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lunedì 22 luglio 2013

Recensioni Saggi: Storia della Filosofia Greca - I Presocratici (Luciano De Crescenzo)


Autore: Luciano De Crescenzo.
Editore: Mondadori.
Anno: 1983.
Genere: Filosofia.
Pagine: 240

Commento Matteo Mancini
Prima di analizzare questo libro devo fare una premessa. Sono arrivato ad acquistarlo dietro consiglio di un mio caro collega di lavoro napoletano (che ora è ritornato a chillo paese), con il quale, nei tempi morti di lavoro, disquisivo sulle varie filosofie, in modo anche accesso, spesso applicate alle problematiche odierne (dalla politica alle strategie sportive, essendo lui un preparatore di tiro al volo).
Gli "scontri" amichevoli tra noi erano inevitabili, li potrei definire genetici, essendo noi inquadrabili in due distinte scuole di pensiero: lui era un epicureo (cioè orientato continuamente alla ricerca di un compromesso che lo facesse ritenere soddisfatto, pur avendo sacrificato qualcosa), io un tendente allo stoicismo, sostenitore della massima “compromessi zero”.

In uno dei nostri tanti discorsi filosofeggianti, mi parlò di questo libro scritto da De Crescenzo che, essendo suo compaesano, mi citava spesso. Il titolo del volume finì nel mare agitato dei libri che vado cercando tanto che un giorno me lo trovo per le mani in uno dei miei tanti pellegrinaggi nelle librerie di libri usati... "Lo compro" dissi, "così ne parlo con il mio amico e vedo di trovargli qualche critica per fare un po' di bagarre filosofica..." Il mio sfondo provocatorio è sempre in agguato!

Anticipo che il suggerimento fu giusto, perché mi sono divertito nel leggere il testo tanto che ora ne sono abbastanza affezionato, anche in ricordo degli inconsueti dibattiti durante le pause morte sul posto di lavoro che avevo col collega. Tra l'altro, nel suo nuovo posto di lavoro, non credo che gli capiti ancora di entrare in discussioni del genere, ma del resto non me ne sorprendo, spero solo che ne conservi un ricordo piacevole.

Eccoci all'analisi del testo. Si tratta di un libro spassosissimo che diverte e al contempo trasmette nozioni storico-filosofiche con la sinteticità di un Bignami ma con un stile sconosciuto ai volumi accademici. Interessante, al riguardo, la (giusta) polemica mossa dall'autore all'atteggiamento “aristocratico” dell'intellighenzia nostrana più votata allo stile che alla semplicità della trattazione di una materia, rendendola così noiosa e ostica ai non addetti ai lavori che pertanto finiscono subito con l'ignorarla.

De Crescenzo, prima di avviare la trattazione, arriva a fare una promessa ben specifica: “alla faccia dei dotti e dei seriosi, vorrei poter dimostrare che a volte la filosofia greca può essere anche divertente e di facile comprensione.” Devo dire che manterrà pienamente la promessa, dando vita a un volume molto intelligente e didattico, indirizzato soprattutto a chi non ha mai masticato filosofia col fine di spingerlo a studiare questa bellissima materia.

Il linguaggio adottato è semplicissimo, scorrevole, pieno di maccheronica ironia, mai fine a sé stessa ma strumentale a tracciare le linee fondamentali del pensiero dei maggiori filosofi greci presocratici. È pur vero che De Crescenzo si spinge forse un po' oltre, inserendo degli intermezzi grotteschi tra un blocco di autori e l'altro, dipingendo personalità di improbabili filosofi napoletani dei giorni nostri. Ma ciò gli deve esser perdonato, fa parte dello spirito goliardico ma didattico dell'operazione.

Dunque una sorta di pazzo Bignami della filosofia, dove l'autore traccia i profili psicologici dei vari filosofi, inserisce aneddoti sulla loro vita, parla del loro inserimento nel contesto sociale dell'epoca e infine arriva a tracciare il loro pensiero filosofico, non disdegnando l'inserimento di qualche loro aforisma o massima.

Non mancano alcuni sunti sulle città che hanno partorito questi studiosi del pensiero, cioè Mileto, Elea, Agrigento e Atene.

Un'occasione quindi imperdibile per chi ignori la materia, per accrescere la propria cultura peraltro divertendosi e senza alcuna fatica.

Il libro, per i motivi sopraesposti, ha avuto un grande successo commerciale e ha innescato una serie di volumi, di livello qualitativo progressivamente inferiore, che sono andati a coprire l'intera storia della filosofia fino a giungere ai giorni odierni.

venerdì 19 luglio 2013

Recensione DYLAN DOG: DAL PROFONDO (n.20, Sceneg. Castelli)

Numero: 20.
Uscita: 01/05/1988
Soggetto: Tiziano Sclavi e Alfredo Castelli
Sceneggiatura: Alfredo Castelli
Disegni: Corrado Roi
Copertina: Claudio Villa


Commento Matteo Mancini
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Con questa recensione inauguro la sezione dedicata al mio fumetto preferito: Dylan Dog. Non che io sia un vorace lettore di questo formato, ma per Dylan Dog (nonchè Tex e Zagor) faccio volentieri un'eccezione.

L'albo che vengo ora ad analizzare non è il mio preferito, anzi... Allora perché iniziare con questo? Semplicemente perché l'ho letto ieri sera e ne scrivo un breve commento per cristallizzare le impressioni che ho avuto.

Dal Profondo, questo il titolo dell'albo, esce dopo uno dei miei albi preferiti (Memorie dall'Invisibile) e fa parte di quel lotto di numeri che dai più vengono considerati i più riusciti dell'intera serie. Dunque dovremmo essere alle prese con un bel numero, anche perché il soggetto è di quel geniaccio di Tiziano Sclavi e i disegni di Claudio Villa. Invece non è così, anzi devo dire che è uno degli albi che mi è piaciuto di meno.

La sceneggiatura viene stesa da Alfredo Castelli e propone il canonico tema dei diversi che si trovano a compiere mostruosità, più per costrizione esistenziale che per una vera e propria malvagità di fondo. I malvagi sono altri, sono gli insospettabili borghesi qua rappresentati da dei padroni di un Motel che hanno distrutto la propria famiglia per soddisfare i propri egoistici desideri carnali. Marito e moglie si tradiscono a vicenda, disinteressandosi dell'educazione dei figli che evidentemente vengono dopo gli amanti nella loro scala delle priorità.

Le cose positive del numero finiscono qui, perché Castelli da vita a un minestrone che mischa Psyco di Hitchcock (l'inizo, con la scena della doccia è un palese e dichiarato omaggio) con la leggenda americana dei coccodrillini gettati nelle fogne da famiglie sconsiderate che non avevano più voglia di tenerli. Nell'occasione però al posto del coccodrillino c'è un bimbo in fasce.
Lo script prosegue proponendo una serie di omicidi commessi da una creatura tentacolare che fuoriesce dai lavandini e dai canali di scolo della doccia di un motel che, ovviamente, si chiama "Bates Motel" ed è gestito da un tizio che risponde al nome di Norman Bates ed è un serial killer che si veste da donna in memoria della madre proprio come avviene nel film di Hitchcock (aspetto fatto notare anche nel fumetto da Groucho).

A metà albo, dopo i simpatici siparietti tra Bloch e Dylan (con quest'ultimo legato a una sedia da un cliente psicopatico e il poliziotto che non lo scioglie per una vecchia rivalsa), si capisce già tutto e si assiste a un noioso flashback in cui il mostro racconta la propria genesi e lo fa con estrema lucidità, parlando con Dylan sebbene sia stato abbondonato nelle fogne da piccolo. Qui Csstelli crea un polpettone indigestibile, un po' perché nauseabondo (il bimbo mangia vermoni giganti, topi e poi cadaveri) e un po', soprattutto, perché inverosimile oltre il limite. Non si capisce il motivo per cui il bimbo diventi un mostro tentacolare capace di infilarsi in spazi strettissimi (si suggerisce la presenza delle solite sostanze chimiche scaricate nelle fogne, ma non regge) ma anche di apprendere la lingua e di parlare sebbene non abbia ricevuto nessuna educazione. Inoltre la creatura è dotata di un'intelligenza talmente sviluppata da ricordarsi dove abitava. Per questo ritornerà all'ovile accordandosi col fratello (che alla vista non si stupisce affatto delle deformità dell'altro), che è Norman Bates, con un patto in virtù del quale questo uccide le vittime e l'altro le divora facendo sparire i cadaveri anche perché ha scoperto che la carne umana è migliore di quella dei vermi o dei topi.

A grandi linee è tutto qui, per un albo che fa dello splatter il suo biglietto da visita, ma che ha dei contenuti piuttosto fracassoni e mal gestiti.

Da evitare.



martedì 16 luglio 2013

Recensioni Cinematografiche: PIRANHA 3D (Regia Alexander Aja, 2010)



Regia: Alexander Aja.
Genere: Horror/Pulp.
Sceneggiatura: Josh Stolberg & Pete Goldfinger.
Produzione: Usa (Dimension Films).
Anno: 2010.
Fotografia: John R. Leonetti.
Effetti Speciali: Howard Berger & Gregory Nicotero.
Interpreti Principali: Steven R. McQueen, Elisabeth Shue, Jessica Szhor, Jerry O'Connell, Kelly Brook, Riley Steele, Ving Rhames, Richard Dreyfuss, Eli Roth.
Durata: 88 minuti.

Commento di Matteo Mancini.
Tra un film western, una lettura di narrativa e un saggio sportivo, torno alle vecchie origini guardandomi un bel B-movie confezionato con il vecchio stile primi anni '80, ma girato con le tecniche odierne.
Ho scelto appositamente le locandine che vedete poco sopra perché rendono subito chiaro il contenuto del film di cui andrò a parlare qui di seguito. Siamo alle prese con un horror votato completamente al pulp e all'esagerazione. Uno di quei film dove la sceneggiatura è al servizio degli effetti gore e della "fauna femminile" e non viceversa. Insomma uno di quei film da cui coloro che hanno la puzza sotto il naso è bene che si tengano alla debita distanza. Ciò premesso, partiamo con la recensione.

Il film prende apparentemente le mosse come il remake del famoso Piranha girato nel 1978 da quel geniaccio che risponde al nome di Joe Dante. In realtà però Alexander Ajà da, a mio avviso giustamente, al suo film una piega completamente diversa favorita anche dal coinvolgimento di Eli Roth, che ufficialmente appare solo come attore e che tutti voi conoscerete come il regista di Hostel (2005) nonché regista della scuderia Tarantino.

Il film viene così costruito attorno a due cose: fauna femminile mozzafiato con topless a go go e qualche nudo integrale (non a caso il protagonista si troverà coinvolto nella produzione di un film porno da girare su una barca che vaga sopra il lago infestato dai piranha) ed effetti gore estremi e super splatterosi.
Ecco quindi che appaiono subito chiari i richiami alle locandine poco sopra citate. Eh sì, perché il Piranha di Ajà è tutto qui: un pizzico di erotismo (l'apice si tocca in una sequenza in cui due ragazze limonano dopo che una ha succhiato della tequila versata all'interno dell'ombelico dell'altra) e un'abbondanza di sangue e frattaglie mai vista in un film incentrato sui mostri marini (o di acqua dolce).

Ciò non dovrebbe stupire se si considera la filmografia del regista. Balzato alle cronache cinematografiche con il crudissimo low budget Alta Tensione (2003), prodotto e girato in Francia in quello che voleva essere un omaggio a Non Aprite Quella Porta di Tobe Hooper, Aja era sbarcato tre anni dopo negli States proprio per girare un remake di un film di un maestro horror degli anni '70 (il riferimento va a Wes Craven): Le Colline hanno gli Occhi. Con Piranha 3D il transalpino prosegue nel senso già tracciato in patria, dimostrandosi evidenemente più ispirato nel modernizzare vecchi soggetti piuttosto che portare in scena qualcosa di più innovativo.

La Dimension Films gli mette così in mano un budget (medio basso) di 25 milioni di dollari nonostante l'ottima risposta avuta al botteghino dal precedente Le Colline hanno gli Occhi, con il compito di portare in scena la mediocre sceneggiatura firmata da un duo di sconosciuti, uno dei quali addirittura regista (Josh Stolberg), provenienti dal circuito televisivo.

Aja si trova così a dover lavorare con uno script quasi del tutto assente, che si perde in citazioni (compreso Shark Rosso nell'oceano di Bava jr nonché I Delitti del Gatto Nero, ricordato in una scena in cui un piranha fuoriesce dalla bocca di una ragazza) e pesanti scopiazzature da Lo Squalo (solita festa estiva con mandrie di giovani che non escono dall'acqua), miscelate alla moda odierna di proporre pesci estinti (i piranha del film non sono quelli comuni) che ritornano a nuotare nelle nostre acque.
I due sceneggiatori pensano bene di far emergere i mostri dalle profondità di un lago funestato da un violento terremoto. Le onde d'urto infatti provocano un profondo squarcio nella crosta terrestre, facendo emergere un ulteriore lago celato negli abissi del primo (!?). Ed è proprio da questa dimensione isolata da secoli che giungono i piranha che si dimostrano subito aggressivi peraltro in una sequenza iniziale visivamente tra le più brutte del film.

Dunque, a parte qualche soluzione forzata, non si registra niente di nuovo. Aja pensa allora bene di conferire al suo film un taglio eccessivo e ultra pulp, divertito e divertente. Gli vengono in soccorso due tra i più bravi effettisti americani, Howard Berger e Gregory Nicotero, e così può spingere a fondo sul pedale dello splatter. Gli effetti sono realizzati sia in computer grafica (i piranha sono quasi tutti creati al computer) sia in vecchio stile (schiene private di lembi di pelle, volti scarnificati). Il risultato finale è di pregevole fattura, sebbene si notino i ritocchi al computer. C'è da dire che la fantasia degli effettisti viene lasciata correre a ruota libera e così si vede di tutto e di più: si va da un pene mozzato ingurgitato e poi vomitato da un piranha, a volti ridotti in scheletro, passando per gente urlante che si regge su gambe ormai completamente spolpate, teste che scoppiano (Eli Roth travolto da uno scafo), modelle in bikini divise in due e chi più ne ha più ne metta; il tutto immersi in un'acqua che diviene interamente rossa.

Dunque un taglio da B-Movie con gusto per il trash che ha la sola funzione di intrattenere gli amanti di questo genere.

Il finale, che poi tale non è (da qui il pessimo sequel Piranha 3DD), è assurdo (peraltro scollegato alla mattanza che lo precede), così come assurde sono almeno altre tre o quattro sequenze. Tra queste ultime è da citare quella in cui un poliziotto, dopo aver preso il motore di uno scafo, ne aziona l'elica e si butta in acqua in mezzo a un branco di piranha tranciandone a dozzine prima di essere lui stesso sbranato... un gesto kamikaze totalmente gratuito.

La fotografia è artificiosa e va, anche lei, a estremizzare la luminosità in modo da rendere quasi ipnotico l'azzurro del lago. L'effetto finale, seppur irrealistico, è buono. La firma un discreto mestierante come John R. Leonetti di cui ricordo altri ottimi lavori, sotto il profilo visivo, come Mortal Kombat (1995) e Dead Silence (2007), sua la fotografia anche de Il Re Scorpione (2002).

Le interpretazioni non sono malaccio. Così come nel film di Dante ci sono vari cammei-omaggio. Subito a inizio film vediamo il vecchio Richard Dreyfuss (Matt Hooper in Lo Squalo) divorato dai piranha. Nel corso del film troviamo poi Ving Rhames (il nero di Pulp Fiction) e il già citato Eli Roth.
Il ruolo di protagonista va al giovane McQueen che certo non brilla, spesso in contrasto con l'odioso Jerry O'Connell (che nel film fa il regista porno e, completamente spolpato, si preoccuperà per esser stato evirato dai piranha). Entrambi gli attori, così come buona parte del cast artistico, provengono dai serial e dai film televisivi.
Se la cavano meglio molte attrici (Kelly Brook, Riley Steele) grazie alle loro procaci grazie, meno brillante Jessica Szhor che soffre anche in confronto con le ben più eccitanti colleghe. La migliore del lotto, quanto a recitazione, è sicuramente la quasi cinquantenne Elisabeth Shue nei panni dello sceriffo nonché genitore, ancora una volta, di figli disobbedienti che invece di starsene a casa come programmato se ne vanno in gira sul lago (altro richiamo a Spielberg). La Shue appare decisa, atletica e in ottima forma fisica. Perfettamente calata nella parte.

Più che sufficiente la regia, con un ritmo tutto sommato buono e con un Aja che salva un film che altrimenti avrebbe fatto flop al botteghino, incassando a sufficienza per recuperare i capitali inevstiti e guadagnare qualche milioncino di dollari in più. Forse non il successo auspicato dai produttori, ma a sufficienza per spingerli a investire 5 milioni in un sequel (cifra comunque irrisoria).

Bocciato da molteplici critici e siti cinematografici (5,7 il voto su imdb), penso che sia un filmetto da salvare per la sua capacità di regalare un'ora abbondante di svago, tra un pizzico di erotismo e tanto splatter. Volontariamente trashoso e da vedere staccando il cervello, lo ritengo consigliabile agli amanti di prodotti pulp (specie i maschietti) che, ne sono certo, si divertiranno. Astenersi gli altri.
Voto sceneggiatura: 4
Voto effetti gore: 8.5
Voto complessivo: 6.5

Recensione Saggi: PILOTI, CHE GENTE (Enzo Ferrari)


Autore: Enzo Ferrari.
Editore: Conti Editore.
Anno: 1985.
Pagine: 130.

Commento Matteo Mancini
Classico da collezione e fuori catalogo della saggistica dedicata ai piloti della formula 1. Il volume è scritto dal leggendario Enzo Ferrari e le sue parti vengono sovente citate da trasmissioni e volumi a tema.

Si tratta di una divertentissima carellata di ricordi filtrati dalla lucida e ironica memoria dell'autore, il quale con passione e con una punta di commozione rievoca tutti i piloti (comprese le meteore) che hanno corso per la sua scuderia (e non solo) regalando per molti di essi curiosi aneddoti e il giudizio personale sulla loro persona e sul loro talento sportivo.

Traspare anche una vena comica che Ferrari non perde l'occasione di far emergere, talvolta con proporzioni ai limiti del grottesco. Non si risparmia neppure qualche polemica a distanza, soprattutto parlando di Fangio, Regazzoni e Lauda.

La parte dedicata ai piloti ante-guerra è molto più curata rispetto ai successivi, forse perché Ferrari si sentiva più legato a quella epoca che lo aveva visto lui stesso pilota. Così parla spesso di Targa Florio, GP di Montenero, Mille Miglia e 24 ore di Le Mans.

Oltre agli episodi, l'autore cerca anche di tracciare un rapido profilo della personalità di un pilota, sottolineandone i distinti prototipi e le diverse motivazioni che possono spingere a indossare casco e guanti e salire sui siluri su quattro ruote. Interessante anche la teoria sulla parabola discendente cui tende ad andare incontro un pilota appagato dai successi e sempre meno disposto a rischiare.
"Il campione nasce, si forma, cresce fino a quando l'ansia di superamento umano gli vieta di valutare compiutamente i rischi e i vantaggi economici connessi alla professione scelta. E' concentrato, determinato a vincere, fino a supplire con il suo apporto totale a eventuali deficenze meccaniche e a possibili contrarietà contingenti. Solo la vittoria vale per lui. L'applauso della folla è il più bel premio. Raggiunto l'apice, il campione incontra nuove necessità: prende corpo l'uomo di relazioni pubbliche, il titolare di imprese non sportive, l'ospite d'onore di tanti impegni mondani. Il campione non riesce più a vincere in pista e tende a riversarne il motivo su persone e situazioni diverse. E' cessato il combattente, il campione è ormai un comprimario, sempre più sofferto, e soltanto la sua intelligenza può risparmiargli code patetiche".

Risponde poi alla fatidica domanda "Quale è stato il pilota più forte di tutti i tempi" in modo estremamente intelligente dicendo che "le graduatorie si possono fare solo in base ai confronti diretti" e che pertanto non è possibile rispondere a una simile domanda.

Il volume ha come limite la sua estrema sinteticità tanto da rivelarsi una sorta di flash sui singoli piloti. Ha inoltre il vizio di dare per scontati una serie di aspetti con la certezza, forse giusta, di esser destinato e letto solo dagli estremi appassionati di formula 1.

A ogni buon conto si rivela scritto in modo scorrevolissimo e piacevole. Molto divertente. Immancabile nella biblioteca di un fanatico di F1.

Il libro è uscito in più versioni, una delle quale infarcita di foto tanto da essere composta da quasi 500 pagine.

Chiudo con le parole di Enzo Ferrari: "Piloti, che gente... Maestri del calcolo, campioni di cinismo, primatisti della sconsideratezza o soltanto uomini, che cercano nell'esaltante fremito della vittoria il senso della loro vita?"

lunedì 8 luglio 2013

Recensione narrativa: AI CONFINI DELL'ORRORE (AA.VV. a cura di Karl E. Wagner)


Curatore: Karl E. Wagner.
Genere: Horror.
Editore: Newton.
Anno: 1984.
Pagine: 256


Commento di Matteo Mancini
Titolo italiano dell'antologia "The Year's Best Horror Stories: Series XII" a cura di K.E.Wagner uscita nel 1984 e giunta nella nostra penisola solo nel 1999 con l'inspiegabile titolo "Ai Confini dell'Orrore".

Karl Edward Wagner, notevole autore di storie horror nonchè curatore di antologie del medesimo genere, seleziona per l'occasione quello che a suo dire dovrebbe essere il meglio della produzione anglo-americana dell'anno 1983, ovviamente nell'ambito della narrativa del terrore.

L'antologia fa dunque parte di una collezione annuale avviata nel 1973 col proposito di proporre il meglio dell'horror prodotto nell'arco dei dodici mesi di riferimento. Purtroppo solo una minima parte di questi volumi sono stati tradotti in Italia, spesso con risultati tutt'altro che esaltanti, tra questi ricordo: I Mille Volti del Terrore e L'orrore del Buio, entrambi recensiti su queste pagine.

Ai Confini dell'Orrore è probabilmente tra i volumi meno riusciti tra quelli della serie giunti nel nostro territorio. Come al solito abbiamo uno zoccolo duro di racconti di autori celebri (King, Campbell, Etchison e Schow) miscelati a un più corposo gruppo di testi di perfetti sconosciuti o comunque di scrittori meno noti come David Drake e Al Sarrantonio. La logica vorrebbe che il punto di forza dell'opera ricada sui primi e invece ciò è vero solo per il richiamo commerciale come dimostrato dai nomi che campeggiano in copertina.

Il livello medio dei soggetti delle storie è basso, al punto che si ha la sensazione che molti racconti siano stati scritti per esigenze ben definite: tipo partecipare a un concorso o strappare una facile pubblicazione. Abbondano gli stereotipi e le situazioni di dejà vù.
Così Frances Garfield (niente meno che la moglie dell'asso horror Manly W. Wellman, sebbene sconosciuta dalle nostre parti) con Invito alla Festa mette in scena una casa fantasma che appare nel bel mezzo della campagna e in cui si troveranno invischiati gli ingenui protagonisti della storia, partecipando alla festa da ballo in essa organizzata. Inutile evidenziare gli evidenti debiti con Shining, dovuti a canzoni fuori epoca e soprattutto a una fiumana di persone morte diversi anni prima ma che sembrano rivivere nella festa.

Si prosegue con una serie di personaggi che, in perfetto stile slasher movie, si comportano come nessun altro avrebbe fatto al posto loro infilandosi direttamente nelle situazioni di pericolo, come avviene, oltre che nel racconto della Garfield, in Basta Aspettare del sopravvalutato Ramsey Campbell. L'azione si sposta dalla campagna a un bosco montano, con una famiglia litigiosa (padre, madre e figlioletto) in cerca di un'area picnic. La scoperta di un pozzo che esaudisce desideri rovinerà la quiete del trio, con il bimbo che chiederà la soddisfazione del sogno della madre senza immaginare l'orrore che ne seguirà (col bosco che si anima e ingoia entrambi i genitori). Stesso discorso è da farsi per il racconto di Al Sarrantonio il quale, evidentemente appassioanto dal film La Cosa di Carpenter (uscito appena un anno prima), pensa bene di usare l'idea della creatura aliena (nella fattispecie un insettone) capace di assumere sembianze umane usando come elemento per la metamorfosi gli arti inferiori delle vittime. Ovviamente saranno proprio i due giovani protagonisti a voler entrare nella casa dello sconosciuto, avendolo scambiato per loro padre evidentemente non morto nell'incidente loro raccontato dalla madre (!?).

Poi abbiamo le marionette, in stile bradburyano che intrappolano l'anima dei bambini, riproposte da Juleen Brantingham in La Figlia del Ventriloquo. La sconosciuta scrittrice originaria della Louisiana interpreta il logoro canovaccio miscelandolo con Poe (il riferimento va a William Wilson) e Collodi (Pinocchio), ma il risultato finale è sempre il solito.
Così facciamo la conoscenza di una donna motivata a bruciare il burattino costruito dal padre svariati anni prima. La infastidisce il fatto che abbia i suoi stessi lineamenti di quando era bambina e che il padre fosse solito usare il giocattolo negli spettacoli di magia organizzati per lavoro.
Tutto ruota attorno alla convinzione della donna che il padre utilizzasse la marionetta per deriderla pubblicamente. Il fantoccio però sembra avere uno stretto legame con la donna, poiché le fiamme che bruceranno il legno faranno sentire il dolore anche nel corpo della stessa al punto che dubiterà di essere umana.

Non potevano poi mancare, a omaggiare Richard Matheson, gli oggetti ordinari che si trasformano in assurdi congegni manovrati da forze diaboliche. Così con Le 3.47 del Mattino dell'inglese David Langford (autore di terza fascia ma capace ogni tanto di sfornare qualcosa di buono) abbiamo una sveglia prodotta in Malesia con lo sfruttamento della manodopera locale che tormenta il suo possessore suscitandogli degli incubi che lo porteranno alla pazzia. L'uomo si vede crescere sul corpo dei nei da cui si contorcono dei vermi, contemporaneamente si sente esplodere tutti i denti e uscire gli occhi dalle orbite. Il testo ha dalla sua una forte componente onirica e una velata critica a certe prassi industriali tuttora vigenti, ma resta un racconto da completamento piuttosto che da prima linea.
E' risibile e confuso invece Oggetto Ricordo di Vincent McHardy, altro semisconosciuto con la passione per gli oggetti comuni (nella fattispecie giocattoli sequestrati dalla maestra di scuola) dotati di strani poteri.

Infine largo spazio per le storie incentrate sulla follia dei protagonisti. Si parte con Il Camion dello Zio Otto di King (testo inserito nell'antologia Scheletri) che vede un uomo perseguitato da un camion, si prosegue con i drammaticissimi Nomi di Jane Yolen ed Echi di Lawrence Connolly che propongono degli strascichi psicologici connessi a eventi traumatici, nel primo caso le torture dei campi di concentramento (una superstite pretende che la figlia sia rachitica in memoria dei caduti) nel secondo la morte di un figlio (i componenti della famiglia lo vedono in casa, ma tutti fanno finta di non vederlo accusando gli altri di essere affetti da vizi mentali).

Tutti questi racconti citati scorrono bene, alcuni hanno anche degli ottimi spunti ma, a parte il racconto di Langford - il migliore tra i citati - e forse quello della Brantingham, hanno una scarsa capacità di coinvolgimento. Ce l'avrebbe, e pure tanta, quello di Campbell che però rovina tutto con una chiusura grossolana dopo aver introdotto degli elementi bizzarri non di poco conto (tipo dei camerieri che vagano in mezzo al bosco a piedi nudi per servire la famiglia senza che si capisca da dove escano fuori).

Ma allora è tutto da dimenticare o comunque da sorvolare nell'antologia? Certo che no, ma non si va lontano dall'inutilità del progetto.
Sono solo due, a mio avviso, i racconti degni di esser ricordati. Il più bello è Immagini Postume scritto dallo sconosciuto inglese Malcolm Edwards che confeziona uno sci-fi originalissimp.
Il lancio di tre bombe nucleari sperimentali sganciate dai sovietici su Londra genera la nascita di una bolla surreale aperta su un muro che sprigiona strane immagini. Si tratta di un portale da cui accedere a una terza dimensione dominata da uno strano calore e da un'intensa luce in cui si avanza come sospesi nel tempo e nello spazio. Solo chi è munito di speciali lenti può sperare di non perdere la vista all'interno della bolla, ma anch'egli deve stare attento a non avvicinarsi troppo al nucleo onde evitare di esser ridotto in cenere.
Intanto l'evento influisce sul contesto ambientale. Il sole non tramonta più mentre migliaia di persone hanno abbandonato la città. Chi è restato ha mantenuto un atteggiamento fatalista perseverando a giocare a carte e a bere al bar, in attesa dell'inevitabile anche perché la bolla diviene sempre più incapace a contenere l'energia che, simile a una detonazione nucleare, avanza al suo interno per straripare sulla città.
Dunque un racconto surreale che riflette il terrore del conflitto nucleare tipico del periodo della guerra fredda. Non a caso si parla di sirene che anticipano il lancio delle bombe, di bunker, di armi nucleari e di conflitti in medio oriente. Edwards tratteggia i contorni di una storia surreale più vicina alla sci-fi che all'horror, che fa della componente visionaria il punto di forza. Purtroppo la trama non è di facile intuizione, viene lasciato al lettore il compito di ricostruire i fatti e ciò potrebbe anche essere un pregio. A mio avviso il racconto è una sorta di disastro rallentato connesso al lancio di una bomba nucleare, dove l'esplosione si materializza dapprima all'interno della bolla e poi, a poco a poco, investe l'esterno a simboleggiare un pericolo imminente che prima o poi scoppierà (per fortuna la storia ha detto altro).

Notevole è anche Elle Est Trois (La Mort) della grande Tanith Lee (a mio avviso la migliore autrice contemporanea di racconti horror). La Lee omaggia indirettamente la saga delle Tre Madri di Argento, in particolare Inferno.
Protagonisti della vicenda sono tre artisti bohemienne parigini: uno pittore, l'altro poeta, il terzo pianista. Sono accomunati dal vivere di stenti e dalla continua ricerca dell'illuminazione che li possa destare dai rispettivi blocchi.
Tutti e tre faranno la conoscenza della Morte che si presenterà loro in distinte vesti: una ladra bambina che cercherà di indurre il pittore a compiere delle acrobazie sui tetti parigini; una macellaia depezzatrice incarnatasi in un'amante respinta e desiderosa di uccidere il pianista (una sorta di Casanova); una seduttrice pronta a possedere la mano dello scrittore per fargli compiere visionari viaggi mentali. Le tre sono figlie rispettivamente di uno stato febbrile, dei fumi dell'alcool e degli effetti dell'oppio, o almeno così potrebbe sembrare. Gli artisti, come lascerà intendere l'autrice, andranno incontro alla morte senza quasi accorgersene poiché hanno osato cercarla.
Il racconto è uno spettacolo di eleganza stilistica, narrato con cura per le scenografie e con personaggi caratterizzati in modo certosino. Tre artisti caratterialmente e fisicamente molto diversi tra loro seppur allo stesso tempo simili per i modi indolenti e il voler stare fuori dagli schemi.
La Lee, come suo solito, tratteggia la storia con massicci contorni onirici e trasforma Parigi in una sorta di Londra vittoriana (nebbia, pioggia, suicidi nella Senna, notti malfamate, ubriaconi). Non mancano spruzzate di splatter in qua e in là. Senza dubbio un grande pezzo che mi sento di omaggiare con le stesse parole dell'autrice: "Lei è tre: Ladra, Macellaia, Seduttrice. Non cercatela. E' intorno a voi, dappertutto, nelle foglie portate dal vento, nella nuvola che oscura la luna, nel dolce sospiro dietro il vostro orecchio, nell'odore della terra, nel fruscio di una manica. Se deve essere vostra, verrà da voi".

Il terzo gradino del podio lo strappa Il DIpinto Murale di Roger Johnson, autore di scarsa fama ma che va sul sicuro con una storia convenzionale esaltata da un'indagine da detective dell'occulto che tiene sulle corde il lettore.
In una Chiesa viene riportato alla luce il dipinto di un santo di cui è difficile reperire informazioni. Il volto raffigurato ha una strana espressione di arroganza e punta l'indice al cielo in segno di scherno. Ai piedi, nascosto sotto il saio, compare l'ombra di una sorta di animale di cui non si vedono le forme. Un prete e il restauratore indagano sull'opera, mentre alcuni avvenimenti strani iniziano a manifestarsi e porteranno all'assurda scomparsa del restauratore letteralmente inglobato dal dipinto.
Dunque un racconto dal sapore classico che è meritevole di menzione più per lo stile accattivante che per il soggetto scopiazzato.

Carini ma nulla più Il Mistral di Jon Wynne-Tyson, che omaggia il cult cinematografico Il Bacio della Pantera riproponendo il tema della c.d. felina mannara, e Out of Africa di David Drake che invece sposta l'azione nel cuore dell'africa proponendo una battuta di caccia ai danni di un mostro sconosciuto assai simile a un Velociraptor (con tanto di unghia ad artiglio).

Risibile il resto, per inidoneo sviluppo di idee potenzialmente interessanti, tra pietre che influenzano i comportamenti umani favorendo l'asocialità (Bradfield), videogame che ripropongono la serie omicida di Jack lo Squartatore (Casper, bella l'idea ma resa male con un serial killer che si allena al computer) e omaggi al cinema horror di un tempo con film proiettati in un cinema che andrà a fuoco unitamente alle versioni inedite (in quanto dotate di misteriose scene aggiuntive) dei film in esso riproposti. (Schow)

Nel complesso si è alle prese con una lettura adatta per i tempi morti sotto l'ombrellone, con diciannove racconti da leggere tra un bagno e l'altro senza temere di essere posseduti dall'angoscia. Le storie sono depauperate da componenti esoterico/trascendentali e giocano quasi tutto sulle componenti mentali o fantascientifiche rivelandosi nella quasi totalità dei fatti inverosimili. Piuttosto che essere ai confini dell'orrore si è infatti sull'altra sponda a ricercarlo con l'utilizzo di un cannocchiale. Orrore all'acqua di rose, con qualche saltuario spunto originale. Evitabile.