha studiato molti anni prima. Si tratta di una scuola religiosa. Deciso a salutare i suoi vecchi maestri vivrà, anche lui, un'esperienza soggettiva tra le mura decadute del convento tra i vecchi maestri che lo accoglieranno come uno di loro, tramando però di sacrificarlo al demonio in ossequio alle loro pratiche segrete. John Silence, di passaggio in zona, riuscirà a intromettersi nel sogno/incubo del protagonista e a liberarlo dal concreto pericolo costituito da un'esperienza al confine tra il sogno e la realtà. Al risveglio, il protagonista si renderà conto che della sua vecchia scuola, in realtà, non resta altro che un cumulo di rovine. Il suo sogno però è stato molto pericoloso perché qualora non fosse intervenuto Silence avrebbe perso la propria anima trasformandosi in un automa. Anche se non detto, viene ribaltato e riproposto sotto altra lente il tema del corpo astrale. Bizzarrissimo, soprattutto per la natura del cliente del dottore, Un'Invasione Paranormale. Lo abbiamo già detto, è il racconto in cui l'autore traccia il profilo del suo detective per poi farlo entrare in azione a esorcizzare uno spirito maligno che ha preso possesso della casa di uno scrittore satirico che ha però perso la sua verve comica. Ancora una volta Blackwood rende personalissime le sue storie. A fungere da catalizzatore è l'utilizzo di una sostanza allucinogena, la Cannabis Indica,che viene assunta da questo scrittore per aumentare la propria verve comica. Una sorta di doping creativo, per intenderci. Uno degli effetti di questa droga è infatti il provocare un riso irrefrenabile. La sostanza produce l'effetto voluto, ma apre anche le porte a quelle che John Silence definisce le “forze di un'altra regione” mettendo in contatto, involontario, lo scrittore con gli spiriti che popolano l'invisibile. Tormentato dalle strane figure che vagano per l'abitazione e che sono riconnesse al precedente affittuario (ovviamente deceduto e votato al male), lo scrittore oltre a perdere la propria arte comica cade in una paranoia che lo conduce alle porte della follia. È la moglie di quest'ultimo a far sì che il caso finisca sulla scrivania di John Silence, che interviene in via diretta per esorcizzare la casa. Ad aiutarlo, nel frangente, non c'è il fido Hubbard, ma un cane e un gatto in vesti di inconsapevoli assistenti. “Tutti gli scrittori umoristici meritano di essere aiutati, non possiamo permetterci di perderne nemmeno uno in questi tempi sciagurati” commenta Silence. Racconto piuttosto classico che ispirerà Hodgson. Silence agisce però con i suoi poteri mentali, senza armi o amuleti. Blackwood divide in due il racconto. Nella prima parte, dopo aver introdotto il personaggio del John Silence, il protagonista viene notiziato circa i fatti che hanno portato il cliente a imbattersi con l'occulto. Nella seconda parte invece abbiamo l'intervento diretto del detective e la soluzione del caso grazie al ricorso delle formule e della ritualità dell'alchimia spirituale. In pericolo però, avverte Silence ancora a sottolineare il tema della vita successiva a quella conosciuta dai comuni mortali, non è il presente (ovvero l'esistenza fisica), ma la vita interiore, quella psichica (argomento ritornante come abbiamo visto) capace di abbandonare il corpo mortale e di sopravvivere allo stesso ma anche di subire danni, ovvero contaminazioni, nella vita terrestre da cui non è poi possibile lavarsi in un secondo tempo. Ne deriva una visione trascendente, che accenna risposte alle domande relative al senso della vita ultraterrena, peraltro comune a una data cerchia di autori di narrativa fantastica con la “F” maiuscola. David Punter, nel suo monumentale Storia della Letteratura del Terrore, scrive, a ragione, che in Algernon Blackwood “il regno del soprannaturale è accettato come esistente”. Vi è dunque una credenza effettiva, il fantastico non viene visto come un mero gioco o una metafora su cui traslare aspetti della vita, per così dire, materiale. Nel volume della Edipem de Maestri della Letteratura Fantastica si accenna quanto in Blackwood vi sia una convinzione marcata circa la possibilità di ampliare le facoltà umane e gli strani poteri che dormono nell'uomo. Lovecraft (razionalista e scettico circa l'effettiva esistenza del mondo del paranormale) parla invece, pensando a Blackwood, di un universo irreale (l'inglese, come abbiam detto, non lo avrebbe chiamato così) che preme di continuo sul nostro. Il solitario di Providence non fa poi giri di parole nell'esprimere il suo giudizio sulle qualità del collega: “Blackwood è il più grande e indiscusso maestro nel creare un'atmosfera soprannaturale... più di ogni altro capisce come certe menti sensibili possono indugiare ai confini del sogno, e quanto illusoria sia la distinzione tra le immagini create dagli eventi reali e quelle stimolate invece dal gioco della fantasia”. Per quel che mi riguarda sostituirei la parola fantasia e aggiungerei "dalle interferenze che sfuggono alle leggi umane e che trovano sede oltre alle dimensioni percepibili con i nostri (limitati) cinque sensi".

Voglio infine soffermarmi sull'ironia un po' beffarda dell'autore che mette spesso in relazione la comicità con il terrore. Nell'ultimo racconto analizzato scrive che “dietro il comico si cela sempre la paura. Un terrore travestito con la maschera da pagliaccio, che trasforma l'uomo nel campo di battaglia di due emozioni opposte, armate per lottare fino alla morte.” Sulla stessa falsa riga, in modo forse anche un po' blasfemo, chiude il racconto Un Licantropo in Campeggio scrivendo: “E per enfatizzare l'eterna vicinanza di commedia e tragedia, due piccoli dettagli spuntarono sulla scena e mi impressionarono così tanto che li ricordo ancora come fosse ieri. Nella tenda dove avevo appena lasciato Joan, tutta tremante della nuova felicità, mi arrivarono all'orecchio i rumori grotteschi di Lupo di Mare che stava russando, ignaro di tutto quanto, e dalla tenda di Maloney mi giunse il monotono alzarsi e abbassarsi di una voce umana: era un uomo che pregava il suo Dio.” Fu così, mi verrebbe da aggiungere prendendomi una licenza narrativa, che dietro il sudario che prende le forme del mantello della copertina scelta dalla Utet, si levò una risata, ma fu difficile per tutti capire se di scherno o di divertimento o forse, più a tema col tutto, di diabolica complicità.

La copertina del film ispirato, vagamente,
ad ANTICHI SABBA,
uscito nel 1942 per la regia di
Jacques Torneur
propio quando Blackwood ripubblicò
una nuova versione dell'antologia.

Una considerazione finale su alcuni aspetti post produttivi, diciamo così. Interessante chiedersi, non che lo facciano molti, la natura del nome che Blackwood ha scelto per il suo personaggio. Sul punto è apprezzabile l'analisi che fa Flavio Santi secondo il quale, a mio avviso a ragione, il nome potrebbe richiamare il tema del silenzio iniziatico, il famoso Silentium. Santi però propone anche altre soluzioni, come una scelta ricollegabile allo pseudonimo del filosofo Kierkegaard ovvero Johannes de Silentio.
Un altro enigma è quello costituito dalla dedica apposta a inizio opera dall'autore: "a M.L.W, il vero John Silence nonché compagno di mille avventure." E' probabile che si tratti del nome in codice usato da un collega di studio all'interno dell'organizzazione segreta di cui faceva parte Blackwood. Santi non riesce a sciogliere il mistero, in altri nemmeno si interrogano seriamente al riguardo. Difficile pensare, ma non impossibile, che Blackwood abbia voluto solleticare la fantasia dei lettori insinuando nelle loro menti la possibile esistenza di un personaggio come il Silence, così da amplificare il fascino delle storie narrate. Difficile, lo abbiamo detto, ma tutt'altro che impossibile.
C'è poi la storia relativa alla divulgazione dell'antologia che, abbiamo più volte detto, esce in Inghilterra nel 1908 e viene ristampata dal suo autore nel 1942, preceduta da una prefazione dallo stesso curata. Proprio in quell'anno esce al cinema, per la regia di Jacques Torneur, un film vagamente ispirato ad Antichi Sabba che viene intitolato Cat People (Il Bacio della Pantera in Italia). Il film avrà un remake nel 1982 con Nastassja Kinski, per la regia dello sceneggiatore di Martin Scorsese ovvero Paul Schrader, reduce dallo script di Toro Scatenato e prossimo a scrivere Mosquito Coast. Da molti viene considerato come un chiaro omaggio a Blackwood, ma chi ha letto il racconto non tarderà a comprendere quanti pochi siano i punti di contatto.
In Italia il testo arriva tardissimo, con ritardo oserei dire scanadoloso, per merito della piccola ma sempre attenta al fantastico Fanucci Editore che lo fa uscire col titolo John Silence, Investigatore dell'Occulto. Nel testo, forse per limiti di spazio, vengon proposti solo cinque dei sei racconti. A esser tagliato è Una Vittima dello Spazio Superiore, pubblicato poi l'anno successivo in un'altra antologia interamente dedicata a Blackwood intitolata Colui che Ascoltava nel Buio. La mancanza non viene colmata dalla ristampa di dodici anni dopo. Solo 2010 (a oltre cento anni dall'uscita del testo inglese), grazie alla Utet, i sei racconti saranno finalmente riuniti in un testo accompagnati da due omaggi, definibili bonus track, con Jim Shorthouse protagonista. Il resto è storia recente, non mi resta che invitarvi a conoscere la narrativa di Blackwood partendo proprio dal suo celebre detective in grado di fare scuola e proselitismi nel campo della narrativa del terrore.

Ps: leggo e dunque riporto per completezza, dalla voce autorevole di Andrea Bonazzi, che sarebbero state pubblicate in Italia altre tre antologie in cui erano inseriti però tre dei racconti della serie. Dalle testuali parole di Bonazzi sarebbe uscita una prima antologia a cura Fratelli Bocca Editori, nel 1946; un'edizione del Gattopardo Editore nel 1972 e una riproposizione di questa a cura de La Bussola Editrice nel 1978. I tra racconti interessati da questi volumi sarebbero stati A Phisical Invasion, Ancient Sorceries e Secret Worship.

Locandina inglese.

"Il vero chiaroveggente odia il suo potere, perché sa di aggiungere nuovi orrori alla propria vita ed è perciò di natura triste."

venerdì 16 dicembre 2016

Recensione Narrativa: LE NOTTI DELLA LUNA NERA di Libero Samale (alias Frank Graegorius e John Kheith).



Autore: Libero Samale (meglio conosciuto come Frank Graegorius e qua John Kheith).
Genere: Horror.
Anno: 1980.
Edizione: Antonino Cantarella, collana I Racconti di Dracula, N. 140.
Pagine: 122.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Penultimo romanzo horror di Libero Samale che, stranamente, si firma come John Kheith (nome del protagonista della storia) in luogo del consueto Frank Graegorius.
Non ci soffermiamo su questa figura, avendolo già fatto in altre occasioni, ci "limitiamo" qua a definirlo il Conan Doyle tricolore, certi di fargli un complimento, per la sua appartenenza ai gruppi esoterici ma soprattutto per la sua professione di medico (lodato psichiatra) e di serio studioso di occultismo in ogni sua sfaccettatura. Il romanzo che ci è capitato per le mani, Le Notti della Luna Nera, è una delle sue ultimissime fatiche, che esce appena cinque anni prima della morte, quando il Gran Maestro Dottore, ha già 66 anni. Dunque è un Samale forse stanco, ormai prossimo a lottare con l'ictus che lo avrebbe condotto nell'aldilà per prender parte, ci piace immaginarlo, a un'altra vita cui si accede con un viaggio da cui non è consentito ritorno (quanto meno cosciente). Ne deriva un testo che non è certo da annoverarsi tra le sue perle, ma questo non deve condurre a cestinarlo celermente o a giudicarlo non meritevole d'interesse.
Lo stile e la capacità evocativa, infatti, sono quelle dei tempi migliori. Così come la narrazione e i tempi rendon la lettura scorrevole e piacevole, mai noiosa. L'intreccio è il punto debole, peraltro un po' portato per le lunghe nella prima parte, e non mancano alcuni punti poco approfonditi (a esempio non si capisce perché le divinità del male dal Nepal decidano di recarsi in Inghilterra). 
Abbiam da poco letto e recensito Malpertuis di Jean Ray e ritroviamo, in questo testo, l'idea delle divinità, questa volta legate alla mitologia indiana (India orientale), che tornano a vivere celandosi dietro spoglie umane. A differenza di Ray però, queste divinità sono conscie del loro stato e ritornano sulla terra per scatenare il male senza che questo sia determinato da destino o fattori esterni. Scatenano il male perché sono nate proprio con questo fine. Come nell'opera del belga si assiste a un mescolamento di culture dato che, dall'idea iniziale di Brahma contrapposto alla dea Kalì e al suo sposo, si arriva alle messe nere e a una setta, composta per lo più di zingari cecoslovacchi, che venerano il diavolo con accezione e riti prettamente europei. Protagonisti, ancora una volta, abbiamo preti e guru che disquisiscono su quale sia la vera e unica religione e un giovane ragazzo che vede rapita la sua giovane sposa.
Il tema del romanzo prende le mosse da concetti filosofici propri di personalità come Empedocle. Ritroviamo infatti l'innegabile convinzione relativà alla necessità perenne di un conflitto tra bene e male come linfa vitale per far si che il mondo possa andare avanti. Dunque il male ha, a suo modo, una natura benevola, essendo lo stesso necessario per la stessa esistenza del bene. "Sai bene che che ci risveglierai e molto spesso." tuonano, all'alba della creazione, le due entità diaboliche, paragonabili per finalità ai demoni cristiani, al dio Brahma. "Altrimenti il tuo mondo non sarà equilibrato. Male e bene devono lottare tra loro per assicurare al mondo una possibilità di esistenza. La crudeltà non può mancare nel tuo mondo, così come non può mancare la morte." E così, da condannate a restare nell'abisso, le due entità sovraumane, periodicamente, vengono liberate dalle catene per ritornare nel mondo degli uomini per portare odio e violenza, finché un eletto non entrerà in possesso di un'arma rituale, simboleggiata da una spada lucente, che li ricaccerà negli inferi, dividendo l'amore malato e perverso che unisce le due divinità trasformandole in un cocktail satanico. 

Questa l'interessante premessa su cui viene costruito un canovaccio che vede ritornare, sotto le vesti di una pantera e di un cobra, la Dea Kali e il suo sposo, Rudra il rosso. E' la prima che risveglia il suo uomo, in virtù di un sinuoso ballo che inebria e ipnotizza la vittima di turno che finisce così impossessata dallo spirito di Rudra il Rosso e perde così ogni volontà e legame con la realtà. Samale regala perle di erotismo poetico, con la Dea Kali che affiora dalle acque di un lago piuttosto che di una piscina, alla stregua di una Venere Infernale, per indurre al peccato soggetti incapaci di resistere alla sua carica erotica e al suo richiamo. Si assisterà più volte a queste scene di ammaliamento finché la divinità non si rivelerà soddisfatta del corpo giusto da offrire in regalo allo spirito del suo amato. Si assiste dunque a una prima parte a metà strada tra il poliziesco grandguignolesco (non manca quello che oggi viene chiamato splatter, in particolare è da ricordare un pazzesco interevento chirurgico in sala operatoria) e il fantasy. Samale prende un po' di tempo, ripetendosi anche, dispensando vere e proprie firme degli omicidi che si susseguono con la presenza di elaborate statuette a forma di pantera e di cobra lasciate sui luoghi degli omicidi, ovvero "i simboli che rappresentano l'essenza malvagia delle due divinità."

L'autore LIBERO SAMALE.

La seconda parte del testo è invece più spiccatamente horror, ma Samale, pur perseverando a regalare momenti di sano terrore scritti da gran narratore del brivido, perde la via maestra dell'originalità e ritorna su tematiche a lui care già proposte in opere come Il Golem (1963). Così vediamo i protagonisti spostarsi dal Nepal a Londra e da questa alla "cara" Repubblica Ceka (sui monti Tatra), con la consueta schiera di zigari che stordiscono con i loro violini ipnotizzando i passanti e con le messe nere che richiedono sacrifici umani. In questo contesto si scatena la lotta per la conquista della spada magica che, guarda caso, si trova proprio in una grotta sui Monti Tatra protetta da rettili di ogni specie, ivi compresi coccodrilli, e che i protagonisti dovranno affrontare. Rudra e la Dea Kalì, intanto, spadroneggiano tra gli zingari, forti dei loro incantesimi e dei loro maledetti miracoli, spacciandosi per i demoni dell'inferno cristiano. Bella la parte in cui la Dea fa risogere un vecchio avvocato sepolto in una tomba, trasformandolo nel suo putrescente e fedele servitore. "La putredine è bella, la putredine è buona! La putredine è più soave d'un balsamo. E voi, volete servire il Principe delle Tenebre? Ebbene, dovete apprezzare non più il bello, il buono e il vero, ma la bruttezza, la malvagità e la menzogna. La morte è migliore della vita , perché le tenebre sono migliori della luce" questo dicono ai loro seguac i due spiritii, promettendo protezione ma garantendo morte ai traditori. Chi decide di legarsi al male non può più esser libero di ripensamenti.

Epilogo con gli eroi di turno che ristabiliranno la normalità e le divinità che andranno incontro al loro ciclico declino in attesa di una nuova era in cui risorgere. Omaggio persino a un western come Un Dollaro Bucato con un amuleto di una maga che si rivelerà decisivo grazie alla sua composizione, anziché al suo supposto valore mistico e trascendentale.

In definitiva siamo al cospetto di una lettura piacevole che si ultima in qualche ora, ma che lascia poco di nuovo. Quello che c'è da apprezzare è la capacità narrativa di evocare scenari fantastici da brivido, che cela un autore che non ha avuto lo spazio che avrebbe meritato nell'alta editoria. C'è allora da ringraziare piccole realtà come la Dagon Press o entusiasti studiosi/scrittori come Sergio Bissoli che, con gli strumenti a disposizione (purtroppo non molti), han contribuito a gettare luce su un personaggio di spiccato valore umanistico e narrativo oltre che professionale nel campo della psichiatria. Allora lunga vita al dottore che, sicuramente, scruterà da qualche dimensione a braccetto con Doyle e gli altri appassionati e creatori di narrativa Fantastica.

"Forse la SPADA DI FUOCO  sarebbe riuscita a
sospingere Rudra e Kalì nell'abisso da dove erano
usciti; ma sempre essi avrebbero lasciato il loro marchio
feroce: il COBRA ROSSO e la PANTERA NERA,
a devastare le vite umane.
Brahma abbandonò le sue fantasticherie dolorose e tracciò
con la spada una traccia di fiamma nello spazio.
(Libero Samale aka John Keith e Frank Graegorius)  

"Nell'abisso dei millenni, prima che il mondo fosse il Nero Nulla, sbadigliò e dal suo sbadiglio nacque Rudra il Rosso, il Dio del male. Dormiva sospeso nello spazio vuoto, caos che ribolliva nella mente di Brahma. Ma dall'abisso scaturì anche un'altra feroce creatura: la dea Kali."

giovedì 15 dicembre 2016

Recensione Narrativa: MALPERTUIS di Jean Ray.



Autore: Jean Ray.
Genere: Weird/Horror.
Anno: 1943.
Edizione: Mondadori (Urania Horror, N.12, uscito il 7.12.16).
Pagine: 159.
Prezzo: 6,50 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Prima di iniziare la recensione di questo romanzo è doveroso fare un ringraziamento alla Mondadori, nelle persone di Giuseppe Lippi e Franco Forte, per aver riproposto questa pietra miliare della narrativa weird europea che era stata pubblicata decenni fa dalla Mondadori stessa e finita fuori catalogo con prezzo lievitato alle stelle. La speranza-invito è che la collana Urania Horror perseveri nella "riscoperta", o meglio riproposizione, dei capolavori dei grandi maestri e magari proponga anche qualche inedito in Italia di autori, a esempio, quale Sax Rohmer o il Simon Iff di Crowley, tanto per dare qualche suggerimento. Staremo a vedere e incrociamo le dita.
Adesso addentriamoci nel clima malsano e onirico di questo Malpertuis ovvero "l'antro della volpe", la casa della malizia, dove la volpe viene intesa quale figura demonologica sia in Europa che in Oriente, da considerarsi ovvero quale simbolo metaforico di uno stregone, un taumaturgo di grande potenza. Così spiega il nome della casa, in cui è ambientato il romanzo e a cui da anche il titolo, il folle e funambolico autore che sta dietro al testo: il belga Raymond Jean Marie de Kremer meglio conosciuto come Jean Ray.
Pietra miliare della narrativa del terrore europeo che risale al lontano 1943, ma che non risente affatto degli anni godendo di un'originalità tutta sua innestata in un classico soggetto che rientra nel campo del sottogenere delle case stregate.

La storia si sviluppa prevalentemente all'interno di una magione e viene alla luce grazie a un furto perpretrato da un ladro all'interno del convento Pères Blancs. Il malfattore porta infatti alla luce alcuni fogli scarabocchiati, frutto del lavoro di quattro persone vissute anche in epoche diverse, contenuti all'interno di un tubo di stagno e che riportano i fatti connessi alla magione Malpertuis e al suo vecchio proprietario, un fondatore Rosacroce, di nome Quentin Moretus Cassave. Tutta la storia, dopo una premessa in cui i lettore viene proiettato sul mare agitato che si affaccia su una fantomatica isola greca (c.d. degli Dei morenti), si svolge all'interno o nei pressi di Malpertuis, dopo la morte del vecchio Cassave. Quest'ultimo ha infatti disposto che tutti i suoi eredi, pena esclusione dall'eredità, siano obbligati a vivere all'interno della magione sino alla loro morte, ricevendo in cambio una rendita annuale e un faraonico vitalizio. Questo l'inizio cui segue la presentazione dei vari eredi, che non vanno molto d'accordo tra loro, in un clima onirico in cui il mistero e la promiscuità, compresa sessuale, aleggiano di continuo a scacciare l'iniziale noia che regna sovrana.
Jean Ray non è sempre facile da seguire nella prima parte, adotta uno stile poetico, un po' pomposo in alcune parti, seppur macabro, ma quando deve ricorrere all'artificio della tensione sa quale corde toccare. Sono infatti presenti almeno tre o quattro capitoli di grande effetto visionario e orrorifico. Non aggiungo altro per non rovinare il pathos dei vari momenti. Posso solo dire che presto il protagonista, il giovane Jean-Jacques Grandsire, si troverà proiettato in un incubo popolato da creature di ogni specie, con frangenti che sembrano propri di un racconto di Lovecraft (alla fine però le distanze tra i due autori saranno ristabilite). "Malpertuis potrebbe essere l'abominevole punto di contatto di due mondi, di essenza differente, che si vengono a sovrapporre" ipotizza il protagonista, mentre, a poco a poco, i suoi conquilini cominciano a morire o a sparire, in aggiunta ad accadimenti ultraterreni: tipo persone che lanciano fuoco dalla bocca o altre di dimensioni paragonabili a quelle di una mosca.

Poster americano della
trasposizione cinematografica.

Il lettore comincia a pensare a una storia affascinante, ma comunque rientrante nel classico tema delle case stregate, quando d'improvviso Ray vira in una direzione piuttosto originale e crea una situazione tutta sua che ricorda un po' le tematiche di un Lord Dunsany cambiando tuttavia il background culturale dal celtico al mediterraneo. Gli eredi infatti, alcuni anche inconsapevoli, non sono coloro che pensano di essere, ma sono involucri di carne e ossa al cui interno vivono entità assai antiche che si ricollegano, addirittura, alle divinità dell'antica Grecia, con tutti i poteri e le debolezze raccontate dalla mitologia. Gelosie amorose, rivalità e la volontà del destino, giudicato ineluttabile dall'autore, determineranno il terribile epilogo previsto, probabilmente, proprio dal vecchio Cassave, prima ancora di morire. "Perché, al di sopra dei desideri e delle aspirazioni degli uomini, al di sopra della volontà degli dei, regna la legge inflessibile del Destino! Ciò che sta scritto deve compiersi" con buona pace del libero arbitrio, verrebbe da aggiungere. Così spiega Zeus, sotto mortali spoglie, a un religioso che lo ascolta stringendo in mano il rosario e invocando l'intercessione di Dio. Inutile sottolineare che il religioso vedrà più di quanto sia consentito a una mente rigida e la conseguenza di aver scrutato nell'ignoto sarà quella tanto cara al maestro di Providence. Una fine invece cui non era andato incontro il vecchio padrone di casa, guarda caso un dottore in scienze occulte ed ermetiche (e dunque aperto a ogni soluzione e sperimentazione), che si era fissato di ritrovare gli dei morenti dell'antica Grecia per imprigionarli, attraverso riti magici, nella propria magione, al fine di sfruttarne i poteri. Dunque un canovaccio dove sacro, profano e pagano vengono a miscelarsi in un gran calderone in cui trovano spazio anche le leggende folkloristiche dei lupi mannari (introduzione a mio avviso un po' forzata da parte di Ray), con l'elemento della pelle di lupo utilizzata nelle notti di luna piena, come si legge dai documenti ottocenteschi della primordiale criminologia francese, per commettere omicidi e abomini di ogni specie. Preti votati all'amore divino, altri invece maledeti e civili mezzosangue (un po'umani e un po' dei) si troveranno così a lottare contro gli dei dell'antica Grecia, sopravvissuti nel corso dei secoli, in un finale apocalittico dove la pazzia giungerà a fare saltare i cervelli più ortodossi.

Lettura classica, senz'altro da riscoprire, anche se non di facile fruizione nella prima parte di narrazione per i lettori standard. E' consigliato, dopo la prima lettura, riprendere in mano il libro e analizzarlo di nuovo da capo alla luce delle scoperte fatte a termine opera. Da avere in biblioteca, specie per il modesto prezzo dell'edizione Urania che lo ha riproposto dopo ventisei anni dall'ultima edizione uscita sul mercato italiano.

Dal libro è stato tratto un adattamento cinematografico diretto nel 1971 da Harry Kumel, con Orson Welles (nei panni di Cassave) e Sylvie Vartan tra gli attori principali.

L'autore JEAN RAY.

"Gli uomini non sono nati per volontà degli dei. Anzi, gli dei devono la loro esistenza alla fede degli uomini. Se questa fede viene a mancare gli dei muoiono"

lunedì 5 dicembre 2016

Recensione Narrativa UNO STUDIO IN ROSSO di Arthur Conan Doyle.



Autore: Arthur Conan Doyle.
Titolo Originale: A Study in Scarlet.
Genere: Giallo.
Anno: 1887.
Pagine: 130 circa.

Commento di Matteo Mancini.
Pietra miliare del genere giallo/poliziesco soprattutto per essere il romanzo che introduce il personaggio di Sherlock Holmes e il suo metodo analitico che farà scuola in narrativa, ma anche nel campo d'indagine della vita di tutti i giorni gettando le basi dell'odierna criminologia.
Conan Doyle avvia così la serie che gli regalerà una fortuna economica probabilmente non preventivabile quando, nel 1887, concepì questo suo Uno Studio in Rosso. Il medico scozzese, di origini irlandesi, quando pubblica il romanzo ha circa ventotto anni e ha già scritto alcuni discreti racconti brevi rientranti nell'alveo della narrativa del terrore, ma è ancora lontano dalle storie fantastiche del Professor Challenger che amerà, crediamo di poter dire, molto di più del suo geniale detective. Affascinato dalle storie, poche per la verità, con protagonista l'investigatore Auguste Dupin di Edgar Allan Poe che, nel 1841, comparve nel romanzo ispiratore I Delitti della Rue Morgue, Doyle decide così di dar vita a un testo che aprirà le porte a una lunga serie. Quattro romanzi e qualcosa come una sessantina di racconti, che hanno tutti in comune, altro aspetto che farà scuola, una narrazione filtrata dai ricordi dell'assistente Watson che ricorda i casi come se stesse leggendo le pagine di un suo diario.

A differenza delle opere di Poe però, questo primo romanzo, non si concentra sull'intreccio giallo, ma punta tutto sulla caratterizzazione dei personaggi e sul metodo di indagine utilizzato per risolvere un duplice delitto il cui movente è sepolto negli anni e si riconduce a una vecchia vendetta. Dunque niente a che vedere, a esempio, con i successivi gialli di Agatha Christie, tanto per citare un'altra Grande Maestra, finalizzati a portare il lettore a chiedersi chi sia l'autore degli omicidi e a scovarlo tra una serie di sospettati, grazie a svariati indizi seminati nel testo. Qua non c'è alcun interesse a spingere verso questa direzione, del tutto impraticabile peraltro, ciò che preme all'autore è presentare il metodo d'indagine rivoluzionario del suo personaggio. Doyle addirittura arriva a dividere la storia in due parti, con una sorta di racconto nel racconto. Abbiamo la prima parte dove, dopo aver presentato i personaggi e analizzata la scena del crimine per cui Sherlock Holmes viene ingaggiato da Scotland Yard in veste di consulente, viene risolto il caso e una seconda parte dove, regredendo indietro di trenta anni in una scenografia western, si spiegano, partendo molto alla lontana, le ragioni che stanno alla base del duplice omicidio consumato a Londra. Una storia quest'ultima che verte sulla volontà ossessiva di vendetta di un uomo riconnessa alla scomparsa di una giovane donna deceduta, per crepacuore, all'interno di una comunità di mormoni (tratteggiati come una setta dominata da un santone accentratore).

Statua di Sherlock Holmes
a Londra.

Intreccio dunque tutt'altro che memorabile, ma caratterizzazione e spiegazione del metodo d'indagine di alta scuola tanto da elevare il romanzo a pietra miliare. Doyle gioca a voler superare il maestro Poe, facendo dire al suo protagonista che i metodi del corrispettivo collega americano (Dupin) sono molto plateali e superficiali oltre che poco geniali. Ne deriva l'ideazione di un personaggio in apparenza pomposo e presuntuoso, quasi un giocatore d'azzardo che spara ricostruzioni e arriva persino a dire, a colpo d'occhio, i mestieri delle persone che passeggiano per la strada, ma che alla fine non sbaglia alcuna visione e previsione riqualificandosi così da potenziale cialtrone a genio, una specie di mentalista ante litteram che assorbe dati, analizzando vestiti, portamenti, caratteristiche fisiche, tracce sul terreno, attraverso un ragionamento regressivo che prende le mosse dai dati oggettivi che si hanno sotto gli occhi per concludersi con l'individuazione del dato da scoprire. Un metodo di indagine che lascia sorpresi i poliziotti professionisti che invece affondano o sbagliano nell'interpretare i vari indizi. Infatti, se Sherlock Holmes spicca, Doyle mette in cattiva luce Scotland Yard e i suoi poliziotti. “Gregson è la mente più brillante di Scotland Yard. Lui e Lestrade sono gli elementi migliori di un branco di imbecilli...” I due agenti finiranno così per imboccare piste sbagliate e arrestare innocenti, mentre Sherlock, attraverso l'impiego anche di un un gruppo di ragazzotti di strada, riuscirà a individuare il vero responsabile. Ciò nonostante, sulla carta stampata, i meriti della risoluzione del caso andranno tutti a Scotland Yard perché “questo succede quando non si ha una posizione ufficiale.” Sherlock Holmes viene definito dai giornalisti, che non sono a conoscenza del dietro le quinte, come un dilettante che può solo sperare, col tempo, di conseguire un po' delle abilità dei due grandi poliziotti. Lapidario il commento di Sherlock, alla vista dell'articolo e alla presenza dell'amico Watson (conosciuto perché quest'ultimo, di ritorno da una campagna militare in Afghanistan, era in cerca di un alloggio da dividere con un compagno di camera), in riferimento all'esito finale della storia: “A questo mondo, quello che si fa non ha molta importanza. Il problema è, cosa si può far credere alla gente di aver fatto!”

Un cenno conclusivo va alla caratterizzazione di Sherlock Holmes. Doyle non da vita a un super eroe completo e tuttologo, piuttosto a uno specialista dell'indagine ovvero a una vera e propria macchina di indagine che sa tutto quello che deve sapere per perseguire il suo obiettivo, ma che poi ignora tutto il resto persino ovvietà riconducibili a una minima conoscenza di cultura generale. Un imprinting che trova la sua ragione d'essere in una convinzione che lo stesso indagatore spiega al suo assistente, stupefatto dei commenti del mentore che dichiara di disinteressarsi del tutto alla teoria copernicana. Così spiega Holmes:“il cervello umano è come un attico vuoto che uno deve riempire con i mobili che preferisce. Uno sciocco assimila ogni sorta di ciarpame gli viene a tiro, così le nozioni che potrebbero essergli utili vengono spinte fuori o, nella migliore delle ipotesi, accatastate alla rinfusa insieme con un'infinità di altre cose, di modo che ha difficoltà a ritrovarle. Un operaio abile, invece, sta molto attento a ciò che immagazzina nel suo cervello.”
Dunque un individuo che non è laureato, eppure studia più di coloro che seguono i corsi convenzionali e lo fa attraverso l'analisi di una serie di materie variegate tutte funzionali a fargli espletare la sua professione di detective dilettante. Un personaggio fuori schema, bizzarro e a tratti poco raccomandabile che pure supera di gran lunga i professionisti. “I suoi studi sono privi di qualsiasi metodo e piuttosto eccentrici” spiega un amico di Watson prima di farglielo conoscere, “ma ha accumulato una massa enorme di cognizioni insolite che lascerebbero a bocca aperta i suoi professori... Dio solo sa cosa studia.”
L'ambizione di Sherlock Holmes, uomo peraltro piuttosto scostante e suscettibile agli sbalzi di umore, è così sbandierata da renderlo agli occhi dell'amico come arrogante e pomposo. Così infatti il detective parla di se: “Ho tutte le qualità per diventare famoso. Non esiste e non è mai esistito qualcuno che abbia dedicato tanto studio e tanto talento naturale alla scoperta del crimine quanto ne ho dedicato io.”
Doyle tratteggia così i caratteri di un personaggio destinato a ricomparire di nuovo sulla carta stampata dove, tuttavia, farà ritorno solo tre anni dopo con Il Segno dei Quattro. L'inizio della leggenda è così appena accennato...

Un giovane Arthur C. Doyle.

Asseriva di esser in grado di intuire i pensieri più reconditi delle persone da una fuggevole espressione, dalla contrazione di un muscolo, da un'occhiata. Secondo lui, era impossibile fingere in presenza di chi fosse addestrato all'osservazione e all'analisi. Al non addetto ai lavori i suoi risultati sarebbero apparsi talmente sorprendenti che lo avrebbero preso per uno stregone.