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domenica 30 aprile 2017

Recensione Narrativa: RACCONTI di E.T.A. Hoffmann.



Autore: E.T.A. Hoffmann.
Genere: Selezione fantastica estrapolata da NOTTURNI e I FRATELLI DI SAN SERAPIONE.
Anno: 1817-19.
Edizione: Edipem, 1974.
Pagine: 284.

A cura di Matteo Mancini.
Eccoci qua a presentare un testo che ci permette di parlare di uno dei pionieri della “moderna” narrativa del terrore o, più generalmente, della narrativa fantastica. Possiamo senza ombra di dubbio definirlo come il precursore, in tal senso, nell'Europa continentale (a maggior ragione tra gli autori di lingua tedesca) secondo solo (da un punto di vista cronologico) a un pugno di colleghi a lui contemporanei. Stiamo parlando del “prussiano” Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Nato nel 1776 nell'odierna Kaliningrad (Russia), all'epoca Konigsberg, territorio prussiano perso dalla Germania dopo le infauste vicende connesse alla seconda guerra mondiale. Concittadino e coetaneo del famoso filosofo Immanuel Kant, deceduto ventotto anni dopo la nascita di Hoffmann, l'autore in questione incarna il fulgido esempio della contraddizione fatta persona. Plasmato da un'infanzia burrascosa, caratterizzata dai litigi tra l'austero padre, un avvocato, e un madre debole e isterica, patita per la musica, sviluppa presto una doppia personalità (elemento frequentemente presente nei suoi racconti), vivendo peraltro lontano dal padre che abbandona la moglie quando lui ha quattro anni (idealizzerà lo zio e il prozio paterno, quali figure maschili di riferimento). 

Sotto la luce del sole è l'irreprensibile e futuro uomo di legge, che dalle frequentazioni giuridiche sfocia nella carriera di assessore di tribunale, sotto l'abbraccio lunare, alla stregua di una bizzarra forma di licantropia, diviene il decadente sognatore che cerca di fuggire dalla realtà ricorrendo al veicolo dell'arte. Un dualismo che riproduce una perfetta sintesi kantiana, è il caso di dire, della dicotomia offerta dalla tesi paterna e dall'antitesi materna. Splendido modello dimostrativo per il non ancora teorizzato assioma “genio & sregolatezza”, E.T.A. Hoffmann, che cambia uno dei suoi tre nomi in omaggio a Mozart, manifesta capacità poliedriche di adattamento che hanno del portentoso. Pochi altri artisti riusciranno a esibirsi in diversi campi del sapere come lui. Emblematico, al riguardo, l'epitaffio che gli sarà dedicato sulla tomba: “UOMO NOTEVOLE COME MAGISTRATO, COME POETA, COME MUSICISTA, COME SCRITTORE.” La cosa, una volta passato a miglior vita, avrà presa negli ambienti culturali tanto da calamitare le attenzioni di scrittori, musicisti, pittori, registi teatrali, criminologi e psicoanalisti di grido, ivi compresi Lombroso e Freud, tutti intenti a studiarne la vita e a decriptarne l'opera.

Ligio, serio, inattaccabile di giorno, di notte diviene fonte diretta di leggende, più o meno veritiere, che prendono a girare nei quartieri sul suo conto. Si parla di un uomo irriconoscibile completamente privo di moralità, consumatore di punch e oppio, affetto da allucinazioni e, persino, pazzo con racconti che sembran usciti dai misteri di un'organizzazione segreta dedita alla magia e all'occultismo. Voci più o meno malevole ma incapaci di scatenargli contro un vero e proprio attacco, poiché le capacità dell'uomo non vanno mai in discussione e lo portano sempre a brillare in tutto ciò in cui si misura, nonostante una riconoscibilissima insicurezza nei propri mezzi e il terrore continuo di perdere la propria identità (per nulla inquadrabile, tra l'altro), che cerca di vincere adottando un atteggiamento provocatorio e privo di freni inibitori (celebri le liti, negli uffici burocratici, con i superiori imbufaliti per le irriverenti vignette firmate Hoffmann). 
Dopo essersi laureato, intraprende la carriera burocratica che lo porta a viaggiare in Germania e Polonia, dove contrae un matrimonio che non gli porterà gioie (avrà una figlia che morirà in giovanissima età) e che non gli impedirà di rendersi protagonista di qualche travolgente passione tra le braccia di altre donzelle. Ma non è questa la vita che fa al caso suo, come dice il suo più fedele alterego protagonista di una delle sue ultime storie “l'unica vita che conta per un artista è quella immaginaria, quella sognata.” 
Dapprima critico musicale diviene musicista, si esibisce al piano e anche al violino, poi addirittura compositore tanto che gli viene offerto il ruolo di direttore musicale dei teatri di più città della Germania orientale (Bamberga, Dresda, Lipsia) e persino quello di direttore d'orchestra, ma si diletta anche in veste di pittore (iniziato dall'italiano Molinari), disegnatore e caricaturista satirico (vittime delle sue vignette sono i superiori della pubblica amministrazione, cosa che gli porterà qualche grattacapo e un trasferimento di sede), recensore e addirittura regista e scenografo teatrale. Bravo, conosciuto in tutto lo stato nella veste di musicista, riesce a superarsi, a trent'anni suonati, in un ruolo per lui inedito, perché a corto di denaro, trasformandosi in artista a tuttotondo. “Bisogna che io faccia qualcosa: la fame fa male, soprattutto a mia moglie” rivela a un amico editore. Inizia così anche la carriera di scrittore e di poeta. Poche pubblicazioni gli permettono già di dar vita a un'ulteriore carriera che, in poco, lo porta a superare i fasti ottenuti come musicista. Scrive soprattutto negli ultimi otto anni di vita, prima di allora si ricorda la ghost story Il Cavaliere Gluck (1809) e poche altre opere in cui già appare uno dei suoi personaggi ritornanti (il compositore Kreisler, vero e proprio doppio dell'autore a cui quest'ultimo fa vivere le avventure che lo stesso avrebbe voluto vivere, caratterizzandolo alla stregua di una rockstar moderna che impiega droghe e alcool al fine di liberare l'intelletto dalle briglie della ragione per correre verso il traguardo dell'arte), salendo alle cronache, a partire dal 1813 (a trentasette anni), su giornali e riviste prima di veder raccolti i propri racconti nel 1814 nei Frammenti Fantastici alla Maniera di Callot. In quest'ultima raccolta spicca Il Vaso d'Oro, elaborato in cui la magia fiabesca regna incontrastata fungendo da mezzo che permette al protagonista di passare da Dresda alla mitica Atlantide. Appare fin da subito evidente il suo interesse per il fantastico, per le scienze esoteriche (alchimia, astrologia, mesmerismo e sperimentalismi che hanno nella telepatia e nell'ipnosi i loro centri di sviluppo) e per il macabro, ma a differenza di altri autori dell'epoca, Hoffmann opta per uno stile antiquato, dilatato all'eccesso, non lineare, dove gli sbalzi temporali sono frequenti, e dove la follia va spesso a braccetto con la cupezza degli animi dei vari protagonisti. Una forma di narrativa, talvolta sospesa tra poesia e prosa, che ai giorni di oggi potrebbe risultare pesante per il palato (senz'altro grezzo, ma di certo preferibile a chi scappa, come un indemoniato, alla vista di un volume, e non mi riferisco certo al Necronomicon) di un lettore moderno. I suoi protagonisti sono soggetti il più delle volte romantici e sognatori, che bramano amori impossibili e che, per questo, finiscono preda di epiloghi pessimisti, non di rado letali, con sotto trame dove irrompe un fantastico che altro non è che metafora della condizione umana. Sono gli anni in cui va di moda il romanzo gotico sdoganato, a fine settecento inizi ottocento, dai vari Walpole, Lewis e Radcliffe e in cui sta per giungere la ventata di freschezza che avrà in Mary Shelley e nel suo Frankenstein uno dei primi tentativi (pienamente centrato) di evolvere il genere in qualcosa di diverso. Hoffmann, dal canto suo, rimane piuttosto fedele al canovaccio del periodo, piazzando, in qua e in là, qualche zampata che farà la storia del genere (su tutti il racconto L'Uomo della Sabbia). Ma sono anche gli anni in cui, in America, Charles B. Brown, altro scrittore a cui piaceva miscelare il romanticismo a tematiche nere, si diletta nello stendere testi che hanno nel sonnambulismo uno degli snodi centrali per la soluzione di vicende controverse. Un aspetto, quest'ultimo, che verrà ripreso anche dallo stesso Hoffmann la cui produzione, come abbiamo sottinteso, è allineata a quella in voga nel periodo di riferimento. 
Nel 1816 da alle stampe il suo unico romanzo, Gli Elisir del Diavolo, seguito dalle raccolte Notturni (1817) e I Fratelli di San Serapione (1819). Si tratta ancora una volta di testi che vengono annoverati nell'alveo del genere fantastico. Nel romanzo abbiamo la figura di un monaco che chiude un patto con Satana, inevitabile il riferimento all'opera di Lewis, che lo porta a subire uno sdoppiamento della propria personalità e a commettere una serie di delitti. Sono però i suoi racconti che lasciano un'impronta più personale. Inizialmente incompresi e rifiutati, perché troppo morbosi, si distaccano dagli esempi autoctoni di lingua tedesca per la miscela esplosiva offerta dall'accostamento dell'elemento fantastico alla banale e ripetitiva quotidianità. Intrecci in cui ragione e follia, ironia e tragedia, realismo e grottesco danzando al ritmo di una musica a tratti coinvolgente e a tratti estraniante con un risultato finale che ripropone, ancora una volta, quel dualismo ossessivo che ha da sempre perseguitato l'autore e che si riverbera a trecentosessanta gradi in ogni sua narrazione. È grazie soprattutto a questi racconti che la fama di Hoffmann prende piede, persino fuori dai territori di lingua tedesca. Purtroppo per l'autore però, si tratta di un successo che giunge troppo tardi. Affetto da una malattia degenerativa al midollo spinale, lo scrittore muore nel 1822, all'apice della maturità creativa sul versante letterario, dopo aver fatto uscire tre delle sue opere più rappresentative: La Principessa Brambilla (1820), il grottesco e, se vogliamo, testamentario Opinioni sulla Vita del Gatto Murr (1819) dove dileggia (per mezzo di un gatto acculturato!?) la presunta autobiografia di un artista (il solito Kreisler) che si inventa un passato per spacciarlo quale vita propria e La Finestra d'Angolo del Cugino (1822) definito quale “esempio moderno di racconto senza trama”.

Già abbastanza famoso in vita, la sua opera viene tradotta già nell'ottocento in più lingue e inizia a circolare dalla Russia (Puskin, Dostoevskij e Gogol, tra gli ammiratori), alla Francia (Balzac, Hugo, Beaudelaire) e all'Inghilterra fino a varcare i confini europei e a giungere negli Stati Uniti. Qua trova in Edgar Alla Poe uno dei suoi più vividi sostenitori e divulgatori e si irradia, quale fonte di ispirazione per decine e decine di ideali allievi di penna (specie in Germania, Francia, Stati Uniti e Russia) confermando Hoffmann quale uno dei maggiori maestri del romanticismo grottesco e perturbante (come ebbe a dire Freud) del primo ottocento. In Italia sarà il premio nobel Pirandello a esaltare l'autore, dimostrandosi a parole e nei fatti, quale uno dei suoi più convinti difensori, tutto preso sullo studio della tematica del doppio (si veda Il Fu Mattia Pascal) e sul tema della dissociazione della personalità (si veda Gli Elisir del Diavolo) tutti aspetti germinali seminati nel terreno dell'arte dal maestro di lingua tedesca.
Chiudo con un ritratto tratteggiato dalla penna del filosofo Ernst Bloch: Hoffmann è lo scrittore del meraviglioso e il genio della fantasia del Romanticismo.

E.T.A. Hoffmann.

Parliamo adesso di questa selezione, datata 1974, a cura della EDIPEM di Novara. Edizione cartonata, scritta con caratteri piuttosto piccoli, formato tascabile ma ottimamente rilegato, prezzo economico, credo fuori catalogo. L'ho comprata a un mercatino di antiquariato anni fa, sotto le Logge di Pisa, insieme a moltissimi altri volumi tra i quali il Satyricon di Gaio Petronio e Rosa Alchemica di William Butler Yeats. 

I curatori, credo rifacendosi a un'edizione tedesca (Germania Est) datata 1958 a cura di Hans Mayer, propongono nell'occasione in un unico volume i racconti di Hoffmann inclusi nelle antologie Notturni e I Fratelli di San Serapione. Non potendo includere tutti i racconti, si pensi che la seconda antologia è uscita in quattro volumi con poco meno di trenta racconti all'interno, hanno pensato bene di proporre un risicato sunto con otto testi rappresentativi, tre dei quali estrapolati da Notturni (formata a sua volta da otto elaborati). Ne deriva quindi un volumetto indirizzato a chi voglia farsi un'idea della narrativa dell'autore prussiano, ma non certo consigliabile a chi voglia riscoprire l'intera produzione.

Partiamo nell'analisi dalle tre opere provenienti da Notturni. Si tratta di tre storie che hanno in comune un pessimismo tragico oltre ogni limite. In tutti e tre i casi, Hoffmann mette in scena giovani ragazzi che bramano di passione, ardenti, ai limiti dell'arte poetica, che decantano la loro passione in un romanticismo smielato che fa breccia, inizialmente, nel cuore delle donzelle, ma poi si raffredda e muore per ragioni che cambian di volta in volta. Si va dall'amore oggettivamente impossibile, a quello reso tale da un precedente matrimonio contratto dalla donna amata e maledetto da strani intrecci magici fino a quello respinto per assurde costrizioni autoindotte che portano alla rovina di entrambi gli amanti. Dunque è il tema dell'amore impossibile a emergere in questa prima parte di antologia, un vero e proprio romanticismo nero, con storie che passano dal fantastico puro all'intrigo giallocon venature gotiche fino al drammatico puro che coglie il suo apice ne Il Voto (Das Gelübde). 

Parto nell'analisi proprio da quest'ultimo racconto, quello che meno interessa sul versante fantastico. Si tratta dell'opera più lineare delle tre. Prende avvio con un antefatto, sviluppo del finale a cui si ricollega con un lungo (anche troppo) flashback centrale. Hoffmann costruisce fin dall'inizio un'interessante atmosfera di mistero, sembra di esser alle prese con un mystery in cui l'elemento paranormale è sul punto di materializzarsi da un momento all'altro a far pendere l'ago della bilancia sul versante racconto del terrore, evenienza però che non assume mai consistenza. Protagonista è una giovane suora che si presenta, accompagnata da una badessa, in una casa per essere ospitata in gran segreto. La poveretta, che tiene un velo per non mostrarsi neppure agli occupanti della casa (dice che il velo le cadrà solo con la morte), è in stato interessante, aspetto che alimenta congetture e strane voci legate al mondo diabolico e alla blasfemia (siamo nel 1817). A poco poco però si scopre che il diavolo non c'entra affatto in questa storia e il racconto prende presto una piega drammatica, anziché esoterica. Lo si comincia a capire piuttosto presto, quando un giovane militare, dichiarandosi padre del piccolo neonato, si presenta nell'abitazione e strappa via alla donna il pargoletto che la stessa, nel frattempo, ha partorito, accusandola di avergli rovinato la vita. Scopriamo anche, nel frangente, che la suora non nasconde alcun marchio diabolico sul volto. Il drappo cade nella disputa tra i due e mostra una faccia bianca, cadaverica, in cui non vi è traccia di emozione che non sia dolore e sofferenza. Il piccolo, che morirà poi di freddo nella fuga col padre (un Hoffmann tragico come non mai), non è frutto di alcun rapporto diabolico o peccaminoso, ma è il prodotto dell'unione tra la giovane (che in realtà è una contessa) e un giovane che ha la sventura di somigliare al promesso sposo della stessa, deceduto in battaglia prima di contrarre matrimonio. La povera ragazza, Ermenegilda, però vive una vita parallela, è convinta che il suo uomo possa ritornare anche dall'aldilà e lo attende con impazienza fino a convincersi di averlo raggiunto in sogno, proprio sul campo di battaglia, e qui di essersi unita a lui sotto la benedizione di un ministro di Dio per poi unirsi carnalmente così da concepire il frutto di un amore da crescere nel proprio grembo. Una convinzione pazzesca, ma che sembra trovare corrispondenza nelle curve della giovane. La situazione comincia a preoccupare i genitori, già allarmati dalla salute mentale della donna, completamente funestata dalla morte dell'uomo, ma ancora convincente al punto da spingere i parenti a valutare un'ipotesi poi non troppo lontana dallo “spirito santo” di natura biblica. “E se la viva cooperazione del pensiero avesse potuto avere anche un effetto materiale? E se uno spirituale incontro di Ermenegilda con Stanislao avesse potuto portarla nelle condizioni che a noi restano inesplicabili?” si chiedono in famiglia. Infine emerge la verità. Lo spasimante Saverio, che nel frattempo ha raccolto prove che dimostrano la morte di Stanislao liberando così Ermenegilda dal voto di castità, confessa di aver posseduto la ragazza mentre la stessa delirava convinta di unirsi al promesso sposo Stanislao. La rivelazione fa crollare il sogno della giovane, fa esplodere l'ira dei parenti e conduce a un finale tragico con i due che rinunceranno alle rispettive vite sociali, abbracciando l'esilio monastico, vedendo così svanire l'amore sia da un punto di vista sentimentale sia materiale (il frutto della loro unione, altro innocente in una storia pazzesca, muore a causa della disputa tra i due). 

La vera perla di questa prima parte di antologia è Der Sandmann, L'Uomo della Sabbia, racconto principe de Notturni e tra i più belli e importanti dell'intera produzione del maestro prussiano. In esso appare, per la prima volta in narrativa, un'automa che pronuncia solo due parole: "Eh... Eh". 
Un racconto strano, introspettivo, che fonda il romanticismo con il disagio interiore che volge in una spirale di puro terrore... Un incubo che parte da lontano, ad avviso di Freud, che studiò l'opera (unitamente a personalità del calibro di Lombroso, Nodier, Edgar Allan Poe, Beaudelaire, De Villiers, Dostoevskij, Puskin, Gogol e, non da ultimo a mio avviso, Collodi al secolo Lorenzini), direttamente dall'infanzia dell'autore. Hoffmann infatti, lo abbiamo già detto, fu generato da due soggetti l'uno agli antipodi dell'altro, una contraddizione che spicca in modo palese dalla sua stessa opera, con l'archetipo immaginario e immaginifico del Doppelganger che ritorna quale leit motiv dell'intera produzione. Una conclusione quella raggiunta da Freud, e in parte da Lombroso (padre dell'attuale criminologia) ne L'Uomo di Genio (1894), non per nulla sottoscritta dalla penna critica di Todorov, autore recentemente scomparso, il quale, in sintesi, nel suo studio sulla Letteratura Fantastica, tende a voler rimarcare la netta separazione tra la letteratura e le esperienze personali introspettive di chi la crea. Opinione quest'ultima che non ci trova troppo d'accordo, essendo inevitabile il passaggio tra l'io interiore dell'autore e l'io, se vogliamo, esteriore proiettato sulla carta stampata sottoforma allegorica. 
E così in questo Der Sandmann vediamo coesistere due storie che si intrecciano per darne vita a una, terribile, disullusa, senza speranza. Tutto ruota attorno alla leggendaria figura de l'uomo della sabbia (tradotto da Todorov ne l'orco della sabbia), corrispettivo dell'uomo nero dei racconti sussurrati ai bambini per farli andare a letto. Una creazione antica come il mondo, la stessa matrice che sta alla base del famoso Uomo Nero, o il Bau Bau di King trasformato in Boogey Man al cinema o, se preferite, nel Candy Man di derivazione barkeriana. 
Hoffmann prende avvio con lo stilema del romanzo epistolare, necessario per sentire dalla "viva" penna del protagonista tutto il disagio che lo soffoca dall'interno, portandolo a vivere di riflesso, se vogliamo, piuttosto che brillare di luce propria. Un personaggio che si si chiama come Hawthorne (altro grande maestro non ancora sbocciato, all'epoca, della narrativa fantastica dell'ottocento) e che resta infatuato, alla stregua di mosca rimasta impigliata nella ragnatela di un mostro a più zampe che intesse trame paralizzanti, da questa figura che sembra andare in giro di notte a strappare gli occhi ai bambini disobbedienti per darli in pasto a delle creature a metà strada tra le civette e i neonati. Una figura che il piccolo Nathaniel va a traslare cucendola su misura a un avvocato dai modi burberi, tale Coppelius, che col padre si diletta in esperimenti alchemici davanti a un forno dove cercano di creare un qualcosa che sembra esser un manichino. Attenzione a questo passaggio, perché l'alchimia, nonostante non lo veda scritto nei diversi commenti al testo, è una delle basi di questo racconto che sembra semplice e invece non lo è. Il protagonista, proprio come farà il Dr. Frankenstein nell'opera di Mary Shelley, a poco a poco, perde ogni contatto con la realtà alla ricerca di questo fantomatico personaggio che si sovrappone a quello di Coppelius e che, anni dopo, si convince di vedere nelle vesti di un rappresentante di barometri, occhiali e cannocchiali. L'uomo gli bussa alla porta di casa proprio il giorno prima di halloween (data centrale e collegata a certe credenze esoteriche). Hoffmann passa qui dall'artificio del romanzo epistolare al romanzo in terza persona, con un narratore che è uno scrittore che si rivolge direttamente ai lettori. Nathaniel cerca di convicersi dell'assoluta infondatezza della propria convinzione, l'uomo che ha cercato di vendergli la mercanzia è piemontese mentre l'avvocato era tedesco, eppure qualcosa di terribile si sta per materializzare. L'ossessione, a poco a poco, diviene realtà, col passaggio dal mondo della fantasia (quella dell'Uomo della Sabbia di cui alle fiabe) a quello del mondo alchemico con un tale Coppola (traduzione in italiano dal tedesco Coppelius), che altro non è che il diavolo (probabilmente) che torna a importunare il povero uomo ricalcando i modi del vecchio Coppelius. Nathaniel cade vittima di una forma, se vogliamo, di esorcizzazione al contrario che porta a plasmare in realtà gli incubi dell'infanzia semplicemente nel temerli in continuazione. Una sorta di "legge dell'attrazione", se mi concedete. 
Divenuto studente di fisica agli ordini del dr Spallanzani, ma anche scrittore di poesie e novelle, dimentica tutti i suoi cari e persino la fidanzata a cui ha promesso amore eterno, ma da cui non si sente compreso (la stessa non ne esalta la passione legata alla natura creativa, vorrebbe portarlo sul versante, per così dire, del comune vivere, mentre il "nostro" vuole evadere, fuggire dalla comune banalità, all'inseguimento di quegli esseri fantastici che lui stesso evoca con la ricerca smodata e ossessiva di una prova di riscontro circa la loro effettiva esistenza). Così si lascia convincere dal rappresentante (sinistra la scena in cui questo scarica occhi, occhi e occhi, sotto la forma di occhiali, sul tavolo del protagonista, una soluzione da vero e proprio precursore della narrativa horror) e acquista uno dei binocoli, in quanto è incuriosito dalla ragazza che abita nel palazzo di fronte al suo e che viene tenuta sottochiave dal padre (lo stesso dr Spallanzani). Così inizia a passare le proprie giornate a guardarla dalla finestra, mentre lei se ne sta ferma, immobile, per ore nella stessa posizione. Una situazione che sarà presa da modello da Ewers per il suo celebre Il Ragno o, al cinema, da certi film di Hitchcock e De Palma. A differenza però di queste opere, Nathaniel riesce a passare dal contatto visivo a quello fisico. Incontra la ragazza alla festa di ballo organizzata dal padre e, sebbene questa si dimostri fredda e piuttosto semplice nei modi di fare, Nathaniel se ne innamorerà perdutamente idealizzandola come la donna dei sogni. Passerà le ore a raccontarle i propri racconti e a dedicarle le proprie poesie sotto l'occhio vigile e soddisfatto del Dr. Spallanzani, ovvero il padre della giovane. La giovane Olimpia, questo il.nome, incarna così quella famosa donna col cervello (come ha modo di dire il protagonista a un suo amico che ne critica il suo essere apatica) che cerca la trascendenza in luogo dei piaceri materiali. "Le sue poche parole appaiono come geroglifici genuini del sui intimo mondo colmo d'amore e della sua alta consapevolezza della vita spirituale nella visione dell'eterna trascendenza. Ma voi, per tutto questo, non avete la minima sensibilità e queste non sono che parole al vento" spiega il protagonista. Sebbene tutti abbiano dei sospetti e la giovane venga vista come un qualcosa di alieno, nessuno si accorge che la stessa altro non è che un automa di legno, Lorenzini ne trarrà ispirazione per il futuro Pinocchio, generato dal concorso tra Spallanzani e il signor Coppola. Evidente il riferimento alchemico legato all'ideazione e creazione di un essere dalle parvenze umane, il c.d. homunculus, che qua prende consistenza materiale più che carnale, e che costituiva uno dei fini ultimi di quella che, all'epoca, era considerata una vera e propria scienza (l'altro fine era la scoperta dell'Elisir di di lunga vita, tema caro all'autore che scriverà poi Gli Elisir del Diavolo). Hoffmann va a legare le due storie, ovvero la leggenda infantile dell'uomo della sabbia con quella dell'automa, con il collegamento offerto dagli occhi ricercati dall'uomo nero, verosimilmente il diavolo (da evidenziarsi, al riguardo, quale elemento centrale il fuoco che prima uccide il padre del protagonista poi gli fa andare a fuoco la casa portando quest'ultimo a prendere in affitto la casa che lo metterà al cospetto dell'automa), strappati dalle orbite dell'automa e gettati sul petto del protagonista come un incubo ricorrente che, a un certo punto della vita, si trasforma in realtà. Un evento che farà precipitare Nathaniel nelle fauci della follia. Terribile il finale poi con Coppola che si ripresenterà mesi dopo al fatto, quando il protagonista sembra aver ripreso il senno e si è unito alla sua antica fidanzata, e, davanti a un gruppo di persone attonite intente a guardare una torre, si renderà protagonista di una profezia che, puntualmente, si verificherà nello sconcerto di tutti.
Der Sandmann dunque è un "piccolo" racconto ma di importanza pazzesca, un vero e proprio gioiello, da svecchiare nello stile ma ancora moderno nei contenuti, che anticipa molti archetipi della futura narrativa dell'orrore, da quello degli homunculus e dei mad doctor, a quello delle creature immaginifiche partorite dagli incubi adolescenziali (si pensi a Nightmare) fino a giungere alla follia omicida che si annida sotto la parvenza della normalità, il tutto con uno stile romantico, se volete un po' compassato e ripetitivo, tipico dell'epoca di riferimento. Grande classico, c'è poco da dire.

Palloso oltremodo, lentissimo nello scorrere e antiquato nello stile è invece IL Maggiorasco. Se ne L'Uomo della Sabbia Hoffmann, a suo modo, è stato capace di anticipare molti archetipi della nascente letteratura fantastica, in questa storia non si smuove dal classico, proponendo un elaborato che risente molto dei secoli trascorsi. Siamo alle prese con una novella gotica incentrata su un castello prussiano che passa di mano in mano a svariati eredi, che si fanno guerra tra loro, e al cui interno si è consumato un omicidio, figlio dell'avidità e della vendetta, mascherato da incidente e addossato, come scusa, all'azione di spiriti maligni attirati dagli esperimenti magici e astrologici praticati dal costruttore poi morto per l'improvviso crollo della torre in cui era solito scrutare le stelle. La particolarità del testo sta nel fatto, e questo influenzerà qualche giallo successivo ivi compresi quelli cinematografici italiani (a dimostrazione che nella grande letteratura fantastica, figlia dell'estro degli specialisti, c'è sempre qualcosa di buono), che il killer, autore di un delitto perfetto, svilupperà suo malgrado una bizzarra forma di sonnambulismo che lo porterà a ripetere le azioni (pure da morto, sotto forma ectoplasmatica) che lo hanno condotto a uccidere il padrone del castello per favorire il passaggio dello stesso nelle mani del fratello del defunto. Una controindicazione che permetterà a un membro del personale della magione di venire a capo del mistero legato alla caduta nel vuoto, proprio laddove era crollato il primo proprietario, del primo erede della costruzione, convinto che tra le macerie fosse sepolto un tesoro celato dal de cuius.
Hoffmann condisce, mi verrebbe da dire dilata, il tutto col suo canonico romanticismo, con una sotto trama che vede per protagonista un giovane ragazzo che si innamora perdutamente della baronessa diciannovenne sposa dell'ultimo erede del castello. Un amore impossibile, vuoi per l'alto lignaggio della giovincella vuoi per la maledizione che sembra gravare su tutti coloro che diventano eredi. La beffa per lui, che vivrà portando nel cuore il ricordo della moretta e un ciuffo di capelli donategli dalla damigella di corte solita accudirla, è che il suo amore, segretamente, è contraccambiato in virtù della passione messa al servizio dell'indubbio talento nel campo della musica. Un'abilità tale da sciogliere il cuore della giovane e in grado di farla evadere dalla monotonia del freddo castello in cui il marito, impegnato alla caccia ai lupi, l'ha portata.
Epilogo in cui imperversa il fosco pessimismo hoffmaniano con la tematica dell'amore impossibile che si intreccia con la morte e con un destino infausto da cui è impossibile sottrarsi.




SEGUE L'ANALISI DEL TESTO: PROSSIMAMENTE







giovedì 20 aprile 2017

Recensione Narrativa: TERRORE NERO e altri racconti del ciclo GERALD CANEVIN di Henry S. Whitehead



Autore: Henry S. Whitehead.
Anno: 1926-46.
Genere: Antologia del Terrore.
Editore: Fratini Editore, 2015.
Pagine: 333.
Prezzo: 20 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Siamo qua alle prese con un'antologia, edita nel 2015 dalla piccola Fratini Editore, che si prefigge di recuperare molti racconti, inediti in Italia, di uno dei più importanti scrittori della rivista Weird Tales. Dietro al progetto ci sono due nomi noti ai lettori del fantastico e dell'horror, soprattutto per i loro volumi legati alla saggistica di settore. Stiamo parlando di Roberto Chiavini (che qua cura le traduzioni) e di Walter Catalano (che invece cura l'introduzione alla lettura). Compare inoltre, quale curatore della collana Mellonta Tauta di cui questo testo fa parte, anche Gian Filippo Pizzo. Ricordiamo, per i meno ferrati, che si tratta di studiosi nonché scrittori che stanno alla base dei volumi orientativi pubblicati dalla Odoya, libri finalizzati a fornire una panoramica sul mondo della narrativa del fantastico, si pensi, a esempio, al volume Guida alla Letteratura Horror (2014), al fine di guidare i più giovani alla riscoperta del genere che, ci teniamo ancora una volta a sottolineare, non è King-centrico.

Benedetti siano allora questi progetti, con case editrici come la Dagon Press, la Hypnos, l'Odoya e, in misura meno continuativa, la Fratini e prima di loro la Fanucci e la Newton, che stanno facendo un gran lavoro e un grande sforzo per mettere l'Italia in condizione di offrire un campionario di letture che tengano conto anche dei grandi scrittori di “genere” del passato. TERRORE NERO e altri racconti del ciclo Gerald Canevin permette, unitamente al successivo Il Culto del Teschio (La Ponga Edizioni, 2016), di chiudere quel cerchio iniziato nel lontano 1982, col volume Zombies, Storie Indicibili curato dallo specialista Giuseppe Lippi e che raccoglieva otto racconti, avente come raggio di realizzazione quello tratteggiato dal compasso dello scrittore americano Henry Stanley Whitehead. Un nome, già riproposto dai mammut monotematici della Newton, che è sinonimo di destino già scritto al battesimo, come poi avremo modo di vedere anche in un suo celebre racconto. Verrebbe da dire, se ciò non richiamasse alla memoria un celebre film horror che qua apparirebbe alquanto blasfemo, nomen omen. Henry Whitehead nasce nello stato del New Jersey, da una famiglia di origini scozzesi, nel 1882, dodici anni prima della dipartita del suo omonimo più noto, un personaggio divenuto una leggenda in Inghilterra nei panni di Reverendo, soprattutto per una serie di indagini atte ad arginare le epidemie di colera che flagellavano il paese della regina. Più in particolare, questo illustre omonimo, insieme a un dottore (che non è, ovviamente, il Pelletier che spesso accompagna le indagini del personaggio dei racconti dell'altro Henry Whitehead), riuscì a individuare la pompa da cui si diffondeva la letale malattia al punto che la sua azione è, tutt'oggi, ricordata come l'evento fondante della scienza dell'epidemiologia.
Il “nostro” Whitehead, invece, si dimostra fin da piccolo uno studente infaticabile, pur se appassionato di diversi sport. Pratica con regolarità il football americano e l'atletica. Si forma in importanti centri di cultura come la Berkeley School di New York e l'Università di Harvard dove è compagno di corso di un certo Roosevelt, il famoso Delano, che non sta a significare un'espressione livornese che vuol dire “deh, la fortuna”, piuttosto il futuro Presidente degli Stati Uniti. Conseguita la laurea in giurisprudenza a ventidue anni, invece di specializzarsi sui cavilli che stanno alla base delle dissertazioni in tribunale, cambia clamorosamente percorso. In lui c'è una vocazione, forse una voce interiore, che lo porta a cambiare radicalmente la propria vita. Intraprende gli studi di teologia e, mentre termina il suo primo racconto (Williamson che poi uscirà postumo), viene ordinato Diacono della Chiesa Episcopale nel 1912 diventando così “collega” del più famoso Henry Whitehead (il Reverendo in Inghilterra). Nomen omen, come avevamo detto, ovvero un nome che porta a una soluzione già scritta nel bizzarro libro del destino.

Come altri religiosi, su tutti il coevo Pater Roger (al secolo George Roger Hadlestone) che nel 1923 darà alle stampe l'antologia fantastica Mystic Voices, o i tre figli dell'Arcivescovo Benson, Whitehead intraprende una strada parallela a quella professionale che è quella della scrittura creativa. Tra un testo o un articolo di contenuto eccelsiastico, Whitehead piazza un racconto di contenuto, se vogliamo, opposto ma sempre caratterizzato da un finale in cui le forze del bene dominano quelle del male. Questa seconda carriera, quella che a noi interessa da vicino, decolla a coronamento di una serie di spostamenti che lo vedono passare dal Connecticut allo Stato di New York, passando per il Massachusetts fino a finire, nel 1921, in veste di Arcidiacono, nelle Isole Vergini, amministrazione statunitense, dove rimarrà fino al 1929. Trasferito in una realtà molto diversa da quella Americana, Whitehead trova materiale per i suoi racconti che inizia a sfruttare dal 1923 quando vince un importante premio che gli apre la porta del mondo del fantastico. In poco tempo, diviene collaboratore della leggendaria rivista weird tales dove gli verranno pubblicate 25 storie horror.

Religioso atipico, come avrà modo di sottolineare il suo grande amico Howard Philips Lovecraft, abituato a lavorare con i giovani, si fa subito distinguere per un'importante apertura mentale che lo porta a presentarsi in abiti sportivi, retaggio forse delle sue adolescenziali passioni, scevro da bigottismi o falsi perbenismi, e soprattutto facilmente irascibile, pur nella sua gentilezza e disponibilità, con modi di dire non proprio consoni alla figura ricoperta. Impiega gli otto anni sull'isola caraibica per conoscere gli usi e le superstizioni locali, su tutti i riti voodoo e le varie suggestioni dallo stesso provocate soprattutto di stampo psicologico, e cerca di superarle anche per mezzo della trasposizione in chiave narrativa. Come il collega Pater Roger, che trasformava in racconti fatti realmente accaduti con prelati e seguaci di Satana contrapposti, anche Whitehead utilizza la propria esperienza professionale per metterla al servizio della narrativa, miscelandola a una discreta conoscenza della narrativa di genere dell'epoca, come dimostrano i continui richiami espliciti ad autori come William Hope Hodgson, Rudyard Kipling e William Seabrook, autore del romanzo The Magic Island (1929), futura base per la realizzazione del primo film dedicato alla figura degli zombie ovvero White Zombie del 1932, per la regia di Victor Halperin e l'interpretazione di Bela Lugosi. Motivi questi che fanno di Whitehead il primo autore a proporre, in chiave artistica, la figura dello zombie. Il termine, nella terminologia francofona zonbi, compare per la prima volta proprio nei testi di Whitehead come Jumbee, secondo la grafia anglofona. Siamo ancora lontani dall'archetipo perfezionato a fine anni '60 da George A. Romero, completamente stravolto in una chiave di lettura socio-politica di ideazione cinematografica (in cui c'è molto più di Matheson che di derivazione voodoo), trovandosi invece ancorati al vero e originario background afro-caraibico. È lo stesso Whitehead, nel racconto Tancredi, Il Nero (1929) e dopo aver letto il sopracitato romanzo di Seabrook, a spiegarci cosa si debba intendere per Junbee. La spiegazione all'epoca poteva essere poi non così necessaria, ma rileggendo i testi oggi diviene fondamentale per capire l'evoluzione (artistica) fatta dallo zombie. Il Reverendo aveva già usato il termine in precedenti testi, ma è qua che ne chiarifica i contorni. “Il Junbee è un fantasma qui nelle Indie Occidentali. Nelle isole francesi lo chiamano Zombi. I Junbee possiedono un certo numero di caratteristiche, una di queste è il fatto che devono essere sempre una persona di colore... Si tratta di un termine molto generico e indica un qualsiasi tipo di fantasma, apparizione o ritornante.” Dunque un “morto vivente” nel senso ampio del termine.

Orbene, pensare che la narrativa di Whitehead si sostanzi  e si concluda in storie legate al solo mondo caraibico non è corretto. Il Reverendo ha scritto di tutto, persino western e romanzi per ragazzi (peraltro l'unico volume pubblicato in vita dall'autore, nel 1931, un anno prima di morire, col titolo Pinkie al Campo Cherokee) ambientati in Inghilterra o negli Stati Uniti. Ha persino realizzato dei racconti assai vicino al non ancora esistente medical thriller Rientrato in patria nel 1929, vivrà gli ultimi tre anni in Florida dove avrà modo di ospitare, per due settimane, l'amico di penna Howard Philips Lovecraft. I due realizzeranno il racconto La Trappola, pubblicato su Strange Tales nel 1932 a nome del solo Whitehead, e, per certi versi, il racconto Cassius scritto da Whitehead prendendo le mosse da un soggetto, sbirciato su un quaderno di Lovecraft, ancora da perferzionare e sviluppare. Deceduto nel 1932, a soli cinquant'anni a causa di un ictus cerebrale, verrà omaggiato dalla Arkham House di August Derleth con l'uscita di due antologie postume, Jumbee And Other Uncanny Tales (1944) e West India Lights (1946) dove saranno raccolti buona parte dei suoi racconti fantastici.

Hnery S. Whitehead.

Il testo che mi appresto qua ad analizzare è entrato nella mia biblioteca nell'autunno del 2015, dopo averlo trovato esposto sulla bancarella della Fratini Editore al Pisa Book Festival. Ricorda ancora che, per nulla a conoscenza del progetto, mi cadde l'occhio sul libro vedendo il nome dell'autore Whitehead in copertina. "Caspita" dissi tra me e me "un'antologia interamente dedicata a uno degli autori del circolo Lovecraft". Un acquisto da cui non potevo sottrarmi e di cui certo non mi pento, nonostate il tutt'altro che economico prezzo d'acquisto, 20 euro (comunque in linea rispetto a volumi del genere editi da Hypnos o Dagon Press), per giunta - se non erro - non suscettibile di sconto fiera.

La Fratini Editore propone così ai lettori dodici racconti, dieci dei quali inediti in Italia, di Henry S. Whitehead, contribuendo non poco  a divulgarne la conoscenza e a render omaggio al genere. Si tratta di storie prevalentemente horror, o comunque di stampo fantastico, aventi tutte come punto in comune la figura di Gerald Canevin, personaggio ricorrente nella narrativa di Henry Whitehead. A differenza di personaggi come il Carnacki o il John Silence, rispettivamente di Hodgson e di Blackwood, si tratta di un indagatore dell'occulto da intendersi più come ricercatore e studioso di storie paranormali piuttosto che detective o risolutore di casi che gli vengono affidati. Il Canevin non è un sensitivo come il Blackwood, non è un esperto di scienze esoteriche né è un vero e proprio uomo di azione alla Dickson di Jean Ray. Piuttosto è un intellettuale che si interessa di medicina e narrativa, spesso contornato da altri personaggi che poi si riveleranno decisivi per le soluzioni dei vari casi. Opera, quasi sempre, al fianco di un medico, il dottor Pelletier, o di un sacerdote o di altri personaggi del posto, in casi più remoti è addirittura passivo spettatore di storie raccontate da terzi, marginalmente è colui che sconfigge le forze del male senza aiuti altrui. Scrittore e soprattutto cultore di narrativa fantastica, Gerald Canevin si muove tra Stati Uniti e Isole Vergini, dove va a svernare ogni stagione, chiamato da amici ogni qualvolta si verifichino casi strani tali da poter esser catalogati come paranormali e dunque suscettibili da giustificare la sua presenza in veste di testimone oculare in modo da poter poi raccontare il tutto sottoforma di futuri racconti.

Lo stile segue il canovaccio della prima persona, con Whitehead che usa il filtro del suo alter ego Canevin, una vera e propria proiezione dell'autore, per esporre i fatti. La comprensione non è complessa, la struttura snella e piuttosto lineare. Il contenuto delle storie fa forza sulle conoscenze acquisite da Whitehead nella sua esperienza di Reverendo a Saint Croix, nelle Isole Vergini. Così lo vediamo offrire scorci, se vogliamo, sociologici circa le usanze, le credenze, i riti e le superstizioni del posto. Rispetto all'amico Lovecraft, però, l'orrore di Whitehead è destinato a soccombere, piegato da forze, quelle del bene di derivazione cristiana, di gran lunga più potenti rispetto ai riti di derivazione africana legati al voodoo. "Dio è infinitamente più potente di qualsiasi delle lore credenze!" afferma uno dei personaggi dell'autore. Il male è legato all'interferenza degli spiriti nella vita di tutti i giorni, con un vero e proprio tormentone che gravita attorno al concetto di un Dio “creatore di tutte le cose visibili e INVISIBILI”, ma fa forza anche sul poter psichico che certi stregoni riescono a esercitare sui creduloni locali che si lasciano influenzare e addirittura ipnotizzare. Whitehead, da uomo di Chiesa, ci tiene a sottolineare l'esistenza di una realtà ulteriore rispetto a quella percepibile dai limitati sensi umani, una realtà da cui gli spiriti, sia maligni che benigni, riescono a sganciarsi per tornare a interagire con quella dei viventi, al fine di influenzarne i comportamenti. 

I racconti di questa antologia sono prevalentemente folkloristici, legati alla tradizione voodoo, e coprono un arco di circa venti anni. Abbiamo il primo racconto in assoluto scritto da Whitehead, Williamson (1910), due usciti postumi, mentre gli altri coprono un periodo di sette anni, dal 1926 al 1933, quasi tutti usciti sulle pagine di Weird Tales.
Un terzo dei racconti sono ascrivibili al sottogenere ghost story. In tre casi abbiamo l'intervento di spiriti maligni, in un caso invece di forze benevole. Whitehead dimostra subito di gradire le citazioni dirette e così lo vediamo omaggiare William Hope Hodgson, invitando il lettore a recuperare le storie del Carnacki facendo riferimento, in modo indiretto, ai racconti The Whistling Room e The Gateway of the Monster. Ne La Stanza Chiusa (The Shut Room, 1930) viene riproposta l'idea di una camera d'albergo infestata dallo spirito di un bandito che vi è stato assassinato anni prima. Whitehead impreziosisce l'abusato spunto di partenza, con l'idea di una parete esterna che perde consistenza materiale a contatto dello spirito, fino ad assumere la consistenza di un velo dietro al quale lo stesso sparisce portandosi dietro gli oggetti di cuoio che sistematicamente vengon sottratti ai clienti dell'albergo. Il fenomeno avrà termine quando il fantasma avrà ottenuto ciò che sta cercando: il suo vecchio cinturone con le relative inseparabili pistole.
Dal secondo racconto di Hodgson arriva invece l'idea della mano fantasma, anche se Whitehead la rende materiale, piuttosto che ectoplasmatica, un po' come nel film La Casa 2 che Sam Raimi girerà negli anni ottanta. Infatti in Tancredi il Nero (Black Tancrede, 1929) viene mutuato il tema del fantasma che funesta le notti di coloro che alloggiano all'interno di un albergo, ma questa volta ad agire non è un essere invisibile ma una mano priva di corpo che bussa alle porte e vaga libera, di notte, per i corridoi alla maniera di un ragno.
Più tradizionale e meno interessante è La Proiezione Astrale di Armand Dubois (The Projection of Armand Dubois, 1926) dove la moglie di un uomo che ha fornito un prestito a un autoctono viene visitata di notte dal debitore, imbufalito per esser stato costretto a restituire, a distanza di anni, il capitale ricevuto. Fin qui nulla di strano, se non che la moglie, il mattino seguente, scopre che l'uomo era deceduto qualche ora prima dall'apparizione...!

Migliore dei tre sopraesposti è invece La Limousine Napier (The Napier Limousine, 1933) anche perché emerge tutto il background professionale di Whitehead, un po' come in Terrore Nero (Black Terror, 1931). Si tratta di due opere dalla forte impronta mistica. Nel primo caso il racconto prende le mosse da un soggetto weird che non avrebbe sfigurato nella successiva saga Twilight Zone. Tutto inizia con una macchina, che si materializza dal nulla, da cui escono due eleganti uomini mentre la stessa sparisce di nuovo, gettando in un profondo sconforto una passante sicura di aver visto due marziani espulsi da un UFO. Whitehead trasforma però il testo in una vera e propria opera dal taglio religioso, che infonde uno spiccato ottimismo finale, evidenziando come esista una vita ultraterrena e come i nostri cari possano intervenire, dall'aldilà, per venirci in soccorso. Così una zia, deceduta a seguito di un'esplosione provocata dalla caduta di una bomba, si presenta al cospetto di uno scrittore di storie horror (CANEVIN) e di un grosso politico per metterli sulla strada del nipote e salvarlo da un aguzzino senza scrupoli, conosciuto a Berlino, che si spaccia sotto un nome che un lettore contemporaneo potrebbe associare a un noto regista (Goddard) e che invece fa riferimento, data la bomba sganciata dalla carlinga di un bombardiere tedesco quale arma che ha posto fine alla vita della ritornante, a uno scienziato originario del Massachusetts, pioniere della missilistica, residente però a Roswell. I due riescono così a risolvere la problematica e capiscono perché quella passante abbia urlato tanto nel vederli scendere dall'auto: quell'auto è la limousine Napier colpita dalla bomba sganciata dall'aereo tedesco e la persona che li ha incaricati è lo spettro di una signora deceduta nel primo conflitto mondiale insieme all'autista e all'accompagnatore presenti sull'auto.

La prima antologia di Whitehead
edita dall'ARKHAM HOUSE.

Più legato alla narrativa horror è invece Terrore Nero in cui, piuttosto che fantasmi, si parla di possessione diabolica. Canevin, ancora lui, partecipa da spettatore all'esorcismo praticato da un religioso per liberare, soprattutto dalla paura e dalle superstizioni, un giovane manigoldo convinto di aver subito una fattura voodoo. Whitehead tratta il tema in modo volutamente ambiguo, spiegando per filo e per segno le metodologie locali per dar corpo a una fattura. Dapprima accenna alle pratiche degli stregoni (i papaloi), poi porta la questione su un piano legato al potere mentale, spiegando le suggestioni e le convinzioni degli autoctoni, infine fa passare questa azione psicologica come un qualcosa che, in fondo in fondo, travalica i poteri umani tradizionali chiamando in causa quelli degli inferi (si parla di Damballa). Bel racconto, specie nel finale dove gli spiriti maligni sembrano materializzarsi davvero. 

Il meglio dell'antologia però è, a mio avviso, da ricercare nell'altra metà di racconti. Il Caso Chadbourne (The Chadbourne Episode, 1933) garantisce orrore allo stato puro, pur essendo meno legato agli stilemi dell'autore. Whitehead sposta l'ambientazione dai Caraibi agli Stati Uniti, precisamente nel Connecticut, e costruisce atmosfere sulla scia de L'Orrore di Dunwich di Lovecraft. Location contadine, tra tornanti e vecchi cimiteri isolati dall'abitato dove si teme possano esser nascoste delle strane creature carnivore. Il paesino di Chadbbourne, storicamente quieto e non interessato da episodi di cronaca nera, diviene così protagonista involontario di una serie di sparizioni di animali, sia domestici che da reddito. Il tutto si verifica dopo la partenza di una strana famiglia di persiani, schivi e alieni alla vita sociale, giunti per un breve periodo in affitto nella località. La situazione precipita nel momento in cui, oltre agli animali, sparisce anche un bambino. Giungono inoltre i resoconti di strani avvistamenti di una scrofa, con la testa di una donna, intenta ad allattare dei cuccioli. Sarà Canevin, che qua diviene uomo d'azione, armato di speciale fucile da caccia, a sbrogliare la matassa, scoprendo che le creature si annidano all'interno del cimitero locale, in un nauseabondo olezzo di decomposizione. I mostri però non sono animali necrofagi, ma sembrano esseri partoriti dalle pagine di Mille e una Notte, con le loro sembianze umanoidi e i denti da squalo; bestie che vanno a caccia di cadaveri umani, non disdegnando la carne fresca di creature ancora viventi. Dei veri e propri ghoul delle leggende arabe. Soluzione pulp a colpi di fucile in un finale che ricorda le pagine proprie di uno specialista del genere, tra ossa e cadaveri sbranati. Brividi garantiti anche con Cassius, una storia che sarebbe sicuramente piaciuta a Richard Matheson (di sicuro la conosceva) e che Whitehead ruba a Lovecraft, sbirciandone il soggetto embrionale nel quadernino degli appunti del solitario. Un "medical fanta-horror" giocato sulle piccole dimensioni del soggetto misterioso che funesta le notti di un maggiordomo (con tanto di armi in miniatura)... Intervento decisivo di un gatto, mentre Canevin e l'amico dottore cercano di sbrogliare il mistero legato a un animale di piccole dimensioni che sembra avere l'intelligenza di una scimmia ma che si pensa possa essere, per quanto folle possa sembrare, il gemello stesso del maggiordomo di casa Canevin. Quest'ultimo infatti, alcune settimane prima degli avvenimenti, è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico per la rimozione di un parassita poi scomparso, misteriosamente, dai reperti dell'ospedale. Testo particolare, che va di pari passo con Tramonto di un Dio (pubblicato dieci mesi prima da Whitehead) costituendone l'ideale perfezionamento. In entrambi, infatti, figura l'idea del corpo vivente custodito all'interno di un uomo e poi rimosso per effetto di un'operazione chirurgica. Non mancano le canoniche riflessioni religiose dell'autore, evidentemente una deformazione professionale, che raggiungono l'apice nell'epilogo in cui si sottolinea il rispetto verso questo bizzarro scherzo della natura, o del diavolo, dilaniato dagli artigli del felino che lo ha scambiato per un topo. Ho scritto del "diavolo" perché così fa lo stesso autore chiudendo con la seguente frase d'effetto: "fummo spettatori di quella fine improvvisa, la tragica soluzione di uno dei più bizzarri e inquietanti avvenimenti che siano mai potuti partorire dalla follia di Satana, che abita l'Inferno per sconvolgere i figli degli uomini". Pubblicato su Strange Tales nel novembre del 1931). 

Abbiamo fatto cenno a Tramonto di un Dio (Passing of God, 1931), vale a dire il racconto preferito da Lovecraft in tutta la produzione del reverendo. In esso abbiamo un americano trapiantato nelle Isole Vergini alle prese con un bizzarro tumore. L'uomo, definito “un'enciclopedia vivente delle pratiche religiose del posto e degli usi locali” nonché vicino agli ambienti voodoo, si vede crescere all'interno del ventre una specie di noce di cocco. Giudicato non guaribile negli Stati Uniti, viene sottoposto, anni dopo, a un delicato intervento chirurgico dopo che la noce ha ripreso a crescere in conseguenza di una caduta. Creduto, piuttosto bizzarramente, posseduto da uno spirito voodoo dagli abitanti del posto, subisce l'asportazione del corpo estraneo che i medici scopriranno, a loro sorpresa, essere una vera e propria creatura vivente, un essere così descritto: "Erano gli occhi di qualcosa di superiore all'umano. di incredibilmente malvagio, enormemente antico, evoluto, freddo, impenetrabile a tutto se non al Male assoluto, gli occhi di qualcosa che era stato adorato in secoli precedenti, occhi che mostravano tutta la cattiveria, la malvagità deliberata in agguato che possa esistere nell'Universo." Un racconto dunque piuttosto sinistro ma, a mio avviso, inferiore a Cassius. Di altro rilievo è invece L'Uomo Albero (The Tree Man, 1931) che sembra più un resoconto folkloristico piuttosto che un racconto vero e proprio. Qui Whitehead parla dell'abitudine locale, di una data etnia originaria delle Haiti, di affidare a un membro della comunità il compito di ascoltare determinati alberi come “fratelli” in modo da decriptarne i messaggi premonitori di sventure e calamità naturali. Così leggiamo di un soggetto che vive sempre a stretto contatto con un albero, tenendolo abbracciato giorno e notte finché l'arroganza di un latifondista non giungerà a minacciarne l'esistenza.
Spunti ecologisti anche nel bellissimo Il Popolo di Pan (The People of Pan, 1929), in cui Canevin si trova al cospetto di una popolazione di discendenza atlantidea che vive nei sottosuoli di un'isola disabitata in cui l'uomo sta per sbarcare per effettuare il disboscamento. Whitehead, nell'occasione, regala un vero e proprio omaggio alla dea natura con descrizioni ambientali (prima la foresta, e poi una profonda gola che conduce nell'abisso) di grosso impatto. Apocalittico l'epilogo, col popolo di Pan che paga con la vita l'egoismo dell'uomo della superficie, il cui avvento scatena l'ira del Dio. A mio avviso tra i migliori testi dell'antologia, con una descrizione del tempio eretto in onore al dio caprino che è eccezionale e, allo stesso tempo, sinistra con una scultura di una capra rampante che svetta sopra a centinaia di persone intente a salmodiare un rito di sacrificio in onore al Dio.

Omaggio a Kipling nei due restanti racconti. Williamson (1910) è un racconto fantastico che ruota tutto sulla sconvolgente rivelazione finale. L'autore omaggia Bertan e Bimi (1891), da cui prende lo spunto per sviluppare il racconto. Protagonista è un uomo dalla forza bruta ma dall'animo nobile, che viene ospitato sulle Isole Vergini nella dimora invernale di Canevin. L'uomo è un vecchio compagno di scuola dello scrittore ed è giù di morale per la prematura scomparsa della moglie. Il narrato ruota così attorno al passato di questo sfortunato individuo che ha avuto un'adolescenza poco felice, con un padre che non lo ha mai considerato suo vero figlio arrivando persino a separarsi dalla moglie. La stessa compagna di Williamson, prima di morire e dopo essersi unita a lui in matrimonio, ha sempre dato l'impressione di temerlo, di guardarlo con sospetto se non, addirittura, con ribrezzo, nonostante le premure dimostrate dall'uomo nei suoi confronti. Atteggiamenti reputati ingiustificati da Canevin finché, all'epilogo, non emergerà la verità. Walter Catalano, a ragione, descrive l'opera come un testo che “rimuove il tabù di King Kong: le implicazioni sessuali di un rendezvous fra la bella e la bestia.” Whitehead, pur dimostrando grande delicatezza e non scendendo mai nel volgare, narra un fatto, verificatosi alle Bahamas, che è centrale per comprendere l'epilogo e che deve molto a Kipling. Circa un anno prima della nascita di Williamson, la madre ha subito una violenza fisica a opera di un Orango (proprio come nel testo dell'autore di Bombay, anche se qua si va oltre). Non è ben chiaro se sia stata posseduta dalla bestia, perché la donna è svenuta nel corso dell'aggressione e ha sempre detto di non ricordare niente sul punto. La giovane, a differenza del testo di riferimento, non muore, si riprende e, circa un anno dopo, avrà un figlio una volta trasferitasi a New York. Il bimbo però ha un qualcosa di strano che si cercherà sempre di nascondere. Il lettore scoprirà alla fine il mistero, con Whitehead che si limiterà a suggerire ma non rivelerà la ragione della bizzarria riscontrata in prima persona: shock subito dalla donna tale da determinare una mutazione genetica nel futuro figlio (come narrano certi racconti o leggende dell'epoca, ce lo dice lo stesso autore nelle premesse de Il caso Chadbourne) oppure ibrido frutto dell'accoppiamento tra un orango e una donna o ancora tra un uomo deformato scambiato da tutti per un orango e una donna...? Di certo Whitehead chiude in modo beffardo e, ancora una volta, ambiguo, con la seguente frase: “Williamson, come ero stato sempre certo e adesso più che mai, era un uomo di gran lunga migliore del padre, comunque lo vogliate intendere.”

Si chiude il sipario con La Cicatrice (Scar Issue, 1946), un altro testo più fantastico che horror, se vogliamo addirittura di azione. Whitehead parla di “ questione atlantidea” e di “memoria ancestrale” per dimostrare in un colpo solo che Le Isole Vergini sono la parte rimasta emersa del vecchio continente di Atlantide e che gli uomini, dopo la morte, tornano in vita sotto altre spoglie umane. Per comprovare quanto affermato, Canevin presenta al dottor Pelletier un marinaio che possiede un'enorme cicatrice sul corpo. Il segno altro non è che una voglia emersa al compimento dei ventisette anni. Il marinaio, Joe Smith, spiega ai due di aver dei flash in cui ricorda una precedente vita quando, da schiavo, era costretto a esibirsi nei panni di gladiatore nelle arene per il divertimento della platea atlantidea. Ancora una volta l'ispirazione arriva da Kipling, come ha modo di spiegare l'autore, ma prende la via dell'azione Segue infatti una bellissima scena di combattimento in arena, con tanto di arbitro e regolamento spiegato ai due contendenti, come in un moderno incontro di boxe, oltre cintura premio imbottita dei soldi lanciati dai tifosi. La cicatrice sarebbe un segno originario lasciato dallo scontro mortale in cui Joe Smith perse la vita nel suo ultimo combattimento all'età di ventisette anni. Whitehead chiude il testo con una battuta di Canevin che riscontra il nome del suo ospite quale JOE TROY SMITH, collegandolo al più famoso paesaggista americano così da dar credito all'idea della metempsicosi: “Capivo solo allora chi avevo avuto l'onore di ospitare nella mia casa. Si trattava del celebre artista, oppure no... ” Finale, in chiaro stile Whitehead, ambiguo, a cui noi aggiungiamo un'ulteriore domanda: ma il Joe Troy Smith cestista statunitense che ha giocato per diverse stagioni in Italia, anche in provincia di RE, è forse l'uomo in cui vive ancora il protagonista di questo racconto? Una considerazione inevitabile, se mi permettete un po' di ironia, per un autore che si chiama allo stesso modo di un famoso Reverendo d'Inghilterra, conosciuto per stare alla base della scienza dell'epidemiologia. Nomen omen, dunque, giusto per esorcizzare un titolo di un celebre film horror con la figura del reverendo più caro alla narrativa del terrore.

In conclusione, un volume da recuperare (al di là dei refusetti di battitura, ce ne sono diversi) per gli amanti della narrativa del terrore dei primi del novecento e che è da integrare col successivo Il Culto del Teschio, così da chiudere il discorso relativo alla penna di Henry S. Whitehead. Per gli amanti del genere suggerisco infine due volumi di Gordiano Lupi, Orrori Tropicali e Nero Tropicale, che propongono altre storie horror legate al voodoo e alla Santeria ambientate in zona caraibica, tra leggenda locale e scrittura creativa vera e propria.

L'ultima antologia dedicata a 
Whitehead.
E' uscita nel 2016.

"Non c'è in lui nulla dell'uomo di Chiesa ammuffito: si veste in abiti sportivi, impreca come un duro all'occasione, ed è totalmente estraneo a bigottismi o perbenismi di qualsiasi tipo" (Howard P. Lovecraft su Henry S. Whitehead).

lunedì 10 aprile 2017

Recensione Narrativa: LA SCHIAVA DI FU MANCHU di Sax Rohmer.



Autore: Sax Rohmer.
Titolo Originale: The Bride of Fu Manchu.
Anno: 1933.
Genere: Spionistico fantastico con venature sci-fi.
Editore: Sugar Editore, Milano, 1966..
Pagine: 240.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Il destino gioca spesso dei tiri mancini“ esordisce lo splendido volume “I MAESTRI DELLA LETTERATURA FANTASTICA“ dell'Edipem alla pagina dedicata a Sax Rohmer e l'espressione è quanto mai appropriata per questo autore, non tanto per il fatto che il suo principale personaggio, il geniale Fu Manchu, è un'abbreviazione di “mancini“ piuttosto per il fatto che si tratta di uno degli autori più ingiustamente bistrattati nel panorama letterario italiano. Se infatti cercate in molti testi di saggistica dedicati alla narrativa fantastica troverete, quando va bene, meramente accennato il nome Sax Rohmer, e solo occasionalmente trattato. Ne sono una testimonianza i pur completi volumi Odoya dedicati alla narrativa sia Horror che Fantastica che Esoterica o il Dizionario dell'Orrore di Gianni Pilo, testi in cui Rohmer non viene trattato (spesso e volentieri nemmeno indicato). Ciò è davvero un'ingiustizia, siamo al cospetto di un maestro nel panorama fantastico e, per certi versi, della narrativa del terrore versante paranormale. E' davvero incredibile che gli unici cenni che gli vengon dedicati, in Italia, siano riferiti all'adesione, in compagnia di nomi di colleghi più famosi, alla società segreta della Golden Dawn. Ciò è la conseguenza della quasi esclusiva pubblicazione, nella nostra penisola, dell'opera di Rohmer legata al celebre personaggio originario della manciuria e ad alcuni gialli, tanto che lo scrittore viene considerato uno specialista del giallo o della spy story. Niente di più sbagliato, a nostro avviso.

Nato il giorno dopo San Valentino del 1883, come Arthur H. Ward, in quel di Birmingham, cresce in un'umile famiglia di origini irlandesi. Non è uno studente modello, eppure ha la passione per la lettura che lo conduce verso testi di occultismo e discipline orientali, specie quelle legate all'antico Egitto. A differenza di molti suoi colleghi, non vanta un illustre percorso di studi ma sviluppa una cultura da autodidatta che lo porta a scrivere inizialmente per ragioni alimentari. Debutta in tale veste a ventuno anni con la pubblicazione su un periodico di un racconto breve di genere fantastico, che va sotto il titolo di The Mysterious Mummy, seguito, sette anni dopo, dalla novella Pause data alle stampe in forma anonima. Le passioni per l'occultismo e le discipline magiche gli costan però care. Grosso sperimentatore, più che sulla carta stampata nel mondo reale, si fa assumere in una banca, ma poi non si trattiene dal mettere in pratica i propri studi: ipnotizza un collega, ma lo scherzo viene visto con sospetto e timore. La scelta è immediata: licenziato in tronco. Poco male, ripiega allora come dipendente di una società di distribuzione di gas prima di trovare una più pertinente occupazione in qualità di reporter sul settimanale Commercial Intelligence. L'istrionismo e soprattutto le doti eclettiche non tardono a metterlo in luce. Il giovane Ward fa tutto: scrive canzoni, articoli di argomenti più disparati ivi compresa la sociologia (celebre un suo reportage sul quartiere cinese di Londra, che sarà poi fondamentale per aprirgli la via al suo famoso personaggio), sketch comici, soggetti per commedie musicali, inventa addirittura un profumo e si fa ingaggiare quale attore teatrale. Ward è però anche un avventuriero che non teme niente e nessuno e che vaga nei quartieri malfamati alla caccia del fantomatico Mister King (il boss del quartiere cinese di Londra). Un vero e proprio tuttofare che finisce persino per infiltrarsi in una delle più potenti società segrete di stampo esoterico dell'epoca (la Golden Dawn) oltre che in numerose altre, sembra persino legate all'ambiente dei Rosa Croce. Ward è un vero e proprio prezzemolo che sta bene ovunque, ma non è un abile gestore dei propri fondi. Spende e spande, gioca in borsa, fa investimenti sbagliati, gli piaccion le donne e non viene neppur frenato dall'appariscente Rose E. Knox che sposa in giovane età. Ward ha molteplici amanti, scrive lettere appassionate e le lascia in bellavista tanto che la moglie lo scopre spesso e volentieri, ma è sempre pronta a perdonarlo. Ward, che a trent'anni sceglie di chiamarsi Sax Rohmer, è affabile e ha un fisico che piace al gestil sesso, per lui è facile fare conquiste. Ha uno stile di vita dispendioso e questo lo porta ad avere debiti perenni. Nel 1912 pubblica il primo di tredici romanzi (solo sette tradotti in italiano), e otto novelle, che vede per protagonista Fu Manchu, il pericolo giallo incarnato in un sol uomo“, ed è successo immediato. La serie, che prende avvio con The Mystery of Doctor Fu Manchu, da sfoggio di uno stile semplice, accessibile anche a un pubblico medio basso, e tratta temi fantastici (quale alchimia, ipnotismo, illusionismo) con venature fantascientifiche e spionistiche, piuttosto che esoteriche o criptiche, ma soprattutto con un'intelaiatura poliziesca che sembra esser stata ispirata, seppur poi molto diversa per sviluppo e temi, dal Lupin di Leblanc. Fu Manchu infatti è un personaggio che rappresenta il male e il crimine ma, nonostante questo, è il vero e proprio protagonista dell'opera di Rohmer, pur se perseguitato in ogni avventura dal brillante rappresentante di Scotland Yard, Denis Nayland Smith, che riesce sempre a intralciarlo e a fargli saltare i piani. A differenza di Lupin non cerca un tornaconto personale, il suo è un fine (a suo modo) nobile: si rende promotore di una battaglia politico-culturale finalizzata a determinare la caduta del mondo occidentale in favore della Cina. Un personaggio che, cambiando alcune caratteristiche, potrebbe sembrare assai di moda anche al mondo di oggi, spostando l'etnia sul versante arabo (di cui Fu Manchu è un estimatore, peraltro). Egli infatti non è un lupo solitario, ma il terminale di una vera e propria organizzazione terroristica che va sotto il nome di “Si Fan“ e che vuol rovesciare il mondo, lavorando persino sul versante finanziario e favorendo il dissesto e l'incertezza negli investimenti. Per quegli anni si tratta di un canovaccio assai pionieristico che viene subito premiato dal pubblico, grazie anche al taglio stilistico molto commerciale e veloce, scelta che garantisce introiti e che finisce subito con il calamitare le attenzioni delle radio, dei fumetti ma sopratutto delle produzioni cinematografiche che non tarderanno ad acquistare i diritti per trasporre sui teleschermi i vari romanzi (il primo film, The Queen of Hearts, esce nel 1923 per la regia di Lyons). Celebri al riguardo le interpretazioni di Christopher Lee e di Boris Karloff, nei panni del genio del crimine, per un totale di circa sedici film, i primi sette girati tra il 1923 e il 1931. Da notare poi che il personaggio ha ispirato moltissimi altri personaggi, tra questi il Doctor No della famosa serie 007 – James Bond, che l'autore Ian Fleming ha sempre riferito esser stato costruito sul personaggio di Fu Manchu; da qui la frase lancio: “James Bond non sarebbe mai riuscito a sconfiggere Fu Manchu!“
Due anni dopo l'uscita del primo volume della fortunata serie, Rohmer da alle stampe un volume dedicato all'occultismo e alla magia (sembra in omaggio all'amico Harry Houdini), The Romance of Sorcery, passione che lo accompagnerà sempre e che lo porterà a scrivere molti horror soprannaturali e alcuni romanzi weird (purtroppo quasi tutti inediti in Italia) legati agli archetipi di questo particolare settore della narrativa. Tra questi si ricorda il racconto Lord of the Jackals (1917) pubbicato nel 1927 sulla leggendaria rivista weird tales (unica apparizione di Rohmer), Breath of Allah (pubblicato nell'antologia Maghi e Magia, Edizioni Mediterranee) e Brood of the Witch Queen da molti considerato il suo capolavoro.
Un altro personaggio forte, ideato nella parte terminale di carriera, è quello di Sumuru (protagonista di cinque romanzi), una sorta di proiezione di Fu Manchu in chiave femminile, con forte connotazione erotica e con alle calcagna, questa volta, un agente dell'FBI.
Da rispolverare e riproporre inoltre, spero che l'Hypnos accolga questa mia richiesta, il detective dell'occulto Moris Klaw, che indaga avvalendosi dei forti poteri chiaroveggenti prendendo contatto con gli oggetti delle vittime di crimini e visitando le scene dei delitti per poi ricevere nel sonno le soluzioni dei vari casi.

Vive la parte terminale della propria esistenza negli Stati Uniti dove emigra, dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, passando a miglior vita nel 1959 nello stato di New York a causa, a proposito di “tiri mancini“, di un'epidemia di influenza asiatica. Destino quanto mai beffardo per chi ha sempre parlato dell'influenza cinese come pericolo costante per il mondo occidentale. L'anno prima, la moglie, pubblica il romanzo giallo Bianca in Black firmandolo Elizabeth Sax Rohmer.
Una curiosità legata a questo scrittore è costituita dal fatto che fu inspiegabilmente censurato in modo totale nella Germania nazista, dove la produzione firmata Sax Rohmer era del tutto bandita. Lui, da buon inglese (dato che la sua opera parla in via prioritaria di congiure messe in atto da un genio del male per la conquista del mondo, sfruttando il lavoro di scienziati pazzi che fanno esperimenti di ogni tipo finalizzati a trovare la via per piegare le nazioni nemiche), non perdeva occasone per lamentarsi in modo alquanto umoristico: "Non capisco questo fatto... in fondo, la mia opera, mica attacca il regime di Hitler...!


L'autore SAX ROHMER

The Bride of Fu Manchu è il sesto capitolo della saga del famoso criminale cinese nato dalla penna di Sax Rohmer. Uscito nel 1933, è ambientato in Francia, sulla Costa Azzurra e più precisamente nella città di Nizza. Fu Manchu sta architettando, con l'ausilio di un poule di scienziati riportati in vita dopo la loro morte, di sferrare un duro attacco all'Europa con il ricorso a un'arma battereologica atipica. Ha infatti allevato, in una sterminabile serra allestita all'interno di un ex monastero trasformato in un vero e proprio labirinto con futuristici sistemi di difesa (da porte che calano dall'alto e mattonelle elettrificate), un ibrido di mosca tse tse il cui pinzo provoca la morte immediata dei contaminati. Il dotter Petrie, giunto dall'Inghilterra, è l'unico che sembra aver trovato l'antidoto, la c.d. Formula 654, e per questo finisce preda della manovalanza del dottore (dei sicari asiatici), intenzionato a eliminare chiunque ostacoli i suoi piani di conquista. Fu Manchu però non si limita a uccidere il bravo scienziato, ma cerca di indurlo in uno stato di morte apparente per poi rapirlo e assoggettarlo alla propria volontà col fine di annetterlo alla propria squadra di scienziati. A intralciare i piani però interviene, da Londra, il solito Nayland Smith che andrà a supportare il protagonista positivo del romanzo ovvero il botanico Alan Serling. I due riusciranno a far uscire all'aperto il cinese, a liberare il vecchio monastero e a far venire alla luce le ricerche contrarie a ogni forma di etica ordinate dal dottore cinese fino a implicare esperiementi su ibridi umani. Ma il vecchio Fu Manchu, che pare depositario del massimo segreto alchemico che ha nell'Elisir di lunga vita (nella fattispecie estratto da un'orchidea birmana) il suo massimo livello di conoscenza, ha in serbo una serie di trucchi da illusionista che gli permetteranno, dopo l'arresto, di scappare sotto il naso alle autorità francesi per compiere altre imprese che saranno narrate nei successivi capitoli della saga.

Romanzo dunque di mero ed esclusivo intrattenimento, forse un po' datato per trattare temi successivamente abusati ma all'epoca, probabilmente, appena accennati. Si parla di mutazioni genetiche e di virus pestilenziali costruiti in laboratorio e di cui si fanno portatori gli insetti. Evidente la contaminazione dei generi, dall'avventura alla sci-fi, passando per il giallo e, soprattutto, lo spionistico e l'esoterico (grande ruolo esercitato dall'ipnosi e dal controllo mentale). Bella la caratterizzazione della fortezza francese che costituisce il quartier generale di Fu Manchu, una costruzione piena zeppa di trabocchetti e insidie con una conformazione labirintica che spiazza i protagonisti, tra fumi di oppio e sieri più o meno funzionali a ridurre la capacità di intendere e di volere. Prosegue poi la caratterizzazione diabolica e, al contempo geniale, del “satanico“ Fu Manchu. Lo vediamo comunicare con i suoi uomini grazie a degli orologi che trasmettono messaggi cifrati in alfabeto morse. Rohmer sottolinea l'entità malvagia del dottore associandogli una scimmia che lo segue in ogni dove. Un personaggio pazzesco, colto e raffinato, che cerca addirittura di organizzare incroci particolari per avere una prole selezionata che possa garantire futuro alla propria dinastia e che, per questo, fa rapire una giovane destinata a divenire sua riproduttrice in età adulta.

Lo stile adottato dall'autore è veloce, leggero, molto moderno per l'epoca e perfettamente adatto a una lettura da sotto l'ombrellone nelle torride estati. Niente a che vedere con testi metaforici o simbolici, che richiedono studio o particolare attenzione. La struttura è elementare, senza fronzoli, va subito al nocciolo con ampio ricorso a dialoghi e frasi brevi e concise. Ne esce fuori un'opera di completamento, non certo prioritaria, per giunta letta da pochissimi, ma comunque gradevole (nulla più).

Nel 1966 Don Sharp ha adattato (insieme al produttore Harry Alan Towers), con qualche libertà narrativa, il romanzo per la realizzazione della sceneggiatura del film (misconosciuto) Il Giorno dei Fazzoletti Rossi con Christopher Lee nei panni di Fu Manchu. Il successo, crediamo di poter dire, non è stato interplanetario. 

La locandina del film estratto dal romanzo.


Non esiste progresso umano senza selezione... L'Est è cresciuto in sapienza, mentre l'occidente non ha fatto altro che costruire macchine..“