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giovedì 31 dicembre 2020

Recensione Narrativa: RACCONTO VENEZIANO. PASSIONE di Stefan Grabinski.

 

Autore: Stefan Grabinski.
Titolo Originale: Namietnosc.
Genere: Fantastico / Sentimentale.
Anno: 1930.
Edizione: Ester, 2020.
Collana: Cronache dall'Insolito.
Prezzo: 14,00 euro.


Commento di Matteo Mancini   

Bella prova di esordio dei traduttori Michols Magnolia e Massimo Barberini che propongono sul mercato italiano un inedito di Stefan Grabinski, lo scrittore definito dal critico Karol Irzykowski “l'Edgar Allan Poe Polacco”. 

Novella piuttosto breve, composta da cinquantacinque pagine, risalente all'ultimo periodo della produzione dell'autore che la stende qualche anno dopo il suo primo e unico viaggio a Venezia. Proprio nella città veneta è ambientata la storia. Grabisnki attinge probabilmente dalla propria vicenda personale, dall'incontro con la connazionale Stefania Kalinowksa che lo indusse a passare un'intera estate tra le calle dell'antica Repubblica Marinara, perché probabilmente preso dalla sua bellezza. Ed è proprio nell'intera stagione estiva che si snoda la storia d'amore che investe il protagonista, un turista polacco, che vive nella città italiana una passione travolgente per una sconosciuta vedova spagnola di origini nobiliari. Quest'ultima, solita frequentatrice di Venezia, si propone di fare da cicerone al nuovo arrivato e avvia con lo stesso una relazione d'amore travolgente. 

La poetica in prosa di Grabinski è eccezionalmente resa dai due traduttori. Eleganza e stile si antepongono al taglio fantastico, plasmando un ritmo lento ma dall'intensità progressiva allo scorrere della lettura. La visione del polacco è votata a un realismo dal sapore documentaristico, attraverso il quale viene reso uno spiccato omaggio alla città di Venezia, con i suoi quartieri, i suoi musei, i suoi palazzi, le sue calle ingoiate dalle tenebre e i suoi cimiteri monumentali. Proprio in uno di questi, nel cimitero dell'isola di San Michele, Grabisnki inserisce il primo tassello di un puzzle che conferirà alla storia un background fantastico. Definito “l'isola dei morti”, il luogo ospita la sede di sepoltura del marito della giovane vedova. Quest'ultimo si sarebbe suicidato per dimostrare alla propria compagna il suo immenso amore, certo di non poter più raggiungere un apice di passioni ed emozioni tali, così da rendere inutile il resto dell'esistenza. Un suicidio, dunque, su cui però si allunga il sospetto di un avvelenamento praticato dalla donna, una lettrice avida di volumi che legano il sesso alla morte (è proprio grazie a un volume di questo genere che i due protagonisti del romanzo fanno la loro prima conoscenza). Sulla tomba infatti si erge una scultura che rappresenta i due amanti, con la donna intenta a offrire all'uomo un calice, con un sorriso stampato in faccia “che cela un accenno di inganno e di crudeltà” e una daga veneziana tenuta nell'altra mano dietro la schiena. Lo stesso protagonista fa menzione al sospetto che la coppa contenesse veleno. 

In realtà, penso di poter dire che la scultura rappresenti una metafora della passione d'amore. Si potrebbe infatti sostenere che, alla stregua di un forte alcolico, l'amore, se vissuto in dosi di intensità eccessiva, possa minare l'integrità mentale di chi vi venga attinto portando lo stesso ad assumere condotte equiparabili a quelle di un ubriaco o di un pazzo. La coppa allora, che l'uomo si appresta a bere, contiene dunque l'amore per un donna che è predisposta al tradimento (da qui la daga nascosta dietro alla schiena). Un evento che può arrivare ad uccidere un uomo e, al tempo stesso, soddisfare il narcisismo femminile. Non è forse un caso che la protagonista, anziché mostrare disperazione e rimpianto per il perduto amore, si dimostri invece entusiasta per quanto accaduto, al punto da mostrare gli esiti delle sue conquiste come si potrebbe fare con una collezione di grande valore. “Morì per me e a causa mia. Non è stupendo?” chiede al polacco. Allo stesso modo si rivela assai irrispettosa nel condurre al cospetto della tomba del defunto marito la sua nuova e probabilmente ennesima conquista. Un personaggio che richiama alla mente la donna della canzone La Ballata dell'Amore Cieco di Fabrizio De Andrè (nella scultura l'uomo, guarda caso, viene definito come “accecato” dall'amore). 

Emerge pertanto il pessimismo romantico dello scrittore verso l'amore, atteggiamento peraltro stimolato dalle esperienze personali (la moglie lasciò Grabinski dopo cinque anni di matrimonio), su cui però si innesca la vendetta del defunto. Le scappatelle dei due protagonisti vengono, a poco a poco, disturbate da una misteriosa donna, tale Donna Rotonda, entrata empaticamente in contatto mentale proprio col defunto marito della protagonista. Ce lo dice un pittore locale, realmente esistito, capace di entrare in contatto con l'aldilà per lasciarsi guidare dagli spiriti, al fine di mettere su tela visioni del futuro. L'artista, al secolo Luigi Bellotti, traccia l'ideale luogo di incontro, rappresentato da un ponte che mette in relazione il mondo dei vivi con quello dei morti. L'immagine, ben rappresentata da Giada Morganti per la realizzazione della copertina del libro, è la conclusione di un patto tra il defunto e la pazza donna che vaga disperata per le vie di Venezia perché abbandonata dal suo amore. “Entrambi vittime di un'immensa passione, siamo uniti nella fratellanza dell'angustia.” 

A determinare l'inizio della parabola che condurrà al tragico finale è, ancora una volta, il tradimento. La curiosità spinge il protagonista polacco, a poco a poco preso dalla misteriosa donna rotonda, a pedinarla e scoprire che, in realtà, è una magnifica rappresentante del gentil sesso, distrutta nella mente dal perduto amore. “Non era più Donna Rotonda l'inquietante, la macabra apparizione per i bambini, il triste e spregevole spettro di un'assopita laguna; era Gina Vamparone, la sfortunata figlia di Venezia, che sbocciava nel rifugio del disabitato palazzo in una donna bellissima, impazzita per amore.” Rapito dal richiamo della carne e pur amando la giovane nobildonna, spagnola, il polacco cade nelle maglie della passione, passando una notte con la sconosciuta. Assimilabile a uno stupro per effetto di un errore di persona, la scappatella andrà ad avviare il dramma di gelosia che porterà la povera disperata a scagliarsi contro la rivale d'amore, fino al tragico epilogo. 

Racconto Veneziano rappresenta così, al contempo, l'omaggio di Grabinski alla città di Venezia, reso sia con le calibrate descrizioni cittadine sia col ricorso di personaggi storici e locali realmente esistiti, e, al tempo stesso, la sublimazione del pessimismo dell'autore verso l'amore, visto quale passione che unisce la gioia sfrenata per poi scemare nella disperazione più assoluta (romantico il viaggio finale verso il cimitero) a delineare un “falso racconto fantastico” che pende sul versante dell'allegoria. La speranza è che possa essere la prima delle opere ancora inedite in italiano a esser riproposte, nella nostra lingua, dal duo Magnolia-Barberini che ha dichiarato il proposito di sdoganare l'intera produzione dell'autore polacco, fino a oggi conosciuto soprattutto grazie alle antologie Il Villaggio Nero (2012) e Il Demone del Moto (2015) pubblicate rispettivamente da Hypnos (e anche Mondadori) e da Stampa Alternativa.


L'autore STEFAN GRABINSKI

"Nella vita capita che dopo un periodo di monotonia e comune realtà seguano una serie di episodi eccezionali."

Recensione Narrativa: L'HAREM DELLE VERGINI DANNATE di Ivo Torello.




Autore: Ivo Torello.
Anno: 2019.
Genere: Horror/Erotico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2019.
Collana: Gli Strani Casi di Ulysse Bonamy.
Pagine: 142.
Prezzo: 9,90 euro.

Commento Matteo Mancini.
Secondo episodio (dei quattro al momento presentati) della serie Gli Strani Casi di Ulysse Bonamy ideata nel 2019 dallo scrittore genovese, classe 1974, Ivo Torello. 
La storia si inserisce nel solco tracciato dal precedente La Gorgiera della Contessa Sanguinaria (2019), mutuandone i cliché temporali e tematici. Ci troviamo ancora nella Parigi del 1923 a seguire gli inusuali casi del detective dell'occulto Ulysse Bonamy, un furfante dai modi garbati e dai gusti sessuali non proprio raccomandabili, abile nell'utilizzare unguenti a base di mandragora per acuire le percezioni e trovare i giusti sviluppi di indagine. “Avete una vaga idea di chi sia questo uomo!?” dirà nel corso del testo uno dei personaggi di Torello “Uno dei peggiori mascalzoni di tutta Francia! Un truffatore in grado di ingannare pure il Padreterno! Costui è, tanto per capirci, il protetto della strega del bordello di Montmartre, Dauphine Sabatiere.”

A differenza dell'episodio pilota, l'azione si sposta dalla capitale francese alla campagna, a Villers-Cotterêts, presso il collegio femminile denominato Ecole des Filles Gertrude de Greve dove sulle mura spiccano blasfeme rappresentazioni del Cristo in croce (la passione sembra evocare l'estasi erotica). Qui Bonamy, che si presenta sotto mentite spoglie, riesce a farsi assumere come inserviente. Il suo fine è far luce su uno scandalo che ha inondato le pagine dei giornali parigini ed è costato la caccia all'uomo ai danni di un professore del collegio, nel frattempo rifugiatosi nella casa dell'amico indagatore. Quest'ultimo, tale Maurice Jollain, è un letterato famoso, nell'editoria semi-clandestina, con lo pseudonimo di Jules Jukes quale autore di libri di argomento erotico. L'uomo, ad avviso della polizia, sarebbe al centro di una serie di abusi sessuali, a danno delle minorenni della scuola, praticati indossando la maschera di un caprone cornuto così da poterle circuire inducendone il silenzio. Le indagini tuttavia sono state traviate a sommo scopo dal vicedirettore della struttura, il vero responsabile dei delitti, intenzionato ad assurgere al ruolo di Grande Maestro di un Ordine Esoterico fondato a inizio secolo e solito riunirsi in un luogo denominato il Tempio di Anin-Horsan. Il collegio infatti altro non è che la sede occulta dell'ordine, un luogo protetto dall'omertà delle più alte cariche nazionali, a conoscenza degli strani riti che si consumano tra le mura della scuola.

Tra suggestioni lovecraftiane (si inneggia a Shub-Niggurath, ossia il capro nero dei boschi dai mille cuccioli), grimori al soldo di santoni di origine persiana dai nomi che rievocano il pantheon lovecraftiano (Abdul Ben Azel), sostanze psicotrope che fondono in sé stesse i principi del sodio penthotal (“Lucifero favorisce l'emersione dei nostri pensieri più reconditi, abbattendo ogni forma di autocontrollo, ci costringe a dire solo la verità”) e, al tempo stesso, liberano gli istinti animali dell'uomo, vengono a delinearsi i contorni di un giallo presto sconfinante in un weird in odore di pulp magazine. Pur se elegante e tecnicamente forbito (non mancano alcune scivolate nel volgare), il contenitore di Torello va sempre più a tracciare le coordinate seguite da quei romanzi frivoli da edicola che, negli anni sessanta e settanta, fecero la fortuna di serie quali I Racconti di Dracula. L'autore genovese si limita ad accennare al paranormale, miscelandolo a un erotismo che tocca punte di pornografia (limitate al sesso orale) in modo da sfumarlo e lasciarlo in background; tuttavia, il male c'è ed è reale, lo si capisce nei dettagli di cui il romanzo è intriso. Sedicenti ex satanisti, riqualificatesi alla vita di eremiti (alla Huysmans), ammoniscono dal proseguire su certi cammini e lo fanno alludendo a visioni capaci di frantumare la sanità mentale. Non mancano poi rivelazioni inaspettate rese da uomini che non possono essere depositari di certe notizie, così come si percepiscono odori bestiali al culmine dei riti che rimandano direttamente a un mondo altro che sovrasta la realtà per come noi la conosciamo. Torello cala il tutto in un contesto argentiano che richiama alla memoria il capolavoro Suspiria (a noi salta in mente anche l'horror L'Ultimo Mago della serie I Racconti di Dracula), anche se si tratta di un cliché che ha fatto la fortuna di una serie di sottogeneri cinematografici precedenti (si pensi al nunsploitation, in cui si cambiava il contesto collegiale in quello monacale), e, al tempo stesso, mette in scena, in chiave moderna, orge sabbatiche che attingono dall'immaginario iconografico di Francisco Goya (si veda il dipinto a olio su tela Il Grande Caprone completato nel 1798 e che raffigura una capra in posizione eretta) per mettere alla berlina l'ipocrisia del mondo borghese. Giudici, militari, politici e personaggi insospettabili sono i componenti di una setta che utilizza il sesso quale via per trascendere, salvo poi piegarsi a piaceri ben più materiali (“il mio anelito più alto è il piacere della carne”) senza ambire ad altro di superiore. Spunti di riflessione non certo privi di precedenti sviluppi, si pensi, tra gli altri, a molta della narrativa dell'orrore di Frank Graegorius (alias Libero Samale) che, su tale tematica, ha costruito la sua carriera letteraria relativamente al suo versante gotico. Evidente la parte in cui il perbenismo della società parigina da una parte condanna le pratiche sessuali e, dall'altra, contribuisce al successo di chi narri i fatti a essi connessi con tanto di dettagli e aneddoti, a dimostrazione di una sussistenza di una bramosia interiore repressa dall'incapacità di esternare l'animale che vive nel profondo dell'essere.

Torello è un autore diretto, il perfetto contrario di un bacchettone, ben lontano da ipocrisie di sorta, alla stessa maniera in cui lo sono i personaggi dei romanzi fin qui dati alle stampe. “Non è innocente che sogna certe cose senza avere il coraggio di farle... Mettete persone del genere nella certezza assoluta dell'impunità, e vedrete com'è davvero la natura umana” asserisce l'antagonista, quasi a voler dimostrare che quanto l'ordine esoterico mette in pratica altro non è che la concretizzazione dei sogni della maggior parte delle persone che costituiscono la società di cui tutti noi facciamo parte. Un modo di porsi che condanna l'intera società e, forse in maniera più calibrata, la natura stessa dell'uomo (perverso e "maiale" per natura). Attraverso riti di magia rossa, in cui sono coinvolte le ragazze dell'istituto (idea ripresa in precedenza dal regista underground Lorenzo Bianchini, regista de Radice Quadrata di Tre e di Custodes Bestiae, rispettivamente del 2001 e del 2004), si giunge così alla soluzione finale che vedrà Bonamy risolvere il caso, coinvolgendo direttamente la polizia francese grazie all'arroganza del vicedirettore della struttura, un uomo sempre più spinto dalla volontà di assurgere al ruolo di Gran Maestro, fino a fidarsi dei perfetti sconosciuti e di cadere in balia dello spirito di Satana.

Curiosamente, il romanzo non ha riscosso giudizi entusiastici, addirittura stroncato da alcuni lettori con l'accusa di non proporre niente di interessante o di essersi volutamente invischiato in “paludi letterarie di matrice pulp e lovecraftiana con punte di pseudo porno.” Commenti da cui ci distraiamo per allinearci all'opinione dell'amico Cesare Buttaboni che ne ha esaltato le atmosfere e lo stile, trovando nell'epilogo una suspence tale da promuovere a pieni voti l'autore.

Notevole il ritmo, veloce la lettura. L'Harem delle Vergini Dannate è un libro che si legge in un paio di giorni, facile da seguire e portato in scena in un mix di eleganza e pulp. Consigliatissimo a coloro che cercano quelle contaminazioni tra erotico spinto e horror che fecero la fortuna della narrativa da edicole degli anni settanta e, al tempo stesso, a chi cerchi quell'orrore paranormale legato alla tradizione cristiano centrica.
 
Il Grande Caprone (1798)
di Francisco Goya.
 
"La natura umana non è in nulla diversa da quella delle altre bestie, che prendono ciò che vogliono per diritto, con prepotenza, senza rispondere a nessuna legge al di fuori di quella dei propri appetiti."

lunedì 14 dicembre 2020

Recensione Narrativa: GOMORIA di Carlo H. De Medici.


Autore: Carlo Hakim de Medici.
Anno: 1921.
Genere: Esoterico / Patti Diabolici.
Editore: Cliquot (2018)
Pagine: 236.
Prezzo: 20 euro.

Commento di Matteo Mancini.  

Grande operazione di recupero firmata Cliquot Edizioni. La casa editrice romana rispolvera dall'oblio un interessante romanzo “tardo decadentista” pubblicato nel 1921 da un autore di lingua italiana. Stiamo parlando di Gomoria, opera “satanica” di debutto di Carlo Hakim De Medici, misterioso scrittore esoterista (non è dato sapere neppure la data di morte) degli anni venti scomparso nel nulla e cancellato dai radar narrativi per un secolo, al punto da essere totalmente ignorato dai blasonati autori della Guida ai Narratori del Fantastico Italiano (Odoya, 2018). Eppure, facendo una piccola e minimale ricerca sui cataloghi disponibili su internet (fantascienza.com), il nome De Medici salta fuori e sconfessa i malpensanti, convinti di un'operazione truffaldina orchestrata dalla casa editrice per abbindolare il pubblico di lettori e studiosi avidi di rinvenire nel passato italico perle di una narrativa perduta. 

 

Guido Andrea Pautasso lo presenta quale “romanzo esoterico legato alla diffusione, attraverso la finzione diegetica, di segreti custoditi dalle scienze magiche e di significati occulti che parrebbero destinati a essere recepiti da un gruppo ristretto di iniziati in grado di comprendere i messaggi a loro indirizzati.” Si tratta di una valutazione forse fin troppo entusiastica, Gomoria è infatti un evidente romanzo derivativo fortemente legato alla corrente decadentista che ha in Karl Huysmans e i suoi Au Rebour ("Controcorrente", 1884) e La-Bas ("Laggiù", 1891) i fari illuminanti, attingendo poi anche da Oscar Wilde (The Picture of Dorian Gray, 1894) e da Gaston Leroux (L'Homme Qui a Vu Le Diable) con il background offerto da Le Diable Amoreux ("Il Diavolo Innamorato", 1772) di Jacques Cazotte. Questi gli ingredienti non troppo segreti di un testo che fa sfoggio di una notevole eleganza stilistica, attento alle descrizioni ambientali e alle caratterizzazioni dei personaggi. De Medici si dimostra abile narratore, ma non troppo geniale tessitore di trame. Il suo romanzo, a tratti sfilacciato, si poggia su un soggetto piuttosto classico che non rompe gli schemi e si inserisce nel solco tracciato dai grandi maestri del genere. 


Un nobile dandy, annoiato dalla vita e in contrasto aperto sia con la società contemporanea (rea di non sviluppare adeguatamente l'intelligenza e di essersi imbruttita esteticamente) sia con i bacchettoni che vedono nel libertinaggio la decadenza dell'uomo (De Medici, sulla scia di Wilde, traccia una vera e propria apologia dell'estetismo, ribaltando la visione dominante di presa cattolica in favore de l'oro dei sensi e del gusto alle sperimentazioni più sfrenate), si rinchiude, a poco a poco, nel proprio sfarzoso palazzo contornato di ricchezze di ogni specie (quadri, sculture, statue, arredamenti). A differenza però del protagonista di Au Rebours, cerca di combattere l'apatia, dimostrando tuttavia la totale mancanza di costanza. Pur se amante delle donne, che si diverte a condurre sul cammino della perdizione, è un uomo incapace di amare, approcciandosi al gentil sesso quale oggetto di soddisfazione dei piaceri carnali, piuttosto che ricercare quella complicità mentale degna del vero amore. È altresì del tutto alieno al vivere comune (non ha la concezione del lavoro), barcamenandosi in un'esistenza fatta di esagerazioni, orge e uscite di gran gala. Per ricercare il brivido decide così di arrischiarsi in ardimentose imprese, fino a dissipare, per noia, la sua profonda ricchezza sui tavoli da gioco. Caduto in disgrazia, si ritira nella sua unica proprietà rimasta: un castello diroccato nella maremma toscana, in una località maledetta. Qui prende piede la seconda parte del romanzo. Accompagnato da una zingara, raccolta per strada a Napoli (città in cui era ambientato Le Diable Amoreux di Cazotte), accarezza propositi suicida sfuggendovi sull'orlo ormai del baratro, grazie al sapere esoterico appreso nella biblioteca rinvenuta in loco e appartenuta a un avo. 

 

Tutta la scienza nera, tutto lo scibile macabro dell'antichità erano rappresentati in quella biblioteca: dai più oscuri visionari e astrologi ai più entusiasti alchimisti.” De Medici da sfogo ai suoi profondi studi in materia di occultismo, magia bianca e magia nera, che lo avevano indotto, tra il 1911 e il 1915, a scrivere tre saggi sull'argomento, per stendere un vero e proprio catalogo di testi magici. Il romanzo propone infatti una serie di pagine riempite di titoli e autori, tra i quali anche il fantomatico Cosimo Ruggeri, astrologo di Caterina Dei Medici e autore dello pseudobiblia Sathan, un grimorio rilegato in pelle di bimbo morto senza battesimo. Attraverso lo studio di questi testi e alla collaborazione della zingara, una giovane chiamata Zimzerla, Gaetano Trevi, questo il nome del nobile decaduto, viene iniziato al satanismo. Ecco che viene in gioco La-Bas di Huysmans, romanzo che De Medici tradurrà dal francese nel 1929 proponendolo per la prima volta al pubblico italiano. Se nel romanzo di Huysmans, una sorta di saggio-romanzo sulla demonologia, era proposta per la prima volta in narrativa la descrizione di una messa nera, De Medici propone la ritualità di un'evocazione satanica, con una potenza tale da lasciare il segno. La descrizione degli ingredienti e delle formule magiche è capziosa, mentre il senso del terrore è adeguatamente suscitato, fin al culmine costituito dall'uccisione di un gatto nero. Trevi, sempre lasciato libero di scegliere, riesce per tale via, trascinato dagli insegnamenti della sua musa (con cui ha un amplesso in odore di battesimo infernale nel cuore del bosco), a concludere un patto diabolico di faustiana memoria. De Medici è abile nel non cadere nel ridicolo. Suggerisce ma non mostra mai, fa comprendere senza sbandierare soluzioni macchiettistiche. Il diavolo c'è, si capisce, ma non emerge mai. Nonostante la copertina (dello stesso De Medici), scordatevi visioni degne della tradizioni folkloristica. Non siamo in un romanzo pulp, piuttosto in un'opera che guarda alla letteratura classica pur se orientata sul versante esoterico. L'acquisizione di un braccialetto magico è la via attraverso la quale risollevarsi dai fondali del disastro economico. Da quel giorno in poi, come per il protagonista de L'Homme Qui a Vu Le Diable (“L'Uomo che Vide il Diavolo”) di Leroux, ha inizio la risalita economica di Trevi, incapace di perdere al gioco. Dapprima nelle bische, poi nelle case da giuoco italiane e infine nei grandi casinò d'Europa. Trevi diventa famoso nell'ambiente quale giocatore imbattibile, una situazione che lo porta a essere avvicinato da donne amanti dei portafogli. È solo una parvenza di ripresa, l'uomo intende vendicarsi sull'umanità, tiene condotte in cui porta alla rovina i soggetti con cui si trova a incrociare il destino, ma presto comprenderà che la vera ricchezza che si possa possedere è l'anima. Timoroso di ardere nelle fiamme dell'inferno, ha luogo la terza fase del romanzo, la redenzione, il desiderio di riportarsi sulla retta via. Un po' come avvenuto in vita a Huysmans, Trevi si genuflette al cospetto del crocifisso, invoca la Beata Vergine Maria, rifugge ai vantaggi diabolici. Si converte, in altri termini, alla fede cattolica. Zimzerla, che si scoprirà poi essere Gomoria (il demone che, sotto le sembianze di donna, aiuta i disperati nella ricerca dei tesori nascondi indicando la formula che fa vincere a tutti i giochi), gli sta sempre vicino, evidenziandogli i vantaggi materiali. Non contenta porta il caos nella periferia grossetana, complici i modi barbari e retrogradi di un volgo definito “demente” dall'autore, con un epilogo che ricorda molto il finale de La Notte di Valpurga (1917) di Meyrink.

Dunque un romanzo poco originale, ma narrato in modo sfarzoso, aulico, eppure di facile lettura e anticipatore di soluzioni che si rivedranno ne Il Club Dumas (1993), quali la biblioteca satanica, il libro rilegato in pelle umana e la presenza di una giovane donna demone, che funge da mentore e seduttrice di un uomo che è sul cammino della perdizione, oltre che il finale purificatore tra le fiamme. De Medici dimostra attitudine al genere fantastico, ma anche all'erotico d'autore. Gaetano Trevi è una sorta di suo alterego. Sembra che il crollo finanziario che lo conduce nelle maglie dell'occultismo sia simile a quello che colpì De Medici, titolare di un'Impresa di concimi catalitici dichiarata fallita. Interessante il racconto della distruzione di un villaggio di campagna maremmano per mano dell'ira divina, discesa per punire i libertini cittadini dediti a sedute collettive di sesso sfrenato. Plauso quindi alla Cliquot che, due anni dopo, ha dato alle stampe anche l'antologia I Topi del Cimitero – Racconti Crudeli, collage di quattordici racconti firmati De Medici e dati alle stampe nel 1924, proseguendo in un'azione di recupero che è, a dir poco, lodevole. Si spera che operazioni del genere, si ricorda anche la recente uscita de Il Vampiro. Storia Vera (1869) di Franco Mistrali per la casa editrice Arcoiris (collana La Biblioteca di Lovecraft, 2020), possano essere utili a spingere al recupero di una narrativa esoterica sepolta che, nella prima parte del novecento e nel tardo ottocento, era particolarmente florida in Italia.


Vignetta di Carlo H. De Medici, disegnatore oltre che
saggista e scrittore.

"Egli non ammetteva che si potesse considerare un essere come Uomo se non vagliando lo sviluppo della sua intelligenza. Tutti coloro che non avevano saputo trasformare quella materia grigia da volgare cervello in mentalità; tutti quelli che si pretendevano evoluti e coscienti senza capire che la coscienza non si acquista che dopo una vita di studio, di meditazione e di sforzi necessari per affinare la mentalità in una genialità, non erano che feti vegetanti, creature ignorabili e nulle degne solo di essere sfruttate come un bove."



sabato 15 agosto 2020

Recensione Narrativa: IL GIOIELLO DELLE SETTE STELLE di Bram Stoker,



Autore: Bram Stoker.
Titolo Originale: The Jewel of the Seven Stars.
Anno: 1903.
Genere: Esoterico.
Editore: Uscito in quattro edizioni (1991-98)
Pagine: 320.
Prezzo: fuori commercio.

A cura di Matteo Mancini.
Quella che stendiamo qua è una recensione superficiale, essendo il sottoscritto chiamato a procedere nello sviluppo e nell'analisi del testo per il numero cinque della rivista Zotique della Dagon Press di Pietro Guarriello, per la quale realizzerò un ampio dossier legato a Bram Stoker e alla sua produzione.

The Jewel of the Seven Stars è l'opera più esoterica e occulta realizzata dall'autore reso celebre dal successo di Dracula. La pubblica nel suo momento migliore, per quanto concerne la verve fantastica, probabilmente agevolato dall'adesione all'ordine esoterico della Golden Dawn (società segreta in cui la cultura egizia era fulcro di studio). Il volume esce, nella sua prima edizione, sei anni dopo il Dracula. E' un testo in cui Bram Stoker investe molto. Lo fa in termini di tempo, al punto da modificare negli ultimi giorni della propria vita il finale, con una smielata happy end, a nostro modo di vedere, di caratura assai inferiore rispetto al primo finale adottato. Ma soprattutto lo fa nel ricreare il coacervo culturale legato alle tumulazioni dell'antico Egitto, con particolare cura per i simbolismi, le trappole volte a dissuadere i tombaroli e per l'attenzione dell'epoca ai rapporti con le costellazioni e i rituali esoterici funzionali a garantire la rinascita. Ne viene fuori un'opera complessa, dotata di molti profili di analisi. Oltre all'innegabile apporto esoterico, The Jewel of the Seven Stars si inserisce in quel solco tracciato dal gran maestro Robert Louis Stevenson, si pensi a The Strange Case of Dr.Jekyll & Mr.Hyde (1886), e poi ripreso dal più moderno Herbert G. Wells (altro adepto Golden Dawn), che vede nel darwinismo un male anziché un bene, così come il progresso sociale viene visto quale regresso rispetto all'antica saggezza in cui la magia era l'ars regia e l'astrologia una scienza. Stoker, di fatti, partendo dalla grandezza della millenaria cultura egizia , di cui suggerisce qualità addirittura fantascientifiche andate perdute, muove un'aspra critica al progresso scientifico e soprattutto allo smarrimento culturale della società inglese, ormai uscente dal periodo vittoriano e a caccia di una nuova identità. Un'analisi aspra e cruda che non salva neppure le convinzioni religiose e il monoteismo legato al dogma della presenza di un unico Dio. I protagonisti di Stoker sono ricercatori di verità, sono critici e cercano, per tale via, di fungere da sprono sociale e soprattutto da profeti di un mondo sommerso che qualcuno si ostina a non voler riconoscere.

Rispetto al Dracula, il romanzo scorre meglio, ha un brillante inizio che ricorda molto lo stile di Arthur Conan Doyle, di cui Stoker era grande amico nonché socio, tanto da aver firmato a quattro mani con lui alcuni volumi (si veda The Water's Mou del 1895). Non ci sono preamboli, si parte subito in quarta con una scena che sembrerebbe quella propria di un giallo. Un collezionista di reliquie dell'antico Egitto viene trovato dalla figlia riverso a terra in una pozza di sangue. E' solamente ferito, ma presenta un incomprensibile stato di catalessi che lo sottrarrà dalla coscienza per quattro giorni. Sul posto giungono avvocati, poliziotti, medici e maggiordomi, ognuno con la sua tesi e il suo carico di sospetti, pronto a venire a capo di un mistero che, a un certo punto, con la scomparsa di un lotto di lampade datate 5.000 anni, anticipa persino il sottofilone delle camere chiuse di cui Gaston Leroux (si pensi a Il Mistero della Camera Gialla, 1907) e John Dickson Carr diverranno abili maestri (ovviamente anticipati da sua maestà Edgar Allan Poe). Tra l'altro Stoker, grazie al ricorso di una mano, dotata di sette dita, capace di muoversi libera dal corpo fungerà da ispirazione anche a quel William Fryer Harvey di recente rispolerato dalle edizioni Hypnos di Milano (si veda The Beast With Five Fingers, 1928). Il giallo però, a poco a poco, lascia campo a un fantastico in cui la magia, lo spiritismo e soprattutto la spiritualità e l'idea del corpo astrale andranno sempre più a prendere piede, con una mummia di un'antica regina (più verosimilmente una stega) pronta a liberare lo spirito che trattiene al fine di risorgere, secondo i protagonisti dell'esperimento che si andrà a organizzare, per rivelare i misteri dell'aldilà e, al contempo, dell'antica cultura egizia. Assolutamente da non perdere il primo finale, quello originale, che presenta un pathos, un tatto (apoteosi del romanticismo e dell'eleganza stokeriana) e un'atmosfera psichedelica degna dei migliori autori di fantastico.

Testo non semplice, tendente a divenire pesante nella parte centrale (tallone di achille dell'autore quando affronta la lunga distanza del romanzo), sebbene Stoker tenti di ravvivarlo con flashback intrisi di azione e morte, ma anche con passi di libri che apriranno la strada alla comprensione di quanto il lettore e lo stesso protagonista (un avvocato, tra l'altro consigliere privato della Regina d'Inghilterra) si troveranno a dover affrontare. A un certo punto, a circa tre-quarti di storia, Stoker piazza un capitolo che sembra estratto da un saggio sull'antico Egitto, con elucubrazioni, supposizioni e interpretazioni opinabili che spezzano il ritmo e non si rivelano molto digeribili al lettore comune.
Non manca il romanticismo, all'insegna dell'infatuazione amorosa da colpo di fulmine, che caratterizza tutti i romanzi dell'autore. Stoker pone sempre al centro dei suoi romanzi la componente sentimentale, con un protagonista, di solito un borghese, che si trova a muoversi in contesti nobiliari o comunque, come qua, legati all'alta finanza.

Il romanzo è uscito in Italia in quattro versioni, a partire dal 1991, che hanno coinvolto Rizzoli, Mondadori e Newton. Il sottoscritto ha letto quest'ultima edizione, quella originale e non interessata dal secondo intervento dell'autore. Dovrebbe esser stato pubblicato anche in versione modificata con un epilogo, mi pare di capire, smielato che rovina molto, a mio modo di vedere, l'atmosfera occulta ed esoterica propria di uno spirito che di benevolo ha ben poco e che tiene fede al nome della valle (La valle della strega) in cui lo splendido corpo che gli forniva veicolo per muoversi in società era stato tumulato.

The Jewel of the Seven Stars è dunque un romanzo notevole a livello di soggetto, che soffre di uno sviluppo a tratti ripetitivo e per altri lezioso, intriso di simbolismi, date, giochi continui sui numeri, riferimenti astrali, posizionamento specifico di oggetti, il tutto in un costante ritualismo che rischia di far perdere per strada i lettori meno accorti. Non è una lettura consigliata ai bambini né ai lettori svogliati o facili alle distrazioni. Dopo Dracula, è il miglior romanzo di Bram Stoker. Nettamente superiore agli altri testi, salvo alcuni racconti giostrati sulla breve distanza. Come direbbe Guido Meda: Stoker c'è!



mercoledì 12 agosto 2020

Recensione Narrativa: RACCONTI AL TRAMONTO di Bram Stoker.


Autore: Bram Stoker.
Titolo Originale: Under the Sunset.
Anno: 1881.
Genere: Fiabe/Horror.
Editore: Lit Edizioni, 2017.
Pagine: 150.
Prezzo: 14,50 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Uscito nel 1999 col titolo de Il Paese del Tramonto per Stampa Alternativa e riproposto diciotto anni dopo dalla Lit Edizioni, Under the Sunset è il primo libro fantastico firmato da Bram Stoker, che lo pubblica a trentaquattro anni, sedici anni prima di conquistare quella notorietà che lo avrebbe elavato all'autore horror più famoso dell'ottocento grazie all'uscita di un romanzo: Dracula.
Ho recuperato il volume a seguito del dossier che mi è stato commissionato dalla Dagon Press per la rivista Zotique, il cui quinto numero sarà dedicato a Bram Stoker. Dunque ci limitiamo qua a una brevissima analisi, rimandando per i dettagli alla carta stampata.
E' un Bram Stoker atipico quello che troviamo in questa piccola raccolta, sia per stile che per tematiche. Otto storie incastonate in un mondo altrove, sospeso ai confini dell'orizzonte e il cui accesso è custodito da una coppia di angeli incaricati di tenere all'esterno gli emissari del male. Un contesto che permette all'autore e ai giovani lettori di sognare, ma che, tuttavia, non si discosta troppo dalle città della vita di tutti i giorni. "Questo paese è come il nostro" si spiega nel primo elaborato, Il Paese del Tramonto, avente la funzione di delineare il contenitore all'interno del quale si consumerà il resto dell'antologia.
Il fil rouge che lega le storie è proprio l'ambientazione sospesa nel tempo e nello spazio, in cui si rinnova l'eterna battaglia tra bene e male, visti con un'accezione positiva perché il male ha la funzione di permettere all'uomo di ricordarsi del bene ("senza oscurità non c'è paura dell'invisibile; ma neanche l'oscurità della notte può spaventare se c'è luce nell'anima"). Stoker carica i racconti di spiccate valenze allegoriche, rivolgendosi soprattutto ai bambini. Molti gli aforismi che si possono ritagliare dai racconti, a farne un testo nel complesso intriso di saggezza anche se non poi così memorabile per gli intrecci.

Alcuni dei racconti, quali Come 7 Perse il Senno, Gigli e Bugie e Il Bambino Prodigioso, sono estremamente infantili e si propongono, in chiave semplice e fantastica, di offrire insegnamenti ai più piccoli quali l'essere studiosi, onesti e amorevoli; altri elaborati, quali a esempio Il Castello del Re della Morte, Il Gigante Invisibile e Il Principe della Rosa si caricano di connotati più aulici, all'insegna di quel sense of wonder che delizia i palati anche dei più grandi. Stoker parte sempre da una panoramica generale per poi andare sviluppare la storia. Il suo stile è leggero, assai più veloce rispetto ai cliché con cui si farà conoscere in occasione di Dracula (1897) e degli altri romanzi, così come la sua fantasia è più libera di correre, plasmando avventure metaforiche in cui si premia la perseveranza, l'altruismo e il confidare in una divinità superiore che tutto guarda e tutto risolve. "Seppe che se la vittoria fosse stata sua non sarebbe stato grazie alla forza del suo braccio o al coraggio del suo cuore, ma perché questa era la volontà di Colui che governa l'universo."
Per tale via, con la semplicità dei grandi, Stoker regala inattesi gioiellini che rendono il libro, sicuramente considerato tra i minori della produzione stokeriana, degno di esser recuperato. Ne Il Gigante Invisibile, si affronta in chiave fantastica, la tematica di un'epidemia che ricorda l'infausto periodo che stiamo attraversando in questo anno tribolato, con tutti gli atteggiamenti sociali che si riscontrano ancora oggi ("Ridevano all'idea dell'esistenza di altri giganti, e non li temevano perché non li vedevano. C'era chi diceva: «di cosa dovremmo avere paura? Se anche ci fossero stati dei Giganti in passato, non ce ne sono più»"). Il Principe della Rosa ripropone in chiave fantasy la parabola di Davide che sconfigge Golia, ma lo fa grazie alla fede in Dio e non all'arte della guerra. Il Castello del Re della Morte fa venire in mente l'odissea de L'Ultimo Cavaliere di Stephen King, con un protagonista disperato per la morte della moglie e disposto a vagare, in un deserto popolato di bestie e flagellato dal sole, pur di poterla riabbracciare, alla caccia di un castello che non si vede mai e che si dice sia la magione in cui finiscono tutti coloro che hanno cessato di vivere.
Fantastico puro Il Costruttore di Ombre, in cui l'amore materno vince la morte e riporta in vita un giovane defunto in un'isola disabitata.

Dunque un fantastico che si rivolge ai bambini ma che non disdegna nell'offrire qualche gioiello capace di deliziare anche i più grandi. Gradevole lettura, ma assai distante dallo stile dello Stoker più maturo.

L'edizione della Lit propone una raffigurazione iniziale (di Francesca Rossetti) per ogni racconto, ma è priva di introduzione o contenuti saggistici. Non so se poi sia una copia difettosa quella a me inviata, ma la copertina del mio volume si è completamente scollata fin dalla prima lettura. Un difetto, questo, che non fa certo simpatia.

Un'edizione americana
del 1978.

"L'unica cosa la cui bellezza dura all'infinito è un'anima giusta e pura."


venerdì 31 luglio 2020

Recensione Narrativa: X COME OCCHI di Laird Barron.



Autore: Laird Barron.
Titolo Originale: X's for Eyes.
Anno: 2015.
Genere: Modern Weird (fantascienza + weird + black humor + spy story + pulp tarantiniano).
Editore: Edizioni Hypnos, 2016.
Collana: Visioni.
Pagine: 96.
Prezzo: 8,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Torniamo a presentare Laird Barron, giovane promessa del new weird già insignita di importanti attestati quali lo Shirley Jackson Award e il Bram Stoker Award e da noi analizzato in occasione della proposta della Mondadori del romanzo La Cerimonia (in precedenza pubblicato dalla Hypnos). Questa volta, lo scrittore che vive ai confini del mondo, nella glaciale Alaska, prende per mano i lettori per “proiettarli” ai confini dell'universo, dove un potente extraterrestre dalle forme impalpabili vive immobilizzato e annoiato, guardando all'uomo e i tanti mondi che costellano il buco nero che ci sovrasta alla stregua di uno scienziato che, tra uno sbadiglio e l'altro, spia dalla lente di un microscopio. Torna la tematica lovecraftiana, e prima ancora dunsaniana, dell'uomo zimbello di creature extraterrestri superiori proposte quali veri e unici Dei del creato che nutrono ben pochi interessi verso l'uomo. Più che ancora nel precedente romanzo, l'asso dell'Alaska plasma il mondo weird delle origini, chiamando in causa anche Azathoth (mitica divinità del pantheon lovecraftiano), perché così viene chiamato impropriamente l'essere spaziale dal momento che “ama Lovecraft e ci esplora attraverso le distorte narrazioni dell'autore.” Il fine viene tuttavia perseguito con uno sviluppo tutt'altro che lineare, ma soprattutto con caratterizzazioni e personaggi del tutto fuori dalle righe. Ne emerge uno stile piuttosto intricato, che richiede almeno due letture per poter cercare di incasellare tutti i riquadri del grande puzzle ideato dalla magia della penna. Inoltre il tutto è intriso di un'ironia che va ben oltre il grottesco, sconfinando in un black humor difficilmente dimenticabile

X's for Eyes, tradotto dalla Hypnos “X Come Occhi”, è un romanzo di anti-formazione, se mi concedete l'espressione, che vede due fratelli figli di papà, di dodici e quattordici anni (e mezzo, ci tengono a precisare), comportarsi alla maniera di due quarantenni tamarri: guidano una spider, tracannano scotch, fumano Old Gold, si muovono con al seguito il fucile da caccia del padre e si “ingroppano” prostitute del night, ma non solo... anziché andare a scuola come tutti i ragazzini classe 1942 (anno di nascita del più grande), frequentano i corsi che un tale Sifu Kung Fan, chiamato col poco rassicurante soprannome de “La Morte dai Mille Tagli” (sorta del derivativo tarantiniano Pai Mei), tiene in Himalaya presso “Il Tempio del Leopardo delle Nevi”, sorta di organizzazione che richiama “La Tana delle Tigri” del cartoons giapponese. Qui “un allievo su tre finiva per soccombere, spesso con dipartita favolosamente orribile”. “Sifu Kung Fan è uno dei più turpi e malvagi disgraziati che abbia mai calpestato il suolo di questo pianeta” si dice. Un sorta di X's for Mister, passatemi la battuta. I suoi corsi prevedono “ginnastica sopra voragini senza fondo; istruzioni in metodi avanzati di avvelenamento che includono l'essere avvelenati; sotterfugi da maestro che comprendono tentativi di assassinio nei confronti degli allievi”, il tutto in un clima polare in cui la fame strizza le budella, gli scontri sono all'ultimo sangue e le torte di riso sono presentate con un lieve e dolce strato di curaro a velo.

«Plissken, che cosa stai facendo?»
Il citazionista LAIRD BARRON.

Capite già da questo quanto il gusto per le contaminazioni di Barron sia qua espresso alla massima potenza. Eppure non basta... perché il "nostro", al weird e al pulp tarantiniano, aggiunge una sorta di cyberpunk ante litteram (con omaggi anche a Terminator, La Mosca e Johnny Mnemonic) innestato su una fantascienza impossibile (dato che la storia è ambientata nel 1956) fatta di sonde spaziali programmate per fare un giro di diciotto mesi attorno a Plutone e ritorno, frammenti di memoria hardware che si fondono alla carne umana, guerre corporative tra multinazionali che si spiano a vicenda, organizzazioni di invasati religiosi che inneggiano verso il mistero stellare, computer che modulano il loro linguaggio in parola e si esprimono verso i protagonisti trovando soluzioni alla maniera di Kitt in Supercar... E poi sparatorie, sangue a ettolitri, carrellate di morti, inseguimenti aerei in contesti scenografici mozzafiato (siti neolitici) e fughe in profondità artiche, in cui si piomba avvinghiati dentro un bob sparato in cunicoli alla maniera dell'introduzione sul campo di battaglia dei concorrenti de L'Implacabile - Running Man, dove affiorano portali alieni protetti da energia extraterrestre, con sovietici e americani che si contendono la scoperta venendo beffati dai due fratellini terribili. Sono i due "cazzari", in mezzo a dottori, scienziati, militari e sapienti, a perforare il campo magnetico, grazie ad alcune “sillabe profane” di origine aliena, comunicate attraverso "il tempo del sogno" (una tecnica che potenzia il subcosciente che costituisce, a sua volta, una porta per l'infinito), che provocano l'esplosione delle teste di chi le ascolta (Cronenberg docet).

Insomma, un gran bel polpettone che Barron riesce a portare a casa con una spiccata dose di esperienza e un sapiente mestiere nel condensare un materiale che avrebbe potuto debordare in un romanzo interminabile. Cinema, narrativa weird e persino poesia, con i continui rimandi a The Emperor of Ice-Cream pubblicato nel 1922 da Wallace Stevens, si miscelano tra loro in un “anda e rianda” esilarante, in cui niente si prende sul serio, persino il tempo e lo spazio, e che, eppure, regala alcuni capitoli degni del weird delle origini (penso a La Casa sull'Abisso di Hodgson) e induce a pensare, in chiave metaforica, a una realtà assai più orribile di quella che potrebbe sembrare.
Un sole nero dominava l'orizzonte sopra i monti appuntiti come spine. Il suo disco ingoiava un buon terzo del cielo. Un ribollente tremolio di fiamme illuminava l'orlo della circonferenza. Ciò che restava della volta celeste fuggiva via incurvandosi in un nero senza stelle, fra screziature rosa dello stesso colore dei capezzoli di una regina del burlesque che gli era capitato di conoscere...” questo lo scenario che si para davanti a uno dei due protagonisti, nel momento in cui si trova proiettato nello spazio, su un mondo al di là in cui viene inseguito dai tanti profili deformi del suo stesso essere ("sono il flagello della tua esistenza"), mentre dall'alto il Dio dell'universo lo scruta e gli parla, alla maniera di un demone che propone accordi di natura faustiana. 

X Come Occhi, pubblicato nel 2015 e subito edito, sul finire del 2016, da Hypnos, si presenta quindi quale novella di formazione o, meglio ancora, quale iniziazione all'alta società di una coppia di figli di papà che scoprono, attraverso una serie di assurde avventure, le nefandezze della propria famiglia e come questa sia riuscita a tenersi al vertice delle politiche mondiali. Spettacolare la parte con tutti gli ascendenti di famiglia che popolano, con le loro teste staccate dai corpi, “il cratere sul monte dell'inferno” tra arpie, ciclopi, streghe e atti di cannibalismo rituale.

Prova dunque superata per Laird Barron. X Come Occhi, pur presentando qualche errore di battuta (egregio comunque il lavoro, tutt'altro che semplice, di traduzione e adattamento firmato Andrea Bonazzi), è la miglior novella inclusa nella collana Visioni, forse quella a cui più si adatta l'espressione di modern weird. Storia folle che prende le mosse dalle origini del genere, modernizza il taglio pulp aggiornandolo ai cliché del duemila e va a toccare, con ilarità e uno scatenato stile orientato al grottesco, tematiche tutt'altro che fantascientifiche e che regolano i rapporti di vita comune, proponendo ancora una volta quell'immagine lingottiana (Thomas Ligotti è un autore di cui Barron costituisce ideale prosecuzione) di uomo (o meglio politico) burattino di entità superiori che, tra organizzazione segrete e multinazionali di ogni sorta, manovrano il tutto nell'ombra e nell'anonimato più assoluto.

La copertina americana del romanzo.

"I mortali esistono nel nostro dominio come coscienza fornita di sostanza. I sogni danno l'illusione della carne; i vostri corpi fisici sono stati distrutti istantaneamente dallo ziqqurat. Da particelle infinite, voi verrete rigenerati."

mercoledì 8 luglio 2020

Recensione Narrativa: I RACCONTI DELLA BESTIA di Aleister Crowley



Autore: Aleister Crowley.
Curatori: Jacopo Corazza & Gianluca Venditti.
Anno: 2019.
Genere: Antologia horror.
Editore: Edizioni Arcoiris.
Collana: La Biblioteca di Lovecraft.
Pagine: 146.
Prezzo: 13,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Volume destinato a diventare una punta della collana La Biblioteca di Lovecraft per le Edizioni Arcoiris di Salerno, ma soprattutto per il duo fiorentino composto da Gianluca Venditti e Jacopo Corazza che ne sono i curatori e ideatori. Erano decenni che si attendeva una proposta del Crowley narratore di racconti brevi. Nel mio piccolo avevo cercato di incentivare un'opera del genere, vedendovi in prima battuta un doveroso tributo a una figura che, al di là delle provocazioni e dei suoi vezzi discutibili, è da ritenersi una pietra miliare nell'ambito della narrativa fantastica ed esoterica, e, in seconda battuta, intuendo una presa sotto il profilo commerciale non certo da trascurare. Purtroppo, vittima di un ingiustificato ostracismo, "la grande bestia", come amava autodefinirsi, non era mai stato tradotto in Italia, se si eccettuano due racconti proposti - in anticipo di alcuni mesi rispetto al volume dell'Arcoiris - dalla Hypnos, il romanzo La Figlia della Luna edito nel 2005 dalla Arktos e, ovviamente, i testi più impegnati di magia (Magick su tutti).
Dunque questo recensore non può che lodare oltremisura l'iniziativa della casa editrice di Salerno che viene così, seppur parzialmente, a coprire una falla che non aveva motivo di esistere.

Esoterista, scalatatore di montagne, scrittore, poeta, pittore, agente segreto di sua maestrà britannica, inventore di un nuovo credo, affiliato a ordini massonici (prima tra tutti la Golden Dawn), operatore di magia rossa, questo e altro era Aleister Crowley, vera e propria icona maledetta del novecento. Personaggio capace di ispirare romanzi e opere di maestri della letteratura mondiale quali Maugham, Hemingway, Pessoa, oltre che diventare un mito per l'hard rock e l'heavy metal, al centro di capolavori firmati Led Zeppelin, Iron Maiden e Ozzy Osbourne (che a lui dedicherà il celebre pezzo Mr. Crowley), nonché della cinematografia.
Perché allora un personaggio di tale caratura è stato così bistrattato nella nostra penisola? Verrebbe da dire per bigottismo e per l'incapacità di scindere l'uomo dall'artista o comunque dall'operatore di magia, spesso e volentieri associata (a torto) col satanismo. Crowley è stato un seccente, uno squallido opportunista che usava le donne per piaceri sessuali, dilapidatore di capitali, personaggio indesiderato da stati esteri (fu cacciato dall'Italia), cocainomane, implicato in operazioni sempre ai limiti del lecito dove talvolta si sono pure verificate morti sospette, nonché provocatore e organizzatore di scherzi prossimi al procurato allarme. Insomma, Aleister Crowley era un qualcuno a cui piaceva attirarsi le attenzioni e che sapeva calamitare l'opinione pubblica in ossequio al motto per cui non importa che se ne parli bene o male, purché se ne parli.

Quanto sopra non interessa e non deve interessare, se non per tracciarne un profilo, a uno studioso o a un appassionato di narrativa. I Racconti della Bestia è una raccolta non ufficiale, realizzata, pescando tra i circa sessanta racconti dell'autore, dai curatori in funzione del loro gusto personale. Il volume dimostra a chiare note le qualità narrative, clamorosamente sottostimate, dell'autore. I dieci racconti presentati, molti dei quali pubblicati postumi, evidenziano un'illuminata capacità nel costruire un'atmosfera allucinata ed estraniante, spesso prevalente sull'intreccio. Luca Baldoni, traduttore dei racconti, ha dovuto metterci del suo per rappresentare la verietà lessicale inseguita dall'autore. Prosa prossima alla poesia, linguaggio ricercato e frasi brevi e secche costituiscono il marchio di fabbrica di Crowley. Salvo un paio di eccezioni, i racconti sono fulminei, piccoli quadri resi dinamici dall'arte della parola. Ne emerge la visione di un Crowley sadico, contraddistinto da un'ironia macabra tendente al black humor. Spicca anche l'innegabile componente narcisistica che lo caratterizzava, ne è un esempio l'ottimo At The Fork of The Roads (Al Bivio, 1909), in cui Crowley beffeggia un personaggio che rimanda al Premio Nobel per la letteratura William Butler Yeats, suo antagonista per la direzione della Golden Dawn. Crowley, non senza arroganza (che però fa simpatia, concedetemi di spezzare questa lancia in suo favore, data l'importanza monumentale del personaggio attaccato), parla di "poetastro, mago dilettante" affetto da una "cupa gelosia per un uomo più giovane e di gran lunga miglior poeta." Come si fa a non trattenere il sorriso di fronte a tanto ardimento, coraggio e intraprendenza? Il confronto tra Yeats e Crowley, ovviamente, è tutto in favore dell'irlandese, eppure il magus dimostra di non essere uno sprovveduto. Il Bivio, pur nella sua pomposità, è un autentico gioiello che tratta di magia nera con punte di un sadismo che sconfinano nella necrofilia e nello splatter. La parte terminale del racconto è eccezionale e di spaventosa presa onirica. Spiriti ectoplasmatici, fatture e contro fatture sono al centro del narrato. Sempre sulla magia nera, con un'evocazione satanica stimolata dal sapiente pizzicare delle corde di un violino, è The Violinist (La Violinista, 1910). Testo criptico che giunge alle porte dell'ipnotismo, carico di rilievi simbolici non di facile presa. Una donna, sembra l'amante di Crowley, evoca un succubo suonando davanti a un grande pannello a mosaico formato da quadranti su cui sono riportate lettere di una lingua sconosciuta, così da formare una partitura impossibile per la mente umana.
Legato a un orrore più convenzionale, eppur intriso di un sadismo compiaciuto e di una blasfemia di fondo che rimanda al Cristo, è The Vixen (La Volpe, 1911), storia di una licantropia molto particolare che si innesta in una competizione tra due donne che pretendono di conquistare l'amore del medesimo uomo.
Piomba nella crudeltà più profonda l'atmosferico A Masque (In Maschera, 2010), racconto riscoperto nel 2010, in cui la magia e il romanticismo di un amore in riva al mare si trasformano nel più bieco degli omicidi. Un essere mostruoso, un nano peloso, irrompe nella casa della donna che lo ama, una creatura di fascino quasi mariano, per attendere la nascita del proprio figlio, così da "tirargli il collo come una gallina e gettarlo contro il muro." Non avrà miglior sorte l'amata, penetrata da una coltellata nel ventre, mentre il crocifisso appeso al muro cade a terra nel segno della sconfitta del Dio dei cieli. Il racconto fa da contraltare al romantico The Color of my Eyes (Il Colore dei Miei Occhi, 2010) sorta di fantasy in cui Dio disquisisce con l'arcangelo Sandalfon i misteri della creazione.

Se i cinque racconti sopra menzionati sono forse i più interessanti per la capacità di scioccare il lettore e di colpirlo allo stomaco o, anche, di impressionarlo per il sense of wonder, rientrano in schemi più classici e prossimi al giallo The Face (La Faccia, 1920) e Robbing Miss Horniman (Il Furto della Signorina Horniman, 1918). Nel primo dei due racconti, il più riuscito ed elegante, un medico cinese offeso per esser reputato di razza inferiore rispetto a quella europea, e dunque inadatto a sposare una ragazza scozzese che ha preso una cotta (corrisposta) per lui, organizza una tremenda vendetta inducendo i suoi calunniatori a ucciderlo sotto ipnosi, così da macchiarli a vita quale corrispettivo della offesa ricevuta. Questo perché un cinese "deve salvare la faccia anche a costo della morte, ma si rifiuta di ferire gli altri." L'altro racconto è una macchinosa avventura, all'insegna dell'astuzia, ordita da più soggetti in contemporanea per sottrarre una collezione di diamanti a una donna inferma.

Gli altri tre racconti appaiono più allucinati, ma dimostrano la verve di un poeta del macabro. Illusion d'Amoreux (1909) è la delirante invocazione di una donna che pretende di copulare con un Dio nero che la condurrà all'annichilimento. The Soul Hunter (Il Cacciatore di Anime, 1910) è il pazzesco diario di un mad doctor che compie sperimentazioni sadiche su una cavia umana allo scopo di sottrarne l'anima e capirne la natura.Which Things are an Allegory (Queste Cose sono un'Allegoria, 1990) è una critica alla società inglese che intende mostrare su uno stesso piano personaggi squallidi e quelli considerati autorevoli per dire che, alla fine, siamo tutti uguali.

Tutto questo fa de I Racconti della Bestia una delle uscite più attese e degne di menzione tra tutte quelle pubblicate dall'editoria del fantastico tra il 2019 e il 2020, portando i riflettori degli appassionati sui cataloghi, ancora in formazione, de La Biblioteca di Lovecraft.
Un ultimo cenno per l'edizione, che predilige la velocità e il formato tascabile ai volumi Mammut. Raffigurazioni interne e una quarta di copertina assai ispirata amplificano le sensazioni positive. Manca forse un'analisi sull'autore in premessa, ma su questo si può ovviare ricorrendo ad altri testi. Si spera che il connubio Crowley-La Biblioteca di Lovecraft possa continunare, magari con la proposizione in italiano delle avventure dell'indagatore dell'occulto dell'autore ossia Simon Iff.

Volume da avere in biblioteca e destinato a divenire oggetto da collezionisti.

ALEISTER CROWLEY

"L'anima non è che una parola, una parola vana - un campo di battaglia per gli stolti filosofi, gli stolti teologi. Un giocattolo. Ma la consapevolezza? E' questo che intendiamo quando diciamo anima, noi altri. Nel dopo dobbiamo ben vivere da qualche parte. Ma è forse, come pensava Descartes, atomica? Oppure fluida, ora qui, ora là? O è solo una parola per la totalità della sensibilità corporea? Come supponeva Weir Mitchell. Bene, vedremo."




martedì 7 luglio 2020

Recensione Narrativa: IL GIGLIO NERO a cura di Jacopo Corazza & Gianluca Venditti



Autore: AA.VV.
Curatori: Jacopo Corazza & Gianluca Venditti.
Anno: 2020.
Genere: Narrativa Nera.
Editore: Edizioni Arcoiris.
Collana: La Biblioteca di Lovecraft.
Pagine: 160.
Prezzo: 13,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Terzo numero della collana La Biblioteca di Lovecraft, progetto nato nel settembre del 2019, per il volere dei fiorentini Jacopo Corazza - noto DJ ed esperto di musica rock - e Gianluca Venditti, confluito poi nei cataloghi della salernitana Edizioni Arcoiris. Un'idea che ha portato, in quella che appare al momento una rigogliosa rinascita dell'editoria weird, al formarsi di un nuovo gruppo di appassionati/esperti intenzionati a sdoganare in Italia il fantastico d'autore con una filosofia orientata a guardare all'intero parco di potenziali acquirenti. La collana, infatti, si struttura in modo da proporre volumi destinati a un pubblico di neofiti e incentrati su quei racconti elogiati da Lovecraft, nel suo Supernatural Horror in Literature (1927), e, al tempo stesso, a riscoprire testi per un pubblico di nicchia finiti nel dimenticatoio o mai tradotti in italiano. Proprio in questa seconda chiave di lettura, sul finire del 2019, La Biblioteca di Lovecraft ha proposto la prima antologia italiana interamente dedicata ai racconti di Aleister Crowley, l'esoterista nero passato alla storia quale satanista più famoso del novecento. I Racconti della Bestia, questo il titolo dell'antologia (presto recensiremo il volume), è stato un atteso successo che ha acceso l'entusiasmo dell'editore e dei due personaggi alla base del progetto, così da far andare in cantiere altri quattro progetti al momento in attesa di pubblicazione ma già reclamizzati (uno dei quali dedicato alla narrativa consigliata da Lovecraft).

Il Giglio Nero è una raccolta di sei racconti, che potremmo definire macabri (piuttosto che weird o horror) per rendere più omogena la definizone, aventi valenza di tributo reso dai due curatori alla loro città del cuore: Firenze. "La terza uscita rappresenta un nostro umile quanto sentito omaggio alla nostra terra" confessano i curatori. Idea dunque carina, piuttosto originale e di sicura presa sul mercato locale, ma non solo in riferimento a esso. Corazza e Venditti, infatti, propongono due inediti affiancati ad altri quattro racconti assenti da un po' di tempo nelle antologie collettive messe in commercio dalle major. Inoltre, a due mostri sacri quali Horace Walpole e il "nostro" Luigi Capuana, vengono presentati autori non troppo reclamizzati neppure nell'ambito dei lettori di nicchia. Vengono infatti ripescati i vari Marghanita Laski, Wilhelm Hauff, Fergus Hume e Pearl Norton Swet.
Veste grafica elegantissima, col suo formato tascabile coloratissimo e denso di raffigurazioni e appendici utili a ricostruire il contesto storico degli elaborati via via proposti, l'antologia convince anche per la presentazione dei contenuti. Le traduzioni, tutte inedite e ben curate da un lotto di quattro traduttori, tra i quali lo stesso Gianluca Venditti, sono di grande qualità. Briose, mai pesanti, orientate a svecchiare testi risalenti all'ottocento o alla prima parte del novecento tanto da farli sembrare contemporanei. Ecco che Il Giglio Nero, pur nel suo essere legato a una narrativa classica del tempo che fu, si presta quale ideale libro da ombrellone. Poco impegnativo, di veloce lettura, scorre via fluido, calando storie truculente e cupe in territori insoliti per la natura degli scrittori. Così diviene estremamente curioso trovare Horace Walpole, il cosiddetto fondatore del romanzo gotico col suo Il Castello di Otranto (1764), impegnato a narrare la storia di un amore impossibile e tragico tra due giovani fiorentini, in quel di Pisa, durante la rivolta dei pisani, a fine 1400, incentivata dalla discesa in Italia di Carlo VIII di Valois. Il suo Maddalena or the Fate of Florentines (Maddalena o Il Destino dei Fiorentini, 1826), una vera e propria caccia all'uomo ai danni dei fiorentini (si noti che nel testo le scuole di Pisa e Firenze vengono elogiate da Walpole quali famose in tutta Europa), è un racconto postumo che, in precedenza, era stato pubblicato dalle Edizioni Tracce in un'antologia di nicchia intitolata Amori e Rovine. Racconti gotici dei maestri del genere (2000). Più che un testo gotico, si tratta di una storia romantica, dai risvolti tragici, incastonata in un clima di guerre sanguinolente, con arti squarciati a colpi di spada e volti insanguinati che lordano chiome e volti rendendoli irriconoscibili. A convincere, tuttavia, è il contesto storico-geografico che trasforma il tutto in un racconto "in costume" che ricostruisce un'epoca sepolta dal tempo e ricolloca Pisa al centro della nascita del romanzo gotico, come dimostrano anche il racconto Il Vampiro (1819) di John Polidori (origini pisane per via paterna) e il romanzo Frankenstein (1818) scritto da Mary Shelley ispirandosi agli esperimenti di un dottore pisano (Vaccà Berlinghieri). Il racconto chiude l'antologia per quello che è un vero e proprio testacoda guardando ai rapporti con Pisa (che di palle nel proprio stemma ne ha il doppio rispetto a quello dei Medici, concedetemi la precisazione). Tutto, di fatti, aveva preso le mosse con un racconto inedito in italiano intitolato The Tower (La Torre, 1955). Nulla a che fare con il mitico campanile di Piazza dei Miracoli, ma comunque una torre (chiamata del Sacrificio) anch'essa pendente, collocata alle porte di Firenze e, per giunta, realizzata da un artista in odore di magia nera (Niccolò di Ferramano). L'autrice, poco tradotta nella nostra landa, costruisce il testo più claustrofobico della collezione, tutto giocato sulle emozioni della protagonista e sulla sua paura del vuoto e del buio. Racconto allusivo, suggerisce un epilogo tragico ma lo lascia intendere solo al lettore più attento. Purtroppo l'elaborato prende le mosse da una premessa poco verosimile, che funge quale forzatura su cui costruire il resto. La protagonista, infatti, pensa bene di sfidare i 470 scalini che si inerpicano all'interno della torre quando ormai il sole sta per tramontare. Risultato finale? Semplice, si troverà a discendere nell'oscurità più pesta, perdendo punti di riferimento e sanità mentale.

E' invece ambientato, tra le altre location europee (Francia e Turchia), nel cuore di Firenze Die Geschichte von der Abgehauenen Hand (La Mano Mozzata, 1826) del teutonico Wilhelm Hauff. Elaborato proposto anche dalla Mondadori nel 1993, è un elegante giallo grandguignol dalla magica atmosfera. Un mercante turco, conosciuto anche quale medico, viene indotto in errore da un misterioso individuo, che vaga con un maestoso e sfarzoso mantello rosso nel cuore della città, a decapitare, dietro lauto compenso, una ragazza già deceduta o quantomeno così viene presentata all'uomo. Il racconto di Hauff è probabilmente il più interessante del lotto per quanto riguarda le valenze intrinseche, col suo epilogo moralizzante, sebbene mitigato da un finale che rende giustizia al protagonista, in cui si punisce quell'avidità dell'uomo che esorcizza ogni forma di ragionamento e rende cieca la vista.

Di caratura addirittura superiore La Redenzione dei Capilavori (1900) di Luigi Capuana, l'unico testo dotato di sense of wonder della collezione. Elaborato breve, ma sufficiente a brillare quale gustoso gioiello nell'orificeria di Venditti e Corazza. Si tratta di uno dei racconti più antologizzati dell'autore, sebbene assente da circa venti anni nelle varie novità editoriali. Costruito sull'idea che l'artista possa dotare le proprie opere di un seme germinale da cui soggetti particolarmente dotati possano, attraverso il magnetismo, conferire vita a quanto immortalato, La Redenzione dei Capilavori guarda in chiave originale alla produzione di Poe, E.T.A. Hoffmann e Oscar Wilde (l'epilogo è un omaggio al coevo Il Ritratto di Dorian Gray). Capuana però non si ferma a questo, ma colora il tutto con una presa di distanza dal materialismo scientifico e dall'incapacità dell'uomo pragmatico di sognare. "Più la scienza va avanti più diviene ignoranza... Ogni mistero schiarito ce ne mette subito innanzi parecchi altri e maggiori." Interessante l'idea che l'opera d'arte sia dotata di una scintilla vitale assimilabile a quella infusa da Dio nella creatura di fango dallo stesso plasmata. "Il pensiero umano, creando un'opera d'arte, non poteva agire diversamente dal pensiero divino che agisce nella natura.  Si trattava dell'identica forza creatrice con la sola differenza che il pensiero divino opera nella natura direttamente e indirettamente, per mezzo dell'umano organismo, nell'opera d'arte." Da qui arriva la provocazione (ma è anche una metafora che sottolinea l'immortalità del capolavoro che sopravvive al suo autore e alle generazioni che ne seguono) secondo la quale "tra quattro o cinque secoli, i veri capilavori di pittura e di scultura non esisteranno più, cioè non staranno più chiusi nelle gallerie, ma andranno attorno per il mondo, vivi, immortali e genereranno altri esseri, immortali al pari di loro." Il legame con Firenze qua è molto sottile, rispetto alle precedenti opere, ed è costituito dal quadro oggetto degli esperimenti, rubato dalla Galleria degli Uffizi.
Sulla stessa linea, ma meno interessanti, sono i restanti due racconti, entrambi incentrati su oggetti provenienti dalle famiglie fiorentine finiti, per diverse vie, in giro per l'Europa. In Hagar of the Pawnshop (Il Crocifisso, 1898), capitolo di un romanzo più ampio di Fergus Hume, un crocifisso racchiude al suo interno un pugnale che permette, senza destare sospetti, al suo possessore di vendicarsi della moglie e dell'amante della stessa proprio come successo in passato a Firenze al creatore dell'oggetto. Più orientato al fantastico, sebbene prevedibile in ogni suo sviluppo, The Medici Boots (Le Scarpette dei Medici, 1936) di Pearl Norton Swet, addirittura pubblicato a suo tempo su Weird Tales. Delle scarpette da collezione sono lo strumento attraverso il quale si diffonde una maledizione che spinge all'omicidio chiunque le calzi. Non si sottrarrà alla maledizione la giovane che cadrà nella tentazione di provarle.

Questo il contenuto de Il Giglio Nero, un'antologia interessante che propone Firenze e anche Pisa in un'ottica diversa da quanto siamo abituati a vederle ai giorni nostri e sparge un pizzico di mystery e granguignol che non sdubbia mai quando siamo alle prese con la narrativa nera. Pollice alzato.

Uno dei due curatori:
JACOPO CORAZZA.

"I toscani non credono se non nella realtà, specie in quella realtà, assai più reale e vera di quella fisica, che è lo spettro della realtà; tutta la vita terrena non è che lo spettro di quella infernale: la terra è popolata di spettri d'alberi, di monti, di uomini, di animali; ma i toscani sono i soli che abbian occhi per vederli." (da Maledetti Toscani, Curzio Malaparte).

sabato 27 giugno 2020

Recensione Saggi: LA MENTE DEL GATTO di Bruce Fogle.



Autore: Bruce Fogle.
Titolo Originale: The Cat's Mind.
Anno: 1991.
Genere: Saggio sui gatti.
Editore: Gruppo Editoriale Armenia (1999-2005).
Pagine: 288.
Prezzo: 16,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
PROSSIMAMENTE


L'autore BRUCE FOGLE
veterinario "con oltre 20 anni di esperienza"

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domenica 21 giugno 2020

Recensione narrativa TUTTO QUEL BUIO di Cristiana Astori.



Autore: Cristiana Astori.
Anno: 2018.
Genere: Giallo citazionista cinematografico.
Editore: Lit Edizioni Srl.
Pagine: 254.
Prezzo: 17,50 euro.

A cura di Matteo Mancini.
A distanza di quattro anni da Tutto quel Blu, torna Cristiana Astori col suo celebre personaggio Susanna Marino. Dopo aver scandagliato gli anni settanta e ottanta, la cacciatrice di pellicole perdute, una sorta di Lucas Corso italiano (il protagonista del romanzo spagnolo Il Club Dumas, esaltato dalla trasposizione cinematografica di Polanski intitolata La Nona Porta), regredisce alle origini del cinema, negli anni venti, nello sterminato e incompleto mondo del cinema muto. Si forma così un crocevia tra cinema horror dei primordi e letteratura, sviluppato, dall'ormai matura scrittrice piemontese, per effetto di un intrigo non così complesso ma sapientemente orchestrato, in un mix di giallo e narrativa del terrore. Susanna si trova a muoversi tra musiche ipnotizzanti plasmate dal lento incedere dei violini zigani, tra furti e omicidi che la vedono coinvolta e costretta a ripiegare su scantinati sotterranei che si muovono al di sotto della Budapest quotidiana, attorniata da personaggi ambigui e doppiogiochisti ma anche da apparizioni che rappresentano il graduale manifestarsi dei fantasmi delle epoche sepolte; epoche di morte, privazioni e cancellazione dei diritti umani.
La Lit Edizioni srl va così sul sicuro, scommettendo su un progetto ampiamente avviato e garantito nel suo successo dalla presenza di uno zoccolo duro di lettori pronti a fare calte false per accaparrarsi la nuova avventura di Susanna Marino (sembra tra l'altro che sia prossima l'uscita di un quinto volume). Ormai giunto al quarto capitolo, oltre un racconto pubblicato in un'antologia collettiva, la serie dedicata al cinema perduto espatria per tale via dalla Mondadori e, più specificatamente, dalla collana Il Giallo Mondadori, senza tuttavia subire battute di arresto.
Susanna si sposta in Ungheria, al soldo dell'ennesimo collezionista a caccia del gioiello perduto. Costruito su due piani temporali divergenti, uno ancorato ai tempi della pellicola ricercata e l'altro ai tempi odierni, Tutto Quel Buio si snoda nei meandri di una Budapest magica che ricorda, con i suoi ghetti ebraici e gli edifici diroccati, la Praga de Il Golem (1915) di Gustav Meyrink. Al centro della vicenda c'è un film ungherese, realizzato con maestranze austro-ungariche, ricordato quale il primo vero film tratto dal romanzo culto Dracula (1897) di Bram Stoker: Drakula Halala ovvero La Morte di Dracula. Un accostamento maledetto quello costituito tra il Dracula e il cinema. Realizzato nel 1920, il film è tuttora introvabile e oggetto di ricerche in giro per l'Europa. L'Astori ci ricama sopra e cerca di ricostruire la vita della misteriosa attrice Margit Lux, chiamata a interpretare la sposa di Dracula, vedendovi un'attrice di origine ebraica bruciata nella carriera e nella psiche da questo lavoro (non sarebbe l'unica attrice ad aver subito il fascino del male, permettendo allo stesso di insinuarsi dalla finzione alla realtà non riuscendo più a discernere tra le due e perdere così la retta via). In altri termini, la Astori ricorre alla figura di questa giovane ragazza sedicenne, che nella realtà non si sa chi fosse (secondo alcuni era uno pseudonimo di Lene Myl), per rappresentare la purezza contaminata dal male ovvero da un regista dracula (inteso però in chiave machiavellica) intenzionato ad appropriarsi della bellezza per un mero cruccio e senza valori di fondo. Tutto si muove da fatti concreti ma, ovviamente, poi si delinea in modo fantasioso. Si prende le mosse dalle due uniche fotografie sopravvissute di un film andato probabilmente distrutto nel corso dell'occupazione nazista e proiettato negli anni venti in sole due circostanze. Un destino che ha rischiato di ripetersi due anni dopo anche col Nosferatu (1922) di Murnau, ovvero il primo grande film su Dracula. Girato e realizzato in Germania, l'opera di Murnau fu predisposta sul modello proposto da Stoker senza tuttavia pagare i diritti d'autore con conseguenziale causa giudiziaria e condanna della casa di produzione, peraltro fallita a seguito della contesa, a distruggere tutte le copie messe in circolazione. Fatti e circostanze che hanno ammantato i personaggi e i film sul principe della notte di un'aura maledetta, basti pensare al destino dello stesso Murnau (trasportato cadavere sull'oceano a bordo di una nave, era morto a Tahiti, e poi tenuto per giorni in una cantina una volta sbarcato in Germania, proprio come il vampiro protagonista del suo film, oltre che esser vittima di una successiva profanazione con decapitazione del cadavere, proprio come successo a Dracula, e scomparsa definitiva della testa) o del più celebre attore che abbia mai interpretato Dracula ovvero Bela Lugosi (morto con la convinzione di essere davvero un vampiro e sepolto con gli indumenti di Dracula) o ancora Libero Samale, autore di punta col celebre pseudonimo Frank Graegorius della celebre collana italiana degli anni sessanta/settanta I Racconti di Dracula, trovato morto senza sangue nelle vene (a causa di un'emorragia interna).

"Uno degli aspetti che mi divertono" scrive l'autrice "consiste nel far sembrare reale l'immaginario e immaginario ciò che è reale." Un proposito che sembra calzare assai a pennello sia in riferimento al personaggio al centro della vicenda (Dracula) sia in riferimento all'autrice. Con Tutto quel Buio, Cristiana Astori tenta la duplice fortuna caratterizzata dal curioso miscelarsi tra finzione e realtà, così da sfidare la sorte e vedere se, nel prossimo immediato futuro, il film Drakula Halala salti davvero fuori come avvenuto nel romanzo e come effettivamente successo, con le altre pellicole interessate dall'attenzione della scrittrice nostrana (celebre anche per le traduzioni dall'inglese all'italiano di Jeffrey Deaver e Jeff Lindsay), dopo l'uscita dei precedenti romanzi. Infatti Un Dia en Lisboa e L'Autuomo, fulcri dei precedenti intrecci, sono effettivamente stati ritrovati a dimostrazione di quanto i propositi dell'Astori siano, di fatto, tutt'altro che fantasiosi.

TUTTO QUEL BUIO
si presenta quale quarto capitolo
delle avventure "dei colori" che hanno la cacciatrice di pellicole scomparse
Susanna Marino quale protagonista.

Sul romanzo giova evidenziare la meticolosa cura nella descrizione delle scenografie ungheresi. Per esser maggiormente efficace, l'Astori ha dichiarato di aver passato svariati giorni nella capitale magiara e questo ha indubbiamente portato lustro all'opera. Budapest viene utilizzata in ogni sua parte per conferire fascino al narrato e diviene personaggio aggiuntivo col suo lungo incrocio di culture, il retaggio dei regimi contrapposti - dall'imponenza imperiale alle simpatie naziste fino alla povertà nel periodo di influenza russa - ma anche con la sua cultura e i suoi cibi. Curate le caratterizzazioni dei personaggi, forse addirittura prevalenti sul soggetto. Questo infatti ricalca un po' le precedenti avventure, se non fosse per una maggiore attenzione nella ricostruzione storica. Il contesto ambientale e le deportazioni ebraiche degli anni quaranta diventano occasione per ricordare le follie e i veri orrori che hanno funestato il novecento. Una male oscuro andato ben oltre alle fantasie dei narratori del terrore. L'Astori, con tatto e anche con importante dose di studio pregresso, penetra nel delicato contesto della memoria, tornando a esumare piaghe che hanno lasciato ferite che non possono saturarsi neppure nei passaggi di consegna generazionali.
Lo stile è un calibrato mix di eleganza e di immediatezza, così da poter esser apprezzato da diverse categorie di lettori, sia i c.d. lettori usa e getta sia quelli che ricercano un'eleganza che trascenda dalla mera narrazione. Manca forse, a livello di intrigo giallo, qualcosa nell'intreccio (la soluzione finale appare didascalica in perfetto stile film giallo all'italiana degli anni settanta e, forse, un po' forzata ed estremamente improbabile), carenza comunque ampiamente compensata dalle atmosfere e dalla cura nella descrizione ambientale e dagli usi locali. L'epilogo, all'insegna del cinismo, mostra un'Astori romantica ma, al tempo stesso, concreta e poco in linea con la società in cui si muove la sua protagonista (aspetto che era emerso in modo più marcato già in Tutto quel Blu). I collezionisti sono raffigurati, più che come appassionati e amanti del cinema, quali biechi opportunisti ed egoisti, non orientati alla divulgazione, bensì speculatori che sfruttano il lavoro altrui per fare ricchezza personale.
La parte più bella? Direi quella portata in scena al Memento Park, in mezzo alle statue decadute del comunismo.
Molte le citazioni disseminate nel testo. Le più evidenti sono quelle al sopracitato Golem di Meyrink (per la cura scenografica) e un vero e proprio plagio ovvero la morte della Novak. L'Astori costruisce la scena a immagine e somiglianza del decesso della Baronessa Kessler nel film La Nona Porta. "Io l'ho visto prima di te" affermava la nobildonna, in riferimento al diavolo; qua invece a interessare è l'altro principe della notte, il Dracula, in una girandola che vede agire, tramite cacciatori di pellicole, collezionisti intenzionati a ridurre il numero di pellicole ancora in circolazione proprio come Boris Balkam (cognome che suona alla stessa maniera del cognome della moglie di Bram Stoker, ovvero Balcombe, intenzionata a far bruciare tutte le pellicole del Nosferatu) faceva nel citato film di Polanski col volume Le Cinque Porte. Poco da dire, quando si chiama in causa Dracula si finisce sempre con il rimanere legati al fascino del male finché quanto scritto sulla carta si concretizza alla maniera di un fumo sulfureo che, a poco a poco, assume consistenza fisica e materiale bruciando quanto di innocente è rimasto. Quando questo avviene è troppo tardi per destarsi dall'incubo e svegliarsi dalla catalessi. Gli artigli della notte affondano nella carne sotto forma di due canini appuntiti, mentre tu, vittima consapevole eppure ammaliata, resti rapita da quel giallo... tutto quel giallo, che ti scruta e ti penetra nell'anima e allora urlare diviene impossibile, perché il dolore si confonde col piacere e la sanità mentale si unisce alla pazzia in un amplesso di morte. In quell'istante comprendi cosa siano paura e terrore, eppure il tuo urlo si fa muto, in tutto quel buio che cala implacabile sul palcoscenico e rende simile la vita al cinema, trasformandoti in una pellicola perduta diretta da un regista maledetto.

DI TUTTI I COLORI: 
SUSANNA NON DEVB MORIRE.
Il terrore più vivo dell'autrice CRISTIANA ASTORI
prossimo a trudursi dalla finizione in realtà.

"La paura è immotivata, ma il terrore ha sempre un motivo."