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venerdì 20 settembre 2013

Recensione cinematografica: RUSH (Regia Ron Howard)

Regia: Ron Howard.
Anno: 2013.
Sceneggiatura: Peter Morgan
Interpreti principali: Chris Hemsworth, Daniel Burhl, Olivia Wilde, Alexandra Maria Lara, Pierfrancesco Favino, Christian McKay.
Colonna Sonora: Hans Zimmer.
Durata: 123 min.
Giudizio Mancini: *****

Commento di Matteo Mancini
Dopo film di notevole successo come Apollo 13 (1995), A Beautiful Mind (2001), Angeli e Demoni (2009) e Il Codice da Vinci (2006), il premio oscar Ron Howard tenta un'impresa che solo pochi colleghi negli anni '70 avevano azzardato compiere: fare un film sulla formula 1 e con un budget non troppo alto (38 milioni di dollari).

Howard si affida, per la sceneggiatura, all'inglese Peter Morgan con cui aveva già collaborato nella stesura dello script di un altro storico e leggendario duello: Frost/Nixon (2008).
I due decidono così di raccontare l'incredibile campionato del mondo di Formula 1 dell'anno 1976 che vide contrapposti due piloti in quello che potrebbe sembrare una sfida western trasposta su una serie di piste per mezzo di bolidi lanciati a 270 km/h: il confronto tra il "professore" austriaco Niki Lauda e il cavallo pazzo inglese James Hunt.

Morgan, aiutato anche dalla collaborazione dello stesso Niki Lauda e dal personale della scuderia Ferrari, realizza un copione eccezionale impreziosito da monologhi e dialoghi che non possono che esaltare l'appassionato della formula 1 dei tempi che furono, anni in cui correre significava sfidare la morte a ogni gran premio (infatti la morte è spesso presente nel film dall'incidente letale del grande François Cevert allo schianto di Lauda).

Il ruolo dei due eroi, paragonabili per ardore e grinta a Ettore e Achille, viene affidato a Daniel Bruhl, il cecchino nazista di Bastardi Senza Gloria (2009) di Quentin Tarantino, e a Chris Hemsworth già protagonista in Thor (2011) agli ordini del nord irlandese Branagh, The Avengers (2012) e Red Dawn (2012) entrambi pettinati e presentati in modo da essere delle vere e proprie gocce d'acqua rispettivamente di Niki Lauda e di James Hunt.

La ricostruzione del periodo storico è eccellente, sia in pista che fuori. La troupe ha usato vere e proprie macchine da corsa convincendo i collezionisti a metterle a disposizione per le riprese. Belle sono anche le sequenze fuori dagli autodromi, come quella in cui vediamo due meridionali offrire un passaggio a Lauda rimasto a piedi nella campagna tirolese.
Per fortuna, una volta ogni tanto, non si ricorre (salvo qualche ritocchino) alla computer grafica, e ciò è un grande bene poichè sembra di assistere a vere gare.

Oltre ai due protagonisti, viene riservato qualche scampolo, seppur poco sviluppato, a Clay Regazzoni (interpretato dal nostro Favino, purtroppo non sfruttato a dovere a causa della marginalità del personaggio) compagno di squadra di Lauda. Gli altri fanno comparse perfino inferiori (Mario Andretti, Vittorio Brambilla, Arturo Merzario, John Watson, Carlos Reutemann), a eccezione di Lord Hesketh (colui che portò Hunt in formula 1 mettendolo su un auto che rifiutava qualunque tipologia di sponsor, perché ritenuto troppo volgare) che ha un certo ruolo nella vicenda e cui da corpo il bravo Christian McKay). Fa una fugace apparizione anche Enzo Ferrari (definito il commendatore o il grande vecchio).

Il soggetto si concentra sulla stagione 1976, più in particolare sul duello tra Hunt su McLaren e Lauda su Ferrari, avendo particolare riguardo ai gp di Germania, Italia e Giappone. Prima di giungere però a tal punto, vengono subito tratteggiate le psicologie dei due rivali mostrandoli in azione, già da avversari, nelle categorie minori.
Da una parte il facoltoso e riservato Lauda che, pur osteggiato dalla famiglia di banchieri, fa di tutto per correre in pista pagando di tasca propria i costruttori; dall'altra il grintoso e squattrinato Hunt. Lo sceneggiatore caratterizza in modo perfetto i due personaggi. Lauda è un calcolatore metodico, piuttosto antipatico all'ambiente in cui lavora perché dice tutto quello che pensa attaccando ferocemente anche la Ferrari (non a caso il grande Enzo non lo amava e lo farà fuori nel 1977 preferendogli Gilles Villeneuve). Geniale nella messa a punto dell'auto (si veda la sequenza in cui prevede i problemi di un auto privata sostenendo di sentire tutto quello che non va grazie a una sensibilità particolare concentrata nel suo sedere) e nella continua ricerca nella cura del dettaglio. Un vero e proprio maestro nella messa a punto e nello sviluppo del mezzo.
Hunt invece è il classico genio & sregolatezza (definito Super Star dal suo primo tifoso, cioè il facoltoso Lord Hesketh). Anche lui poco amato dai colleghi, per via del temperamento smargiasso, mette in mostra una grande intelligenza (nel film non viene mostrato ma era un grande letterato). Lo vediamo puntare tutto sul coraggio e sul suo talento estremo spinto fino ai confini della follia, tanto da valergli il soprannome di Hunt the Shunt (Hunt lo Schianto) per i suoi frequenti incidenti.

Così viene sviluppata l'accesa ma corretta rivalità tra i due, che alla fine giungono con lo stimarsi vicendevolmente (notevole lo scambio di battute finali in cui si respira la vera filosofia dello sport) il tutto in una cornice spettacolare che inchioda senza respiro lo spettatore alla poltroncina.

Non manca qualche stoccata ai danni del business (si fanno correre i piloti in condizioni estreme) e soprattutto su un certo giornalismo privo di etica (bella la scena in cui Hunt pesta un giornalista colpevole di aver offeso in modo indegno Lauda).

Howard mostra incidenti, toccate, passaggi indiavolati su chicane con la mdp collocata a una spanna dalle ruote che rasentono i cordoli, ma anche tutti gli eccessi di Hunt che fa all'amore in ogni posto e si sgola di continuo birre pensando a divertirsi sempre e comunque.

Favoloso il make up, con Bruhl sfigurato proprio come lo era Lauda, così come è magistrale la ricostruzione dell'incidente in cui il pilota austriaco rischiò di perdere la vita ma che non lo frenò dal ritornare coraggiosamente in pista.

L'ultimo Gran Premio in Giappone, ai piedi del Monte Fuji, è un concentrato di adrenalina pura. "Accendi la bastarda" dice il meccanico al pilota inglese poco prima del semaforo verde del gran premio in cui Hunt e Lauda si contentono il titolo in una tempesta di vento, acqua e nebbia, tra sorpassi pazzeschi e derapate controllate su una pista allagata. Lauda, menomato anche dai dolori delle ustioni e dal terrore del Ring, decide di ritirarsi perché reputa da pazzi proseguire (grandissimo coraggio nell'ammettere candidamente la propria scelta invece di nascondersi in una cortina di ipocrisia adducendo falsi guasti meccanici), il suo rivale invece va avanti nonostante le gomme deteriorate e la leva del cambio rotta con conseguete ferita al palmo della mano. La caparbietà dell'inglese verrà premiata con una vittoria mondiale dal sapore dell'impossibile, visto il vantaggio che Lauda aveva in precedenza accumulato e vista la rimonta finale dovuta alla necessità di un improvviso cambio gomme.

Erano anni che non mi capitava di vedere un film scatenato e coinvolgente come questo che incarna la vera filosofia dello sport. Howard opta per un taglio registico dinamico con camera car perfetti, soggettive e movimenti di macchina studiati per creare spettacolo. Grande attenzione anche nel mostrare i dettagli (piedi sui pedali, mani sui cambi, occhi che scrutano il cielo, pistoni che si muovono all'interno dell'auto), sfoggiando un piglio fumettistico e al contempo pulp. Non manca infatti una certa spruzzatina in tal senso, garantita soprattutto dall'atteggiamento ribelle e canzonatorio di Hunt, con le sue scappatelle e le spacconate sia in pista sia a parole. Discreta pure la colonna sonora, patinata la fotografia.

A mio avviso, come minimo, otterrà più candidature all'Oscar. DA VEDERE AL CINEMA! Grande Ron Howard, ma questa non è una novità.
Tra i migliori film del 2013.

Ps: qua vi segnalo l'eccellente speciale curato dalla RAI sul film e sui due veri contendenti:
http://www.youtube.com/watch?v=a-w9bgqB2hs

venerdì 13 settembre 2013

Recensione saggistica: DOVE SOFFIA SEMPRE IL VENTO (Sigfried Stohr)


Autore: Sigfried Stohr.
Editore: Fucina Srl.
Anno: 2004.
Genere: Saggio sportivo/motivazionale.
Pagine: 192.
Prezzo: 20 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Splendida sorpresa acquistata dal sottoscritto per la curiosità di conoscere la storia del pilota di Formula 1 misconosciuto Sigfried Stohr di cui ricordavo un assurdo incidente (attribuibile alla scarsa attenzione dei direttori di gara) che lo vide coinvolto sulla griglia di partenza del Gran Premio del Belgio del 1981.

Il libro è uscito nel 2004 edito dalla Fucina srl di Milano, casa editrice che sfoggia un catalogo che per gli amanti degli sport motoristici è paragonabile a quello che per i bambini potrebbe essere un negozio di giocattoli fornito di tutte le ultime novità. Peraltro si tratta di una bella edizione con tanto di inserti fotografici pubblicati su carta lucida.

Il titolo del volume invece fa il verso alla seconda passione dell'autore ovvero l'alpinismo. Stohr, infatti, dopo essersi ritirato dalla F1 si è dedicato allo scalare le vette e da qui il titolo che suona un po' come l'espressione calcistica del “lassù dove osano solo le aquile” per indicare le alte vette dominate dai venti.

Chi segue il mio blog sa che sono un grande appassionato di biografie di sportivi, soprattutto dei c.d. atleti genio & sregolatezza, categoria a cui è ascrivibile anche Stohr. Dunque ne ho lette diverse, più di quelle che compaiono recensite su queste pagine, ma devo dire che questo volume, se non è il migliore, si assesta tra le biografie più riuscite tra tutte quelle che ho letto e sotto tutti i punti di vista (sia stilistici che contenutistici).

Stohr stende quella che potrebbe definirsi un'autobiografia mascherata da vademecum per aspiranti piloti, da qui il sottotitolo “Come diventare piloti di Formula 1”. La ragione di tale scelta, probabilmente, è riconducibile alla scarsissima conoscenza che il grande pubblico ha di Sigfried Stohr. In altri termini credo che Stohr temesse che una semplice autobiografia non se la sarebbe filata nessuno e di qui la scelta di dare al volume la parvenza di un manualetto in modo da attirare tutti gli appassionati di F1, specie i più giovani.

Pilota nativo di Rimini ma di padre tedesco, cresciuto in Romagna e con un background da psicologo innamorato della filosofia, Stohr è stata una promessa dell'automobilismo italiano di fine anni '70. Abbastanza squattrinato e a corto di sponsor, ha trionfato nelle categorie inferiori (Nazionale italiana ai campionati europei di Kart, Campione di Formula 2) denotando una notevole superiorità sulle piste allagate che lo ha poi portato ad approdare in F1 (13 gran premi disputati nella stagione 1981 in cui venne sostituito in corsa dal fratello di Gilles Villeneuve, ottenendo come miglior piazzamento in griglia il tredicesimo posto e un settimo posto all'arrivo) al fianco del più famoso Riccardo Patrese su Arrows. Purtroppo, proprio a causa degli scarsi fondi, si è sempre trovato costretto a competere su auto con accessori e motori di seconda scelta (anche rispetto a quelli messi a disposizione del compagno di squadra) tanto da non riuscire a emergere nella massima serie. Da qui la parabola discendente che lo ho portato al prematuro ritiro, parabola altresì accentuata da un carattere focoso e allo stesso tempo scanzonato, poco interessato ai salotti dei poteri forti e alle ruffianerie, molto più vicino ad atteggiamenti da artista bohemien (infatti si presentava in pista con barba incolta, capelli lunghi e casco racchiuso in una busta di plastica, suscitando le ire del capo squadra).

Il volume, infarcito di passaggi filosofici e mitologici connessi al mondo dell'antica Grecia, si apre con una bellissima citazione estrapolata dal film vincitore di sette premi oscar Lawrence D'Arabia, massima a sua volta ripresa da uno stralcio di un racconto di Edgar Allan Poe: “Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte scoprono al risveglio le vanità di quelle immagini; ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno a occhi aperti, per attuarlo.”

E così il libro si snoda in quattro lunghi capitoli per un totale prossimo alle duecento pagine che scorrono via in modo perfetto, divertente e soprattutto dotto (Stohr snocciola citazioni ispirate a scrittori magistrali come Jorge Luis Borges o Italo Calvino, ma anche a sportivi come il tennista John McEnroe e grandi filosofi come Eraclito, Protagora e Socrate tutti “pretoriani del Mancho” come direbbe qualcuno di mia conoscenza) dando vita a un libro che è un po' un manuale di motivazione psicologica (non a caso Stohr prima di correre in F1 aveva fatto lo psicologo a Ravenna, ora invece tiene corsi di guida veloce a Misano) e un po' un manuale che spiega il percorso per approdare in F1. Non mancano poi aneddoti legati a tutta la carriera del pilota (a partire dal suo nome di battesimo con tanto di riferimento alla leggenda di Sigfrido recentemente citata anche da Quentin Tarantino in Django Unchained), dagli attriti con Riccardo Patrese (accusato da Stohr di volere per sé il meglio a discapito degli altri) ai duelli a colpi di ruota con i piloti delle categorie inferiori, il tutto raccontato con un inconfondibile stile da simpatica canaglia e un atteggiamento tipico degli antieroi protagonisti negli spaghetti western di Sergio Leone.

Molti i passaggi meritevoli di esser citati per la loro potenza concettuale (ho sottolineato ¾ del libro), si potrebbero scrivere pagine e pagine ma preferisco non farlo poiché il libro merita davvero l'acquisto e quindi ve le dovrete cercare per conto vostro. Alcune però le riporto qui di seguito come la massima inserita in prefazione da Stohr che, dopo aver sottolineato che un grande risultato finale deve essere sempre legato a un percorso fatto di faticosissime tappe, arriva a scrivere: “La tecnica la imparano in tanti, infatti un campione-artista si trova spesso a lottare con tanti onesti artigiani che hanno il mezzo migliore o che a forza di girare in tondo in una pista imparano le curve anche se sono negati. Ma i capolavori al volante non si fanno girando in tondo: essi devono scaturire dal profondo della nostra anima, da un duro lavoro di crescita che passa attraverso tappe di sofferenza, di scoperta, di paura, di acquisizione di saggezza. Così, ogni campione deve sviluppare una sua filosofia, che nasce dalla sua storia personale.”
Dunque fin dalle primissime pagine Stohr focalizza l'attenzione su quelli che (a ragione) ritiene gli aspetti fondamentali per una crescita evolutiva del soggetto (“Non sono eccezionali le capacità di un campione, ma il modo in cui esso le ha sapute sviluppare”): il duro lavoro (e non gli aiuti di terzi, poiché “La forza è un albero che cresce nel campo delle avversità, si concima con le sfide e le sofferenze”), la costanza (“Bisogna avere fede nel cambiamento, non bisogna mai disperare che arrivi il nostro momento: la fortuna gira in fretta”), la motivazione (“La motivazione è la molla che differenzia il campione naturale dal grande campione”), l'analisi introspettiva (e non l'attribuire colpe a terzi per scusare i propri insuccessi), l'importanza degli errori da interpretare come manne venute dal cielo per ottenere spunti indispensabili al miglioramento (“Un campione sa nuotare controcorrente. E se non affoga diventa più forte”), il superamento delle paure interiori ed esterne da effettuare affinando la conoscenza (“Bisogna sempre temere quelli forti, rispettarli, ma non mostrare mai timore reverenziale. Per nessuno!”), l'onesta da intendersi come lealtà di confronto in un duello serrato, il coraggio di prendere decisioni importanti senza ripensamenti (“Quando arrivavo io, dovevano sapere che ero uno che non ci pensava due volte a buttarsi in un sorpasso, che ero disposto anche a rischiare il contatto”), l'importanza della forza interiore (“Solo chi la possiede riesce ad ammettere le proprie paure, e ciononostante a riaffrontare i demoni interni e batterli”) e infine l'approccio filosofico (e non casuale o non controllato) applicato alla propria professione (da intendersi però anche alla vita di tutti i giorni secondo la mia massima “lo sport è metafora di vita”). Su questi aspetti si sviluppa l'intero volume che non è mai banale e mai pesante (tra l'altro migliora con lo scorrere delle pagine), ma che è un concentrato di saggezza che fa di Stohr un campione non solo del volante ma anche di motivazioni e di didattica psico-filosofica. Un vero maestro.

Eloquente è anche la scelta del casco che Stohr vuole, fin dagli inizi, dedicare a un pilota scomparso in gara (una sorta di tributo) fino a decidere di scegliere i colori e i disegni del finlandese Jarno Saarinen invertendone però i colori (il bianco e il rosso): “Jarno aveva il casco bianco con una specie di croce rossa, come un guerriero crociato. Il mio riprese il suo disegno, avevo però invertito i colori.”

Consiglio vivamente il volume a tutti gli appassionati di Formula 1 e di sport in generale, oltre a coloro che ricercano testi motivazionali anche al di fuori del mondo dello sport.

Stohr, grazie anche a questo volume che me lo ha fatto conoscere nell'intimo, entra di diritto tra i miei personaggi sportivi preferiti di sempre, al fianco dei più grandi. Il libro, invece, troverà posto accanto a un altro ottimo volume da me apprezzato (e recensito) ovvero Il Piccolo Aviatore di Andrea Scanzi (biografia ovviamente del grande Gilles) poiché spesso, come diceva Ernst Junger “La valutazione di un eroe non corrisponde a quella che ne darebbe un bottegaio: lui non guarda al successo, bensì alla grandezza del comportamento”; in altri termini i risultati fanno gli albi d'oro, ma ci vuole ben altro per partorire una stella.

Post recensione:
Pongo qui di seguito cinque passaggi esilaranti (il libro però ne è pieno) che tratteggiano bene la psicologia guerriera di Stohr.

1) Dal capitolo "Piccoli Omicidi", pagina 49:
“Verso fine gara, venni raggiunto da un avversario sconosciuto che tentò di passarmi all'esterno: mi appoggia sulle sue ruote e lo buttai fuori. Si schiantò violentemente contro le balle di paglia...
A fine gara venni chiamato dal direttore di gara che, davanti al mio avversario indiavolato, mi chiese se fosse vero che lo avevo spinto fuori. Gli dissi di sì, che lo avevo fatto.
Il pilota avversario mi guardò incredulo, poi, soddisfatto, mi strinse la mano e se ne andò. Il direttore di gara non mi squalificò perché l'altro aveva ritirato il suo reclamo e anche per la mia onestà.”


2) Dal capitolo "Parmalat", pagina 73.
Nel 1978 stavo infilando, in Formula 3, una vittoria dietro l'altra. Avevo vinto le prime tre gare, di cui una sotto la pioggia in cui avevo doppiato tutti tranne il secondo... Una furia. Il giorno delle prove a Montecarlo pioveva, e la cosa a me non dispiaceva. Sulla salita di Saint Devote avevano installato un pannello luminoso. Salendo il breve e angusto rettilineo, avevo il tempo di buttare l'occhio sul pannello: in cima alla classifica dei tempi c'era il numero 53, e notai che il secondo era staccato di ben due secondi!
«Porco diavolo! Ma chi è che si permette di dare due secondi a tutti?»
Mi misi a tirare come un dannato: io, due secondi non me li potevo prendere; da nessuno.
Miglioravo i miei tempi, ma quel diavolo del numero 53 migliorava anche lui, e c'erano sempre due secondi che lo distanziavano da tutti gli altri.
Dentro al casco pensavo indispettito: «Ma chi è 'sto qua, Niki Lauda?»
Rientrai al box un po' avvilito.
Il mio ingegnere, Ugo Kloden, impassibile si chinò verso di me e mi chiese come andava.
L'auto va bene, gli dissi, ma gli confessai che ero un po' avvilito per quel 53 che andava così forte. Gli chiesi di chi si trattasse.
«E' il numero della tua auto» mi disse serafico Ugo, senza scomporsi.
«Porca paletta! Sono proprio scemo! Però Ugo... Sono qui che do due secondi a tutti e manco una pacca sulle spalle mi dà. Che bestia!»


3) Dal capitolo "Mezzo metro in più", pagina 96.
Il mio team manager Jackie Oliver, ex pilota di F1, viene da me e mi sgrida: «Ma come guidi? Sei pazzo? Non ti sei accorto che ogni giro vai fuori pista?»
Le formula 1 di allora avevano le gomme molto larghe, specie quelle posteriori. Così io avevo scoperto che potevo fare la frenata con le quattro gomme in pista e poi, prima di inserire, spostare l'auto verso l'esterno della curva, oltre la linea bianca finendo con mezza gomma posteriore destra sulla terra. Questo mi faceva guadagnare trenta centimetri di pista prima dell'inserimento: un'enormità, che mi permetteva di uscire dalla curva più veloce. Lo facevo tutti i giri, ci avevo preso la mano solo che sollevavo una bella nuvoletta di polvere e Oliver si era spaventato: lui credeva che non me ne fossi accorto. Ma che razza di pilota era mai stato questo Oliver in Formula 1?”


4) Dal capitolo "Il Lupo e la Volpe", pagina 105.
Pioveva e lui (Enzo Coloni) mi bruciò al via. Alla seconda curva già lo tallonavo. Alla terza fintai il sorpasso a destra, all'interno: lui strinse quel poco che mi impediva di infilarmi. Io mi buttai tutto all'esterno sparendo così dal suo specchio destro... Lui si concentrò sulla curva mantenendo una traiettoria centrale ma, all'ultimo istante, io mi buttai al suo interno e lo passai in staccata. Al tornante! Davanti a tutti gli spettatori sulla tribuna! Lì dove è praticamente impossibile passare, io passai l'esperto pilota umbro che conosceva la pista come le sue tasche. Che lezione! Roba da scendere e tornarsene a casa rasentando i muri... Alla staccata dopo però, prima di voltare, buttai l'occhio sul retrovisore destro e, con sorpresa, me lo vidi arrivare come un proiettile all'interno: non sembrava un disperato tentativo di sorpasso, ma una deliberata manovra in rotta di collisione e speronamento! Istintivamente raddrizzai il volante, ritardai l'inserimento e lo vidi sfilare al mio interno come un missile, incapace di cambiare direzione, infilare l'erba e proseguire come un fuso verso il lago Trasimeno.
Mi voltai, lo guardai sparire lontano fra spruzzi di pozzanghera, curvai e mi tuffai nel rettilineo successivo. Passai sul traguardo facendo gesti di protesta, ma l'avevo scampata bella e ora potevo vincere la mia batteria. La mia soddisfazione principale non sarebbe stata per la vittoria, quanto per la bella lezioncina rifilatagli. Perché se lui era il Lupo, stavolta io ero stato la Volpe.”


5) Dal capitolo "Il Sapere del Pilota", pagina 155.
“Elemento costante dei piloti è quella che viene definita personalità di tipo T, caratterizzata da coraggio e sprezzo del pericolo... vissuto di onnipotenza, scarsa valutazione della realtà. Con queste caratteristiche psicologiche un pilota porterebbe la sua nave a infrangersi sugli scogli e non all'approdo sicuro! Ma questi sono solo psicologi che spiano gli altri dal buco della serratura senza capire nulla!
Guarda guarda, gratta gratta, non è che il profilo reale del pilota, quello vero e non la sua caricatura vista attraverso gli occhi del pubblico, sia proprio l'esatto opposto? Allora forse la dote principale del pilota non è il coraggio di fronte al pericolo, la sua determinazione nell'affrontare il rischio, ma proprio la sua capacità di evitarlo ciò perché chi sa è più audace di chi non sa e tanto più audace diviene dopo aver appreso ciò che non prima di apprendere!”


martedì 10 settembre 2013

Recensione Narrativa: L'ULTIMO MAGO (Jeremy Selenius - I Racconti di Dracula)




Autore: Antonio Di Pierro (alias Jeremy Selenius).
Genere: Horror/Erotico.
Editore: Antonio Farolfi
Collana: I Racconti di Dracula.
Anno: 1973.
Numero: 054.
Pagine: 124.

Commento Matteo Mancini.
Jeremy Selenius, al secolo Antonio Di Pierro, confeziona questo romanzo horror, datato 1973, per la collana “I Racconti di Dracula” che lo distribuisce con il poco appropriato titolo de “L'Ultimo Mago” (di maghi non c'è ombra!?) identificandolo con il numero progressivo 054.

Presenza ricorrente nella sopracitata collana, pur non essendo tra gli autori più pubblicati, Di Pierro era tra gli scrittori più giovani (nato nel 1945) della scuderia delle Edizioni Farolfi. Celato sotto vari pseudonimi anglofoni, figlio del rettore dell'Università (credo) di Roma, Di Pierro si segnala soprattutto per un certo gusto per le atmosfere pruriginose dai forti contorni erotici innestati ovviamente in storie horror.

L'Ultimo Mago non fa eccezione e lo dimostra fin dai primi capitoli con un inizio thrilling che anticipa tematiche di argentiana memoria (il riferimento va a Suspiria). La storia infatti è ambientata in un collegio femminile scozzese altolocato (ci sono perfino studentesse brasiliane), rimasto isolato a causa di una frana. Le studentesse e i professori quindi vengono a trovarsi nell'impossibilità di contattare il paese, visto che anche i telefoni non funzionano. Viene così a crearsi una situazione perfetta per le fantasie perverse di un serial killer che non tarda a manifestarsi uccidendo vittime di diversa estrazione: il vecchio guardiano, una studentessa, un professore.

Di Pierro traccia così un romanzo breve che prende le mosse alla stregua di un giallo dove furoreggia un misterioso assassino dalle sembianze di un gigantesco cyborg (!?). Il killer viene presentato come un uomo brutale che sfoggia delle protesi di alluminio dalla forma di tronchesi al posto delle mani. Ha addirittura un pene di ferro con cui stupra una vittima!!! Una soluzione a dir poco ardita per l'epoca, che sarà poi riproposta da Stephen King nella novella Un Ragazzo Sveglio.
A svolgere le indagini non ci sono né poliziotti né detective, poiché nessuno di esterno sembra poter interagire con il collegio. Saranno direttamente i professori ad analizzare gli indizi e a vagare per i boschi in cerca dei cadaveri senza però rinvenirli poiché l'assassino li ha gettati in un pozzo popolato da serpi e pipistrelli.

A metà romanzo Di Piero piazza la svolta, con quelli che sono i due migliori capitoli del libro. Vediamo due giovani studentesse scendere in una catacomba e avanzare attirate da una misteriosa musica (atteggiamenti che faranno la fortuna proprio dello slasher movie con sbadati personaggi che andranno incontro al male comportandosi come chiunque altro, al loro posto, non farebbe). L'autore descrive con cura onirica le ambientazioni e regala una trentina di pagine di grande spessore grazie a un'atmosfera da romanzo gotico di alta classe. Al termine della discesa, tra mura ricoperte di misteriose scritte, le due incontreranno il demonio e la Lussuria, personificata da una splendida mulatta affamata di sesso.

Il romanzo sembrerebbe sul punto di decollare e invece finisce con il manifestare definitivamente tutti i suoi difetti. Di Pierro si rivela disinteressato a creare un intreccio solido (non è un caso se si stenta a individuare un protagonista, i personaggi infatti sono secondari alla vicenda) e butta nel calderone di tutto senza preoccuparsi di chiudere il cerchio rispetto a quanto precedentemente narrato. Così non è dato sapere della fine del cyborg, come cominciano a manifestarsi ulteriori vuoti narrativi imperdonabili (è omesso del tutto anche il salvataggio delle ragazze finite tra le grinfie del demonio) oltre a un canovaccio che si sfalda in un epilogo a dir poco farraginoso e povero di idee.
Alla fine si ha l'impressione che il tutto non sia stato ben coordinato e che l'autore abbia cercato di distrarre il lettore abusando di creature messe in scena e poi tolte dalla storia senza motivo e spiegazione.

Lo stile è scorrevole, i periodi brevissimi. Oltre all'horror, è marcatissima la componente erotica (soprattutto saffica) presente fin dal primo capitolo, con una preside che spia le alunne intente ad amoreggiare nei letti del collegio.

Brutto il finale dove viene perpetrato un omicidio di un innocente come via indispensabile per interrompere la catena del male. Il demonio infatti, per manifestarsi nei sotterranei del collegio, avrebbe utilizzato come ricettore uno dei professori in modo da poter passare dalla dimensione ultraterrena a quella terrena. La scelta del maligno però è stata del tutto casuale (!?), essendo del tutto superflue le caratteristiche e gli atteggiamenti umani. Per tali ragioni, il malcapitato viene assassinato a sangue freddo da un suo collega che prima però cerca di coinvincerlo della bontà del suo gesto (!?). Tale soluzione, oltre a essere deludente (perché tutto si risolve con un omicidio), costituisce un controsenso ingiustificabile dal momento che si esorcizza il male con un altro male: la morte di un innocente. Resto alquanto perplesso...

Gli ultimi capitoli infine hanno la consistenza di una brodaglia messi li tanto per allungare la frittata e riguardano il processo a carico di colui che ha interrotto la catena di omicidi (appunto con un altro omicidio). In quest'ultima parte si registra solo qualche frecciata scoccata ai danni dell'atteggiamento scientifico talvolta inidoneo per studiare certi fenomeni. Questa l'ottima critica per contrastare lo scetticismo di chi è troppo legato alla logica scientifica: “Non porta lontano il buon senso. Non fa progredire le conoscenze, ma le addormenta, le cristallizza su schemi triti e ritriti... Non dico che sia inutile, ma a volte bisogna saper leggere tra le righe... Intus ligere dicevano i romani. Cioè guardar dentro alle cose. Non basarsi solo sull'apparente, sulla squallida casistica fenomenologica.”

Nel complesso un romanzo tirato via che denota una scarsa cura nello sviluppo del soggetto, ma che regala qualche buon momento di orrore e che non è sprovvisto di coraggio. A ogni modo resta insufficiente per i troppi problemi nella gestione del soggetto e per una conclusione pessima.