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venerdì 29 agosto 2014

Recensione Narrativa: L'UOMO CHE VIDE IL DIAVOLO (Gaston Leroux).


Autore: Gaston Leroux.
Titolo Originale: L'Homme qui a vu Le Diable.
Anno: 1908.
Genere: Narrativa del Terrore.
Edizioni: Galaad.
Pagine: 90.
Prezzo: 10 euro.

Commento Matteo Mancini.
Novella di circa ottanta pagine recuperata dalla Galaad Edizioni e pubblicata a cento anni dalla sua stesura, nel 2008, probabilmente perché sgravata dai diritti d'autore.
L'Uomo che Vide il Diavolo, o meglio L'Homme qui a vu Le Diable, non si segnala certo tra le opere più memorabili nate dalla penna del grande scrittore di gialli Gaston Leroux, tuttavia risale al periodo più felice dell'ex avvocato parigino. L'opera infatti viene stesa in concomitanza con i due gialli più noti dell'autore, Il Mistero della Camera Gialla (1907) e Il Profumo della Dama in Nero (1908), appena due anni prima del capolavoro Il Fantasma dell'Opera (1910) e mette subito in mostra, fin dal primo capitolo, la passione dello scrittore per la narrativa del terrore. Per gli studiosi della materia segnalo inoltre che, col titolo Letters of Fire, il testo apparve nella prestigiosa rivista americana weird tales nel marzo del 1930 (fonte Studilovecraftiani).

La storia è piuttosto semplice e convenzionale. Quattro studenti, due dei quali provenienti dalla città e dunque meno inclini alle leggende mentre altri due campagnoli e creduloni, rimangono sorpresi in piena montagna da una bufera che li costringe a rintanarsi in una grotta. I quattro vengono soccorsi da un gentiluomo dall'aspetto elegante ma decadente, che vive da eremita, in compagnia di un cane muto e di una inserviente, all'interno di un castelletto disperso tra i boschi sul confine tra Francia e Svizzera. Strane voci circolano su questo individuo sospettato di aver stretto un patto col demonio. Costretti però dalla necessità, i quattro accettano l'invito di passare una nottata nella magione dello sconosciuto. Nonostante quanto sia lecito pensare, dato che ci si trova al cospetto di un racconto del terrore, i giovani vengono accolti in ottimo modo, cenano a base di capriolo e ascoltano una storia assurda. Il vecchio narra infatti di come sia caduto in disgrazia, per amore di una donzella che avrebbe voluto sposare senza però averne le possibilità economiche e per il suo vizio per il gioco d'azzardo, finché, fuggito dal mondo, un giorno ebbe a incontrare il Principe delle Tenebre in persona. L'incontro col diavolo, quasi involontario e avvenuto sull'orlo del suicidio in camera da letto e con una pistola in mano (la scena ricorda un po' un momento cardinale nella storia dello scrittore Gustav Meyrink, quando l'austriaco abbandonato dall'ennesima fidanzata prese la strada dll'occultismo), diviene decisivo nella vita dell'uomo. Da quel giorno in poi una grottesca maledizione graverà sul poveretto, è lo stesso soggetto a raccontare la portata della maledizione: "Il Demonio, con due parole, aveva scritto il mio destino a lettere di fuoco. Aveva lasciato la sua firma. La prova ultraterrena del patto abominevole che strinsi con lui quella notte. TU VINCERAI!"  E così, da allora in poi, il dannato aveva vinto in continuazione a ogni partita e  a ogni puntata senza alcuna possibilità di perdere. Un vantaggio non da poco, potrebbe pensare qualcuno, se non fosse che il tizio è un fervente cattolico e un uomo dall'indole buona, al punto da rifiutare le vincite (date in beneficenza) e da rinunciare all'amore (perché sarebbe stato benedetto dai soldi avuti per intercessione diabolica) con la speranza (vana) di aver salva l'anima.
L'arrivo dei quattro, che lo costringeranno a giocare a carte ("al cinque secco") perché convinti che sia pazzo, sarà l'ennesima dimostrazione per provare la veridicità di quanto narrato oltre che che per risvegliare certe forze malevole che sembrano aggirarsi nei pressi del castelletto. Su tutto graverà poi un clima surreale con un giocatore che gioca con la speranza di perdere, ma che non vi riesce neppur giocando male.

Copertina di un'edizione francese.

Sebbene il soggetto non sia dei più originali, la bravura di Leroux non tarda a comparire. Fin dalle prime battute lo scrittore transalpino dimostra grandissimo talento nel costruire un'atmosfera claustrofobica tratteggiando i contorni di una tempesta da romanzo gotico, con ululati, squarci di luce nel buio e grugniti dei cinghialotti catturati dai quattro studenti. Molto belle poi le descrizioni del cane muto, che abbaia e si dimena incapace di fare rumore, così come la serie di rumori che rompono la quiete del castelletto. Piuttosto scialba, invece, la descrizione della partita tra il padrone di casa e gli sfidanti, così come non è all'altezza delle premesse il frettoloso epilogo in cui fa capolino la deformazione professionale di Leroux che ricorda di esser stato un giornalista di cronaca nera.

Chiarito il contenuto del testo, è bene spendere una parola sull'idea che sta alla base del racconto, ovvero il vizio del gioco, una malattia che Leroux conosceva assai bene essendo lui stesso un giocatore incallito al punto da dilapidare un'intera eredità ai tavoli verdi della Parigi bene (proprio come il protagonista del racconto, chiaramente prima di incontrare il demonio). Leroux, pià o meno consciamente, intende lasciare un monito ai lettori, consapevole della propria esperienza personale, celandolo tra le righe di un racconto fantastico dove si ribaltano gli incubi di un giocatore d'azzardo (si passa dal terrore della sconfitta a quello della vincita). A questo tema principale si aggiungono poi due sotto temi cari agli autori del fantastico, cioè il rapporto tra orrore soprannaturale (molto evanescente la descrizione del demonio) e pazzia, vista quale arma per fuggire dalle fauci dell'ignoto laddove ogni spiegazione razionale sia destinata a soccombere (non a caso il protagonista cerca in tutti i modi di convincersi di esser stato vittima di un'allucinazione), e il rapporto tra amore impossibile e parabola esistenziale discendente dell'uomo sensibile che è stato respinto e che, per effetto di ciò, viene proiettato verso la morte (aspetto, quest'ultimo, che ritornerà dirompente ne Il Fantasma dell'Opera).

Gaston Leroux.

Una considerazione finale per l'edizione curata dalla Galaad, casa editrice milanese specializzata in edizioni formato tascabile, la quale, forse (dato il prezzo non più di tanto contenuto), farebbe meglio a dotare i propri volumi di una introduzione al testo e all'autore o, quanto meno, a rimpolparli  a dovere; nella fattispecie, a mio avviso, sarebbe stata buona cosa unire alla novella in questione qualche altro racconto fantastico, magari inedito, di Gaston Leroux in modo da rendere più appetibile il tutto (così come è si tratta di un volume per "maniaci" dell'autore, in senso positivo, o del genere, non essendo una lettura essenziale).

Chiudo la recensione con una frase pronunciata dal protagonista che ben sintetizza il cuore della vicenda trattata: "Ecco dunque dove conduce la mania del gioco: Conduce alla follia, puramente e semplicemente!"





lunedì 25 agosto 2014

Recensione Saggi: RIBOT - Cavallo del Secolo (di Renzo Castelli).


Autore: Renzo Castelli.
Genere: Saggistica / Ippica
Anno: 1981.
Editore: Pacini Editore.
Pagine: 220.

Commento Matteo Mancini.
Eccoci al cospetto di un mito della mia infanzia e non solo di quella, una vera e propria istituzione nel mondo dell'ippica italiana e mondiale: Ribot. Sono praticamente cresciuto con le leggende di questo cavallo invincibile (nel vero senso della parola, imbattuto in sedici uscite, tre delle quali internazionali) che negli anni '50 veniva a trascorrere gli inverni (c.d. "a svernare") a Barbaricina, nella periferia di Pisa, dove preparava i gran premi di primavera.
Chi meglio di un appassionato d'hoc di lungo corso come Renzo Castelli avrebbe potuto scrivere un libro dedicato a questo magnifico cavallo? Giornalista e storico pisano, Castelli, classe 1937, pubblica il libro nel gennaio del 1981 per conto dell'editore pisano Pacini. Il libro è praticamente da sempre presente in casa mia, essendo stato acquistato addirittura prima della mia nascita (luglio 1981). L'ho rispolverato in questi giorni e l'ho riletto ad anni e anni di distanza dalla prima volta.

Lo stile è scorrevole, il testo essenziale e asciutto. L'autore stende quella che lui definisce, a ragione, una biografia popolare di Ribot e in effetti la sinteticità dell'opera non permette approfondimenti che non vadano oltre a un'infarinatura generale. Tuttavia, nonostante la brevità del testo, circa 220 pagine inframmezzate da centoventi fotografie, Castelli mette dentro quanto necessario evitando noiose ripetizioni e soprattutto caratterizzando tutti i personaggi gravitanti attorno al cavallo imbattibile.
Così abbiamo un primo capitolo dedicato ai genitori del cavallo, Tenerani e Romanella, di cui vengono forniti i dati circa le carriere in pista e poi quelle riproduttive. Sul punto l'autore si sofferma sulla perplessità mostrata dall'allevatore del cavallo, il leggendario Federico Tesio (personaggio capace di imporsi, dal 1911 al 1954, 21 volte su 35 edizioni disputate del Derby di Roma), il quale vedeva di cattivo occhio il frutto di questa unione (nel testo non viene detto nulla circa l'eventuale fuga dello stallone che avrebbe montato la fattrice all'insaputa degli allevatori). L'occasione è poi propizia per spendere più di una parola su Tesio stesso, definito "il mago" per le incredibili intuizioni, per il bagaglio di cultura applicata alla pratica quotidiana e per la capacità di accaparrarsi la fortuna degli astri.  Personaggio di interesse trasversale, un eclettico ossessionato dalla sete di sapere e di dimostrare quanto appreso, dotato di abilità poliedriche (scrittore, pittore, appassionato di filosofia e sostenitore dell'esistenza della anima, studioso di astronomia e di astrologia) e maniaco sperimentatore di incroci genetici elaborati scrutando ore e ore i suoi cavalli. Tesio era quello che si potrebbe definire un Lombroso del mondo dell'ippica, convinto che si potesse individuare un campione sulla base della morfologia e della struttura fisica. Acerrimo nemico della psicanalisi e della burocrazia, era altresì famoso per i suoi eccessi scaramantici e per i suoi atteggiamenti rigidi e massimalistici (pretendeva il massimo da tutti: uomini e cavalli, con carichi di lavoro massacranti e spesso oltre i limiti). Dotato di una certa verve ironica miscelata a un fondo di scontrosità, soleva dire: "Solo gli uomini politici che vogliono fare carriera parlano di eguaglianza".
Si era dato all'ippica, in particolare all'allevamento equino (rivelandosi, in Italia, il più vincente con fiori all'occhiello come Nearco e Cavaliere d'Arpino), dopo una prima parte di vita un po' travagliata e dopo essersi sposato con l'aristocratica Lydia, la sua inseparabile e fidata compagna (una delle poche di cui si fidava ciecamente), con la quale aveva fondato la celebre scuderia Razza Dormello Olgiata.

Federico Tesio.

Il testo procede con una descrizione del Ribot puledro. Nato a Newmarket, Inghilterra, nel 1952 e importato in Italia per essere introdotto alla corte di Tesio, il cavallo riceve subito la bocciatura da parte del suo allevatore che non lo apprezza perché non lo ritiene conforme ai suoi canoni estetici. Il "disprezzo" è talmente forte che Tesio, il sostenitore della fisiognomica ippica, non lo iscrive neppure al Derby di Roma (classica per eccellenza nel panorama nazionale). Lo yearling viene soprannominato il piccoletto o il brutto anatroccolo, il suo allevatore ci va giù di mano pesante reputandolo a priori un brocco. Ciò nonostante decide di dargli un nome come si deve, perché una delle prerogative di Tesio è di dare ai suoi cavalli nomi d'arte. La scelta ricade sul nome di un pittore francese autore di una trentina di pregevoli acquaforti, tale Ribot Theodule.
Intanto il caporale di scuderia (sorta di tuttofare), che poi diverrà allenatore del cavallo alla morte ormai imminente di Tesio (quest'ultimo non vedrà mai correre Ribot), ovvero Vittorio U. Penco insiste con il suo superiore per portare il puledro a Barbaricina, dove la Razza Dormello torna a svernare dopo quattordici anni di assenza. Il cavallo, sebbene "verdone" (termine tecnico per definirlo tardivo) è brillante, dispettoso, persino matto, al punto che in seguito Penco gli affiancherà un gregario, Magistris, allo scopo di tranquillizzarlo. Così scrive Castelli: "Quando Ribot faceva il pazzo, Magistris, incapace di stare al gioco, restava fermo, immobile a fissarlo con uno sguardo stupito e anche pieno di deplorazione". Penco riferisce che ha margini di miglioramento e che potrebbe rivelarsi utile nel giro di poco tempo. Tesio non ne è convinto, però cede.

Ribot.

Il testo prosegue con i brevi profili del citato Penco il quale, grazie ai successi ottenuti da Ribot, otterrà il patentino onorario da allenatore per meriti sportivi, senza dover sottoporsi al prescritto esame, nonché del fantino pisanissimo Enrico Camici (capace di chiudere la carriera con 4.100 vittorie su 20.000 corse disputate) che monterà Ribot in tutte le sue sedici uscite. Al riguardo, Castelli inserisce anche una gustosa intervista al jockey toscano, ricostruendone la carriera dall'infanzia fino alla conquista dell'Arc de Triomphe di Longchamp.
Presentati tutti i protagonisti della genesi del campionissimo, l'autore passa a narrare le sedici uscite dell'allievo di casa Tesio, presentando corsa su corsa con piglio giornalistico ma senza annoiare mai. E' bene subito precisare che il mito Ribot si costruirà non tanto in virtù delle sedici vittorie ottenute in pista, ma soprattutto grazie ai tre successi internazionali e alle prove mattutine dove, ad appena tre anni, era capace di stracciare l'eccellente compagno di allenamento Botticelli (vincitore del Derby di Roma e della Gold Cup di Ascot). Nelle altre corse, salvo il leggendario Gran Criterium di Milano del 1954 dove, su un terreno paludoso, si salvò per una sola testa dal soldiano (Razza del Soldo) Gail, cavallo specialista del pesante spinto a fondo da un altro pisano d'hoc (Silvio Parravani), Ribot ebbe vita relativamente facile; molte delle corse lo videro infatti protagonista di meri canter, con un campo di partenti talvolta ridotto addirittura a due unità spesso peraltro contro compagni di colore. Delle tredici corse disputate in Italia solo una vide Ribot galoppare in un ippodromo diverso da quello di San Siro (Milano). L'occasione lo vide trionfare di sei lunghezze sulla compagna di allevamento Donata Veneziana (che lo aveva accompagnato anche nel giorno del debutto, avvenuto il 4 luglio del 1954) in quel di San Rossore, nel Premio Pisa, il 6 marzo del 1955 sotto una pioggia battente. Sul punto, lo abbiamo già specificato, il legame tra Ribot e Pisa era molto forte, essendo questo il luogo dove il campione veniva a passare i propri inverni in vista degli impegni più importanti.

La vittoria di Ribot nel premio Pisa vista dal vignettista Punch. 

Delle altre corse disputate a Milano si ricordano le rivincite contro Gail, strapazzato nel Premio Emanuele Filiberto con un distacco di dieci lunghezze, il 17 aprile del 1955, e poi il successo di un anno dopo nel Gran Premio Milano dove, sui 3.000 metri, piegò le resistenze di tutti i migliori cavalli italiani (vincitore del Derby di Roma, vincitore del Presidente della Repubblica), lasciando a distacco abissale il compagno di colori Tissot risalito dalle retrovie per il crollo fisico dei due avversari più temuti del lotto, cioè Barba Toni e Vittor Pisani (rei di aver tentato di mettere pressione al favorito).
Il mito del cavallo imbattibile, però, lo si deve al trionfo a sorpresa (quasi cento la quota al totalizzatore) nel Arc de Triomphe del 1955 e soprattutto alla vittoria, ottenuta peraltro in condizioni non ottimali, sulla pista Ascot al cospetto della Regina d'Inghilterra e di Wiston Churchill, con un vantaggio di cinque lunghezze sul cavallo della regina stessa (High Veldt). E' infine leggendaria l'ultima corsa della carriera di Ribot, con un Camici deciso a mostrare la potenza del suo pupillo spingendolo a fondo nell'Arc de Triomphe del 1956, al punto da concedersi un beffardo finale con la testa rivolta all'indietro per scrutare e beffeggiare gli altri  (tra i quali due cavalli americani giunti d'oltreoceano per confrontarsi con il miglior cavallo d'Europa) dispersi per la pista e capitanati dell'americano Talgo.
Castelli regala poi il simpatico aneddoto legato alle bizze di Ribot (disarcionò Camici dopo il palo) nell'esibizione all'ippodromo delle Capannelle di Roma, dove la Razza Dormello Olgiata concesse l'ultima uscita pubblica del suo cavallo, in compagnia del fido Magistris, prima di ritirarlo stallone.

Il volume si chiude con dei veloci capitoli dedicati alla carriera riproduttiva di Ribot. Si parla di alcuni dei suoi migliori prodotti, tra i quali Molvedo e Prince Royal II entrambi capaci di aggiudicarsi l'Arc de Triomphe (nel '61 il primo, nel '64 il secondo). Questa parte, probabilmente, si sarebbe potuta curare maggiormente, mancando quasi del tutto i riferimenti e gli aneddoti relativi alla parte finale di vita negli Stati Uniti del dormelliano (vi morirà nel 1972 a causa di una colica, aspetto quest'ultimo non indicato nel testo). Ribot infatti, dopo una prima parte di carriera stalloniera in Inghilterra e poi in Italia, fu ceduto a noleggio a un allevamento americano per cinque anni, poi prorogati per l'impossibilità di ricondurre il cavallo in Italia. Così titolerà un giornale dell'epoca: "Caro Ribot, addio! Il cavallo non può più ritornare in Italia, si ritiene che sia impazzito e un suo trasferimento potrebbe provocarne la morte."

In definitiva l'opera di Castelli è un testo sintentico, ma che contiene quanto di indispensabile ci sia da sapere su Ribot e sui personaggi che lo hanno reso un campione intramontabile. Ribot fu un cavallo eccezionale, al punto da concedersi errori di strategia e stati di forma non perfetti, grazie  a una capacità polmonare fuori dalla norma e a un'eleganza di galoppo che gli permetteva di correre senza scomporsi e senza risultare macchinoso. Poco importava poi se esteticamente non fosse un gran bel vedere, addirittura a prima vista poteva sembrare un cavallo anonimo, senza qualità apparenti e peraltro senza balzane o liste bianche sul muso a interrompere la "monotonia" del suo mantello baio. Castelli spiega bene tutto questo e plasma un volume apprezzabile anche da chi di ippica non ne capisca niente. Dunque Ribot - Cavallo del Secolo è un libro che non può mancare nella biblioteca degli appassionati del settore ma anche in quella di tutti gli studiosi dello sport tout court, per la capacità di questo cavallo di portare l'Italia sportiva sulle vette del mondo in un'epoca assai triste come quella del secondo dopo guerra.

Per coloro che siano intenzionati ad approfondire la conoscenza di Ribot segnalo Ribot. Un campione e la sua Epoca (2012) sempre di Castelli per le Edizioni Pacini, il goliardico e un po' fantastico Io Ribot. La Mia Vita da Figlio del Vento (2012) di Nicola Melillo, dove l'autore racconta la storia da un'ipotetico punto di vista del cavallo, e soprattutto il volume di quasi quattrocento pagine dedicato alla Razza Dormello Olgiata e, più in particolare, al suo ideatore Federico Tesio Il Mito di Tesio (2008) di Franco Varola, testo quest'ultimo pubblicato in più lingue ed edito in Italia da Equitare.  

L'imbarazzante epilogo dell'Arc de Triomphe del 1956.
Enrico Camici si permette il lusso di voltarsi e controllare
il distacco sugl avversari.


giovedì 21 agosto 2014

Recensione Narrativa: IL MONACO (di Matthew G. Lewis)


Autore: Matthew Gregory Lewis.
Anno: 1796.
Titolo originale: Le Moine.
Genere: Romanzo Gotico.
Edizione: Bompiani, collana Il Pesanervi.
Curatore: Antonin Artaud.
Pagine: 330.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Il Monaco di Matthew G. Lewis, assieme a Il Castello di Otranto (1764) di Horace Walpole, I Misteri di Udolpho (1794) e L'Italiano (1797) di Ann Radcliffe, fa parte di un poker di romanzi che costituiscono la base del romanzo gotico (altrimenti detto Romanzo Nero) nonché la fonte di ispirazione primaria per la nascente letteratura del terrore che sarà forgiata da autori del calibro di Percy e Mary Shelley, John Polidori, Lord Byron, William Blake e seguenti. Siamo pertanto al cospetto di un'opera cardinale non solo per la letteratura di genere, ma per i classici della letturatura più in generale. Lewis infatti deve molto a Denis Diderot, in particolare a La Monaca (1760) e a I Gioielli Indiscreti (1748) da cui riprende la feroce critica all'ipocrisia religiosa dell'epoca, accusata dall'autore francese di barbaria e blasfemia. Sempre da Diderot viene ripresa la condanna a tutti quegli atteggiamenti diretti a costringere giovani ragazze alla monacazione a prescindere da un loro vero impulso interiore. A ciò Lewis e lo stesso Diderot contrappongono uno sguardo favorevole a un approccio maggiormente libertino con decise strizzatine d'occhio all'erotismo. Oltre a Diderot, l'autore inglese finisce col farsi influenzare dal Marchese de Sade (che infatti diventerà uno suo estimatore) e più precisamente dal romanzo Justine o le Disavventure della Virtù (1791), da cui mutuerà il gusto per la perversione erotica e per la corruzione spirituale. Dunque, come avremo modo di descrivere in seguito, l'autore opera una fusione di due generi ben distinti: da una parte abbiamo le tematiche proprie del nascente gotico, dall'altra, invece, abbiamo i tratti drammatici legati alla narrativa (di critica sociale) interessata al tema della c.d. monacazione forzata, aspetto quest'ultimo che farà de Il Monaco una delle opere di riferimento per maestri, che nulla hanno a che fare col fantastico, come Victor Hugo, Stendhal e Alessandro Manzoni.

Matthew G. Lewis scrive il romanzo alla sorprendente età di diciannove anni. E' nato in Inghilterra, ma ha un forte interesse per la narrativa tedesca (Lovecraft afferma che ha studiato in Germania), tanto da dilettarsi in numerose traduzioni di Goethe, Schiller e Wieland oltre di altri autori minori (reputati mediocri dal Solitario di Providence) legati alla narrativa del terrore teutonico di fine secolo.
Stende Il Monaco per vincere la noia, tra una pausa e l'altra nell'ambasciata inglese de L'Aia, mentre cerca di sottrarsi al destino di politico e diplomatico a cui è stato destinato dalla famiglia, assai influente nell'ambito dei possedimenti coloniali. Il volume esce a Londra col titolo The Monk, nel 1796, e ha un successo enorme, al punto che l'autore può dedicarsi a tempo pieno alla scrittura riscuotendo quell'ondata di pubblicità che aveva sempre ricercato, ma non è tutto rose e fiori come lui stesso avrà modo di scrivere parlando della figura dello scrittore: "Uno scrittore, vuoi buono vuoi cattivo, o a metà strada tra i due, è un animale che tutti possono permettersi di attaccare poiché, sebbene non tutti siano capaci di scrivere i libri, tutti si ritengono capaci di giudicarli... Insomma, entrare nei ranghi della letteratura equivale a esporsi volontariamente ai dardi dell'oblio, del ridicolo, dell'invidia e della delusione. Sia che tu scriva bene o male, sta' certo che non sfuggirai alle critiche".
Infatti, come era inevitabile dati i contenuti coraggiosi e a tratti eretici del volume, la censura non si fa attendere. Lewis viene quasi costretto a disconoscere l'opera, la quale viene comunque ritirata dal mercato (vi ricomparirà un paio di anni dopo, con alcune sforbiciate per placare gli ardori dei detrattori), oggi si direbbe, per contenuto contrario alla pubblica decenza; sembra addirittura che persino una personalità dissoluta come Lord Byron ebbe a ritenere il testo estremamente ardito. A ogni buon conto, Lewis entra in parlamento, stringe amicizie influenti con Byron, Shelley, Polidori e Scott e inizia una lunga carriera che lo porterà a scrivere circa una ventina di lavori teatrali (per lo più ballate drammatiche) oltre a un pugno di romanzi, pure di discreto successo ma destinati a finire nell'oblio con l'evaporare degli anni.
Il legame tra autore e romanzo sarà così forte da valergli il soprannome di The Monk, appunto Il Monaco, cosa che finirà per imbrigliarlo in un immagine che ne minerà la fantasia. Morirà, nel 1818, di febbre gialla, contratta in uno dei suoi viaggi in Jamaica; meta di approdo per verificare la condizione delle popolazioni indigene, allo scopo di redigere atti scritti in loro difesa (in particolare redigerà un codice funzionale a proteggerli dalle prepotenze e dalle crudeltà dei coloni).

Il romanzo a poco a poco finirà con il cadere nel dimenticatoio, la riscoperta dovrà attribursi alle rielaborazioni e traduzioni dei francesi Antonin Artaud (le poete du macabre) e del critico André Breton nonché al movimento surrealistà dei primi anni trenta del secolo scorso, i quali lo eleveranno a opera di primario valore. In particolare Artaud nel 1966 gli regalerà una vera e propria dichiarazione d'amore dicendo: "Che tutti coloro il cui spirito rifluisce verso i dati chiusi e puramente organici dei sensi come verso i loro escrementi, continuino pure a nutrirsi di questo residuo abituale e di questo escremento dello spirito che si chiama la realtà; io mi ostinerò a considerare Il Monaco come un'opera essenziale, che rovescia a piene mani questa realtà, trascina davanti a me stregoni, fantasmi e larve come se fosse la cosa più naturale del mondo e fa del soprannaturale una realtà come le altre."
Eppure, tutt'oggi, ci sono critici come l'esperto bulgaro Tzvetan Todorov che non lo considerano un volume fantastico giustificando il tutto come "soprannaturale accettato e non fantastico vero e proprio, ma solo di un genere che gli somiglia, poiché il fantastico si verifica solo quando ci si convince che gli avvenimenti raccontati non ricevono nesuna spiegazione logica" (cfr. La Letteratura Fantastica, Edizioni Garzanti, pag. 45-46). Si tratta di una posizione che non condivido, in quanto a mio avviso l'opera Lewis è un romanzo da ritenersi, seppure per una metà degli avvenimenti narrati, fantastico allo stato puro essendovi l'intervento di creature ultraterrene (patti diabolici alla Faust, per intenderci). Se Todorov ne fa almeno un cenno, lo omette del tutto l'eccelsa raccolta Maestri della Letteratura Fantastica (ediz. Edipem a cura di Edy Minguzzi) che si allinea al critico bulgaro. Di ben altro avviso saranno Howard P. Lovecraft (ne L'Orrore Soprannaturale nella Letteratura parlerà di efficace capolavoro orrorifico) e il nostro Gianni Pilo che in Dizionario dell'orrore gli dedicherà ben due voci definendolo "uno dei romanzi fondamentali del genere nero che ispirerà Hoffmann e Balzac. Il più interessato all'analisi dell'opera dello scrittore inglese sarà soprattutto il britannico David Punter il quale, in Storia della Letteratura del Terrore, non lesinerà inchiostro nel tratteggiare trame, commenti e visioni personali del masterpiece del connazionale.


Matthew Gregory Lewis.

La caratteristica principale del romanzo è data dalla presenza di due storie forti, con distinti personaggi, che si sviluppano autonomamente per poi intrecciarsi tra loro. A esse l'autore unisce una serie di resoconti passati (presentati sotto la forma di flashback) che chiamano in causa figure più o meno leggendarie come quella de l'Ebreo Errante o quella de la Monaca Sanguinosa (fantasma che si appalesa in determinate cadenze e che Lewis riprende da un'antica credenza tedesca). L'intelaitura è quella del romanzo gotico (conventi, sotterranei, patti diabolici, fantasmi, castelli) che tuttavia viene ad assumere la parvenza di un "connotato" superficiale. In realtà infatti il romanzo è un'opera drammatica, sospesa tra il romanzo rosa e quello di denuncia sociale. Lewis ambienta i fatti a Madrid, nel convento di Santa Chiara, sviluppandoli attraverso le disavventure amorose di una serie di personaggi, travolti da atteggiamenti retrogradi, beceri e persino delittuosi a sfondo paranormale. 

Protagonista principale è Ambrosio, il Monaco di cui al titolo, un personaggio in odore di santità che poi viene corrotto da una bellissima strega ("la maga esperta nell'arte dei più tremendi incantesimi, non fu ben presto altro che un corpo ansimante, adorno di tutte le magnifiche debolezza della donna... Aveva scoperto la parola che scatena gli elementi e poteva rovesciare a suo piacere l'ordine della natura") che si finge prete per entrare nell'Abbazia e servire il monaco, quando invece ha il solo scopo di distorglielo dalla fede per condurlo nei meandri della perdizione come dimostrerà quando si rivelerà disposta ad aiutarlo per sedurre altre donzelle. David Punter, nell'opera citata, giunge persino a considerarla un demone vero e proprio, opinione che il sottoscritto non condivide perché non supportata da elementi certi. L'inlgese è bravissimo a tratteggiarne la psicologia, di cui spicca la diabolicissima personalità maliziosa (prima di entrare in abbazia giunge persino a far donare al Monaco un ritratto della Madonna che ha i suoi stessi lineamenti, in modo poi da influenzarne la condotta e portarlo alla caduta), che la porterà a giochare con il religioso a un continuo rialzo ("niente è impossibile a chi sa osare... Vergogna al codardo che non osa essere né amico sicuro né nemico dichiarato!"), pungendolo nell'orgoglio alla stregua di una zanzara onde condurlo laddove ella vuole (cioè a stringere patti con Lucifero in persona). Se questo personaggio è ottimamente caratterizzato, a mio avviso, è frettolosa l'involuzione spiriturale del monaco il quale, da soggetto esemplare e carismatico, diviene in un batter d'occhio un nitido esempio di corruzione morale e carnale, a tratti persino piagnucoloso ma deciso a pagare qualunque prezzo per soddisfare il bisogno, evidentemente, represso del sesso, ivi compreso l'omicidio e uno stupro in odore di necrofilia ("Per me questo cimitero è il tempio dell'amore, quest'oscurità non è che l'ombra in cui il mistero avvolgerà il nostro piacere").

Questi sono i due personaggi principali a cui si aggiungono la badessa della convento e una povera suora costretta dai parenti a prendere i votii, sebbene innamorata di un nobile che farà di tutto per farla evadere oltre che a metterla incinta. Quest'ultimo evento, piuttosto classico nel sottofilone dedicato a quello che cinematograficamente diverrà il tonaca movie, permette a Lewis di calare la manaia sul mondo ecclesiastico dell'epoca che, al pari di Ambrosio seppur con atteggiamento inverso, arriverà a giustificare delitti abominevoli (tipo la morte di un bimbo appena nato o la tortura feroce cui viene sottoposta la monaca libertina, lasciata senza cibo ed acqua nelle segrete del convento) con la convizione (anch'essa deviata e malata) di rimediare alle debolezze della carne  e reprimere così condotte, nella realtà dei fatti, solo eticamente condannabili. 
Sono altresì presenti altri personaggi i quali tuttavia finiscono solo col subire le conseguenze negative che si innescheranno, direttamente e indirettamente, dagli atteggiamenti dei quattro soggetti sopraindicati, senza avere un ruolo forte nella storia. Un ruolo forte, invece, ce l'avrà la massa, il popolo, che, informato dei misteri consumati tra le mura del convento, scatenerà la propria ira dando luogo a una distruzione incontrollata e sommaria di tutto e tutti. Su questo è assai esaustivo David Punter, il quale giunge a scrivere che "la sorte di Ambrosio non ha un risvolto unicamente personale, ma è un aspetto della decadenza e dell'ipocrisia più generali di Madrid." Così Lewis suggerisce la propria visione della collettività: "Ambrosio non sapeva come il vento della popolarità è infedele, e come basti un attimo per fare un oggetto di abominio di colui che ieri era l'idolo universale." Si tratta di argomentazioni che ispireranno dappirma la penna di Huxley e da questo il film I Diavoli (1971) di Ken Russell il quale, calcando la mano, riproporrà al figura del monaco impeccabile con la passione per le donzelle, il tema della monacazione forzata e la distruzione dell'intera area per mano di inquisitori e popolani impazziti e incapaci di distinguere il reale dall'immaginario.

Copertina più recente del romanzo con dipinto di GOYA.

Un ulteriore elemento cardine, pur se presente sottoforma simbolico/metaforica, è, a mio avviso, rappresentato dal veleno (da intendersi quale elemento di contaminazione della purezza spirituale). Il monaco infatti inizia la sua parabola discendente dopo aver subito un morso da un crotalo (bello l'escamotage del finto novizio che inzierà a succhiargli la ferita, dando l'idea di volersi sacrificare per la vita del religioso con il fine invece di solleticarne desideri a luci rosse). Non cambia molto neppure per la badessa la quale, seppur per "procura" (cioè agendo su un'altra persona in una specie di sindrome di Munchausen per Procura), sottopone a tortura la monaca finendo col macchiare il proprio spirito religioso e quella che dovrebbe essere l'umiltà e lo spirito di perdono nel giudicare gli altri. Comune a entrambi i "peccatori" è lo stato di morte apparente cui andranno incontro (sorte che capiterà anche ad Antonia, una povera donzella che finirà nei sogni di più di un personaggio del romanzo), quasi a simboleggiare un ponte sospensivo tra ciò che erano prima e ciò che diverranno in seguito.

Non mancano infine momenti che delizieranno gli amanti del fantastico, nonostante uno sviluppo di trama a tratti prolisso e diluito, con passaggi da vero e proprio romanzo del terrore. Su tutti cito la parte (grottesca, in verità) che vede protagonisti la Monaca Sanguinosa e l'Ebreo Errante (che compie un esorcismo che mi ha ricordato certi racconti del Carnacki di William H. Hodgson), ma soprattutto le invocazioni demoniache nei sotterranei del convento, per mano del finto novizio, con un Lucifero che appare in duplice veste (dapprima sottoforma luminosa e dismessa poi invece mostruosa e tirannica), statue che si animano e alcune innovazioni come specchi magici che permettono di vedere avvenimenti che si stanno verificando a distanza (donzelle intente a fare la doccia) ovvero mirti che annichiliscono la volontà al semplice contatto sulla pelle e altre soluzioni del genere. Gustose e mai volgari, poi, le parti erotico/passionali soprattutto quelle tra il monaco e il finto novizio (in realtà, come abbiamo detto, è un bel pezzo di fanciulla): "Il monaco ebbe paura non tanto di perdere la donna che gli aveva salvato la vita quanto di dover fare a meno di un amante stranamente esperta nell'arte del piacere."
Il resto lo fanno una serie di colpi di scena (personaggi che sembrano morti e poi non lo sono, altri che sembrano impeccabili e poi peccano) che spiazzano il lettore e un doppio finale beffardo e amaro (viene messa in evidenza la natura falsa del demonio in un epilogo dai tratti dell'inferno dantesco) che si sentitizza nell'ottima conclusione del penultimo capitolo del romanzo dove Lewis lascia trapelare un barlume di speranza e di crescita per i superstiti: "Per il resto della loro esistenza, Raimondo e Agnese, Lorenzo e Virginia furono felici quanto possono esserlo delle creature mortali nate per essere preda delle sventure e trastullo della sorte. L'enorme dolore che avevano sopportato rese leggere le sofferenze che sopravvennero nel corso della loro vita. Erano già stati feriti dalle frecce più aguzze di quante se ne trovano nel turcasso della malasorte: in confronto, quelle che restavano sembravano smussate, come a chi ha attraversato una tempesta, la minaccia di un temporale non dà questo pensiero. E se dovettero sentire ancora il vento passeggero del dolore, non fu più per loro che una dolce brezza che soffia l'estate dal mare."


Foto di scena de IL MONACO (1972) regia di Adonis Kyrou.

Dunque un romanzo fondamentale per lo sviluppo del romanzo gotico e per la nascente letteratura del terrore, ma anche un testo indicato a chi non è interessato a questi temi, essendo incentrato sulla fortunata dicotomia (a livello narrativo) tra amore/sofferenza e morte/invidia.

Varie le trasposizioni cinematografiche, assai inferiori al romanzo, tra le quali Il Monaco del surrealista Adonis Kyrou (1972) con Franco Nero e Nathalie Delon protagonisti per la sceneggiatura del duo Bunuel/Carriere (che modificheranno il finale del romanzo in favore di uno assai più sacrilego) e quello dello specialista dello z-movie Joe D'Amato (1995).

La locandina del film di Adonis Kyrou.

domenica 3 agosto 2014

Matteo Mancini progetti per fine 2014 e inizio 2015, tra Saggi cinematografici, Racconti, Autobiografie legate al mondo Ippico, Mediometraggi, Presentazioni Letterarie e Saggi video sui Maestri del Fantastico.


Giornata di agosto piuttosto tersa, senza il rischio di aggiudicarsi un'ipotetica medaglia di brons(z)o, mi porta a fare un po' il punto della situazione per questo finale di stagione, quanto meno per quel che concerne la parte creativa.

Il mio saggio sul cinema western italiano, Spaghetti Western Vol.2, uscito a maggio per le Edizioni Il Foglio di Piombino, sta ottenendo un discreto riscontro in fatto di vendite. Con mia sorpresa, appare spesso nella classifica dei BEST SELLER di Amazon, settore "Cinema e Televisione", oscillando dalla quarta alla settantreesima posizione dei libri più venduti. La classifica subisce mutazioni continue e non mi è ben chiaro comprendere quale sia il periodo preso di riferimento, comunque è già una grande soddisfazione vedere il proprio volume comparire al fianco di quelli di autori ben più noti del sottoscritto.

La copertina di Spaghetti Western Vol.2

Se le vendite sembrano esser discrete il numero delle recensioni per ora latita, ma chi l'ha recensito, o mi ha reso la sua opinione, ne ha parlato in modo egregio. In particolare MARIO BONANNO, sul sito sololibri.net (http://www.sololibri.net/Spaghetti-western-Volume-2-Mancini.html, qua per leggere il commento)  ne ha fatto una recensione che mi ha lasciato a bocca aperta (visto il periodo e il clima umido vi confido di aver rischiato di ingurcitare uno sciame di zanzare). Riporto qui di seguito un breve stralcio che, non nego, mi ripaga degli sforzi compiuti nel recupero e nelle analisi dei film e dei loro protagonisti.

"Un lavoro scorrevole come le acque leggendarie del Rio Bravo, ardimentoso e avvincente come una diligenza che arranca tra i canyon del vecchio west, un saggio che ri-colloca il cinephile Matteo Mancini tra le firme più raccomandabili del settore... Attraverso un insieme muscoloso di schede, citazioni, divagazioni, analisi, report dalla stampa specializzata, questo secondo volume sullo Spaghetti Western mastica e rimastica il filone (aureo) in versione adulta, proponendosi come caposaldo per la bibliografia a venire. Un voto? Dieci e lode, anche per l’assoluta mancanza di prosopopea" (Mario Bonanno).

Per chiudere sull'argomento mi piace poi ringraziare, oltre all'editore Gordiano Lupi, Sasha Naspini e tutti coloro che hanno comprato il volume, il critico e appassionatissimo californiano TOM BETTS il quale, dagli Stati Uniti, ha creduto nel progetto al punto da donarmi la sua preziosa prefazione.

Tom Betts.

Un altro progetto in corso che sta, a poco a poco, vedendo la luce è Z3D (dove la "Z", tra i vari significati, sta anche per ZANZARA). Esperimento fatto con gli amici della CryAlex che mi ha visto per la primissima volta, e con delle falle dettate dall'inesperienza più totale, nell'improbabile ruolo di interprete, regista e sceneggiatore di un mediometraggio, scritto a più livelli, dalla forte componente metacinematografica. Le riprese sono quasi terminate, mentre la post-produzione è ancora da completare, chiaramente, con il reparto degli effetti speciali in computer grafica che deve ancora mettere mano al lavoro.

A proposito di film spero di proseguire con le presentazioni de L'ULTIMO ARTIGIANO, volume scritto con Lupi e Gazzarrini, di cui ho già parlato a Livorno, in occasione del Festival FI-PI-LI, e in piccoli cenni alla retrospettiva organizzata da La Serra di S.Miniato dove sono stato invitato per parlare, insieme a un palco ospiti di tutto riguardo (sotto la foto), del cinema di Jess Franco e di Dario Argento.
A tal riguardo c'è già una mezza parola con il regista Stefano Jacurti, per fare una presentazione di Spaghetti Western Vol.2 unita alla proiezione del suo ultimo film (western).

Da sx a dx. Antonio Tentori, Cristiana Astori, Matteo Mancini, Pier Paolo Dainelli e Ivo Gazzarrini.
La Serra di S.Miniato 27.05.2014.

Confermata la mia partecipazione al saggio cinematografico Religione all'Italiana - Preti, Santi, Papi, Eretici e Religiosi nel Cinema del Bel Paese (2015) a cura di Luca Guardabascio e Don Marcello Stanzione, edito dalle prestigiose Edizioni Paoline. Chiaramente, spero non a rischio scomunica, mi è stata affidata la parta degli eretici così ho steso un articolo di circa venti cartelle sul genere Tonaca Movie (sono in attesa del giudizio dei curatori), partendo dalle origini letterarie manzoniane (il riferimento va al personaggio de La Monaca di Monza), ma anche a quelle legate ai romanzi di Matthew G. Lewis ("Il Monaco"), Diderot, Hugo e persino al Marchese de Sade, per giungere agli antenati cinematografici internazionali del sottogenere (particolarmente in voga in Polonia) e da queste al filone che inondò i cinema italiani (oltre che messicani e giapponesi) negli anni '70.
Curerò altresì un secondo articolo, più o meno della medesima lunghezza, dedicato al filone esorcistico e alle relative parodie costituite prevalentemente dal cult movie L'Esorciccio.
Il volume dovrebbe uscire nella primavera del 2015 e dovrebbe avere una distribuzione, con tanto di presentazione, anche nel mercato statunitense.

Da sx a dx Luca Guardabascio al centro, con alla sua sx Don M.Stanzione

Veniamo ora ai PROGETTI FUTURI ANCORA DA AVVIARE.

Spaghetti Western Vol. 3 in realtà si tratta di un progetto, pur se sospeso causa riposo del sottoscritto, già avviato. Ho visionato tutti i film del 1968 e molti di questi li ho anche già analizzati così come fatto nei due precedenti volumi. Il volume, penso, non vedrà la luce prima della fine del 2015, per ragioni editoriali. Avrà una consistenza superiore, in fatto di pagine, rispetto al secondo volume e dovrebbe concludersi prima dell'uscita della saga Trinità, lasciando quindi spazio libero, nel quarto e ultimo volume, alla degenerazione e contaminazione del genere, con la nascita del western comico. In copertina saranno presenti in primissimo pianno GIANNI GARKO e NIEVES NAVARRO, protagonisti della saga dei pistoleri prestigiatori che hanno in Sartana l'emblema di riferimento.
La prefazione sarà curata da un altro ospite internazionale, che ora però non vi rivelo, a tal riguardo, anche in questo caso, potrei far colorare la copertina con i colori dello Stato di appartenenza del soggetto interessato.

Nieves Navarro (alias Susan Scott) e Gianni Garko.

E' poi molto probabile che ritorni a scrivere un pugno di racconti fantastici, partecipando a qualche concorso narrativo da cui ormai manco da circa tre anni. Potrebbe essere l'occasione per rinfrescare il mio "palco racconti", circa un centinaio (dall'horror al thriller, passando per l'erotico, la fantascienza e il western), per dar sfogo a una PICCOLA ANTOLOGIA, magari autoprodotta. Purtroppo, infatti, il mercato delle antologie di narrativa non è molto florido, a causa dell'esiguo numero delle vendite che sono in grado di garantire, quindi potrei provare a percorrere questa nuova esperienza.

Arrivo adesso al terzo progetto, su cui conto di lavorare a partire dalle mie prossime ferie estive, ed è un progetto personale che però conto di estendere in modo da trasformarlo in una romantica analisi a maggior raggio. Si tratta di un libro che ha pochi, per non dire nessuno, esempi di confronto. Intendo infatti utilizzare, anche per costruirmi una memoria cartacea che io possa conservare nel tempo, le memorie di famiglia per fare un libro dedicato al settore dell'IPPICA, ormai sulla via del collasso (un po' come il cinema e un'altra dozzina di altri mondi nostrani). Il punto sta non nel parlare di cavalli e personaggi che hanno fatto la storia del settore, bensì dei cavalli di casa (quasi una ventina) posseduti negli anni '70-'90 dai miei parenti (e con alcuni dei quali sono cresciuto), passando per aneddoti, incroci di destini, interviste, foto e storie parallele. Un viaggio che mi permetterebbe di parlare, con aneddoti, credo, curiosi e con delle vere e proprie favole sportive (non sempre dal lieto fine), di vincitori del DERBY DI ROMA, del GRAN PREMIO MERANO, de IL PALIO DI SIENA, de IL PREMIO PISA, nonché di personaggi di spicco de IL PALIO DI BUTI e de IL PALIO DI FUCECCHIO e persino del GIOCO DEL PONTE, con i quali, per motivi diversi, ho intrecciato la mia esistenza. Dunque un percorso per parlare di un mondo che non c'è più, di cavalli, fantini, proprietari e allenatori che magari non sono tra i più vincenti ma che costituiscono uno spaccato di un'epoca, a me cara (corrisponde alla mia fanciullezza), di cui ormai non vi è più traccia. Ma soprattutto, cosa che non interesserà al lettore, un diario di ricordi da cristallizzare nel tempo, salvandoli dal rischio dell'oblio che scende al volteggiare del triste mantello che scandisce il rintocco dei pesanti passi del tempo.

Matteo Mancini (Io), 25.09.2011, sul palo della 72°Edizione del Gran Premio Merano.
Edizione vinta da un cavallo dal nome ben augurante:
Chercheur d'Or, montato da James Reveley.

Quarto e ultimo progetto, anche questo confido di avviarlo tra le varie difficoltà tecniche (devo sempre comprare il materiale) e di software, a metà del mese di agosto. Penso di realizzare un CANALE YOUTUBE DEDICATO AI MAESTRI DELLA NARRATIVA FANTASTICA. L'obiettivo è quello di fare un programma, con episodi da 10-15 minuti cadauno, dedicato agli scrittori maestri del genere, con particolare attenzione al gotico e al genere del terrore, inframmezzandoli con un montaggio dinamico che oscilli dalle inquadrature del sottoscritto, mentre spiego i vari autori, a immagini e fotografie di repertorio che riguardino i romanzi e gli scrittori di volta in volta interessanti, oltre che le relative trasposizioni cinematografiche. Progetto, credo anche questo piuttosto originale, che spero possa risultare piacevole e che ha il fine dichiarato di spingere alla lettura dei classici (soprattutto quelli meno noti) di un genere che troppo spesso si pensa abbia in STEPHEN KING o in RICHARD MATHESON i loro massimi rappresentanti, ma che invece trova le sue più profonde radici in altri autori (soprattutto di scuola anglo-irlandese).

A presto per ulteriori novità,  a partire dalle recensioni del romanzo Il Monaco (di Matthew G. Lewis, 1796), dell'antologia noir  Anime Nere Reloaded (a cura di Alan D. Altieri, 2008) e del saggio I Cento Libri che rendono più ricca la nostra vita  (di Piero Dorfles, 2014) e poi... Restate sintonizzati, ne vedrete delle belle.

M.M.