Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

martedì 30 novembre 2010

Recensione: "La signora dalla maschera d'oro" - G.Buzi



Autore: Giovanni Buzi

Anno di uscita: 2009

Casa editrice: Il foglio letterario

Pagine: 176

Prezzo: 15.00


Commento

Romanzo piuttosto atipico per l’ottima collana “Fantastico e altri orrori” delle edizioni il Foglio. Nell’occasione, infatti, il duo Lupi-Spasaro abbandona ogni tematica fantastica e presenta un thriller crudo (si parla di cannibalismo e di una setta pagana) dalle fortissime contaminazioni erotiche.

La storia verte su un truculento assassinio perpetrato, sui monti vicino Viterbo, all'interno di un convento dove vengono celebrati riti orgiastici. Le vittime vengono adescate, in una chat per incontri a sfondo sessuale, da una misteriosa e bellissima ragazza che indossa una maschera color oro.

Autore del libro è Giovanni Buzi, scrittore scomparso alcuni mesi fa e che si contraddistingueva per un grande coraggio (per rendersene conto, basta vedere chi sono i componenti della setta) e un talento visivo sopra alla media, tanto da vedersi accostato a maestri del calibro di Clive Barker.Nella circostanza Buzi abbandona l’horror, anche se le atmosfere che dipinge sono quelle tipiche del racconto dell’orrore, e affonda deciso nell’erotico.“La signora dalla maschera d’oro”, infatti, offre il meglio di sé proprio quando Buzi spinge sul pedale dell’erotismo (e lo fa subito con il primo capitolo), con un’attitudine al genere che ha quasi del fenomenale. Non mancano alcuni difetti (l’eccessivo impiego di alcune parole volgari, a esempio, a mio avviso stona con la cura del testo che lo scrittore è stato capace di offrire), a ogni buon conto la parte erotica è senz’altro ottima.Meno brillante, invece, è l’anima thriller del romanzo, a causa del fatto che Buzi scopre subito le carte in tavola facendo capire chi siano gli adepti della setta. Al lettore, quindi, non resta che domandarsi chi sia “la signora dalla maschera d’oro” poiché ogni altra cosa è già stata svelata. Anche dal punto di vista dell’identità della protagonista femminile le cose non vanno meglio. Il lettore, difatti, viene spinto a credere di trovarsi al cospetto di una sorta di dea diabolica dagli occhi felini, ma alla fine il mistero si risolverà con una soluzione decisamente terrena.Elegantissime le descrizioni ambientali, piuttosto noiosette e ripetitive, invece, quelle in cui vengono descritte le ricerche via internet eseguite dal gruppetto di amici.In conclusione un romanzo che scorre via bene, ma che alterna eccellenti momenti con altri fiacchi. Indicato a chi apprezza narrativa erotica. Voto: 7

mercoledì 10 novembre 2010

Recensione cinematografica: DEMO per futuro progetto dedicato allo spaghetti western


Produzione: Italia-Spagna-Germania, 1964

Regia: Sergio Leone (Bob Robertson).

Soggetto: Sergio Leone d Duccio Tessari

Sceneggiatura di Sergio Leone, Duccio Tessari, Fernando Di Leo, Tonino Valerii, Jaime C. Gil, Victor A. Catena.

Interpreti Principali: Clint Eastwood, Gian Maria Volonté (John Wells), José Calvo, Marianne Koch, Sieghardt Rupp, Margarita Lozano, Antonio Prieto, Josef Egger, Bruno Carotenuto (Carol Brown), Mario Brega (Richard Stuyvesant)

Durata 100 min.

Giudizio: ****1/2


La trama

Un pistolero americano (Eastwood), in sella a un mulo, arriva in un paesino di frontiera messicano in cui due bande si contendono il controllo della città. Una, la più animalesca, è comandata da Ramon (Volonté), un delinquente abile nell’utilizzo del fucile; l’altra, la più borghese, è guidata da una donna autoritaria (Lozano) che tiene sotto scacco figli e marito e si rivolge allo straniero con la frase “sono una donna abbastanza ricca per apprezzare gli uomini che si possono comprare”.Il pistolero, aiutato da un locandiere (Calvo) e dal becchino del paese (Egger), sfrutta l’occasione per mettere le due fazioni l’una contro, strappando soldi in cambio di informazioni relative a circostanze dallo stesso messe in scena.


Il commento

Come abbiamo visto in sede di introduzione, nonostante quanto si dica in giro (ovviamente non sui libri o alle rassegne di settore), “Per un pugno di dollari” non è il primo western italiano in senso assoluto. Tuttavia è innegabile sostenere che si tratti del film pilota del futuro “Spaghetti western”. Al di là del soggetto, che come vedremo è tutt’altro che originale, a fare la differenza tra questo film e i precedenti, sia italiani che europei, è la regia e la sfumatura malinconica, condita da un’ironia cinica e da scene intrise di una violenza fino a quel momento aliena al panorama western. In altri termini, rispetto ai western americani e ai primi western europei che cercavano di ripercorrere i sentieri tracciati da registi come John Ford o John Sturges, tanto per citare i più rappresentativi, qui si assiste a un qualcosa di rivoluzionario e molto coraggioso che va a scardinare i limiti in cui si era sempre mosso il genere, per dar vita a un prodotto diverso. L’impostazione di Leone fu quindi una sorta di azzardo che sulle prime non piacque a molte persone, anche per via del flop al botteghino ottenuto dal regista nel 1961 con il peplum “Il colosso di Rodi” (opera di suo debutto). Diversi attori, tra i quali Rory Calhoun (protagonista de “Il colosso di Rodi”) e Mimmo Palmara (preferì lavorare sul set de “Le pistole non discutono”), rifiutarono di partecipare al progetto; i produttori, Arrigo Colombo e Giorgio Papi, destinarono a Leone un budget limitato concentrando i loro sforzi sul western “Le pistole non discutono” che Mario Caiano stava girando in contemporanea a Leone e che veniva considerato il western di punta della Jolly Film (casa che distribuiva anche “Per un pugno di dollari”). Lo stesso Leone (che per ragioni commerciali si firma Bob Robertson, anglicizzando il nome d’arte del padre, Roberto Roberti, anch’esso regista negli anni ’20), terminato il film, non immaginava come avrebbe reagito il pubblico, tanto che alla prima uscita, temendo che la pellicola potesse esser ritirata dal circuito cinematografico per scarso successo, decise di acquistare una cinquantina di biglietti per fare in modo che il film potesse restare il più a lungo in programmazione. “Per un pugno di dollari”, in sostanza, nasce come un’avventura lavorativa che riunisce un manipolo di giovani autori che in seguito sarebbero diventati i maggiori rappresentanti del genere e che direttamente o indirettamente hanno contribuito al successo del film.Come abbiamo già anticipato, il soggetto non è originale. Leone, su consiglio pressante del futuro regista de “Lo chiamavano Trinità”, cioè Enzo Barboni - all’epoca operatore di macchina - e si dice anche di Sergio Corbucci fu invitato a vedere il film “La sfida del Samurai” uscito in Italia nel 1963 per la regia di Akira Kurosawa. Barboni si diceva convinto che il soggetto del film giapponese sarebbe potuto diventare un eccellente base per un western, un genere che in Italia tutti sognavano di realizzare a partire dallo stesso Leone ma che in pochi si azzardavano a proporre. La visione del film fu così elettrizzante per Leone che, memore del successo ottenuto in Italia da “I magnifici sette” anch’esso ispirato da un’opera di Kurosawa (“I sette samurai”), decise subito di lavorare sul soggetto, badando però a non stravolgere la trama. È in questa fase di scrittura che intervengono tre autori che metteranno una forte impronta nella cinematografia di genere italiana, cioè Duccio Tessari, Fernando Di Leo e Tonino Valerii (che collaborerà anche come aiuto regista) all’epoca rispettivamente di 38, 32, 30 anni.Tessari, in modo particolare, intervenne anche sul soggetto, conferendogli quel taglio ironico-farsesco (stupendi, al riguardo, il finale - con il becchino che prende le misure per preparare le bare, mentre lo straniero se ne va lasciandosi alle spalle un’infinità di cadaveri – e la scena del cimitero con il locandiere che, in risposta alla disposizione da parte dello straniero di due cadaveri messi ai lati di una tomba per farli sembrare vivi, commenta: “e inoltre non mi piace che tu li abbia sistemati proprio lì, c’è sepolto l’unico morto di polmonite di questo maledetto paese!”) che sarà dallo stesso portato alle estreme conseguenze con il suo successivo “Una pistola per Ringo” e che caratterizzerà, salvo qualche eccezione, tutta la sua produzione. Senz’altro determinante, in chiave drammatica, è l’apporto di Fernando Di Leo che da questo film in poi metterà il c.d. zampino in molti capolavori del genere quali “Navajo Joe”, “Django”, “I lunghi giorni della vendetta”, “Le colt cantarono la morte” fino a debuttare alla regia dando la vita a dei noir che sarebbero diventati autentici gioielli della cinematografia mondiale (“Milano calibro 9”, “La mala ordina”, “Il boss”). Gli sceneggiatori, inoltre, sono stati molto bravi a presentare nel corso della narrazione tutti quegli elementi che si riveleranno determinanti nel magistrale finale. Viene infatti mostrato a circa metà film la passione e la cura ossessiva con cui Ramon spara col suo fucile, mirando sempre al cuore di un’armatura che utilizza come bersaglio. Viene anche proposto un quesito, che vede protagonista e antagonista non concordare tra di loro circa la maggiore efficacia del fucile sulla pistola in un ipotetico duello tra due uomini diversamente armati, che troverà risposta proprio nell’epilogo. Quindi, in definitiva, nonostante un budget limitatissimo che impedisce di utilizzare scenografie diverse da quelle del minuscolo paese teatro dei fatti, gli sceneggiatori riescono a intessere una storia che cattura dal primo all’ultimo minuto lo spettatore, grazie a dialoghi ben studiati e di effetto.Ma il pregio del cast tecnico non si limita a questo poker di professionisti, ma può contare almeno altri due grandi personaggi del nostro cinema: Ennio Morricone che, dopo quasi un decennio di gavetta nel mondo del cinema, esplode in modo prepotente proprio con questa opera confezionando una colonna sonora che sarebbe diventata intramontabile; e Massimo Dallamano, sottovalutato ma già esperto addetto alla fotografia, che riuscirà a imporsi, prima di trovare la morte in un tragico incidente stradale, anche alla regia con perle quali il poliziesco con elementi thrilling “La polizia chiede aiuto” e il giallo “Cosa avete fatto a Solange?”.Premesse queste importanti e dovute segnalazioni, veniamo alla regia di Sergio Leone. La prima cosa che salta alla mente è il ritmo e la cura dei dettagli, con primissimi piani (sugli occhi, sulle pistole, sugli speroni, sulle gocce di sudore) e zoomate che, fino a quel momento, non si erano mai viste nei prodotti hollywoodiani. Un’altra trovata del regista è costituita dalla proposizione di inquadrature dove viene ripreso un duello senza mai staccare la telecamera (aspetto invece caratteristico dei film americani). Il genio di Leone, però, va alla grande sensibilità di saper sfruttare le musiche di Morricone per combinare sequenze intrise di una poetica leggendaria, in questo viene anche aiutato dall’eccellente montaggio di Roberto Cinquini e dall’ottimo lavoro eseguito dietro alla macchina da presa da un altro professionista che poi debutterà nella regia e offrirà il meglio di sé nel poliziottesco (“Squadra volante” e “Mark il poliziotto” i suoi masterpiece): Stelvio Massi.Il film parte subito in quarta con dialoghi che fanno dell’ironia la loro arma vincente e con un personaggio protagonista totalmente sopra le righe e guascone. Un personaggio che non è un vero e proprio eroe (è un materialista che non mantiene la parola data), anzi è una canaglia dal passato misterioso e sofferto che lo porta, in qualche momento, a simpatizzare per i più deboli come dimostra il momento in cui libera la donna, interpretata dalla Koch, tenuta segregata dalla banda di messicani rispondendo alla sua domanda “perché fate tutto questo per noi?” con la frase “è una storia troppo lunga da raccontare”. Ma non è solo l’ironia a catturare l’attenzione dello spettatore, bensì i duelli e le sparatorie che si aprono dopo appena 4 minuti con un memorabile duello uno contro quattro, con il protagonista che ordina al becchino di preparare tre casse (correggendosi dopo la sparatoria con la frase: “volevo dire quattro casse”) prima di andare a provocare i quattro bulli locali che lo avevano importunato al suo arrivo in paese. Farà scuola, al riguardo, la scelta registica di Leone di riprendere il tutto posizionando la telecamera di lato alla fondina da cui Eastwood estrarrà la sua colt.Nel film sono poi presenti almeno altre tre sequenze memorabili. La prima è l’imboscata che i messicani, travestiti da Yankee, organizzano ai danni dei soldati messicani sul Rio Bravo. Sequenza che diventerà una specie di firma di Leone e che, in un modo o nell’altro, tenderà a riproporre un po’ in tutti i film in modo particolare in “Il buono, il brutto e il cattivo” e “Giù la testa”. Particolarmente interessante, poi, soprattutto sotto il profilo della fotografia (Dallamano non ricorre a filtri, ma sfrutta il fuoco come elemento per far luce sugli attori) è lo sterminio dei Baxter, con la casa che va completamente a fuoco e il protagonista che osserva l’esecuzione dei Baxter dall’interno di una bara, sputando commenti al vetriolo (“Ferma, non voglio perdermi lo spettacolo” dice al becchino che lo sta trasportando fuori paese, per sottrarlo alla banda di messicani che lo sta cercando per ucciderlo). È infine straordinario l’epilogo con Eastwood che, in mezzo ai fumi dell’esplosione di un carico di dinamite e con una soundtrack da brivido, avanza sfidando il narcisismo dell’antagonista (“Beh che ti succede, Ramon, ti trema la mano o forse hai paura. Al cuore Ramon, se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore. Sono parole tue, no? Al cuore, Ramon, al cuore…altrimenti non riuscirai a fermarmi!”), rialzandosi a ogni colpo di fucile sparato dal messicano grazie a una lastra metallica che lo protegge dai colpi e che tiene nascosta sotto il poncho. Innovativo inoltre il ricorso alla soggettiva finale, con mdp che oscilla a simulare gli ultimi istanti di vita di un uomo sul punto ormai di morire. Questo espediente, da Leone in poi, diventerà un marchio di fabbrica del cinema italiano di genere in generale e più in particolare del thriller e dell’horror, con registi come Dario Argento e Lucio Fulci che ne diventeranno i principali specialisti.Un’ultima segnalazione merita anche la scena con le mdp che cerca Eastwood nascosto sotto l’asse di legno su cui si muove un Ramon inferocito che lo cerca per ucciderlo (escamotage che sarà citato miriade di volte, come avvenuto di recente nell’ultimo film di Tarantino “Bastardi senza gloria”, quando un gerarca nazista cerca un manipolo di ebrei nascosti nella casa di un contadino francese).Veniamo al cast artistico. Nei panni del protagonista troviamo un giovanissimo Clint Eastwood, all’epoca conosciuto solo per aver ricoperto ruoli di protagonista per film wesrtern destinati al circuito televisivo americano. Eastwood fu indicato a Leone da un agente, dopo che vari autori avevano rifiutato il ruolo. Al regista non convinceva (dirà in seguito: “Eastwood aveva due espressioni, con il cappello o senza cappello”), ma il suo onorario era basso e visto il budget non si sarebbe potuto fare altrimenti. Per il doppiaggio dell’attore viene scelta l’ottima voce dell’attore Enrico Maria Salerno e la professionalità di Salerno ha senz’altro contribuito a impreziosire la granitica interpretazione dell’attore Californiano, comunque il linea con la freddezza del suo personaggio. Peraltro questa figura del pistolero straniero che vaga con un poncho marrone e un cigarillo e alla cui base c’era anche il titolo originario del film “Il magnifico straniero”, poi modificato con il meno pertinente “Per un pugno di dollari”, sarà mantenuta anche per i due western successivi di Leone; inoltre fungerà da ispirazione per il primo western che - nel 1973 - vedrà dietro alla mdp proprio Clint Eastwood ovvero l’eccezionale “Lo straniero senza nome”, opera che citerà lo spaghetti western e più in particolare “Per un pugno di dollari” (abbiamo uno straniero apparso dal niente che crea scompiglio in città) e “Django il bastardo” di Sergio Garrone (da cui riprende l’elemento del pistolero morto che ritorna in una forma spettrale per vendicarsi). Notevole, invece, Gian Maria Volonté. Volonté, chiamato all’ultimo a sostituire Mimmo Palmara, all’epoca era un promettente attore sia teatrale che di cinema di critica sociale. In entrambi casi, il fato ha voluto che i problemi nell’ingaggio degli attori abbiano avuto un peso che anziché rivelarsi negativo si è rivelato un autentica manna dal cielo. Infatti, a partire da questo film, sia Eastwood che Volonté riusciranno nella loro carriera a ritirare un’infinità di premi e riconoscimenti.Completano il cast un gruppo di caratteristi italiani, spagnoli e tedeschi non di grande valore artistico, ma comunque funzionali alla causa. Tra questi mi preme ricordare il simpatico Josef Egger (sarà riconfermato nel successivo “Per qualche dollaro in più”), nei panni del becchino del paese (eccellente il doppiaggio), il grande Mario Brega, mitico attore feticcio di Leone, e José Calvo che ritroveremo anche in altri western quali “I giorni dell’ira” ma anche in film di Dino Risi e Luigi Comicini.Per concludere, “Un pugno di dollari” introduce tutti quegli elementi che faranno la fortuna dello spaghetti western ossia la violenza (vedere le torture cui vengono sottoposti il protagonista e il locandiere, con pestaggi e bruciature di sigaro), l’ironia e quel tocco poetico e malinconico che Hollywood raramente è riuscita a eguagliare.

Le citazioni:

1) “Devo ancora trovare un paese dove non c siano padroni”

2) “Fate male a ridere. Al mio mulo non piace la gente che ride, ha subito l’impressione che si rida di lui, ma se mi promettete di chiedergli scusa, con un paio di calci in bocca ve la caverete”

3) “Quando uno che ha quella faccia fa quel mestiere, vuol dire due cose: che è veloce ma anche intelligente, quindi troppo pericoloso per voi”

4) “La vita di un uomo, da queste parti, è spesso legata al filo di un’informazione”

5) “Quando un uomo con una pistola incontra l’uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto”.