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domenica 29 dicembre 2013

Recensione Narrativa: LA STORIA DI RED HANRAHAN (William B. Yeats)

Autore: William Butler Yeats.
Editore: Galaad Edizioni.
Pag.: 102
Prezzo: 7 euro.

Commento Matteo Mancini.
Poeta premiato col Nobel alla letteratura, William B. Yeats è conosciuto come uno dei migliori artisti irlandesi vissuti a cavallo tra la fine dell'ottocento e i primi del novecento.
Grande appassionato di occultismo nonché del folklore celtico, Yeats ha da sempre cercato di rappresentare e divulgare la cultura del suo popolo interessandosi in modo particolare alla poesia e alla raccolta di fiabe irlandesi.

L'antologia/romanzo La Storia di Red Hanrahan è una di via di mezzo tra le due passioni dell'autore. Yeats propone le vicessitudini del dotto poeta e paroliere Hanrahan, articolandole in sei brevi capitoli (alcuni dei quali persino superflui) non sempre ben collegati tra loro. L'artista, un tempo maestro e cantautore d'eccezione, si trova costretto a vivere da nomade, trasferendosi di continuo per i boschi e le campagne d'Irlanda. Sull'uomo grava infatti una maledizione subita la vigilia della notte di Samhain, per mano di un misterioso vecchio, proveniente dalla Francia, dotato di poteri paranormali (belle le descrizioni con quest'ultimo che ipnotizza, manovrando delle carte da gioco, gli avventori di un'osteria). A seguito del maleficio, Hanrahan, sul punto di sposare la sua amata (che non vedrà mai più), si trova a inseguire nella foresta una lepre braccata da una muta di cani (generati dal sortilegio del vecchio), perdendo un anno della propria vita volato via in un battibaleno (si respira forte aria di stregoniera, peraltro con la presenza di quattro vecchie poste a presidio di una ragazza di rara bellezza, ma schiava di un sonno perenne). Yeats cita vagamente Carroll (Alice nel Paese delle Meraviglie, Alice entra nel mondo fatato inseguendo un coniglio) trasferendo il suo personaggio in una dimensione distorta che lo allontana dalla vita per un periodo che ad Hanrahan sembra di una notte, ma che in realtà corrisponde a dodici mesi.

Sul poeta, da principio smemorato, iniziano così a circolare strane voci: si mormora che su di lui gravi una maledizione e che la sua presenza sia indice di sventure; intanto la sua amata si è sposata con un altro uomo e la cosa non viene accettata dal poeta. Ferito nell'animo, Hanrahan si trova a dover emigrare di continuo di paese in paese, trovando la consolazione al pianto solo nel decantare canzoni ai quattro venti o a gruppi di giovani a cui si manifesta in vesti di maestro. I concittadini, pur riconoscendogli l'immenso talento, non vogliono avere troppo a che fare con lui (accettano di sentirlo cantare ma nulla più), c'è persino che escogita stratagemmi per sbatterlo fuori di casa, e di questo il povero Hanrahan se ne duole senza mai infierire nonostante di lui si dica che "quando la gente della terra d'Irlanda gli faccia male, lui conosca il modo di darle male per male".

Yeats condisce la storia (dai chiari contorni fiabeschi), con spruzzate oniriche (poche, per la verità) e soprattutto con una massiccia dose di malinconia (Hanrahan incarna l'archetipo del poeta romantico ma maledetto, destinato alla sofferenza perenne). Non mancano stralci di poesia (con musicalità delle parole penalizzata dalla traduzione), campo di elezione dell'autore, ma alla fine, eccetto l'ottimo capitolo iniziale, la noia discende presto a farla da padrona.

Epilogo tragico, con un Hanrahan, ormai vecchio, destinato ad aver vita felice solo nell'aldilà, dove dominano gli spiriti del Popolo Eterno.

Il volume è assai breve, anche in considerazione del formato tascabile (15.50 cm * 10,50 cm), e si legge in poco meno di due ore. Nel complesso si rivela piuttosto deludente, vista la firma apposta sul progetto, anche se molto elegante nella prosa.

Tra i passaggi criptici il fulcro della vicenda (nonchè del maleficio) ruota attorno ai semi delle carte manovrate dal vecchio a inizio racconto: "Picche e Quadri, Coraggio e Potere; Fiori e Cuori, Conoscenza e Piacere"; nonché alle frasi, dal vago sapore di una sentenza di condanna, mormorate dalle quattro streghe - rappresentanti dei semi delle carte - ignorate da Hanrahan nel suo viaggio all'inseguimento della lepre: "Non ha alcun desiderio di noi; E' debole, è debole; Ha paura; Ha perso il senno. Echtge, la figlia di Mano d'Argento, dovrà dormire ancora. E' un peccato, un gran peccato!"


giovedì 26 dicembre 2013

Recensione Narrativa: INCUBI & DELIRI (Stephen King)

Autore: Stephen King.
Genere: Antologia racconti fantastici/noir.
Anno: 1993.
Editore: Sperling & Kupfer
Pagine: 826.

Commento Matteo Mancini.
Dopo A Volte Ritornano e Scheletri, Stephen King da alle stampe nel 1993 la sua terza antologia optando quasi per una via sperimentale. Il maestro del Maine piazza ventiquattro testi assai eterogenei, affiancando ai racconti tradizionali (un po' di tutti i generi), parabole religiose e filosofiche, articoli sportivi e persino una sceneggiatura.

Il livello complessivo dei racconti è probabilmente inferiore rispetto alle due precedenti antologie, sebbene King proponga soggetti più elaborati e con personaggi maggiormente caratterizzati. Proprio in quest'ultimo aspetto sta forse la nota di demerito, poiché l'autore presta più cura nel tracciare le peculiarità dei vari personaggi (aspetto marginale in un racconto e più idoneo a un romanzo) piuttosto che studiare gli intrecci o i contenuti delle storie. Oltre a questo ci sono troppi racconti dalle tematiche o dagli sviluppi ripetitivi (ci sono ben tre racconti incentrati sull'odissea di due sposini in viaggio su strade che li portano a smarrirsi in città maledette), per non parlare di alcuni testi privi di sostanza che culminano nel trash demenziale.

King anticipa il tutto con un'interessante introduzione, intitolata Mito, credenza, fede e l'Incredibile ma vero di Ripley, che ogni amante del fantastico non potrà che sottoscrivere. Dalla voce del "Re" in persona: "Già allora sapevo che c'erano persone nel mondo, troppe per la verità, le cui facoltà immaginative erano intorpidite, se non del tutto annichilite, che vivevano cioè in uno stato mentale analogo all'acromatopsia, vale a dire in bianco e nero. Ho sempre provato compassione per loro, mai sognando che molti di questi individui privi di fantasia, provano nei miei confronti pietà o addirittura disprezzo, non solo perché ero vittima di un numero indefinito di paure irrazionali, ma soprattutto per la mia profonda e incondizionata credulità... Si tratta ancora di vedere l'impossibile e poi raccontarlo per farti credere ciò che credo io."

L'autore trasmette al lettore la sua promessa iniziale, soprattutto in virtù di almeno tre perle e di una mezza dozzina di racconti spassosi, per il resto si perde tra racconti sufficienti e almeno una decina di racconti bruttini e talvolta fuori tema (l'articolo sportivo sulla partita di baseball, su tutti).

L'apice lo raggiunge probabilmente con La Gente delle Dieci. In essa King torna sul tema delle sigarette e sulla volontà di porre fine al vizio del fumo. Lo aveva già
affrontato nel discreto Quitters Inc. (racconto inserito nell'antologia A Volte Ritornano). Questa volta, però, King sposta il tiro dal noir al pulp, con un delirio onirico sospeso tra l'horror e una storia griffata William Burroughs.
Abbiamo un'anonima fumatori che si riunisce nell'interrato di una libreria, allo scopo di organizzare un piano per opporsi a delle creature umane dalle sembianze di pipistrello. Non si tratta di mostri di natura fantastica, ma di banchieri e personaggi influenti di Boston che per motivi non ben chiari vengono visti da questi associati come uomini pipistrello. A permettere ai fumatori di riconoscerli è una combinazione chimica dovuta all'uso della nicotina. “È un po' come il tuo primo orgasmo. Una volta che ti sintonizzi, diventa parte della tua vita. Viene il giorno in cui le sostanze chimiche che hai nel cervello trovano il giusto equilibrio ed ecco che ne vedi uno. Sai, mi sono chiesto quanti sono morti fulminati dallo spavento in quel momento. Scommetto che non sono pochi. ”.
Come al solito l'opera parte in modo blando, con una serie di incubi a occhi aperti vissuti dal protagonista: un uomo che ha riconosciuto per la prima volta un uomo pipistrello e per questo è stato contattato dall'Anonima Fumatori, giunta a salvarlo per annetterlo in essa. King oscilla di continuo tra realtà e delirio collettivo agevolato dalla dipendenza dal fumo.
La fonte da cui King attinge è senza dubbio Essi Vivono di Carpenter (a sua volta debitore, tra gli altri, del racconto I Grigi, inserito nell'antologia collettiva La Società di Lucifero, recensita dal sottoscritto qui nel blog), ma si tratta di un mero spunto di partenza. Il "Re" sviluppa lo spunto in modo originale e gustoso, proponendo una sorta di omaggio in negativo a Batman. Gli uomini pipistrello qui sono gli antagonisti o almeno così sembrerebbe. Ecco che arrivano una serie di tributi collegati alla figura degli uomini pipistrello (ma anche al Chupacabra, seppur con una fisionomia marcatamente umanoide), con King che si conferma abile conoscitore di tradizioni e aneddoti (alcuni tributi sono infatti celati e individuabili solo da certi lettori).
La componente ironica è preponderante rispetto a quella orrorifica (comunque presente soprattutto sul versante psicologico) ed è fortissima, al punto da rendere il testo satirico. King gioca a mettere in ridicolo certe figure di rilievo pubblico (addirittura il vice presidente della Repubblica americana) e certe organizzazioni più o meno segrete di stampo para-mafioso (“Vuole che sua moglie e sua figlia leggano sul giornale che i poliziotti hanno ripescato papà con la gola tagliata? Fanno sempre in modo che sembri il delitto di qualche drogato e funziona sempre, perché sono in gamba e hanno amici altolocati”).
Data la natura ironica e satirica del racconto, a schierarsi contro i mostri di turno non può che esserci un improbabile gruppo di reietti (c.d. "Combattenti della Resistenza"), fatto di individui refrattari alle regole e indisciplinati. Il gruppo cercherà di scoprire, in gran segreto, il bunker dei rivali e di perseverare in un'invisibile guerra contro gli stessi; non sanno però di esser spiati proprio dai pipistrelli in un gioco folle dove tutti controllano tutti. “È come una riunione dell'Anonima Alcolisti in una corsia di ospedale psichiatrico... rigorosamente riservata a psicopatici nonché da essa condotta” scherza King.
Il finale sarà una girandola di colpi a sorpresa e di ribaltamenti situazionali che avranno il loro epilogo, guarda caso, nel seminterrato di una libreria (“Se non hai mai letto niente scritto da loro, ti conviene farlo. Non è mai un male mettere le spalle al sicuro” scrive King riferendosi a certi scrittori).

Come già anticipato l'elemento cardine della storia sono le sigarette: “Gli Stati Uniti sono l'unica nazione al mondo dove gli uomini pipistrello possono esser visti da più di un pugno di persone, perché è l'unica nazione che ha la fissa per le sigarette...
Dunque un racconto visionario a dir poco pazzesco, dove il divertimento è assicurato.
Non mancano i bei passaggi, alcuni dei quali degni di menzione speciale come il modo in cui King anticipa la descrizione delle creature mostruose: “Era solo quando arrivavi alla testa che ti accorgevi che o ti aveva dato di volta il cervello, o avevi davanti a te qualcosa per cui non esisteva una voce nella World Book Encyclopedia.”

Tra i contenuti celati tra le righe del testo, traspare un interrogativo esistenziale dell'autore che si pone domande sul senso dell'esistenza e sui misteri che vi ruotano attorno. “Questi cosi sono entrati nella mia vita praticamente nel momento in cui arrivavo alla conclusione che il paradiso è una favola per ingenui e l'inferno è il tuo prossimo. Ora sono di nuovo nella confusione totale.

Bella anche la descrizione degli uomini pipistrello, creature dotate di forza irresistibile e capaci di scomparire nel nulla come ninja. Così King descrive alcune peculiarità degli uomini pipistrello: “Diventano trasparenti, si trasformano in fumo e scompaiono. So che sembra pazzesco, ma niente potrei dire per farti capire quanto pazzesco è stato trovarsi fisicamente presenti e vederlo accadere. All'inizio pensi che non sia vero anche se sta succedendo davanti a te, pensi che debba essere un sogno, o che magari sei finito chissà come in un film, uno di quelli pieno di effetti speciali straordinari come quella vecchia trilogia di Guerre Stellari.”

La parte finale è una perla da racconto pulp, un vero e proprio delirio (poliziotti pipistrello, guerriglieri della resistenza che invocano l'amnistia e via dicendo) con folle regolamento di conti e con personaggi che non capiscono più dove si trovano e cosa stia succedendo, anche perché si ribaltano tutte le situazioni iniziali. Inevitabile il senso di smarrimento dei personaggi della storia e dei lettori, con fantasia e realtà che si sovrappongono e si confondono tra loro. Attingendo direttamente dal testo: “Hai mai visto un uomo pipistrello che fa il portinaio?” io, francamente, direi di no.

Il tema della realtà che si mescola con la fantasia e viceversa ritorna prepotente con un altra gemma del volume: L'Ultimo caso di Umney.
Qua abbiamo un detective privato degli anni '30 alle prese con un cliente bizzarro che ha la sua stessa faccia e la sua stessa voce, ma che proviene dagli anni '90 (con tutti gli strumenti del caso)!? Più che dal futuro, lo sconosciuto arriva da un'altra dimensione: quella reale! Il detective, suo malgrado, scoprirà invece di aver da sempre vissuto in un mondo fittizio, tanto che lui stesso è una creazione proprio dell'uomo che si trova seduto nel suo studio. Quest'ultimo altro non è che uno scrittore, mentre il detective è il personaggio delle sue storie. Lo scrittore è riuscito a trovare il modo, con la fantasia, di entrare nel mondo immaginario e conta di rubare l'identità al suo personaggio per spedirlo, al suo posto, negli anni '90.
Anche questo è un ottimo racconto, a metà strada tra il noir (caratterizzazioni e location sono quelle) e il grottesco.
King propone il suo caro tema del doppio e vi aggiunge interessanti spunti che vanno dal rapporto Uomo-Dio (“quando nel tuo ufficio si presenta Dio a dirti che ha deciso che preferisce la tua vita alla sua, come puoi credere di avere vie di uscita?”) a critiche di carattere generale ovvero di rilievo psicologico.

Da applausi, per il coraggio, alcuni passaggi in cui King attacca – a ragione – l'aridità delle persone medie e in particolare di quelle burocratiche. Si legge: “Sono gli idioti di questo mondo, soprattutto politici e avvocati, a deridere la fantasia e a credere che una cosa non sia vera se non la possono fumare o accarezzare o tastare o scopare. Pensano così perché sono loro stessi sprovvisti di fantasia e non ne sospettano il potere.”

Non manca poi un altro tema caro all'autore del Maine ovvero la salute mentale di certi artisti. È lo scrittore protagonista della storia a delineare il pensiero di King. “Molto raramente gli scrittori si lanciano nei mondi di loro invenzione e quando lo fanno si limitano a trasferirsi con la testa, mentre il loro corpo vegeta in qualche ospedale psichiatrico. La maggior parte di noi si accontenta di fare il turista nei territori della nostra fantasia”; il protagonista di King invece vuole andare oltre, pretende di vivere nella fantasia perché è stanco del suo mondo che tanti dispiaceri gli ha riservato e riesce a farlo proprio a discapito del suo personaggio.

Il testo, di per sé molto affascinante (con una prima parte blanda ma funzionale a delineare l'atteggiamento nevrotico del detective), è impreziosito da una serie di tributi (per una volta non scopiazzature) a Raymond Chandler, con nomi e località utilizzate proprio per omaggiare l'opera del grande autore. Indubbiamente un bel racconto, anche qua con elementi di scena che compaiono e spariscono come in un numero di magia.

Se con il racconto sopramenzionato King torna sul rapporto sfuggevole tra la realtà e la fantasia, con Il Volatore Notturno tornano in azione gli uomini pipistrello. Questa volta però siamo alle prese con un tesissimo thriller che si trasforma in horror solo nella bellissima ultima parte.
Protagonista è Richard Dees, cinico reporter di una rivista dedita all’occulto, che si è messo sulle tracce di un serial killer che vola - a bordo di un Cessna Skymaster - di aeroporto in aeroporto, mietendo vittime. Il killer ha il vezzo di omaggiare personaggi e attori legati alla trasposizione cinematografica del Dracula di Bram Stoker, chiamandosi col nome di Dwight Ranfield; Come se ciò non bastasse, firma tutti gli omicidi con due fori impressi nel collo delle vittime grandi quanto le punture di una zanna. La cosa curiosa ricade sul fatto che le vittime sembrano esser state ipnotizzate.
Dotato di un fiuto da cacciatore, il reporter riesce a imbattersi nel killer proprio mentre lo stesso sta consumando l'ennesima mattanza, in una notte tempestosa. Ciò che il giornalista non sa è che l'assassino è una creatura diabolica, un mostro che non si riflette negli specchi, che va in giro in smoking, cravatta di seta e mantello nero foderato di rosso… Per salvarsi, Dees dovrà cancellare tutte le prove raccolte, pena la pazzia.
Di sicuro è il racconto più sinistro della storia, con punte in cui serpeggia la paura. Il ritmo è sempre alto, per una volta, ma non quanto il film (The Night Flier) che ne verrà tratto, peraltro con partecipazione di produttori italiani, per la regia dello sconosciuto e debuttante Mark Pavia (non dirigerà altri film).
Tutto ruota attorno a Richard Dees, fotoreporter senza scrupoli sempre a caccia dell'articolo a effetto. La caratterizzazione di questo personaggio non è sviluppata allo stesso modo di quanto sarà fatto nel film (in esso, a differenza del racconto, lo vedremo lucrare come un avvoltoio sulla morte altrui e addirittura scattare foto, senza rispetto, ad automobilisti rimasti vittima di incidenti mortali), tra l'altro viene quasi del tutto meno l'atteggiamento ossessivo e competitivo (comunque presente) che avrà Dees nel film, per la concomitante indagine di una giovane reporter alle prime armi. Cambia anche il finale, dal momento che Pavia renderà persino più delirante e scatenato l'epilogo.

Belli alcuni passaggi, ancora una volta incentrati sugli effetti che il mondo del paranormale può praticare nelle menti dei bambocci; un classico per questa tipologia di narrativa. “Sapeva quanto fosse alto nel suo mestiere il tasso di cortocircuiti. Sembrava che esistessero limiti oggettivi al tempo che si poteva dedicare a scrivere di dischi volanti che si portavano via interi villaggi brasiliani... Poi un giorno, all'improvviso, i circuiti andavano in corto”. Per sfuggire a tali inconvenienti il protagonista ha elaborato una sua filosofia: “Non credere mai a ciò che pubblichi e non pubblicare mai a ciò a cui credi. Era un principio che lo aveva aiutato a mantenere il proprio equilibrio mentale mentre intorno a lui gli altri perdevano l'orientamento della ragione.

Non manca poi qualche frecciata di ironia diretta ai consumatori voyeuristici di certe riviste: “Inside View non era letterario... I due elementi che ne avevano decretato il successo erano sangue a secchiate e viscere a manciate”.

Quelli di cui sopra sono i tre migliori elaborati del lotto, anche se almeno altri quattro racconti si distinguono dalla massa per tensione e gusto citazionista dell'autore.

King omaggia in modo esplicito H.P. Lovecraft e Sherlock Holmes di C.A. Doyle, rispettivamente con Crouch End e Il Caso del Dottore. Nel primo racconto abbiamo la solita coppia di sposini che si perde in un quartiere di Londra (dove abitava il collega nonché collaboratore di King, Peter Straub). La zona è famosa per tutta una serie di scomparse e pare esser maledetta da un'influenza negativa che vi apre una dimensione ultraterrena dominata da esseri mostruosi legati a divinità di lovecraftiana memoria.
Nell'omaggio a Conan Doyle, ritroviamo in azione Sherlock Holmes e il suo assistente Watson, impegnati a risolvere un caso che mette in crisi la polizia. Sarà Watson a sbrogliare la matassa legata all'assassinio di un vecchio e all'eredità dallo stesso lasciata ai figli. Si tratta di un gradevole omaggio a Conan Doyle, con l'introduzione di qualche gustoso diversivo (Watson che anticipa il suo maestro nella soluzione del caso) e molte conferme che saranno apprezzate dagli amanti della serie (odio di Holmes per i gatti, vezzo per il violino e la coca). Il limite del testo sta nel non dare al lettore la facoltà di immaginare chi sia l'assassino, ma di concentrare il tutto sulla ricostruzione del modus operandi dei killer e sul loro movente, con Watson che capisce ogni cosa non appena entra sulla scena del delitto.

Particolarmente teso è La Cadillac di Dolan, un revenge movie on the road con un maestro delle elementari che confeziona una buca in pieno deserto in cui far cadere la Cadillac di un mafioso, con l'intento di seppellircelo vivo. Si passa invece all'horror dalle venature fantascientifiche con l'apocalittico Parto in Casa.
Abbiamo la canonica epidemia che falcidia la popolazione e che porta i morti di tutto il mondo a rianimarsi e ad attaccare i vivi. La sorgente del fenomeno è uno strano oggetto in orbita sopra il Polo Sud. Uno space shuttle, sotto il controllo cinese e americano, visita il luogo, e scopre il disastro. Un solo membro della ciurma sopravviverà a lungo per descrivere l'oggetto alieno: una sfera gigante composta da vermi che finiranno col attaccare e aprire lo shuttle.
Tutti i tentativi di distruggere la sfera saranno vani, mentre gli zombi aumenteranno di numero portando al collasso la civiltà. Tutto questo è testimoniato da Maddie e dagli altri abitanti di Jenny che decideranno di prepararsi all'attacco degli zombie in un epilogo di romeriana memoria.

I sette testi sopra descritti possono a tutti gli effetti essere inseriti tra i trenta migliori racconti brevi del maestro del Maine, purtroppo gli altri diciasette elaborati non raggiungono questo livello. Ci sono racconti con delle buone idee ma non ben sviluppate, come La Fine del Gran Casino (sci-fi apocalittico in cui uno studioso diffonde, spargendolo su tutta la popolazione, un composto chimico capace di ridurre l'aggressività dell'uomo, avente però la spiacevole controindicazione di favorire l'insorgere dell'Alzheimer), il mezzo erotico nonché folle Dedica (donna costretta da una maga a ingoiare lo sperma di uno scrittore, in modo da trasferire al figlio che porta in grembo il talento dell'uomo), il nostalgico E Hanno una Band dell'altro Mondo (coppia di sposini che finiscono in un villaggio dove rivivono le star del rock americano) e il noir Il Quinto Quarto, ma ci sono anche testi demenziali (Il Dito, Denti Chiacchierini) o comunque scopiazzati (La Stagione delle Piogge - brutta copia de Gli Uccelli di Hitchcock - Spiacente, è il numero giusto, Bambinate, La Casa di Maple Street che ricorda un po' Bad Taste di Peter Jackson) o ancora noiosi (Scarpe da Tennis, Ti Prende a poco a poco), per non parlare dei testi completamente fuori tema.

Per concludere si tratta di un'opera piacevole da leggere, ma un po' fracassona che da l'impressione di un King propenso a buttare di tutto nel calderone tanto per allungare la minestra. Con qualche taglio e con l'aggiunta di un pugno di racconti di ben altro calibro sarebbe potuta essere sul livello delle prime due antologie dell'autore.


lunedì 23 dicembre 2013

Recensione de MAESTRI DELLA LETTERATURA FANTASTICA (Les Maitres de l'Etrange) (AA.VV. Ediz. Edipem / Atlas)



Titolo originale: Les Maìtres de l'Etrange, Ediz. ATLAS.
Autori: Edena-Paris, Edy Minguzzi e Fernanda Tosco.
Genere: Mini enciclopedia.
Anno: 1981
Editore: Edipem.
Pagine: 243.

Commento Matteo Mancini.
Sorta di mini enciclopedia, dedicata ai (principali) "maestri della narrativa fantastica", edita in Italia dalle Edizioni Edipem, nel 1983, ma uscita due anni prima in Francia per conto delle Editions Atlas di Parigi, col titolo Les Maitres de l'Etrange.

Il volume prende le mosse con un'ottima presentazione sottoscritta da Edy Minguzzi e prosegue dedicando due pagine illustrate per ogni autore (come mostro nella foto di cui sopra, abbandonandomi al proverbiale sense of wonder) per un totale di circa centoventi scrittori. Il lettore entra dunque subito nel vivo, senza dover passare da introduzioni incentrate sulla nascita del genere fantastico ovvero senza dover esser guidato da una panoramica propedeutica all'esame dei singoli autori.

Il libro è senza dubbio un qualcosa di fantasmagorico per un appassionato del genere e anche per chi cerchi una bussola orientativa che lo porti a conoscere nuovi autori nell'ambito della narrativa di riferimento. Per il sottoscritto è stato come entrare in una sala ludica e divertirsi nel provare tutte le attrazioni: un vero spasso.

Si assiste così a una lunga rassegna, che parte da Dante Alighieri e termina con Tanith Lee, corredata dalle foto di tutti gli scrittori presentati e dalle raffigurazioni di copertine e disegni a loro connessi. Purtroppo il formato adottato impedisce un esame approfondito, tuttavia gli autori affrontano con piglio esperto e non meramente superficiale i vari "maestri" cercando sempre di leggere tra le righe dei loro testi. Ne deriva una rassegna benedetta da una luce che filtra in profondità negli abissi della narrativa fantastica e cerca di illuminare laddove i lettori poco attenti non sono soliti spingersi. Questo approccio è da subito evidente. E' lo stesso Minguzzi a farlo capire nell'introduzione dell'opera.

"Il fantastico apre l'accesso a dimensioni terribili e proibite dell'essere" spiega Minguzzi. "Dimensioni riscoperte dalla psicanalisi che le ha accomunate nell'unica definizione di subconscio, ma che l'antichità divideva in due sfere: il mondo soprarazionale e il mondo infero. Il fantastico apre uno spiraglio verso l'uno o verso l'altro di questi due universi proibiti alla ragione."
Se quanto sopra potrebbe ritenersi piuttosto comune nell'analisi del genere, la particolarità de "I Maestri della Letteratura Fantastica" è da individuare, per buona parte degli scrittori proposti, nello sforzo di interpretare e comprendere i riferimenti esoterici/iniziatici celati nei loro romanzi, al fine di dare una lettura tesa a decriptare i simbolismi e le metafore utilizzate dai vari maestri per rendere elitario il significato delle loro opere.

Minguzzi è bravo a citare, nella sua introduzione, l'immenso Jorge L. Borges il quale parlava "di uno sconcertante punto Alfa dal quale si poteva cogliere la totalità dell'esperienza al di là del tempo, dello spazio, della materia e della causalità così come sono percepite dalla ragione". Accedere a questo "Punto Alfa", secondo il maestro argentino, significa "identificarsi col cosmo in un processo che nell'ambito religioso si avvicina all'esperienza dei mistici, mentre nel solco dell'esoterismo si accosta al procedimento alchemico dell'integrazione dell'uomo nel cosmo in una corrispondenza armonica del TUTTO NEL TUTTO."
Già da queste premesse, si intuisce che avremo a che fare con un approccio di studio non scolastico ma orientato in un'ottica da veri specialisti. Ecco quindi che Minguzzi arriva a scrivere che chi giunge al Punto Alfa è in grado di "sciogliere i corpi e condensare gli spiriti secondo il motto dell'Alchimia solve et coagula, o di indiarsi, come fa Dante, perché in una dimensione che travalica spazio, tempo, materia e causalità nulla preclude il passaggio dalla materia allo spirito."
Delineato il contesto e la chiave interpretativa con cui affrontare un certo tipo di letteratura, arriva puntuale l'ammonimento per i bambocci o gli irrispettosi di turno. Spiega Minguzzi: "l'accesso a questa sfera non è per tutti. Occorrono un'iniziazione, una preparazione adeguata e un graduale accostamento attuato seguendo il solco di una religione rivelata o di un itinerario ieratico e rituale consacrato da millenni di tradizione. Solo chi segue questa prassi può sviluppare facoltà sottili che gli consentono di superare le barriere della ragione, e infine intuire la Legge Cosmica invisibile che motiva gli eventi terrestri; solo gli eletti possono vedere le cause superiori che occultamente determinano gli accadimenti dall'uomo attribuiti al caso. Chi non è chiamato a tanto è destinato alla follia, così come chi viola le frontiere del soprannaturale senza adeguata preparazione si apre alla psicosi e alla schizofrenia."

Quanto in pillole anticipato da Minguzzi emerge in modo dirompente nelle sfaccettature dei vari scrittori analizzati. Accanto ai capisaldi del genere come la scuola anglo-irlandese legata al gruppo capitanato da Yeats e Conan Doyle ovvero il corposo gruppo weird tales con i tre moschettieri Lovecraft, C.A. Smith e R.E. Howard in prima linea, abbiamo i grandi classici reinterpretati secondo l'ottica già menzionata (Dante, Ariosto, Tasso, Rebelais, Cyrano di Bergerac, Jonathan Swift, Goethe, Dumas etc...) e i precursori del romanzo del terrore come Sheridan Le Fanu, Mary Shelley, E.A. Poe.
Viene inoltre dato spazio ai maestri delle fiabe (Perrault, Andersen, Carroll, Collodi, mancano invece i Grimm), agli anticipatori del romanzo sci-fi (Verne, Wells), agli occasionali (per il genere) Gabriele D'Annunzio (notevole rilettura esoterica), Gogol, Tolstoj e Kafka, alla scuola di lingua tedesca rappresentata da maestri monumentali come Meyrink e Hoffmann (analizzati anche Kubin, Ewers, Herzl etc), per non parlare dei precursori del fantasy come Lord Dunsany e Tolkien. Corposa schiera infine di autori di lingua francese, molti dei quali neppure tradotti in Italia, da cui però manca in modo inspiegabile Gaston Leroux (autore del famoso Il Fantasma dell'Opera).
Nella seconda parte del volume irrompono gli autori sci-fi con Orwell, Simak, Van Vogt, Dick, Asimov, Scheckley, Bradbury, Matheson etc. Spazio, tra gli altri, anche per i superlativi Borges, Cortàzar e Marquez.

Come anticipato, e come era inevitabile, ci sono delle esclusioni illustri alcune delle quali gravi, seppure molti di questi scrittori finiscono con l'essere citati nel testo. Così, oltre ai già citati, non sono analizzati i "creatori" del romanzo gotico Horace Walpole (autore de Il Castello di Otranto), Ann Radcliffe (conosciuta per L'Italiano) e Matthew G. Lewis ("Il Monaco"), gli irlandesi Oscar Wilde ("Il Ritratto di Dorian Gray") e Maturin ("Melmoth"), gli slavi Bulgakov ("Il Maestro e Margherita") e Lem ("Solaris") e poi ancora Seabury Quinn (autore col maggior numero di pubblicazioni sulla rivista Weird Tales), gli specialisti delle ghost stories Benson, Oliver Onions e De la Mere, i fantascientifici atipici Ballard e Zelazny e i nostri Pirandello, Calvino e Capuana (c'è invece Dino Buzzati). Il fatto che poi il volume sia del 1981 motiva l'esculsione dei vari King, Barker, Straub, Campbell, Wagner e compagnia.

Al di là delle esclusioni, che comunque hanno permesso l'inclusione di autori come De Nerval, Peladan, Danrit (personaggio interessante che mi piacerebbe vedere pubblicato anche in Italia), Sax Rohmer (famoso per Fu Manchu, ma di cui in Italia non si trovano i racconti fantastici), Fèval, Huysmans, Rosny Ainé e molti altri ancora, solitamente ignorati in volumi del genere, si tratta di un'opera notevole e utile a capire il giusto approccio alla lettura di un tipo di narrativa giudicata, in modo stolto, di serie B o da ragazzi da una superficiale e arrogante scuola di pensiero.

In conclusione, visto il periodo, si tratta di un volume perfetto per un grande regalo di Natale da fare a chi legge una certa tipologia di libri. L'aspetto negativo sta nella difficile reperibilità, trattandosi di un volume fuori catalogo e spesso associato a un'enciclopedia chiamata "DIMENSIONE X".

Vale l'acquisto.

sabato 30 novembre 2013

Recensione Narrativa: IL GIORNO RUBATO (di Marco De Franchi)

Autore: Marco De Franchi.
Genere: Thriller/Horror esoterico
Anno: 2013.
Edizioni: La Lepre Edizioni.
Pagine: 333
Prezzo: 16 euro.

Commento Matteo Mancini.
Sei veramente sicuro di ciò che ricordi? questo il sottotitolo che saluta l'ultima e recentissima fatica del bravo Marco De Franchi.
Pubblicato nel maggio ultimo scorso da La Lepre Edizioni, per la collana Fantastico Italiano diretta dallo scrittore Luigi De Pascalis, Il Giorno Rubato segna il ritorno in pista di uno dei pupilli della pregiata e qualificatissima scuderia che ha nel grande Gianfranco De Turris il mentore di riferimento.

Autore ferratissimo nell'ambito della letteratura fantastica, ricordo De Franchi tra i finalisti delle Ormegialle (se non vado errato nel 2010) in una fresca serata di luglio in quel di Pontedera, con il moderatore della manifestazione, tale CIMINO, che elargiva complimenti a un'accoppiata di finalisti accumunati da un mestiere vicino al mio e che in seguito si sarebbero fatti valere: il citato De Franchi e RICCARDO GAZZANIGA, fresco autore del fortunato A Viso Coperto (uscito qualche mese fa per Einaudi e presentato su LA 7 a "Le Invasioni Barbariche"). Quella sera Cimino non sapeva che oltre ai due, seduto tra i sedili a godersi la serata nel parco di Pontedera, c'era (in incognito) anche un terzo loro "collega" (in compagnia di un trio di amiche scrittrici di belle speranze), un ragazzo che saprà farsi valere nel prossimo futuro... Soprattutto però ricordo De Franchi per l'ottimo Delitto nella Città Verticale, racconto di chiusura della buonissima antologia Sul Filo del Rasoio pubblicata sul Giallo Mondadori a cura proprio di De Turris. Si tratta di un racconto che ho recensito qua nel blog e che, a mio avviso, è tra i migliori racconti di fantascienza mai scritti ambientati in quel di Pisa, un vero gioiellino.

Veniamo ora al libro in questione, una sorta di mix tra Dark City (film di Alex Proyas, regista de Il Corvo, anticipatore della saga Matrix ed epigoni), La Terza Madre, Dylan Dog e X-Files.

De Franchi schiera come protagonista della vicenda un detective dell'occulto amatoriale, Valerio Malerba, professione scrittore di storie paranormali. "Documentare l'incredibile è il mio compito... il bizzarro in fondo è il mio mestiere. Sono un esperto del genere, è difficile che la gente creda a uno scrittore che racconta di mostri" va dicendo nel corso dell'opera. Dunque un personaggio che non ha nulla del poliziotto, ma che indaga con coraggio e caparbietà su fatti misteriosi ("dicono che sei uno scrittore forte, uno che va a fondo dei misteri senza farsi distrarre da seghe mentali"), con la speranza di svelare misteri capaci di permettergli di scrivere un best seller.

Malerba viene così ingaggiato da un vecchio collezionista di oggetti occulti. L'uomo si è infatti aggiudicato in un'asta telematica un video in cui si vedono delle creature assurde, denominate "i cacciatori", avventarsi su un clochard ridotto a zombie. La particolarità però sta nel fatto che si tratta dell'unica prova dell'esistenza del giorno 13 marzo 2007. Non c'è nessun altro documento o testimonianza relativa a quel giorno, tanto da lasciar supporre che non sia mai esistito o che comunque il mondo intero si sia preso una vacanza collettiva senza poi ricordarne la destinazione.
Malerba accetta l'incarico e si sposta a Roma, dove il video è stato girato, con il compito di autenticarne la veridicità e soprattutto di far luce sul 13 marzo 2007.

La prima parte del romanzo scivola via con la presentazione del personaggio (ne facciamo la conoscenza in un caso di crop circles) e con le sue prime indagini. De Franchi da un taglio iniziale vicino al giallo, scopriamo che l'autore del video è scomparso nel nulla così come altri personaggi legati al documento sono morti o si sono suicidati in circostanze sospette. Tuttavia, nonostante l'intelaiatura da giallo-noir, si percepiscono già elementi destabilizzanti, ai limiti della sci-fi. La salubrità mentale di Malerba inizia a vacillare sotto l'effetto di forze ed energie che interagiscono con la realtà, modificando vie, assumendo corpo e voce di persone morte da anni o addirittura di individui ancora in vita, in quelle che possono definirsi delle vere e proprie sostituzioni di persone. Lo scrittore, a poco a poco, perde la tranquillità ("non so chi, ma c'è qualcuno, là fuori, che sta tentando di togliermi tutto il mio coraggio. Non posso accettarlo. Mi dico che sto comportandomi da paranoico: se comincio a prendermela con quelli là è finita"), ma continua a scavare nel profondo dei misteri di Roma. Ciò che più lo spaventa è la sensazione che qualcuno diriga il mondo senza lasciare libero arbitrio agli uomini: "non temo l'ignoto, quanto la sensazione di perdere il controllo; il sapere che qualcun altro può giocare con me e con la mia vita!"
Testardo e incoraggiato dal feeling con una giovane ragazza (con cui finisce a letto in perfetto stile dylandoghiano), Malerba porta alla luce la celebrazione di un culto che si è perso nel tempo. Emerge così una seconda data, 11 giugno (il giorno dei Matrialia), legata al culto della GRANDE MADRE, la Mater Matuta (la genitrice del mondo). Le energie ruoterebbero proprio attorno a questa divinità, sarebbero delle sorte di emissari malvagi. Malerba scopre inoltre che i giorni a essere scomparsi dalla storia dell'uomo sono molteplici, spalmati in tutta l'esistenza della storia umana. Responsabile di ciò sembrano essere proprio queste creature incorporee, che lo scrittore definisce "parassiti con poteri abnormi, che succhiano i nostri pensieri, i nostri ricordi, le immagini dei nostri cari; e poi le riproducono quando ne hanno bisogno, se ne rivestono per ingannarci, per portarci più in là." Un modus operandi identico a quello degli alieni che manipolano le menti nel film Dark City, interagendo proprio sul tempo, bloccandolo a loro discrezione per apportare le modifiche esistenziali che ritengono opportune.

De Franchi sviluppa il soggetto in modo lento, ritorna spesso sui concetti focali della vicenda dilatando i fatti e proponendo vari incubi a occhi aperti del protagonista che vive momenti che rievocano racconti come La Scorciatoia della Signora Todd di Stephen King (col protagonista che vaga a piedi o in macchina finendo in posti anomali e non presenti sulla cartina, per poi risvegliarsi altrove con buchi temporali che non riesce a spiegare). Lo stile è leggero, di pronta soluzione, senza fronzoli o virtuosismi. Il meglio però viene concentrato nella seconda parte del romanzo, soprattutto nelle ultime cento pagine, quando la storia prende la piega horror, con un occhio di riguardo alla ghost story e all'esoterismo.
Fa la comparsa una confraternita di adepti, dal vago sapore lovecraftiano, che si riunisce nel sottosuolo di Roma per bestemmiare la Mater Matuta. Il loro santone definisce l'ordine "il custode, il difensore. Un baluardo, forse l'unico, al caos definitivo voluto dai cancellatori che si cibano all'interno dei vuoti temporali dagli stessi orditi."
Malerba finisce preda del terrore, incapace di discernere tra realtà e fantasia, piegato da eventi soprannaturali, circondato da morti violente, scomparse inspiegabili, incontri con persone che poi scoprirà essere morte da decenni e infine tormentato da una sorta di demone (dall'aspetto di una seducente donna) che lo bracca di continuo. De Franchi piazza almeno un paio di capitoli di terrore puro, magari non orginali ma ben descritti. Uno di questi è la mattanza nei sotterranei di Roma perpetrata da esseri di provenienza occulta, l'altra è l'incontro tra il protagonista e il demone personale in una magione abbandonata in mezzo alla campagna toscana (in una progressione in cui si passa dal giallo all'orrore e si chiude con un velato erotismo). Disturbante poi la minuziosa descrizione di un sinistro stradale alquanto cruento.

Intuito il mistero che si cela tra i fotogrammi del video e ormai sull'orlo della pazzia, per lo scrittore si profila un nuovo obiettivo, voluto proprio dagli esseri misteriosi: capire quando questi fermeranno di nuovo il mondo ed evitare che rapiscano altre persone. Proprio così, poiché Malerba e il suo datore di lavoro scoprono che ogni evento è preceduto da una catena crescente di delitti e disgrazie (come ne La Terza Madre) nonché di comportamenti di animali impazziti che si suicidano in massa (il riferimento va a Machen e alla Du Maurier). Ciò porta i due a ipotizzare l'esistenza di un Piano Zero in cui si muovono alcune "energie", una sorta di sospensione temporanea della realtà, una zona grigia, in cui tutto può accadere e nulla di quello che accade lascia una traccia. Un fermo immagine della vita, all'interno del quale si può giocare a scombinare ogni elemento, a far sparire cose o persone, a sovvertire le leggi della fisica. Gli umani sarebbero così vittime di esperimenti di esseri superiori che conducono giochi crudeli con loro.

Bella la battuta di "meta-narrativa" con cui Malerba, quasi al termine del romanzo, commenta la situazione in cui è venuto a trovarsi: "All'improvviso, sono diventato il personaggio di uno dei miei libri: il testimone che narra di un rapimento alieno o delle lacrime di sangue sgorgate da una statua della Madonna." E intanto si avvicina l'11 giugno, il giorno di Mater Matuta, l'epilogo della vicenda, proprio mentre strani individui forestieri iniziano a vagare in paese facendo domande a tutta la popolazione, il giusto tributo di De Franchi ai famosi Men in Black della tradizione rosweliana.

Dunque un romanzo da ascrivere al filone fantastico/esoterico degli indagatori dell'occulto. De Franchi modernizza lo stile narrativo, rispetto ai maestri del genere, pecca forse di una certa ridondanza nello sviluppare la trama, ma non si rivela mai troppo noioso. L'idea base su cui ruota la storia risente molto del soggetto di Dark City, anche se poi il tutto viene narrato in modo diverso e soprattutto cercando di ancorarlo alla storia antica di Roma e al culto di Divinità millenarie il cui ricordo si consuma nella nebbia del tempo. C'è da dire che l'autore non si sofferma troppo su questi ultimi argomenti, ma si limita a brevi accenni, evitando così di risultare troppo pesante per i non studiosi di occulto o esoterismo.

Lettura consigliata agli amanti del filone fantastico e anche fantascientifico filone esistenziale (passatemi la sottocategoria). Gradevole e non troppo impegnativo, a tratti vagamente ipnotico.

sabato 12 ottobre 2013

Recensione Narrativa: Il Pendolo di Focault (Umberto Eco)

Autore: Umberto Eco.
Anno: 1988.
Edizioni: Bompiani.
Pagine: 680.

Commento Matteo Mancini.
Secondo romanzo del professore Umberto Eco, che arriva a otto anni di distanza dal debutto avvenuto con il fortunato Il Nome della Rosa, celebre testo premiato con lo Strega e reso famoso dall'omonimo film diretto da Jean Jacques Annaud, con Sean Connery protagonista.

Con Il Pendolo di Focault Eco abbandona del tutto il taglio commerciale (da cui, in verità, si è sempre dissociato) e confeziona un'opera omnia e aulica dedicata all'esoterismo con la “E” maiuscola, abbondando con citazioni (almeno una per ogni paragrafo), aneddoti storici, leggende più o meno metropolitane (mito di Agarthi), nozioni e riferimenti rituali legati al mondo ermetico-massonico e non solo. In altri termini fa l'opposto di quanto potrebbe fare Dan Brown; se lo scrittore americano confeziona intrecci inserendovi elementi legati alla tradizione esoterica per rendere più accattivante il narrato, Eco realizza un'opera quasi saggistica sulla tradizione esoterica, inserendovi poi elementi tesi a costruire un flebile canovaccio che possa trasformare il lavoro finale in un'opera narrativa di stampo fantastico.

Ne esce fuori un romanzo, a mio avviso, destinato a uno zoccolo duro di appassionati del mondo esoterico, i quali avranno dozzine di spunti utili per approfondire gli innumerevoli argomenti trattati, più o meno marginalmente, da Eco. Tale contenuto porta a un testo tanto dotto quanto difficile da comprendere per chi ignora certe tematiche (Cabbala, Massoneria, Teosofica, Templari, Rosa-Croce, Nazismo magico, setta degli Assassini, protocolli di Sion, Santo Graal, metempsicosi, scrittura criptica, alchimia, numerologia etc), affascinante invece per chi ha fatto certi studi. Oltre a ciò è innegabile il contenuto intrinseco dell'opera, che porta il lettore più attento a rileggerla più e più volte (magari documentandosi sulle parti per lui più oscure), acquisendo a ogni lettura un maggior numero di dati da interpretare.

Eco, nel testo, distingue (a ragione) nettamente tra esoterismo e occultismo, termini troppo spesso ritenuti sinonimi da lettori e commentatori dal palato grezzo. “L'esoterismo è la ricerca di un sapere che non si trasmette se non per simboli, sigillati per i profani. L'occultismo invece è la punta dell'iceberg, quel poco che affiora del secreto esoterico.

Dunque un romanzo contenitore iniziatico/esoterico, dove Eco inserisce di tutto: dai partigiani in lotta per la liberazione dal nazi-fascismo, agli scontri studenteschi del '68, per non parlare dei riti esoterici brasiliani, dedicando poi interi capitoli che sembrano dei veri e propri saggi su templari, Rosa-Croce, alchimisti e società segrete varie.

In particolare viene trattata con una certa attenzione la storia dei templari, ovvero un ordine cavalleresco di monaci-soldati nato, attorno al 1100, per combattere i mori in Terrasanta e poi divenuto così ricco e potente da risultare inviso al re di Francia. Un odio tanto forte da determinare, due secoli dopo, la messa al bando dell'ordine. Accusati di stregoneria, di sodomia e di adorazione del demonio i monici furono uccisi sul rogo o imprigionati ovvero dispersi in mezza Europa.
Eco sottolinea come i templari si rifacessero a dottrine indiane (conosciute stando a contatto con gli orientali e con i kamikaze della Setta degli Assassini) da cui avrebbero pescato il mito del serpente Kundalini, ovvero una forza cosmica che risiede nella spina dorsale e nelle ghiandole sessuali dell'uomo e che una volta risvegliata andrebbe a sollecitare la ghiandola pineale per aprire sulla fronte quel terzo occhio capace di garantire una visione diretta nel tempo e nello spazio.
Costretti a vivere in clandestinità, i templari superstiti, per mezzo di sei gran maestri, nel 1344 si sarebbero insediati in sei luoghi determinati e nel corso di 120 anni avrebbero dato vita a una serie di incontri (uno ogni 120 anni per un totale di sei incontri) caratterizzati dalla presenza di due maestri rappresentanti di gruppi di volta in volta diversi. Il fine di questi incontri sarebbe stato da individuare nella necessità di ricostruire il messaggio originario e segreto di cui erano depositari i templari, un messaggio celato da cifre numeriche e simbolismi vari. Ciascun gruppo infatti sarebbe stato a conoscenza di verità parziali, non conosciute dagli altri cinque gruppi, e solo al termine dei 720 anni (risultato della moltiplicazione 120*6), mediante la rivelazione dei vari segreti parziali, gli eredi dei templari sarebbero stati in grado di ricostruire la verità nella sua portata integrale.
Nel testo si spiega come un banale errore, attribuibile alla modifica del calendario inglese, abbia impedito al gran maestro britannico di presentarsi all'appuntamento pattuito con quello francese con la conseguenza di rendere impossibile la ricostruzione del segreto. Questo evento avrebbe scaturito una serie di accadimenti storici diretti, in un modo o nell'altro, a ricostruire il messaggio perduto.
In prima battuta ciò avrebbe portato alla nascita delle società segrete e a una serie di scritture più o meno criptiche. Eco ci parla dell'abate benedettino Tritemio, vissuto tra il 1400 e il 1500, depositario degli stessi sistemi crittografici usati dai templari, per illustrarci la sua arte di aprire attraverso occulta scrittura l'animo umano alle persone lontane. Personaggio misterioso, in contatto con alchimisti, cabalisti e teologici, così abile nel mascherare le sue rivelazioni sulle scritture sacre con messaggi cifrati che, a pagina 145 del romanzo viene scritto: il destinatario (dei messaggi cifrati) dovrà evocare gli angeli per comprendere il messaggio vero.

Proprio questo personaggio, unitamente ai templari, sta alla base dell'intreccio confezionato da Eco che pennella le coordinate di un thriller complottistico che vede un trio di amici dipendenti di una piccola casa editrice di Milano, dedita alla pubblicazione di materiale esoterico, interrogarsi sul possibile sviluppo del piano occulto che vorrebbe i discendenti dei templari (infiltrati in organizzazioni paramassoniche) tramare dietro le quinte per il dominio del mondo.
I tre iniziano a fantasticare su un documento cifrato e parziale rinvenuto a Provins verso la fine del 1800, ma risalente alla notte di San Giovanni del 1344 (il giorno in cui i grandi maestri superstiti templari avrebbero deciso di frammentare la verità di cui erano depositari in attesa che il tempo della vendetta fosse maturo). In tale documento sarebbe riportato, secondo alcune interpretazioni riconducibili all'arte di Tritemio, il piano criptato per la rinascita dei templari. Il testo indicherebbe le date e le ricorrenze in cui i vari gruppi eredi dei templari sparsi in Europa si sarebbero dovuti riunire per formare, a poco a poco, il segreto originario. Ma di quale segreto si tratta?
Per tentare di scoprirlo, i tre dovranno indagare, interrogandosi in prima battuta sul significato del Graal.

Sarebbe proprio il graal l'oggetto o il fine del piano dei templari. Esso però non deve esser considerato secondo gli usi riconducibili alla saga dei cavalieri della tavola rotonda, secondo i quali costituiva la coppa che raccolse il sangue di Gesù. Tale ricostruzione viene subito smentita, perché Eco, tramite i suoi personaggi, suggerisce che Gesù non sarebbe morto in croce, da qui il motivo per cui i templari rinnegavano il crocefisso, ma sarebbe sbarcato in Francia insieme a sua moglie Maria Maddalena, presso i cabalisti di Provenza, per fondare la stirpe reale di Francia. Una ricostruzione che costituirà la base de Il Codice da Vinci di Dan Brown, ma che già qui è affrontata in modo chiaro sebbene senza chiamare in causa l'inventore italiano. Si esclude altresì che il graal sia una pietra dai misteriosi poteri, come detto da alcuni, ovvero la pietra filosofale degli alchimisti. Si giunge così a definirlo una fonte di energia sotterranea custodita nella leggendaria Agartha: la città sotterranea dove i signori del mondo dominerebbero e dirigerebbero le vicende della storia umana, il c.d. zero mistico, l'introvabile, una scacchiera che si estende sotto la terra attraverso quasi tutte le regioni del globo tra i ventidue templi che rappresentano i ventidue arcani di Hermes e le ventidue lettere di alcuni alfabeti sacri.

Qua si arriva a un altro argomento caro a Eco: lo sviluppo delle vicende della storia. I personaggi ricostruiscono infatti la storia passandola dal filtro di una lente iniziatica che reinterpreta i fatti storici e soprattutto presenta i personaggi più importanti della storia dell'uomo in modo diverso dal consuetudinario, cioè in un'ottica complottistica e illuminata. Tutti sarebbero stati alla ricerca del segreto finale dei templari per poter mettere le mani sul Graal. Così vediamo sfilare fiori fiori di personaggi da John Dee a Hitler, passando per i vari Evola, Guenon, Jules Verne, l'ordine esoterico della Golden Dawn, Napoleone, Giordano Bruno, Paracelso, Cagliostro, Bacone e chi più ne ha più ne metta. Umberto Eco mette moltissima carne al fuoco, ma riesce a padroneggiare l'incredibile quantità di dati con capacità notevoli. Certo, la fluidità del testo non è sempre garantita (in alcune parti il libro si rivela assai pesante, specie tutta la parte ambientata in Brasile che rallenta di molto la lettura) però costituisce un tributo che alla fine si è ben disposti ad accettare.

Da queste basi di partenza, il trio protagonista, usando il materiale che giunge in redazione, i pareri di personaggi ambigui e il software di un computer usato per creare intrecci inediti, decide - un po' per snob un po' per deridere i diabolici (cioè gli scrittori dilettanti che si interessano di tematiche esoteriche) - di giocare a ricostruire il piano dei templari. Si tratta però di un gioco pericoloso, simile a una partita a poker, che li prende a poco a poco fino a trascinarli in un maelstrom dai contorni paranoici. Tutto diviene strumentale al piano, persino la lettura del manuale per il conseguimento della patente di categoria B!?
Il protagonista dirà: “Ritrovavo personaggi che avevo studiato a scuola, come portatori della luce matematica e fisica, in mezzo alle tenebre della superstizione e scoprivo che avevano lavorato con un piede nella Cabbala e l'altro in laboratorio.”

Dunque il gioco diviene una caccia alle analogie in una visione in cui ogni parvenza del mondo, ogni voce, ogni parola scritta o detta non ha il senso che appare, ma ci parla di un segreto. Il criterio è semplice: sospettare, sospettare, sospettare sempre. Cosa potrà mai derivare da questo atteggiamento sospettoso e non ben calibrato dal controllo mentale? Chiaramente la follia ed è una follia contagiosa, perché suffragata da ricostruzioni, seppur opinabili, verosimili e dunque sufficienti a far sorgere quel sospetto di cui parla il protagonista. È lo stesso protagonista, del resto, a dirci che quando ci si mette in uno stato di sospetto non si trascura più nessuna traccia e si è disposti a vedere segnature rivelatrici in ogni oggetto che capiti tra le mani.
Illuminante per capire il concetto, specie quando parlo di “controllo mentale”, è la massima di Michael Maier (autore della celebre Atalanta Fugiens) il quale afferma che chi cerca di penetrare nel roseto dei Filosofi senza la chiave, sembra un uomo che voglia camminare senza piedi.
La cosa buffa è che nel romanzo nessuno dimostra di avere la chiave, anche perché nessuno è alla ricerca di una crescita interiore di natura cabalistica ma sono tutti orientati alla ricerca di un vantaggio materiale o di un incosciente divertimento. Eco giustamente scrive che l'iniziazione è un processo abissale, è una lenta trasformazione dello spirito e del corpo, che può portare all'esercizio di qualità superiori ma è un qualcosa di intimo, di segreto. L'iniziato controlla le forze che il mistico patisce. L'iniziazione è frutto di una lunga ascesi della mente e del cuore. Il misticismo è un fenomeno democratico, se non demagogico, l'iniziazione è aristocratica.
Cade qui a fagiolo l'ottimo stralcio estrapolato da Eco da La Tradizione Ermetica di Julius Evola dove si legge: “Al sonno eterno non scamperebbero che quelli che già in vita abbiano saputo orientare la loro coscienza verso il mondo superiore. Gli iniziati stanno al limite di tale via. Conseguito il ricordo essi diventano liberi, vanno senza vincoli, coronati celebrano i misteri e vedono sulla terra la folla di coloro che non sono iniziati e che non sono puri schiacciarsi e spingersi nel fango e nelle tenebre”.

Il disprezzo di Eco nei confronti di certi ambienti iniziatici di impronta massonica (e votati ai formalismi e soprattutto al conseguimento di vantaggi materiali) si rende addirittura palese in alcuni passaggi del libro dove aleggia un'atmosfera parodistica, come quando l'enigmatico Agliè (che per lunghi tratti del romanzo ho considerato quasi l'alter ego di Eco), rivolgendosi al trio protagonista da lui portato all'interno di certi templi, dirà: “Il mondo pullula di rosicruciani e templaristi come quelli che avete visto stasera. Non è da costoro che ci si dovrà attendere una rivelazione, anche se è tra loro che si potrebbe incontrare un iniziato degno di fede... Li guardo con freddezza, la comprensione, l'interesse con cui un teologo può guardare alle folle napoletane che urlano attendendo il miracolo di San Gennaro. Quelle folle testimoniano una fede, un bisogno profondo, e il teologo si aggira tra quella gente perché potrebbe incontrarvi il santo che si ignora, il portatore di una superiore verità, capace un giorno di gettare nuova luce sul mistero della santissima trinità... E dove meglio potrebbe mascherarsi il vero Templare se non tra la folla delle sue caricature?
Una visione comune che sarà poi ripresa anche da Roman Polanski nel film La Nona Porta (1999), tratto dal romanzo di Perez-Reverte Il Club Dumas, quando Frank Langella interromperà un rituale (definito un “farsesco procedimento”) di una setta (nell'occasione satanica) urlando “Mumbo Jumbo!” per richiamare poi l'attenzione dei vari astanti impegnati a salmodiare la nenia del loro officiante (definito "ciarlatano" da Langella) dicendo: “Guardatevi intorno, tutti. Cosa vedete? Un branco di buffoni in abiti strani. Credete che il principe delle tenebre si degnerebbe di manifestarsi a tipi come voi? Non l'ha mai fatto e mai lo farà. Leggete dal suo libro, ma non avete alcuna concezione del suo reale potere.” Il concetto, pur cambiando il settore e la tipologia e gli scopi della setta, si adatta perfettamente alla visione finale di Eco, anzi direi che giunge alla medesima conclusione.

Il citato Agliè è uno dei personaggi cardine del romanzo. Ha un ruolo da Cicerone, visto che spiega al trio i misteri esoterici e lo fa con un linguaggio dotto e al contempo oracolare, affermando addirittura di essere l'incarnazione del conte di San Germano: un avventuriero settecentesco esperto di alchimia che lasciava intendere di essere immortale, raccontando avvenimenti remoti con piglio tipico del testimone oculare. Alla fine, però, anche Agliè finirà per esser coinvolto dall'ambiente corrotto di cui fa parte, facendosi prendere dal desiderio materiale.

Ma qual'è questo desiderio materiale che fa impazzire tutti quanti?
Il trio si convince che il piano di Provins ordito dai templari sia incentrato sulla presenza di un Umbilicus Mundi (l'Ombelico del Mondo) sotterraneo, la cui localizzazione (da effettuare tramite la combinazione di una data cartina posta sotto le oscillazioni del pendolo di Focault) permetterebbe di dominare e dirigere tutti i flussi tellurici del pianeta.
Il problema sta nel localizzare, oltre il punto, la mappa adatta ai fini della localizzazione (cioè quella che mostrerebbe l'Umbilicus nel punto in cui il pendolo si illumina all'alba del 24 giugno). Nell'ottantunesimo capitolo Eco riporta uno stralcio da Beast, Men and Gods (nulla a che vedere con la splendida antologia, dal titolo similare, del grande Lord Dunsany) di Ferdinand Ossendowski, in cui si legge che “Il popolo sotterraneo ha raggiunto il massimo sapere... Se la nostra folle umanità iniziasse una guerra contro di loro, sarebbero capaci di far saltare la superficie del pianeta.” Poco oltre, nel testo, si legge che il “polo iniziatico non è quello dove arriva qualsiasi esploratore borghese abbacinato dal falso sapere della scienza occidentale, poiché il polo che si vede è quello che non c'è e quello che c'è è quello che nessuno sa vedere, salvo qualche adepto che ha le labbra sigillate”. Passaggi, apparsi in modo similare anche in alcuni horror di Dario Argento, che vanno a stimolare la fantasia sia dei protagonisti sia dei lettori attenti, che saranno sempre più presi dalla lettura.

Per risolvere l'arcano relativo a questo mondo sotterraneo, il trio va addirittura a rileggere in un'ottica del tutto nuova la produzione narrativa di due grandi scrittori: Jules Verne e Miguel de Cervantes. In virtù di ciò, Eco opera una chiara ed evidente rivalutazione del romanzo d'appendice (leggasi opera di intrattenimento) a danno della grande arte. Si legge infatti: “Ci hanno fatto credere che da una parte c'è la grande arte, quella che rappresenta personaggi tipici in circostanze tipiche, e dall'altra il romanzo d'appendice, che racconta di personaggi atipici in circostanze atipiche. Io con il feuilleton (cioè i romanzi che uscivano sulle riviste precursori del racconto pulp) giocavo, per passeggiare un po' fuori della vita. Mi rassicurava, perché proponeva l'irraggiungibile. Invece no. Aveva ragione Proust: la vita è rappresentata meglio dalla cattiva musica che non da una Missa Solemnis. L'arte ci prende in giro e ci rassicura, ci fa vedere il mondo come gli artisti vorrebbero che fosse. Il feuilleton finge di scherzare, ma poi il mondo ce lo fa vedere così com'è o come sarà. Quello che è successo davvero è quello che avevano raccontato in anticipo i romanzi d'appendice.”

Da questa premessa fatta da uno dei personaggi del romanzo (Belbo) scaturisce l'analisi specifica sulle opere di Jules Verne e di Cervantes. Di Verne si dice che tutta la sua opera fantastica è una rivelazione iniziatica dei misteri del sottosuolo. Per suffragare tale ricostruzione viene fatto notare come il protagonista del romanzo La Jangada. Ottocento Leghe sul Rio delle Amazzoni si chiami Joam Garral, quasi un anagramma di Graal, mentre il romanzo Robur il Conquistatore rappresenterebbe le iniziali (R.C.) dei Rosa-Croce e al contempo indicherebbe il rosso della rosa (leggendo al contrario Robur si ottiene Rubor) che è, guarda caso, uno dei simboli dei Rosa-Croce.

Ma chi sono i Rosa-Croce? Eco ce lo spiega a inizio romanzo, quando fa inserire nelle menti dei protagonisti il seme del complotto. “Occorre distinguere tra i veri Rosa-Croce, eredi della Grande Fraternità Bianca (cioè i Templari), ovviamente segreti, e i rosicruciani, vale a dire chiunque per ragioni di interesse personale si ispira alla mistica rosa-croce senza averne diritto.” Spiegazione minimalista, ma essenziale e che avrà conseguenze evidenti alla fine del romanzo (si evince che sono tutti rosicruciani). Più avanti, citando il libro Storia e Dottrina dei Rosa-Croce di J.M. Hoene-Wronski, Eco lascia intendere quale sia la funzione di questa associazione misteriosa: “Non potendo scopertamente dirigere i destini terrestri perché i governi vi si opporrebbero, essa agirebbe per mano di una serie di società segrete, divise in gruppi distinti e in apparenza opposti, professanti di volta in volta le più opposte opinioni per dirigere separatamente e con fiducia tutti i partiti religiosi, politici, economici e letterari. Queste società sarebbero poi allacciate, per ricevervi un indirizzo comune, a un centro sconosciuto dove è nascosta la molla potente che cerca di muovere così invisibilmente tutti gli scettri della terra.” Nel testo Eco sintetizza il concetto dicendo che “negli anni '40 sono nati vari gruppi sinarchici che parlano di un nuovo ordine europeo guidato da un governo di saggi, al di sopra dei partiti”.
Dunque tematiche piuttosto contemporanee, direi, che troverebbero, secondo il trio protagonista, nei testi di Verne una sorta di bussola orientativa infarcita di indizi da usare per risalire al segreto rosa-croce.

Come abbiamo detto però anche Cervantes viene sottoposto a un'inedita rilettura, più in particolare la sua opera più famosa: il Don Chisciotte de la Mancha. Lo splendido romanzo, curiosamente al centro anche dell'intreccio del romanzo Il Club Dumas unitamente a I Tre Moschettieri, sarebbe stato scritto addirittura da un ghost writer collegato ai Rosa-Croce. Qui Eco è un po' più criptico e soprattutto opta per un taglio fantastico (sulla scia de Il Milione di Rustichello da Pisa), visto che il passaggio viene inserito in racconto fantasioso di Belbo intitolato Lo Strano Gabinetto del dottor Dee (sorta di omaggio al film cult horror fiore all'occhiello dell'espressionismo tedesco Il Gabinetto del Dottor Caligari); tuttavia i riferimenti sono chiari. “Andreae (presunto pseudonimo di Bacone, ovvero colui che avrebbe scritto i manifesti Rosa-Croce successivi all'errore di calendario che avrebbe fatto saltare l'incontro tra i gran maestri inglesi e quelli francesi) scriveva un romanzo cavalleresco per uno spagnolo che frattanto giaceva in un'altra prigione (il riferimento va a Cervantes). Non so il perché ma il progetto serviva all'infame Bacone, che avrebbe voluto passare alla storia come l'autore segreto delle avventure del cavaliere della Mancha, e che chiedeva ad Andreae di stilargli in segreto l'opera di cui poi egli si sarebbe finto il vero autore occulto, per poter godere nell'ombra del trionfo di un altro. ”

Il tutto viene quindi posto al centro del piano ricreato dal trio e la ricostruzione è così convincente da attirare l'interesse proprio dei presunti eredi dei templari, che poi sono quei personaggi ambigui che gravitano attorno al trio fin dall'inizio, in una follia collettiva che è ben rappresentata, metaforicamente parlando, sia dalla fine di uno dei tre amici colpito dal cancro con tutte le cellule del corpo impazzite, sia dal periodo della Germania Nazista, anch'essa impazzita nella ricerca di Agarthi e del Graal. Alla stessa maniera, anche se in scala ridotta, impazziranno tutti i personaggi coinvolti nell'intreccio, avvolti da una paranoia schizofrenica che li poterà ad assumere comportamenti illogici e addirittura delittuosi.

Al riguardo è geniale il ragionamento fatto da Eco, quando cerca di dimostrare che una falsità, se ben argomentata e intrisa di misteri, diventa di fatto una realtà vera e propria. È la donna del protagonista, ovvero l'anima razionalista del romanzo, che cerca di mostrare allo stesso che un dato può essere suscettibile di variegate e contrapposte ricostruzioni, confermando la teoria di sofistica memoria tutta incentrata sul relativismo (si veda il pensiero del filosofo Protagora). “Il vostro piano è pieno di segreti, perché è pieno di contraddizioni. Per questo potresti trovare migliaia di insicuri disposti a riconoscervisi... Voi avete fatto finta. Guai a fare finta, ti credono tutti. La gente crede a chi vende la lozione per far ricrescere i capelli. Sentono per istinto che quello mette insieme verità che non stanno insieme, che non è logico e non è in buona fede. Ma gli hanno detto che Dio è complesso, e insondabile, e quindi l'incoerenza è la cosa che avvertono più simile alla natura di Dio. L'inverosimile è la cosa più simile al miracolo. Voi avete inventato una lozione per far ricrescere i capelli!”

Eco caratterizza scrupolosamente i suoi personaggi. Il protagonista della storia è un giovane padre, ex studente di filosofia ,assetato di conoscenza, incapace di placare i propri impulsi intellettuali. Non si fermerà neppure dopo la nascita del suo primo figlio. Per lui la ricerca è indispensabile, quasi come se fosse rapito dalla necessità di conoscere il significato dell'esistenza.
Belbo invece è un uomo di mezza età dotato di forte ironia e di uno spiccato stoicismo, ma che in fin dei conti è un fallito, sia come uomo sia come scrittore. Non è sposato, viene tradito dalla donna che ama, trova nel piano la sua unica creazione degna di nota per la quale è disposto a sacrificare la vita. Si devono a lui la maggior parte delle ricostruzioni storico/letterarie inserite nel romanzo.
Il terzo componente è Diotallevi, un ebreo esperto di Cabbala e anche per questo il più equilibrato e riflessivo del trio, che finisce per essere piegato dal cancro e che si convince di aver peccato di presunzione avendo voluto intuire ciò che non è dato sapere.
Interessante anche il titolare della casa editrice presso la quale lavora il trio, un soggetto ipocrita che pubblica, dietro lauti compensi, opere di scrittori mediocri vendendo sogni di gloria che per essi mai potranno concretizzarsi. Anche lui si troverà coinvolto nel complotto, orchestrato dall'esperto Agliè di cui abbiamo già parlato. Tra l'altro è divertente notare le frustate piazzate da Eco in qua e in là, per bocca dei suoi personaggi, relative al mondo editoriale. “In una casa editrice vengono savi e matti. Il mestiere del redattore è riconoscere a colpo d'occhio i matti. Ciascuno di noi ogni tanto è un cretino, imbecille, stupido o matto. Il genio è quello che fa giocare una componente in modo vertiginoso, nutrendola con le altre.”
C'è infine il poliziotto De Angelis, un uomo astuto e abile, che indaga su alcune misteriose scomparse e un omicidio di un colonnello gravitante attorno al mondo paramassonico. Alla fine però, piuttosto che affrontare le minacce che inizieranno a coinvolgere anche lui nel claustrofobico e delirante epilogo, preferirà darsela a gambe.

Veniamo adesso allo stile narrativo che caratterizza l'opera. Il romanzo si apre laddove sta per irrompere la fine e procede, gioco forza, con una serie di flashback. Il protagonista, lo studioso Causabon, racconta tutto dall'interno del museo del Conservatoire des arts et métiers di Parigi al cospetto del pendolo di Focault (strumentazione ideata per dimostrare la rotazione della terra), dove, di lì a poco, si consumerà il delirio finale.

La valenza complottistica ed ermetica del romanzo è chiara fin dalle prime pagine. Il museo, infatti, viene tratteggiato come un luogo simbolico che suggerisce di guardare in modo diverso dalle apparenze quanto in esso è messo in mostra. Sul concetto Eco ritornerà a metà opera, quando parlerà di arte alchemica messa al servizio di strutture e giardini costruiti con una logica magica (“Tutto il giardino è leggibile come un libro o come un incantesimo”).

Causabon racconta quindi come è nato il gioco del piano e da dove sono partiti i fatti che hanno portato al folle e imprevedibile epilogo ormai giunto sull'orlo della follia. Lo sviluppo non è lineare, ma caratterizzato da continui sbalzi temporali dal medioevo alla storia più recente, passando per le vicende personali del trio protagonista.
Il romanzo, oltre settecento pagine, si snoda attraverso dieci capitoli ciascuno dei quali prende il nome delle sefiroth che costituiscono l'albero della vita nella cabbala. Eco antepone a tutto la seguente fascinosa citazione estratta dal De Occulta Philosophia di Heinrich Cornelius Agrippa: “Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza, abbiamo scritto quest'opera. Scrutate il libro, raccoglietevi in quella intenzione che abbiamo dispersa e collocata in più luoghi; ciò che abbiamo occultato in un luogo, l'abbiamo manifestato in un altro, affinché possa esser compreso dalla vostra saggezza.”
Un'apertura che, considerato il resto, attribuisce al volume un ulteriore e fascinoso velo ermetico che rende il lavoro finale superiore al precedente Il Nome della Rosa. Nonostante ciò il romanzo ha uno sviluppo e un ritmo molto più lento dell'opera di debutto del professore e non è per nulla cinematografico. Per intendersi, le prime 330 pagine, se si dovessero tramutare in un'opera per il cinema, finirebbero per esser riassunte in poche decine di minuti. Ciò è dovuto a una scelta dell'autore poiché il soggetto (almeno fino a metà romanzo) è secondario e piegato ai contenuti; in altre parole, ci tengo a ripeterlo, Eco inverte ciò che si è soliti fare in un romanzo commerciale: gli aspetti che dovrebbero essere di contorno e utili a dare verosimiglianza alla storia diventano invece preminenti sulla storia stessa che diviene così una mera occasione per parlare delle questioni trattate.

Siamo al cospetto pertanto di un testo di difficile lettura, che ho cercato di sezionare nel modo più sintetico possibile, capace di donare al lettore nuovi profili di interpretazione all'aumentare delle letture e soprattutto di offrirgli spunti utili per incrementare la propria cultura, oltre che alcuni insegnamenti, il tutto inserito in un contesto di feroce critica, dal sapore parodistico, di certi ambienti sociali orientati alla soddisfazione di bisogni materiali (nella fattispecie il controllo delle masse).

Chiudo la recensione in modo circolare (rispetto alla citazione posta da Eco all'inizio del romanzo) e beffardo, un po' come lo è tutto il romanzo, riportando un'altra citazione posta dall'autore all'inizio del capitolo 60:
Povero stolto! Sarai così ingenuo da credere che ti insegniamo apertamente il più grande e importante dei segreti? Ti assicuro che chi vorrà spiegare secondo il senso ordinario e letterale delle parole ciò che scrivono i Filosofi Ermetici, si troverà preso nei meandri di un labirinto dal quale non potrà fuggire, e non avrà filo di Arianna che lo guidi per uscirne” (Artefio).
Da avere in biblioteca.

giovedì 10 ottobre 2013

Recensione Narrativa: IL MISTER (di Manlio Cancogni, Romanzo dedicato dall'autore a Zdenek Zeman)

Autore: Manlio Cancogni.
Anno: 2000.
Editore: Fazi Editore.
Pagine: 142.
Prezzo: 22.000 lire.

Commento Matteo Mancini.
Romanzo breve edito da Fazi Editore, nell'aprile del 2000, per la brillante penna di Manlio Cancogni.
Scrittore bolognese classe 1916, vincitore, tra gli altri, del premio Strega nel 1973, Cangogni si ispira all'enigmatica figura dell'allenatore di calcio Zdenek Zeman (a cui dedica esplcitamente il romanzo) e al film Il Diavolo e l'Acquasanta (1983), diretto da Bruno Corbucci e interpretato da Tomas Milian, per tessere le trame di una storia calcistica incastonata in un soffocante ambiente fatto di misteri e intrighi occulti.

Cancogni sviluppa il soggetto in tredici capitoli, filtrandolo dagli occhi di un bambino di una dozzina di anni. I fatti si svolgono a Roma a cavallo tra il 1932 e il 1933.
La storia ruota attorno a un misterioso sloveno che si chiama Vecto Zoran (anche se poi circola con un nome italianizzato) dal passato importante in ambito calcistico. “Poco più che ragazzo s'era fatto un nome, grazie soprattutto alla sua sveltezza e all'imprevedibilità delle sue mosse. Allo Slavia di Lubiana lo chiamavano la gazzella”. Acquistato dall'Alba (una delle quattro società romane di calcio militanti nelle serie superiori) si era affermato tra i più forti attaccanti della categoria, prima di ritirarsi a seguito di un misterioso infortunio. Scomparso nel nulla per più di cinque anni, Zoran riappare a Roma e viene assunto come traduttore in un mobilificio della capitale di proprietà di una famiglia di massoni: i Malafronte (così scrive Cancogni: “Il vecchio Malafronte era un massone, un 33”. Il figlio più piccolo della famiglia, tale Michele Malafronte, è ossessionato dal calcio e ha un sogno: allestire una squadra del quartiere Savoia per partecipare al campionato rionale nella stagione '32/'33. Così inizia a corteggiare il vecchio campione slavo che però terciversa: “Se tu ricominciassi... Se ti tornasse la fantasia gli faresti ancora vedere i sorci verdi a 'sti burini.” Michele infatti è in aperto contrasto con i gerarchi fascisti che controllano la zona e soprattutto con il titolare della squadra blasonata del quartiere: l'Aquila Romana. "Una nuova squadra al Savoia non serve, sarà motivo di divisione" mugugnano i detrattori.
Zoran, tratteggiato fisicamente come una sorta di Nosferatu (pallido, smilzo, alto, con un timbro di voce monocorde e un naso alla Pinocchio) resta impassibile e suscita grande fascino attorno a sé. Vive nei pressi di Monte Sacro (“Stai a casa del diavolo!” lo canzonerà il presidente), con due sorelle a cui offre consigli mentre legge un libro celato da una tenda stesa come separé per delimitare la sua stanza da letto.

Intanto Michele Malafronte allestisce la squadra affidandola in allenamento a un tale di nome Dionigi. I progetti del giovane, pur meno dotato sotto il profilo finanziario rispetto ai rivali dell'Aquila, sono ambiziosi. Fa realizzare il campo sportivo sullo sfondo di Villa Ada (dimora del Re d'Italia), cosa che manda subito su tutte le furie i rivali. Il debutto però è traumatico. I gialli canarino (questo il colore delle divise) naufragano subito al debutto contro i rosso-nero della Concordia e continuano a perdere contro il Parioli, la Virtus e il Bornigia, a differenza dei rivali che invece superano l'Italia Nova, il Candelotti e la Mater.

Il giovane Ugo, inizialmente ostile all'armata brancaleone del Malafronte di cui vede di sfuggita le partite mentre porta a spasso la sorellina handicappata, resta folgorato dalla partita che segna il ritorno in campo di Zoran.
Cancogni offre qua il meglio di sé e confeziona un paio di capitoli favolosi per il trasporto e il taglio cinematografico con cui sono in grado di colpire le corde emozionali del lettore.
La partita è Malafronte contro Urbe, con i padroni di casa costretti a giocare in dieci per la defezione di un loro giocatore. In panchina dei locali ci sono il presidente, l'allenatore Dionigi e uno sconosciuto pallido e magrolino avvolto da un lungo impermeabile. L'Urbe si porta in vantaggio per tre a zero e questo, paradossalmente, segna una svolta per i padroni di casa. Leggiamo dalle parole scelte da Cancogni per raccontare la scena: “Riapparve Zoran. Ugo ebbe l'impressione che si fosse materializzato dal nulla, o che fosse stato sempre lì, a due passi di distanza, invisibile. Notò, oltre il pallore del viso, un tremito alla bocca che gli ricordava il fratello di una loro donna di servizio di tanti anni prima che aveva fama di visionario... Poi vide, o credette di vedergli ai piedi un paio di scarpe da calciatore. Il cuore cominciò a battergli forte (come gli accadeva quando intuiva confusamente, con un senso di fatale certezza, che qualcosa di importante stava per accadere) facendogli salire il sangue al viso, alla fronte e alle tempie.
È sul terzo goal che il presidente sbotta e caccia via Dionigi: “Vai!” grida a Zoran. Cancogni prosegue: “Zoran si lasciò togliere dalle spalle l'impermeabile. Era già in tenuta: maglia gialla, calzoncini neri, calzettoni neri con risvolto giallo.” In un amen, lo straniero ribalta la situazione a favore della sua squadra stregando gli spettatori, gli avversari e il giovane Ugo che appena giunto a casa racconta alla sorella le meraviglie di cui era stato testimone: “Dovevi vedere i due difensori dell'Urbe! Quando lui ha fatto quella semplice mossa col naso, loro si sono aperti, uno di qua, uno di là; la palla c'è passata in mezzo”. In particolare Ugo resta affascinato dall'immagine finale della giornata: i compagni Ardito e Cristiani che sollevano in aria Zoran e lo portano in trionfo.

Con Zoran nelle vesti di allenatore/giocatore il Malafronte inizia a incantare il circondario, attirandosi contro le invidie dei potenti. “Ai segni di Zoran i giocatori del Malafronte, simili a orchestrali attenti ai cenni della bacchetta del maestro, si muovevano pronti” scrivono i giornali.

Che cosa si sono messi in testa quei due (Michele Malafronte e Zoran)? Di portare via all'Aquila i tifosi? Di fare i capipopolo?” sono invece le voci che cominciano a serpeggiare in certi ambienti. E così attorno ai canarini inizia a diffondersi un clima di sospetto e di ostracismo sempre più forte. La squadra non ha protezione politica, è seguita e supportata solo dai meno abbienti (“il popolo di nessuno”) che si identificano in essa e la cosa inizia a infastidire i politici. “Ma chi ci dice che questa folla di minimi, questo polverio umano, sollevandosi come in certe giornate di scirocco non possa formare un turbine, un vortice, una specie di tromba marina che quando comincia a girare gonfiandosi nessuno sa dire dove finirà?” sostengono i più cinici.

Le attenzioni si spostano subito sull'elemento più rappresentativo della squadra, lo straniero Zoran il quale ci mette pure del suo ad alimentare l'interesse mediatico. Intervistato agli inizi del '33 regala ai giornalisti una serie di freddure di zemaniana memoria, glissando sul suo vero nome e facendo mistero sulle ragioni del suo ritiro ai tempi dell'Alba (“Non fu per volontà mia, ma di chi lo ordinò”), ma soprattutto sparando a zero sull'Aquila Romana, presentata dall'intervistatore come una squadra titolata (Zoran risponderà così: “Nel mio paese si dice che gli alberi grandi si coprono di funghi ed è meglio fidarsi delle pianticelle”), e spiegando il segreto della sua cura (“Non do ordini, è il mio esempio che contagia i giocatori”).

In un clima di crescente ostilità, Zoran trascina la squadra alla finale contro l'Aquila Romana. Memorabile la descrizione della sfida contro lo Ster con uno Zoran scatenato che mette a soqquadro i più forti rivali fino a piegarli a suon di sassate da fuori area. Cancogni sottolinea il tutto con un entusiasmo per la narrazione che sconfina nella poesia per effetto delle sensazioni e delle emozioni rappresentate dai pensieri del piccolo Ugo.

A questo punto, come se già quanto sopra non bastasse, Cancogni infarcisce la storia di spruzzate esoteriche. Accadono infatti due eventi, entrambi nei pressi di Villa Ada, che allarmano le autorità. In prima battuta si vocifera di un'apparizione mariana, caratterizzata da un'intensa luce accompagnata “da un'onda soavissima di profumo, simile a quello delle roselline rampicanti”. Subito dopo le forze dell'ordine portano alla luce i membri di una società segreta formata da uomini di mezza età, con simpatie socialiste, dediti a riunirsi, nelle ore notturne, per adorare il Signore in piena libertà di spirito.
I due eventi mandano nel caos le autorità e gli scagnozzi dei politici, che intensificano i controlli compresi quelli sul Malafronte. Si innesca così una sequela di eventi che porteranno all'improvviso rapimento di Zoran (“quei giocatori lo seguono come se fosse un santo”), precedentemente insultato (“con quali parole definire un uomo ancora giovane, che pur essendo celibe era privo di relazioni femminili, né passeggere né stabili?”), attaccato moralmente e infine minacciato insieme al presidente (che a differenza dell'allenatore inizia a vacillare fino ad arrendersi alle pressioni), proprio alla vigilia della finale con l'Aquila Nera.
Nonostante gli attacchi Zoran sarà integerrimo fino all'ultimo: “Sono venuto a fare il mio lavoro, fra pochi giorni l'avrò finito. Non mi sono mai nascosto: chi mi vuole sa dove trovarmi!” atteggiamento che rende ancor più epico il suo personaggio.

Dunque un romanzo dal taglio cinematografico che ha un inizio dai contenuti e dai personaggi molto smargiassi, ma che, a poco a poco, seppur retto da un atteggiamento di lotta per l'affermazione dei veri valori finisce per tingersi di una drammaticità che si trasforma in tragedia a causa di un ambiente bigotto, ipocrita, invidioso e retto dai preconcetti e dalla paura del diverso (sia di nazionalità, sia di idee politiche o religioso, sia di abitudini di vita), tutti aspetti che portano all'incancrenimento della società. Si può quasi dire che l'epilogo assume contorni persino da spy story, visto che entrano in scena alte cariche politiche intenzionate a ripristinare lo stato d'ordine consueto il tutto con la connivenza passiva delle forze armate che non indagano sui fatti.
Siamo quindi alle prese con un bel romanzo dall'apparenza sportiva ma che indaga poi su aspetti molto più profondi, scritto con uno stile asciutto e rapido che trasuda di emozioni per tutto il corso dell'opera. Forse il ritmo tende a calare negli ultimi capitoli, ma resta comunque un'opera che, se trasposta sul grande schermo, sarebbe capace di garantire un sicuro successo ai produttori. Sicuramente consigliato.

PS:
Zoran non solo aveva trasformato una squadra, aveva rigenerato un pubblico. Forse nascosto nel cuore di ciascuno di loro c'era un desiderio, un bisogno, che andava oltre la soddisfazione offerta da un semplice episodio sportivo. Zoran l'aveva acceso...
Caduto Zoran, sconfitte le maglie gialle che col loro esempio avevano acceso una speranza, quei poveracci sarebbero tornati a essere gli annoiati e casuali testimoni di partitelle domenicali e periferiche
."

Al seguente link, invece, la sintesi del film "IL DIAVOLO E L'ACQUASANTA" (il cui soggetto, seppur molto più semplice e non dotato di fascino, ricorda quello del libro di Cancogni): http://www.youtube.com/watch?v=ua_jTw24D4w

venerdì 20 settembre 2013

Recensione cinematografica: RUSH (Regia Ron Howard)

Regia: Ron Howard.
Anno: 2013.
Sceneggiatura: Peter Morgan
Interpreti principali: Chris Hemsworth, Daniel Burhl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino, Christian McKay.
Colonna Sonora: Hans Zimmer.
Durata: 123 min.
Giudizio Mancini: *****

Commento di Matteo Mancini
Dopo film di notevole successo come Apollo 13 (1995), A Beautiful Mind (2001), Angeli e Demoni (2009) e Il Codice da Vinci (2006), il premio oscar Ron Howard tenta un'impresa che solo pochi colleghi negli anni '70 avevano azzardato compiere: fare un film sulla formula 1 e con un budget non troppo alto (38 milioni di dollari).

Howard si affida, per la sceneggiatura, all'inglese Peter Morgan con cui aveva già collaborato nella stesura dello script di un altro storico e leggendario duello: Frost/Nixon (2008).
I due decidono così di raccontare l'incredibile campionato del mondo di Formula 1 dell'anno 1976 che vide contrapposti due piloti in quello che potrebbe sembrare una sfida western trasposta su una serie di piste per mezzo di bolidi lanciati a 270 km/h: il confronto tra il "professore" austriaco Niki Lauda e il cavallo pazzo inglese James Hunt.

Morgan, aiutato anche dalla collaborazione dello stesso Niki Lauda e dal personale della scuderia Ferrari, realizza un copione eccezionale impreziosito da monologhi e dialoghi che non possono che esaltare l'appassionato della formula 1 dei tempi che furono, anni in cui correre significava sfidare la morte a ogni gran premio (infatti la morte è spesso presente nel film dall'incidente letale del grande François Cevert allo schianto di Lauda).

Il ruolo dei due eroi, paragonabili per ardore e grinta a Ettore e Achille, viene affidato a Daniel Bruhl, il cecchino nazista di Bastardi Senza Gloria (2009) di Quentin Tarantino, e a Chris Hemsworth già protagonista in Thor (2011) agli ordini del nord irlandese Branagh, The Avengers (2012) e Red Dawn (2012) entrambi pettinati e presentati in modo da essere delle vere e proprie gocce d'acqua rispettivamente di Niki Lauda e di James Hunt.

La ricostruzione del periodo storico è eccellente, sia in pista che fuori. La troupe ha usato vere e proprie macchine da corsa convincendo i collezionisti a metterle a disposizione per le riprese. Belle sono anche le sequenze fuori dagli autodromi, come quella in cui vediamo due meridionali offrire un passaggio a Lauda rimasto a piedi nella campagna tirolese.
Per fortuna, una volta ogni tanto, non si ricorre (salvo qualche ritocchino) alla computer grafica, e ciò è un grande bene poichè sembra di assistere a vere gare.

Oltre ai due protagonisti, viene riservato qualche scampolo, seppur poco sviluppato, a Clay Regazzoni (interpretato dal nostro Favino, purtroppo non sfruttato a dovere a causa della marginalità del personaggio) compagno di squadra di Lauda. Gli altri fanno comparse perfino inferiori (Mario Andretti, Vittorio Brambilla, Arturo Merzario, John Watson, Carlos Reutemann), a eccezione di Lord Hesketh (colui che portò Hunt in formula 1 mettendolo su un auto che rifiutava qualunque tipologia di sponsor, perché ritenuto troppo volgare) che ha un certo ruolo nella vicenda e cui da corpo il bravo Christian McKay). Fa una fugace apparizione anche Enzo Ferrari (definito il commendatore o il grande vecchio).

Il soggetto si concentra sulla stagione 1976, più in particolare sul duello tra Hunt su McLaren e Lauda su Ferrari, avendo particolare riguardo ai gp di Germania, Italia e Giappone. Prima di giungere però a tal punto, vengono subito tratteggiate le psicologie dei due rivali mostrandoli in azione, già da avversari, nelle categorie minori.
Da una parte il facoltoso e riservato Lauda che, pur osteggiato dalla famiglia di banchieri, fa di tutto per correre in pista pagando di tasca propria i costruttori; dall'altra il grintoso e squattrinato Hunt. Lo sceneggiatore caratterizza in modo perfetto i due personaggi. Lauda è un calcolatore metodico, piuttosto antipatico all'ambiente in cui lavora perché dice tutto quello che pensa attaccando ferocemente anche la Ferrari (non a caso il grande Enzo non lo amava e lo farà fuori nel 1977 preferendogli Gilles Villeneuve). Geniale nella messa a punto dell'auto (si veda la sequenza in cui prevede i problemi di un auto privata sostenendo di sentire tutto quello che non va grazie a una sensibilità particolare concentrata nel suo sedere) e nella continua ricerca nella cura del dettaglio. Un vero e proprio maestro nella messa a punto e nello sviluppo del mezzo.
Hunt invece è il classico genio & sregolatezza (definito Super Star dal suo primo tifoso, cioè il facoltoso Lord Hesketh). Anche lui poco amato dai colleghi, per via del temperamento smargiasso, mette in mostra una grande intelligenza (nel film non viene mostrato ma era un grande letterato). Lo vediamo puntare tutto sul coraggio e sul suo talento estremo spinto fino ai confini della follia, tanto da valergli il soprannome di Hunt the Shunt (Hunt lo Schianto) per i suoi frequenti incidenti.

Così viene sviluppata l'accesa ma corretta rivalità tra i due, che alla fine giungono con lo stimarsi vicendevolmente (notevole lo scambio di battute finali in cui si respira la vera filosofia dello sport) il tutto in una cornice spettacolare che inchioda senza respiro lo spettatore alla poltroncina.

Non manca qualche stoccata ai danni del business (si fanno correre i piloti in condizioni estreme) e soprattutto su un certo giornalismo privo di etica (bella la scena in cui Hunt pesta un giornalista colpevole di aver offeso in modo indegno Lauda).

Howard mostra incidenti, toccate, passaggi indiavolati su chicane con la mdp collocata a una spanna dalle ruote che rasentono i cordoli, ma anche tutti gli eccessi di Hunt che fa all'amore in ogni posto e si sgola di continuo birre pensando a divertirsi sempre e comunque.

Favoloso il make up, con Bruhl sfigurato proprio come lo era Lauda, così come è magistrale la ricostruzione dell'incidente in cui il pilota austriaco rischiò di perdere la vita ma che non lo frenò dal ritornare coraggiosamente in pista.

L'ultimo Gran Premio in Giappone, ai piedi del Monte Fuji, è un concentrato di adrenalina pura. "Accendi la bastarda" dice il meccanico al pilota inglese poco prima del semaforo verde del gran premio in cui Hunt e Lauda si contentono il titolo in una tempesta di vento, acqua e nebbia, tra sorpassi pazzeschi e derapate controllate su una pista allagata. Lauda, menomato anche dai dolori delle ustioni e dal terrore del Ring, decide di ritirarsi perché reputa da pazzi proseguire (grandissimo coraggio nell'ammettere candidamente la propria scelta invece di nascondersi in una cortina di ipocrisia adducendo falsi guasti meccanici), il suo rivale invece va avanti nonostante le gomme deteriorate e la leva del cambio rotta con conseguete ferita al palmo della mano. La caparbietà dell'inglese verrà premiata con una vittoria mondiale dal sapore dell'impossibile, visto il vantaggio che Lauda aveva in precedenza accumulato e vista la rimonta finale dovuta alla necessità di un improvviso cambio gomme.

Erano anni che non mi capitava di vedere un film scatenato e coinvolgente come questo che incarna la vera filosofia dello sport. Howard opta per un taglio registico dinamico con camera car perfetti, soggettive e movimenti di macchina studiati per creare spettacolo. Grande attenzione anche nel mostrare i dettagli (piedi sui pedali, mani sui cambi, occhi che scrutano il cielo, pistoni che si muovono all'interno dell'auto), sfoggiando un piglio fumettistico e al contempo pulp. Non manca infatti una certa spruzzatina in tal senso, garantita soprattutto dall'atteggiamento ribelle e canzonatorio di Hunt, con le sue scappatelle e le spacconate sia in pista sia a parole. Discreta pure la colonna sonora, patinata la fotografia.

A mio avviso, come minimo, otterrà più candidature all'Oscar. DA VEDERE AL CINEMA! Grande Ron Howard, ma questa non è una novità.
Tra i migliori film del 2013.

Ps: qua vi segnalo l'eccellente speciale curato dalla RAI sul film e sui due veri contendenti:
http://www.youtube.com/watch?v=a-w9bgqB2hs

venerdì 13 settembre 2013

Recensione saggistica: DOVE SOFFIA SEMPRE IL VENTO (Sigfried Stohr)


Autore: Sigfried Stohr.
Editore: Fucina Srl.
Anno: 2004.
Genere: Saggio sportivo/motivazionale.
Pagine: 192.
Prezzo: 20 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Splendida sorpresa acquistata dal sottoscritto per la curiosità di conoscere la storia del pilota di Formula 1 misconosciuto Sigfried Stohr di cui ricordavo un assurdo incidente (attribuibile alla scarsa attenzione dei direttori di gara) che lo vide coinvolto sulla griglia di partenza del Gran Premio del Belgio del 1981.

Il libro è uscito nel 2004 edito dalla Fucina srl di Milano, casa editrice che sfoggia un catalogo che per gli amanti degli sport motoristici è paragonabile a quello che per i bambini potrebbe essere un negozio di giocattoli fornito di tutte le ultime novità. Peraltro si tratta di una bella edizione con tanto di inserti fotografici pubblicati su carta lucida.

Il titolo del volume invece fa il verso alla seconda passione dell'autore ovvero l'alpinismo. Stohr, infatti, dopo essersi ritirato dalla F1 si è dedicato allo scalare le vette e da qui il titolo che suona un po' come l'espressione calcistica del “lassù dove osano solo le aquile” per indicare le alte vette dominate dai venti.

Chi segue il mio blog sa che sono un grande appassionato di biografie di sportivi, soprattutto dei c.d. atleti genio & sregolatezza, categoria a cui è ascrivibile anche Stohr. Dunque ne ho lette diverse, più di quelle che compaiono recensite su queste pagine, ma devo dire che questo volume, se non è il migliore, si assesta tra le biografie più riuscite tra tutte quelle che ho letto e sotto tutti i punti di vista (sia stilistici che contenutistici).

Stohr stende quella che potrebbe definirsi un'autobiografia mascherata da vademecum per aspiranti piloti, da qui il sottotitolo “Come diventare piloti di Formula 1”. La ragione di tale scelta, probabilmente, è riconducibile alla scarsissima conoscenza che il grande pubblico ha di Sigfried Stohr. In altri termini credo che Stohr temesse che una semplice autobiografia non se la sarebbe filata nessuno e di qui la scelta di dare al volume la parvenza di un manualetto in modo da attirare tutti gli appassionati di F1, specie i più giovani.

Pilota nativo di Rimini ma di padre tedesco, cresciuto in Romagna e con un background da psicologo innamorato della filosofia, Stohr è stata una promessa dell'automobilismo italiano di fine anni '70. Abbastanza squattrinato e a corto di sponsor, ha trionfato nelle categorie inferiori (Nazionale italiana ai campionati europei di Kart, Campione di Formula 2) denotando una notevole superiorità sulle piste allagate che lo ha poi portato ad approdare in F1 (13 gran premi disputati nella stagione 1981 in cui venne sostituito in corsa dal fratello di Gilles Villeneuve, ottenendo come miglior piazzamento in griglia il tredicesimo posto e un settimo posto all'arrivo) al fianco del più famoso Riccardo Patrese su Arrows. Purtroppo, proprio a causa degli scarsi fondi, si è sempre trovato costretto a competere su auto con accessori e motori di seconda scelta (anche rispetto a quelli messi a disposizione del compagno di squadra) tanto da non riuscire a emergere nella massima serie. Da qui la parabola discendente che lo ho portato al prematuro ritiro, parabola altresì accentuata da un carattere focoso e allo stesso tempo scanzonato, poco interessato ai salotti dei poteri forti e alle ruffianerie, molto più vicino ad atteggiamenti da artista bohemien (infatti si presentava in pista con barba incolta, capelli lunghi e casco racchiuso in una busta di plastica, suscitando le ire del capo squadra).

Il volume, infarcito di passaggi filosofici e mitologici connessi al mondo dell'antica Grecia, si apre con una bellissima citazione estrapolata dal film vincitore di sette premi oscar Lawrence D'Arabia, massima a sua volta ripresa da uno stralcio di un racconto di Edgar Allan Poe: “Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte scoprono al risveglio le vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno a occhi aperti, per attuarlo.”

E così il libro si snoda in quattro lunghi capitoli per un totale prossimo alle duecento pagine che scorrono via in modo perfetto, divertente e soprattutto dotto (Stohr snocciola citazioni ispirate a scrittori magistrali come Jorge Luis Borges o Italo Calvino, ma anche a sportivi come il tennista John McEnroe e grandi filosofi come Eraclito, Protagora e Socrate tutti “pretoriani del Mancho” come direbbe qualcuno di mia conoscenza) dando vita a un libro che è un po' un manuale di motivazione psicologica (non a caso Stohr prima di correre in F1 aveva fatto lo psicologo a Ravenna, ora invece tiene corsi di guida veloce a Misano) e un po' un manuale che spiega il percorso per approdare in F1. Non mancano poi aneddoti legati a tutta la carriera del pilota (a partire dal suo nome di battesimo con tanto di riferimento alla leggenda di Sigfrido recentemente citata anche da Quentin Tarantino in Django Unchained), dagli attriti con Riccardo Patrese (accusato da Stohr di volere per sé il meglio a discapito degli altri) ai duelli a colpi di ruota con i piloti delle categorie inferiori, il tutto raccontato con un inconfondibile stile da simpatica canaglia e un atteggiamento tipico degli antieroi protagonisti negli spaghetti western di Sergio Leone.

Molti i passaggi meritevoli di esser citati per la loro potenza concettuale (ho sottolineato ¾ del libro), si potrebbero scrivere pagine e pagine ma preferisco non farlo poiché il libro merita davvero l'acquisto e quindi ve le dovrete cercare per conto vostro. Alcune però le riporto qui di seguito come la massima inserita in prefazione da Stohr che, dopo aver sottolineato che un grande risultato finale deve essere sempre legato a un percorso fatto di faticosissime tappe, arriva a scrivere: “La tecnica la imparano in tanti, infatti un campione-artista si trova spesso a lottare con tanti onesti artigiani che hanno il mezzo migliore o che a forza di girare in tondo in una pista imparano le curve anche se sono negati. Ma i capolavori al volante non si fanno girando in tondo: essi devono scaturire dal profondo della nostra anima, da un duro lavoro di crescita che passa attraverso tappe di sofferenza, di scoperta, di paura, di acquisizione di saggezza. Così, ogni campione deve sviluppare una sua filosofia, che nasce dalla sua storia personale.”
Dunque fin dalle primissime pagine Stohr focalizza l'attenzione su quelli che (a ragione) ritiene gli aspetti fondamentali per una crescita evolutiva del soggetto (“Non sono eccezionali le capacità di un campione, ma il modo in cui esso le ha sapute sviluppare”): il duro lavoro (e non gli aiuti di terzi, poiché “La forza è un albero che cresce nel campo delle avversità, si concima con le sfide e le sofferenze”), la costanza (“Bisogna avere fede nel cambiamento, non bisogna mai disperare che arrivi il nostro momento: la fortuna gira in fretta”), la motivazione (“La motivazione è la molla che differenzia il campione naturale dal grande campione”), l'analisi introspettiva (e non l'attribuire colpe a terzi per scusare i propri insuccessi), l'importanza degli errori da interpretare come manne venute dal cielo per ottenere spunti indispensabili al miglioramento (“Un campione sa nuotare controcorrente. E se non affoga diventa più forte”), il superamento delle paure interiori ed esterne da effettuare affinando la conoscenza (“Bisogna sempre temere quelli forti, rispettarli, ma non mostrare mai timore reverenziale. Per nessuno!”), l'onesta da intendersi come lealtà di confronto in un duello serrato, il coraggio di prendere decisioni importanti senza ripensamenti (“Quando arrivavo io, dovevano sapere che ero uno che non ci pensava due volte a buttarsi in un sorpasso, che ero disposto anche a rischiare il contatto”), l'importanza della forza interiore (“Solo chi la possiede riesce ad ammettere le proprie paure, e ciononostante a riaffrontare i demoni interni e batterli”) e infine l'approccio filosofico (e non casuale o non controllato) applicato alla propria professione (da intendersi però anche alla vita di tutti i giorni secondo la mia massima “lo sport è metafora di vita”). Su questi aspetti si sviluppa l'intero volume che non è mai banale e mai pesante (tra l'altro migliora con lo scorrere delle pagine), ma che è un concentrato di saggezza che fa di Stohr un campione non solo del volante ma anche di motivazioni e di didattica psico-filosofica. Un vero maestro.

Eloquente è anche la scelta del casco che Stohr vuole, fin dagli inizi, dedicare a un pilota scomparso in gara (una sorta di tributo) fino a decidere di scegliere i colori e i disegni del finlandese Jarno Saarinen invertendone però i colori (il bianco e il rosso): “Jarno aveva il casco bianco con una specie di croce rossa, come un guerriero crociato. Il mio riprese il suo disegno, avevo però invertito i colori.”

Consiglio vivamente il volume a tutti gli appassionati di Formula 1 e di sport in generale, oltre a coloro che ricercano testi motivazionali anche al di fuori del mondo dello sport.

Stohr, grazie anche a questo volume che me lo ha fatto conoscere nell'intimo, entra di diritto tra i miei personaggi sportivi preferiti di sempre, al fianco dei più grandi. Il libro, invece, troverà posto accanto a un altro ottimo volume da me apprezzato (e recensito) ovvero Il Piccolo Aviatore di Andrea Scanzi (biografia ovviamente del grande Gilles) poiché spesso, come diceva Ernst Junger “La valutazione di un eroe non corrisponde a quella che ne darebbe un bottegaio: lui non guarda al successo, bensì alla grandezza del comportamento”; in altri termini i risultati fanno gli albi d'oro, ma ci vuole ben altro per partorire una stella.

Post recensione:
Pongo qui di seguito cinque passaggi esilaranti (il libro però ne è pieno) che tratteggiano bene la psicologia guerriera di Stohr.

1) Dal capitolo "Piccoli Omicidi", pagina 49:
“Verso fine gara, venni raggiunto da un avversario sconosciuto che tentò di passarmi all'esterno: mi appoggia sulle sue ruote e lo buttai fuori. Si schiantò violentemente contro le balle di paglia...
A fine gara venni chiamato dal direttore di gara che, davanti al mio avversario indiavolato, mi chiese se fosse vero che lo avevo spinto fuori. Gli dissi di sì, che lo avevo fatto.
Il pilota avversario mi guardò incredulo, poi, soddisfatto, mi strinse la mano e se ne andò. Il direttore di gara non mi squalificò perché l'altro aveva ritirato il suo reclamo e anche per la mia onestà.”


2) Dal capitolo "Parmalat", pagina 73.
Nel 1978 stavo infilando, in Formula 3, una vittoria dietro l'altra. Avevo vinto le prime tre gare, di cui una sotto la pioggia in cui avevo doppiato tutti tranne il secondo... Una furia. Il giorno delle prove a Montecarlo pioveva, e la cosa a me non dispiaceva. Sulla salita di Saint Devote avevano installato un pannello luminoso. Salendo il breve e angusto rettilineo, avevo il tempo di buttare l'occhio sul pannello: in cima alla classifica dei tempi c'era il numero 53, e notai che il secondo era staccato di ben due secondi!
«Porco diavolo! Ma chi è che si permette di dare due secondi a tutti?»
Mi misi a tirare come un dannato: io, due secondi non me li potevo prendere; da nessuno.
Miglioravo i miei tempi, ma quel diavolo del numero 53 migliorava anche lui, e c'erano sempre due secondi che lo distanziavano da tutti gli altri.
Dentro al casco pensavo indispettito: «Ma chi è 'sto qua, Niki Lauda?»
Rientrai al box un po' avvilito.
Il mio ingegnere, Ugo Kloden, impassibile si chinò verso di me e mi chiese come andava.
L'auto va bene, gli dissi, ma gli confessai che ero un po' avvilito per quel 53 che andava così forte. Gli chiesi di chi si trattasse.
«E' il numero della tua auto» mi disse serafico Ugo, senza scomporsi.
«Porca paletta! Sono proprio scemo! Però Ugo... Sono qui che do due secondi a tutti e manco una pacca sulle spalle mi dà. Che bestia!»


3) Dal capitolo "Mezzo metro in più", pagina 96.
Il mio team manager Jackie Oliver, ex pilota di F1, viene da me e mi sgrida: «Ma come guidi? Sei pazzo? Non ti sei accorto che ogni giro vai fuori pista?»
Le formula 1 di allora avevano le gomme molto larghe, specie quelle posteriori. Così io avevo scoperto che potevo fare la frenata con le quattro gomme in pista e poi, prima di inserire, spostare l'auto verso l'esterno della curva, oltre la linea bianca finendo con mezza gomma posteriore destra sulla terra. Questo mi faceva guadagnare trenta centimetri di pista prima dell'inserimento: un'enormità, che mi permetteva di uscire dalla curva più veloce. Lo facevo tutti i giri, ci avevo preso la mano solo che sollevavo una bella nuvoletta di polvere e Oliver si era spaventato: lui credeva che non me ne fossi accorto. Ma che razza di pilota era mai stato questo Oliver in Formula 1?”


4) Dal capitolo "Il Lupo e la Volpe", pagina 105.
Pioveva e lui (Enzo Coloni) mi bruciò al via. Alla seconda curva già lo tallonavo. Alla terza fintai il sorpasso a destra, all'interno: lui strinse quel poco che mi impediva di infilarmi. Io mi buttai tutto all'esterno sparendo così dal suo specchio destro... Lui si concentrò sulla curva mantenendo una traiettoria centrale ma, all'ultimo istante, io mi buttai al suo interno e lo passai in staccata. Al tornante! Davanti a tutti gli spettatori sulla tribuna! Lì dove è praticamente impossibile passare, io passai l'esperto pilota umbro che conosceva la pista come le sue tasche. Che lezione! Roba da scendere e tornarsene a casa rasentando i muri... Alla staccata dopo però, prima di voltare, buttai l'occhio sul retrovisore destro e, con sorpresa, me lo vidi arrivare come un proiettile all'interno: non sembrava un disperato tentativo di sorpasso, ma una deliberata manovra in rotta di collisione e speronamento! Istintivamente raddrizzai il volante, ritardai l'inserimento e lo vidi sfilare al mio interno come un missile, incapace di cambiare direzione, infilare l'erba e proseguire come un fuso verso il lago Trasimeno.
Mi voltai, lo guardai sparire lontano fra spruzzi di pozzanghera, curvai e mi tuffai nel rettilineo successivo. Passai sul traguardo facendo gesti di protesta, ma l'avevo scampata bella e ora potevo vincere la mia batteria. La mia soddisfazione principale non sarebbe stata per la vittoria, quanto per la bella lezioncina rifilatagli. Perché se lui era il Lupo, stavolta io ero stato la Volpe.”


5) Dal capitolo "Il Sapere del Pilota", pagina 155.
“Elemento costante dei piloti è quella che viene definita personalità di tipo T, caratterizzata da coraggio e sprezzo del pericolo... vissuto di onnipotenza, scarsa valutazione della realtà. Con queste caratteristiche psicologiche un pilota porterebbe la sua nave a infrangersi sugli scogli e non all'approdo sicuro! Ma questi sono solo psicologi che spiano gli altri dal buco della serratura senza capire nulla!
Guarda guarda, gratta gratta, non è che il profilo reale del pilota, quello vero e non la sua caricatura vista attraverso gli occhi del pubblico, sia proprio l'esatto opposto? Allora forse la dote principale del pilota non è il coraggio di fronte al pericolo, la sua determinazione nell'affrontare il rischio, ma proprio la sua capacità di evitarlo ciò perché chi sa è più audace di chi non sa e tanto più audace diviene dopo aver appreso ciò che non prima di apprendere!”