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venerdì 25 luglio 2025

Recensione Narrativa: IL LATO SINISTRO DEL CUORE di Carlo Lucarelli.

Autore: Carlo Lucarelli.
Anno: 2003.
Genere: Antologia (Giallo, Horror e Fantascienza).
Editore: Einaudi.
Pagine: 370.
Prezzo: 14.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Antologia monstre del mio “scopritore” (se di scoperta si può parlare) Carlo Lucarelli pubblicata, nel 2003, all'apice della sua notorietà, dopo i successi degli anni novanta (vincitore del Premio Tedeschi nel 1993 con Indagine non Autorizzata e, nel 1996, del Premio Scerbanenco con Via delle Oche) ottenuti dalla serie Ispettore Coliandro (che sarà trasposta anni dopo nel serial televisivo diretto dai Manetti Bros) e da romanzi quali Lupo Mannaro (1994), Almost Blue (1997) e L'Isola dell'Angelo Caduto (1999), senza dimenticare i riscontri favorevoli garantiti dalla conduzione sulla Rai del programma Blu Notte – Misteri Italiani (1999-2009), vero e proprio appuntamento immancabile per gli appassionati di cronaca nera italiana tanto da fare di Carlo Lucarelli uno dei volti più noti della televisione (con tanto di imitatori). Associato al criminologo e psichiatra Massimo Picozzi, Lucarelli è stato uno dei primi scrittori/giornalisti ad analizzare in televisione le figure dei serial killer, cercando di garantire un approccio scientifico allineato agli stilemi degli indagatori americani. Un'intuizione che ha contribuito a lanciare una vera e propria moda sulla tematica, alimentata da saggi divulgativi - spesso scritti a quattro mani - come Compagni di Sangue (1998), Serial Killer. Storie di Ossessione Omicida (2003), Scena del Crimine. Storie di Delitti Efferati e di Investigazioni Scientifiche (2005) e Tracce Criminali. Storie di Omicidi Imperfetti (2006) sempre proposti con un linguaggio semplice e orientativo rivolto a una categoria eterogenea di lettori. Un vero e proprio faro illuminante per chiunque fosse a caccia di storie malate, perverse, legate alla storia criminologica italiana e non solo a essa. Lucarelli è stato ed è ancora un grandissimo comunicatore dai modi flemmatici e dalla postura studiata a tavolino. Voce ammaliante, sempre alla ricerca di metafore cinematografiche funzionali a rendere avvolgente il racconto, tra sagome cartonate e giochi di luce. Impossibile dimenticarlo.

Un nome, a inizio duemila, in rampa di lancio nel panorama crime e del giallo italiano, al punto da essere attenzionato da Dario Argento ed essere coinvolto, dopo il successo ottenuto da Alex Infascelli con la trasposizione (premiata con un Ciak d'Oro) di Almost Blue (2000), nella stesura della sceneggiatura del film Non ho Sonno (2001).

Un curriculum importante che porta Il Lato Sinistro del Cuore a caricarsi di attese che, per buona parte, verranno deluse. Lucarelli guarda al suo passato, probabilmente ai racconti degli inizi (penso anni ottanta), quando partecipava a concorsi narrativi o proponeva racconti finalizzati a pubblicizzare un prodotto alimentare o altro. L'Einaudi gli concede carta bianca e lo scrittore tributa il proprio passato (emblematico il ricordo della vittoria del mondiale del 1982 con il comico, ma modestisssimo, La Notte in cui mio Nonno Diventò un Lupo Mannaro) senza operare una vera e propria selezione dei racconti, tendendo piuttosto a pubblicare tutto. Vengono così proposti cinquantatré racconti, molti dei quali fulminei e gestiti da una a cinque pagine. Poche sono le storie davvero articolate. Sebbene la scrittura e con essa la lettura siano scorrevoli, molto materiale è contenutisticamente acerbo, riflettendo la natura di uno scrittore alle prime armi. Ci sono racconti (Amore e Spaziatura I, Il Racconto) addirittura sperimentali, privi di una trama, che rispondono a un tentativo metaletterario di giocare tra la gestione delle battute e il testo o tra questo e la sua ideazione.

Le tematiche sono molto variegate. Si spazia dal giallo classico all’horror, passando - almeno per un paio di racconti - alla sci-fi (Etienne) senza tralasciare incursioni nel genere comico-grottesco e nel noir. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Evidenti le tematiche ricorrenti, quali i flashback sul passato legato ai ricordi (probabilmente provenienti dai racconti del nonno) della seconda guerra mondiale (esaltazione della resistenza partigiana/comunista contrapposta all'infamia fascista, ne sono un'evidenza Comunisti e Los Fucilados), il gusto per l'erotismo spesso e volentieri di matrice esotica in cui l'uomo è un feticista destinato alla dannazione (La Domestica, Cornelius, Francisca) o alla ritorsione (Come uno Zombie), una curiosa anticipazione dell'ideologia woke (abbiamo due racconti con indagatori e poliziotti omosessuali o che comunque intrattengono rapporti con trans, tanto che uno dei racconti presta il proprio titolo a quello dell'antologia, mentre l'altro si intitola Il Giorno di San Valentino), la spiccata predisposizione per l'horror iperbolico (Julian, L'Uomo che Uccideva i Sogni e Il Silenzio dei Musei), ma anche per le sperimentazioni radiofoniche che ricordano il celebre scherzo di Orson Welles a cavallo tra le due grandi guerre (Radiopanico) e poi il tributo alla cucina emiliana (Cucina, Troppo Piccanti), l'ossessione per i paradossi temporali (Domani, Chi va Piano, Tempo), l'insistenza sulle sostituzioni di persona che determinano delle sliding doors a volte letali (Carissimo Oskar) e a volte provvidenziali (Telefono Sostitutivo) e infine la cronaca nera caratterizzata dall'azione di uomini dello Stato che hanno scelto la devianza al posto della fede nella patria, tra sette sataniche (Tenda Nera), attentati terroristici di matrice fascista (Omissis 25) e collusioni mafiose (Cornelius). Sono questi, a grandi linee, le idee attorno alle quali Lucarelli propone i suoi racconti. Non mancano ovviamente storie gialle proposte con stile beffardo ed elementi orrorifici impliciti deducibili con la corretta interpretazione del testo (Garganelli al Ragù della Linina), risoluzioni di vecchi delitti in cui viene omaggiato Edgar Allan Poe (L'Appartamento), indagini assurde votate al grottesco con crimini impossibili (in Delitto di Natale si scopre un omicidio commesso da Babbo Natale poi fuggito al seguito delle sue renne volanti; in Tiro Mancino, un ladro, dotato di due mani sinistre, riesce a convincere che il soggetto immortalato dalle telecamere non può essere lui perché le prove indicano che a commettere il colpo è stato un destrorso, salvo poi scoprire che il sospettato ha un fratello gemello dotato di due mani destre; in Moby Dick, un paziente di una clinica psichiatrica di nome Acabbi è ossessionato dalla balena bianca di Melville e uccide con una forchetta di plastica un uomo di duecento chili vestito tutto di bianco che ha visto passeggiare nel parco) o situazioni tali che portano persino all'assoluzione di un vecchio gerarca nazista tornato sul teatro dell'eccidio da lui stesso perpetrato allo scopo, un po' come Gian Maria Volonté in Un Indagine su un Cittadino al di sopra di Ogni Sospetto, di farsi condannare (Reinhardt Klotz).

Come è facile intuire, l’enorme quantità di racconti abbassa la media generale dell’opera. Tanti elaborati risultano bruttini, altri fiacchi e altri ancora prevedibili o scritti per mero esercizio. Tuttavia, vi sono dei gioielli che meritano di essere letti e che stranamente esulano dal genere tanto amato dall’autore (cioè il giallo). Vediamo nel dettaglio quali sono i racconti più riusciti.

La volta in cui fui selezionato da Lucarelli.

 
ANALISI NEL DETTAGLIO

Acquistai questa antologia alla Libreria Libraccio di Pisa circa venti anni fa, per sette euro, in versione usata, con una macchia di senape che negli anni è ormai diventata irrintracciabile. Era il periodo in cui leggevo spesso Carlo Lucarelli, soprattutto saggi ma anche novelle, tanto che ebbi persino la fortuna di essere scelto da lui (!!) al mio debutto narrativo (arrivai al mio solito al terzo posto), scrivendo un finale di un racconto che aveva scritto a quattro mani con Matteo Bortolotti. Non amai in modo particolare l'antologia, di cui curai una breve recensione per il sito scheletri, sebbene fui colpito soprattutto da due racconti che, a distanza di venti anni, continuavano a vivere nella mia memoria (cosa non da poco).

La perla dell'antologia è indubbiamente il folle Julian, non a caso riproposto dalla Cut-Up, nel 2024, in versione fumetto, adattato da Stefano Fantelli. Si tratta di un racconto grandguignolesco iperbolico, ambientato nella Francia del 1793. Un deputato francese viene condannato alla ghigliottina, ma durante l’esecuzione la testa gli viene mozzata così velocemente da impedire agli impulsi nervosi di comunicare la morte al cervello. La testa rimane pertanto cosciente e inizia un lungo pellegrinaggio che la conduce da una fossa comune infestata dai topi al tavolo degli esperimenti del dottor Frankenstein, il tutto passando dai laboratori medici, circhi, spettacoli del grandguignol e passioni necrofile inconfessabili. Gioiello, che consente all'autore di giocare su scenografie, usi d'epoca e soprattutto dissacrare con intelligenza il genere horror.


Se Julian è il miglior racconto del lotto, quello che avrei voluto annoverare nella mia produzione è Radiopanico. Una storia semplice, cadenzata con maestria eccezionale, giocando sui dialoghi tra un Dj, rinchiuso in una stanza davanti al poster di Nek, e una serie di radioascoltatori che telefonano in redazione impressionati dalla straordinaria lucentezza della luna. Tra una serie di titoli che omaggiano il nostro satellite naturale, la situazione precipita quando un sedicente astronomo svela che il sole è andato in supernova e che, dall'altro capo del mondo, la terra è ridotta in cenere. La fine del mondo, pertanto, è arrivata. Non resta che attendere quindici minuti. Lucarelli omaggia senza nascondersi lo scrittore sci-fi Larry Niven e il racconto Incostant Moon (“La Luna Incostante), salvo sgonfiare il tutto all'epilogo, virando in modo secco verso una leggenda del mondo del cinema e il suo capolavoro radiofonico. Roba da pazzi o, meglio ancora, che fare impazzire. Il racconto, infatti, è un evidente omaggio all'esperimento sociale, non si sa all'epoca quanto voluto (l'autore scriveva i monologhi al Presidente degli Stati Uniti), condotto il 30 ottobre del 1938 via radio da Orson Welles, in occasione dello spettacolo radiofonico incentrato su The War of the Worlds (“La Guerra dei Mondi”) di Herbert G. Wells. Welles che cita Wells. Si scrivono in modo diverso, ma si pronunciano allo stesso modo. Uno scherzetto che costò all'attore e regista americano un'accusa di procurato allarme come ben ha spiegato lo stesso Carlo Lucarelli nello speciale per Dee Giallo.


Altre due perle sono gli erotici Il Gatto ed Etienne. Il primo è un racconto in cui una donna - abbandonata dal fidanzato - instaura una relazione particolare con un gatto che, ogni sera, le cammina sul balcone del terrazzo e le scivola nel letto. Zoofilia allo stato puro. L'idillio avrà tuttavia un epilogo tragico quando la protagonista si rimetterà assieme al fidanzato. Qui Lucarelli abbandona la farsa ironico e umoristica, per chiudere in modo davvero triste e di effetto. Verte invece sulla fantascienza neurologica a sfondo cyberpunk Etienne. Il soggetto ricorda passaggi alla Dreamscape (1984) o alla Total Recall (“Atto di Forza”), con soluzioni “potenzialmente” riprese dai vari eXistenZ (1999), Matrix (1999) e Nirvana (1997). Lucarelli affonda ancora nell’erotico (ingrediente sovente presente in questi racconti), allestendo un programma di sesso virtuale infettato da un virus che uccide i clienti. L’infezione consiste nell’apparizione, durante i giochi erotici, di una donna dalle forme libidinose, che uccide i partner esaudendo le loro più recondite e inconfessabili fantasie erotiche, fino a farli collassare dal piacere. I progrmmatori ricorreranno a un energumeno soprannominato King Kong ma, tra la bella e la bestia, vincerà la bella (e senza rivincita, altrimenti non sarebbe la bella).


Altro racconto di qualità è l'horror Il Silenzio dei Musei, che propone il sottotema dei personaggi che dai quadri si materializzano nella realtà, fuoriuscendo dalla cornice di riferimento. L'ambientazione si sposta all'interno di un museo dove dei ladri hanno avuto la cattiva idea di compiere un furto. Il delitto viene sventato da un insolito guardiano: il protagonista del dipinto Il Boia, che porta con sé le teste delle vittime per conservarle nella cesta che si tiene alle spalle. Discreta ghost story dalla potente atmosfera.


Queste sono, a mio modo di vedere, le cinque perle dell'antologia, nessuna delle quali ascrivibile al giallo o al noir. La cosa potrebbe sorprendere, eppure proseguendo nell'analisi constatiamo come la componente horror sia molto presente e spesso più efficace e indicata alla brevità dei racconti proposti. In La Morte è un Maestro Tedesco, ambientato in un campo di concentramento nazista, entrano in azione i licantropi. Lucarelli gestisce una tensione crescente alla distanza, cela la natura dei mostri con indizi che suggeriscono la via ai lettori smaliziati (la presenza dello zingaro, i cerchi protettivi disegnati a terra, la musica incessante dei violini) fino all'epilogo (tragico) rivelatore. Protagonista è un quartetto di musicisti reclutato tra i prigionieri del campo per ravvivare una serata di gala della Gestapo. Le ragazze invitate, che ballano e scherzano con gli ufficiali, finiranno sbranate dai lupi mannari. Pur se limitato nel soggetto (tema che è stato di seguito utilizzato anche da Rob Zombie per il trailer fake di Grind House), Lucarelli gioca col lettore, allude e garantisce un buon ritmo senza scendere nel volgare.


Divertentissimo L'Omino coi Baffi che sembra uscito dalla penna di Stephen King. Al centro della narrazione c'è uno iettatore che provoca indirettamente incidenti e disgrazie rivolgendo, a chi sta lavorando o sta per compiere una data azione, la semplice frase “eh si, si, si... Sembra facile...” Simpatico il finale, dove l'attentato studiato per eliminare lo strano personaggio che trasuda una magia dai tratti infernali finisce per ritorcersi contro chi lo ha organizzato, col nostro che canzona il malintenzionato con l'immancabile adagio “eh si, si, si... Sembra facile...”


Giocano con l'horror gli erotici La Domestica e Come uno Zombie. Il primo è un racconto ben costruito, con un protagonista di quattordici anni che fantastica sulla nuova domestica proveniente da Capo Verde, raccontando a scuola di intrattenere una relazione inconfessabile con la neo assunta. Il racconto potrebbe essere perfetto per un Harmony o per Confidenze, ma a tenere la penna eretta è Carlo Lucarelli e la storia prende sviluppi inattesi ai cuor leggeri. Così, quando i due ragazzi restano soli in casa, perché i genitori del protagonista devono recarsi al funerale di una parente, non arriva alcuna focosa notte d'amore, ma prende forma un epilogo squisitamente horror in cui trovano collocazione i vari indizi disseminati nel corso del testo (si parla di voodoo, maledizioni e riti di riduzione in schiavitù). Bella costruzione, ma forzato nel movente (perché la domestica ha scelto proprio quel ragazzo?) e con un epilogo narrativamente coerente ma debole sul piano realistico. A ogni modo è un valido racconto che, senza difetto finale, sarebbe potuto essere annoverato tra le storie più riuscite del lotto. Lavora in modo opposto Come uno Zombie che suggerisce fin da subito la componente horror salvo virare alla fine verso un'altra forma di sottomissione: il ricatto. Meno difficile da scrivere e più coerente sul piano concettuale.


L'Uomo che Uccideva i Sogni è un pezzo onirico, che mi ha un po' ricordato il recente racconto La Bambola (2024) di Pier Francesco Grasselli. Tutto ruota attorno a un protagonista che finisce per prediligere (fino a intossicarsi di sonniferi) la dimensione del sogno notturno (dove può compiere qualsiasi forma di nefandezza provandone eccitazione erotica) alla realtà. Interessante verificare come Lucarelli ribalti gli ingredienti di base di Nightmare di Wes Craven, a cui viene reso un omaggio iniziale soffermandosi su un primo piano di Freddy Krueger che passa alla tv.


Ancora horror, seppure meno articolato, con C'è un Insetto nel Muro, un racconto di genere fantastico fulmineo ultra derivativo, tipico di uno scrittore alle prime armi, che guarda a The Outsider di Lovecraft (e a un precedente racconto di Edgar Allan Poe) e un pizzico a La Metamorfosi di Kafka. Manca qualcosa per giustificare l'involuzione che porta il protagonista alla mutazione in un mega insettone (forse qualcosa di ingerito durante una festa). Non dissimile L'Ombra sul Muro, breve storia di valenza orrorifica con un ragazzino intimorito da un'ombra sul muro dalla forma della testa di un diavolo. Finale stereotipato dove il protagonista scopre di aver avuto paura di un'ombra prodotta dai soprammobili e altri oggetti della nonna, salvo non accorgersi che qualcosa di diabolico si cela davvero in quell'ombra. Pressoché identico, con l'irrazionale che trova spiegazione razionale salvo poi piegarsi al sovrannaturale, è Ottobre, in cui due ragazzini per sottrarsi dalla vendemmia finiscono per nascondersi in una cantina che si dice essere infestata dal fantasma di una ragazzina. La diceria soverchia la ragione e quanto di narrato diventa reale, quantomeno nella mente di chi interpreta. Ma dietro ogni leggenda già sapete cosa si nasconda.

Con Il Libro Lucarelli prova a riscrivere, non senza ironia graffiante, il sottogenere dei libri maledetti. Due giovani sposi, che utilizzano i libri come soprammobili, acquistano un libro sulla base delle sue dimensioni, senza neppure preoccuparsi del suo contenuto. Il volume, infatti, è perfetto per riempire lo spazio vuoto rimasto nella libreria che è stata loro donata dai parenti. Il libro, tuttavia, è un volume usato ed è stato maledetto dalla donna che lo aveva avuto in dono. Provoca infatti degli strani effetti che arrivano a indurre in catalessi la moglie del protagonista. Per poterla risvegliare, il “nostro” dovrà aprire il testo e studiarne il contenuto (è un libro di cucina), sebbene il mistero sia legato alla dedica che si legge sul frontespizio. Ai limiti della parodia, ma intelligente. 

 

Julian è diventato un fumetto.

Vedete dunque che quasi un terzo di antologia è incentrata o gioca sul fantastico di matrice horror, piuttosto che sulle tematiche per le quali è conosciuto Carlo Lucarelli che, tuttavia, non possono mancare. Immergiamoci allora nei gialli e nei noir dove, come vedrete, il macabro e gli spunti fantastici saranno ingredienti ricorrenti.

Sono storie tutt'altro che commerciali. In questi racconti il poliziotto è marcio, il politico colluso con la mala, il Vaticano trama nell'ombra e i carabinieri spesso sono contrapposti tra loro, tra i buoni di qui e i cattivi di là. Due sono le storie più riuscite e note tra le tante proposte. Garganelli al Ragù della Linina risente degli studi criminologici di Carlo Lucarelli, tanto che nel clima di ilarità che domina il racconto, quasi integralmente ambientato in un'osteria di un paese della provincia romagnola, va in scena un'indagine, tra sindaco, consiglieri e il nuovo comandante di stazione dei carabinieri per venire a capo del mistero culinario che lascia tutti spiazzati. Clima da commedia all'italiana, una roba da Beppone e Don Camillo, se non fosse che alla direzione c'è sempre lui: Carlo Lucarelli. E così ecco emergere strani indizi, che il lettore più attento non perderà tempo a riconnettere sulla giusta sintonia con echi a personaggi quali Fritz Haarmann, Nikolaj Dzhurmongaliev o, se vi aiuta di più, a Ed Gein e Albert Fish (che certe cose le hanno fatte davvero e nessuno, prima di scoprire gli ingredienti, mai è andato a lamentarsi, anzi...). C'è infatti un ingrediente segreto nel ragù che manda fuori di testa, qualcosa che è stato recuperato in clima di guerra, quando il cibo latitava... ma di cosa si tratterà? Tra una risata e l'altra, vuoi vedere che...? Il Comandante dei Carabinieri non riesce a resistere (peraltro come già programmato dai due protagonisti) e si sfocia in orrore modalità allusiva, tipo le tre città della Lombardia di cui nessuno sa fornire il nome della terza. Seppure tutto messo davanti al lettore, quanto accaduto resta sfumato e sta al lettore comprendere il come del ragù. Forse un po' lento nella preparazione (c'è una catena di omicidi disseminata nel tempo), in vista di un epilogo shock assai bene confezionato. È subito dietro la mia top five e guida la mia top five crime.


L'altro racconto più noto, peraltro amatissimo da una mia collega che si diletta nella scrittura, è La Tenda Nera. Qui comincia a uscire il marcio delle forze dell'ordine. Ne Il Lato Sinistro del Cuore sono prevalenti gli agenti deviati e/o corrotti. Non c'è spazio per eroi che piacerebbero tanto alla televisione di stato o alle istituzioni. Tutt'altro. Qui però c'è ancora lotta tra due fazioni. Un'indagine oscura che parte dai gatti e si gonfia, ancora una volta tra una risata e l'altra, in un caso oscuro, in odore di organizzazione segreta, forse addirittura satanica che ha il suo simbolo in una strana tenda nera. Un prete esorcista cerca di mettere sulla giusta strada il nuovo Comandante di stazione, ma muore misteriosamente (evidente omaggio al finale de L'Esorcista). Chi voleva parlare cambia versione. Il male però, più che all'esterno, sembra essere all'interno della stazione dei carabinieri, anche i colonnelli ne sono toccati. Si innesca un vero e proprio conflitto tra buoni e cattivi. Finale cupo, con epilogo beffardo per un racconto dal potenziale forse non pienamente espresso. Il regista Luciano Manuzzi lo pesca da Nero Italiano e ne trae uno sceneggiato televisivo che esce su Rai 2 nel febbraio del 1996, con Luca Barbareschi e la ex miss Italia Anna Kanakis. Niente di memorabile.


Gode di ottima costruzione Cornelius, forse il migliore per intreccio. Insieme ai due sopramenzionati e ai cinque miei top, è tra i migliori testi dell'antologia. Costruzione da giallo, anche se non in versione whodunit. Qui ci si chiede cosa succederà, tra gesuiti in collusione con servizi segreti e alti prelati con il vizio per le belle ragazze. Tutto viene studiato a tavolino e tutto si svolge secondo programma, da perfetto orologio svizzero. Bella costruzione. Il villain, un gesuita agli ordini del Vaticano specializzato in lavori sporchi, torna nell'affascinante ma non eccelso Jubileo. Qui la longa manus del vaticano deve intervenire per coprire un segreto che sconvolgerebbe la gestione del Giubileo in corso: il papa che si muove tra i fedeli è una controfigura, perché il vero papa è morto. Per la guardia svizzera che è a conoscenza del segreto non c'è scampo. Bella la parte nei sotterranei del Vaticano al servizio di una trama che avrebbe potuto prendere pieghe alla Dan Brown ma, purtroppo, non lo fa.


Molto carino Reinhardt Klotz, una sorta di Indagine su un Cittadino al di sopra di ogni Sospetto, con un gerarca nazista, scomparso nel nulla, che ritorna sul luogo dell'eccidio per farsi condannare senza tuttavia riuscirci.


Cattivo e crudo il drammatico È Notte e sembra che Faccia Ancora più Freddo, dove una retata condotta dai fascisti a caccia di ebrei celati nelle abitazioni non consente alla spia di turno di salvare la propria moglie affetta da un male incurabile. Forse la storia più triste e cattiva dell'antologia.


Attrazioni fisiche pericolose per il racconto che da il titolo alla raccolta: Il Lato Sinistro del Cuore, che ricorda molto da vicino la seconda parte del film La Sindrome di Stendahl. Un investigatore privato, celerino radiato per omicidio colposo (ancora poliziotti marci, sembra che Lucarelli abbia un rapporto conflittuale con le forze dell'ordine), viene ingaggiato da una ragazza molto attraente che non perde tempo a rivelarsi per quel che è: un transessuale. L'investigatore è chiamato a risolvere l'enigma dell'uomo che, ogni notte, appare nella camera della cliente, intento a guardarla. L'indagine si dipana tra strani incidenti stradali e tentati omicidi capitati ai precedenti fidanzati del transessuale che nel frattempo ha una tresca col protagonista. Chi è il misterioso molestatore? Il principale sospettato (un ex fidanzato) viene trovato impiccato, infine, seppur prevedibile, la soluzione si materializza e l'indagatore si troverà davanti a un dilemma: denunciare oppure... Da annoverare nella top ten.

 

Luca Barbareschi interpreta il protagonista de LA TENDA NERA.

Sono gialli di qualità, soprattutto per come viene risolto l'enigma prospettato, Il Conte ed Eleonora. Il primo è tra i gialli più riusciti, sebbene si chiuda con un finale tipico per Lucarelli ovvero il protagonista che scopre il mistero legato a una scena del delitto intricata ma, dopo aver svelato il tutto al responsabile, decide di graziarlo. Più qualitativo Eleonora (completa la mia top ten), più o meno concepito alla stessa maniera sebbene con tocco allusivo, che sfrutta la sensibilità particolarmente sviluppata di un ragazzino cieco (qualcosa del genere, seppure giostrato sull'udito piuttosto che sul tatto, si leggerà in Almost Blue) per ricostruire l'identità nascosta di un killer e monetizzare quanto scoperto ottenendo un riconoscimento economico per evitare la denuncia.


L'idea dei Carabinieri deviati torna alla carica con Omissis 25, questa volta orchestrata attorno al clima di terrore degli anni ottanta legato al gladio. Ancora una volta si assisterà a un confronto tra Carabinieri buoni e Carabinieri cattivi, vinceranno i primi ma a quale prezzo?


Poliziotti corrotti al centro del beffardo (ed efficace) Il Giorno di San Valentino in cui Lucarelli gioca con il lettore, illudendolo di raccontare una storia fantastica dalla prospettiva di un uomo defunto che ricorda il giorno in cui è morto. Il finale, in chiave metaforica, consente al racconto di distinguersi e riscrive sotto diversa ottica quanto si era dato per scontato. Di cattivissimo gusto e con gravi problemi di verosimiglianza (specie alla fine storia) Nero, dove addirittura il poliziotto è marcio tanto da essere uno psicopatico che trucida coppiette per frustrazione dopo essere andato in bianco con la collega.


Carissimo Oskar è un distopico che rievoca il dramma dei campi di concentramento (anche se sembra più di essere in un carcere di massima sicurezza) con un tocco orwelliano che fa del paradosso il suo punto di forza. Costruito su uno spunto pressoché identico, ovvero quello di un soggetto che si finge un altro e alla fine lo diventa (nel caso di Oskar simulando la scrittura di un detenuto defunto), è Telefono Sostitutivo dove un telefono di cortesia diviene fonte di telefonate alquanto bizzarre, tra femme fatale, spacciatori inviperiti e attentatori che cercano tutti una persona diversa dal possessore del telefono, finendo però per identificarla con lo stesso. Più riuscito di Carissimo Oskar per quel tocco che lo renderebbe perfetto per un episodio di Ai Confini della Realtà.

Interessanti altri due racconti che ci fanno riflettere su quanto siano rilevanti le notizie riservate e personali che non vorremmo fare emergere, specie quando divengono alternative alla scelta di denunciare o meno un crimine di cui si è stati testimoni. Lo vediamo con Stazione Ostiense e Roma non far la Stupida Stasera, due crime story dall'epilogo pressoché identico e ingrediente di fondo costituito dall'egoismo dei protagonisti che preferiscono evitare di denunciare un omicidio di cui sono stati – a diverso modo – testimoni, pur di coprire le loro scappatelle amorose. Più riuscito, tra i due, Roma non far la Stupida Stasera, se non altro per il taglio giallo e per la rivelazione finale (abbiamo un procuratore della Repubblica che si emoziona nell'intercettare abusivamente le coppiette al Gianicolo, finendo per ascoltare un omicidio di un serial killer). Emozioni ed eiaculazioni uditive anche con Quinto Piano, Interno B, un erotico sullo stile de La Finestra sul Cortile (o se preferite Piedipiatti, con la vecchietta “arrapona”) che si chiude con l'arresto di un ricercato. Una buona gestione dei tempi, per una storia che non decolla mai e che, alla fine, è mediocre.


Divertenti sono invece i racconti sui paradossi temporali. Domani propone un inseguimento, tra scali e voli aerei, finalizzato ad arrestare un incensurato sospettato di avere collusioni mafiose. Il fuso orario vanifica il mandato d'arresto, in quanto la data di emissione dell'atto non è allineata al calendario rendendo impossibile il documento che sarà spendibile solo il giorno successivo... Medesimi ingredienti ma gestiti in modo più beffardo per Chi va Piano, dove la frenesia dell'inseguimento da parte dei Carabinieri supera l'effettiva velocità del bandito (non a caso chiamato “Lumegha”) che si trova a inseguire chi gli da la caccia. Divertissment. Tempo giostra su tematiche simili senza incidere.


Tra gli altri racconti meritano giusto un cenno L'Appartamento e Il Giudice. Sono storie sull'ossessione di soggetti in pensione (un poliziotto nel primo caso, un giudice nel secondo) convinti che dietro la scomparsa di una donna o la morte di una ragazzina, avvenuta decenni prima, si celi un omicidio compiuto da un dato sospettato. Nel primo caso Lucarelli piazza un omaggio evidente a Edgar Allan Poe.


Cerca e trova l'azione Francisca, ambientato a Trinidad, dove una seducente mulatta balla inosservata in un bar dove è a caccia di nuovi amanti. La giovane infatti viene ignorata da tutti, perché è la fidanzata di un malavitoso che si nasconde nella giungla. Chi la guarda, viene uccisa dall'uomo. Un giorno, in paese, arriva un maestro che pare non preoccuparsi degli avvertimenti del poliziotto del posto. Western caraibico.


Comunisti e Los Fucilados rivelano – penso di potere azzardare – la passione politica di Lucarelli, andando a esaltare la componente eroica di chi subisce pestaggi dall'autorità senza rivelare i nomi dei compagni. Sulla stessa lunghezza d'onda ma disincantato e disilluso Photoricordo, dove la passione per gli ideali di sinistra viene corrotta e dominata dall'imperante capitalismo.

Di cattivissimo gusto il pornazzo (inutile) con epilogo splatter Un Chien Andalou che mi ha ricordato la canzoncina sconcia “Oh Susanna”, quella che dice: eravamo nella valle con le palle ciondolon...

Allucinato Blue Suede Shoes che culmina nell'omicidio del protagonista.

Il resto è più che trascurabile, con apertura e chiusura dell'antologia dedicata a due sperimentazioni stilistiche.

CONCLUSIONI

Più di una ventina di racconti da salvare, con due perle (Julian e Radiopanico), una dozzina abbondante di buoni racconti (Il Silenzio nei Musei, Il Gatto, Etienne, Garganelli al Ragù della Linina, Cornelius, La Tenda Nera, Il Lato Sinistro del Cuore, Eleonora, Reinhardt Klotz, Telefono Sostitutivo, L'Uomo che Uccideva i Sogni e Il Conte) e una mezza dozzina di racconti interessanti (L'Omino con i Baffi, Il Giorno di San Valentino, La Domestica, Domani, Omissis 25 e L'Appartamento), seguiti da altrettanti sufficienti (Francisca, È Notte e sembra che faccia più Freddo, Jubileo, Carissimo Oskar, Ottobre e Roma non far la Stupida Stasera). Dunque ventisei racconti da salvare su cinquantatré, poco meno della metà se facciamo un calcolo aritmetico. Va tuttavia considerata la generosità di Lucarelli che ha proposto anche storie di una pagina o di pochissime pagine, quasi a operare intermezzi tra un elaborato e l'altro. È chiaro che il giudizio finale ne risente, andando ad abbassare la valutazione che si sarebbe potuta dare con una rosa più concentrata di racconti. Vediamola allora da un'altra prospettiva ovvero quella di poter inserire in libreria più racconti di Lucarelli senza rischiare di vedere tagliare proprio uno dei pezzi a noi più graditi. Promuoviamo allora il volume che, non a caso, ho riletto dopo venti anni dalla prima lettura. E se non c'è due senza tre, non mi resta che darvi appuntamento per la pensione, morte permettendo.

 
Carlo Lucarelli.
 
 "In Italia esistono almeno quattro verità. La verità giudiziaria, l'unica che si può raccontare senza venire querelato. Ma mica è detto che sia la verità. Poi c'è la verità storica. Ma viene revisionata. Poi c'è la verità del buon senso. Tipo Pasolini che diceva che lui sapeva anche se non aveva prove. Infine la verità politica. Un bel macello. Come si fa a dire che c'è una storia di cui si sa tutto? Se pernsi che non ci si può fidare di nessuo, nemmeno degli organi preposti all'accertamento della verità."
 

lunedì 21 luglio 2025

Recensioni Cinematografiche: RETROSPETTIVA SUL CINEMA BIS DI DARIO ARGENTO.



 Quello che si vede non esiste.

A cura di Matteo Mancini

La retrospettiva dedicata a Dario Argento curata dalla redazione Mediaset, e più specificatamente da Italia 2, mi ha permesso di rivedere quasi tutti i film del periodo buio del regista fino all'eclissi finale e ai saluti di rito. È convenzione, non priva di fondamento, che da Phenomena (1985) in poi il Maestro sia caduto in una crisi irreversibile.

Da suo grande fan (per citare il Maestro Riccardo Freda, guarderei anche un film sulle Pagine Gialle girato da Argento), non avendo mai scritto specificatamente di lui nei saggi cinematografici che mi sono stati commissionati nel corso degli anni, prendo la palla al volo per proporre una breve retrospettiva incentrata proprio sui film che sono stati reputati la sua serie B. Del resto, sono sempre stato un cultore dei lati b, non certo per fare riferimento alle cose fatte col “culo”, piuttosto per quegli aspetti di nicchia, meno riusciti e imperfetti, e proprio per questo un po' artistici e naif o per quelle cose che sarebbero potute essere ma invece non sono state. Sono proprio questi film che ti fanno attivare l'immaginazione, portandoti a pensare come si sarebbero potuti correggere o rendere più riusciti. Un film perfetto non ha bisogno di interventi esterni, lo si vede passivamente, senza alcuna possibilità di voce in capitolo, e così facendo uccide la fantasia. Le opere d'arte hanno bisogno della partecipazione di chi le guarda, devono essere immersive in un'epoca in cui nessuno supera la cortina della banale quotidianità e dove tutti vorrebbero risposte immediate senza preoccuparsi dei processi formativi.

Lo slasher Opera (1987) è stato il vero e proprio spartiacque tra una produzione di valore esponenziale, fatta di capolavori assoluti (L'Uccello dalle Piume di Cristallo, Profondo Rosso e Suspiria) e di tanti notevoli film, e una deriva deficitaria intrisa di difetti. Con Opera l'approccio e la componente visiva diventano sempre più sbilanciati verso l'horror (a tratti soprannaturale e a tratti visivo con effetti sempre più estremi sulla scia di quanto visto con Tenebre). Il cinema di Dario, così come la devianza della condotta criminale di matrice psicologica (si pensi ai serial killer non animati da intento venale), è da sempre un cinema fatto di traumi celati nel passato e mai superati, ma è stato anche il cinema della grande rivelazione presente fin dall'inizio (vuoi nella forma di un rumore, in una visione concitata viziata dai preconcetti o nella vera e propria presenza del killer celato in un'opera d'arte) seppure non decriptata dal testimone oculare di turno e, con lui, dallo spettatore che, troppo spesso, sopravvaluta la propria intelligenza al punto da non riuscire a vedere (“quello che non si vede è la verità”) ciò che il regista, con grande accettazione del rischio e piglio manipolatorio da prestigiatore, gli ha già messo davanti in una sfida destinata a essere vinta (Sergio Leone diceva che il cinema non è teatro e che nel cinema si vede tutto, anche un minimo dettaglio). È stato altresì il cinema delle sperimentazioni, delle soggettive ispirate da Alfred Hitchcock (e Brian De Palma) e della grande tecnica nell'impiego della macchina da presa. Dario Argento è stato ed è (perché i film non si perdono come le persone) un valore culturale e artistico da proteggere e da tutelare nell'asfittico panorama italiano, spesso e volentieri criticato oltre limite da quell'idiozia figlia dell'italianità media che inconsciamente vorrebbe portare verso la mediocrità chiunque possa eccellere e, così facendo, mettere in ridicolo chi fallisce (vengono alla memoria alcune frasi inserite nel romanzo Las Bas di Huymans). L'italia è la patria della castrazione della fantasia che deborda dal conformismo e rende singole entità i componenti di un gruppo spesso uniformante e, per questo, castrante.

Ho avuto il piacere e la fortuna di essere stato pubblicato da Profondo Rosso, tanto che un mio secondo saggio, intitolato Il Maestro della Doppia Soluzione (titolo poi modificato da Luigi Cozzi) e dedicato a un autore horror italiano dimenticato, è in uscita in questi giorni (o almeno dovrebbe). Pertanto voglio, anche per piacere personale, fare un tributo al Maestro, concentrandomi sulla parte della sua produzione che gli altri non vorrebbero considerare. Del resto stiamo parlando di un regista che, al pari di Sergio Leone, George A. Romero e John Carpenter, ha influenzato la mia passione per il cinema di genere e, poi, la mia vena da scrittore dilettante (questa contaminata anche dalla lettura degli autori weird e del blocco Golden Dawn).

È innegabile che il periodo che va da Opera a Occhiali Neri sia un periodo incomparabile al precedente. Il perfezionismo di Argento si è interrotto, a mio modo di vedere, in modo anomalo. A parte Dracula 3D, nessun film è da bocciare in modo netto. Argento ha conservato fino all'ultimo il suo piglio onirico, la sua capacità di regalare sequenze che i colleghi, italiani e non, non riescono neppure a proporre (basti vedere la media degli horror americani degli ultimi venti anni, non mi riferisco alle punte, parlo di media di horror di ultima generazione, quelli che spesso si vedono su Italia 2 o su Rai 4). Cosa è successo allora? A mio avviso, forse anche a causa della morte del padre Salvatore (deceduto proprio nel 1987), produttore e immagino guida tecnica di Dario, sono mancati assistenti capaci di contrastare con piglio costruttivo il regista. Divenuto ormai Maestro e contornato da personalità più giovani di lui (spesso accondiscendenti, poiché fare i tafani di socratica memoria è sempre controproducente da un punto di vista di vantaggi personali), il buon Dario ha acquisito quella libertà tale da non essere contraddetto. Troppi film, ora scenderemo nel dettaglio, hanno avuto tracolli concettuali. Mi spiego meglio. Non è un problema di mancanza di idee o di film tecnicamente fatti male, piuttosto di ingenuità sia in scrittura che, soprattutto, nella messa in scena, aspetti facilmente correggibili e dovuti a una scarsa immedesimazione nei fatti rapportati a quanto accadrebbe nella realtà. Cosa succederebbe se? Manca una risposta realistica a tale domanda, portando le storie nella dimensione della fiaba (spesso al centro della produzione di Dario, da Suspiria a Il Fantasma dell'Opera), dove regna l'ingenuità infantile (cosa è Asia Argento, ne La Terza Madre, se non una bambina cresciuta? E la Marsillach di Opera, un po' come la Connelly di Phenomena, non è forse una bambina in un reame incantato?). Così vediamo due soggetti che si nascondono in un bosco per sottrarsi da un inseguitore e, nel farlo, urlano a squarciagola (Occhiali Neri), un ufficio di polizia in cui i poliziotti inveiscono e saltano sulle sedie nell'assistere a una banale partita a poker a carte scoperte condotta da un sedicente mago dei videogame (Il Cartaio), un killer che viene ucciso da un colpo di pistola sparato a casaccio dalla polizia dalla strada come se anche gli agenti avessero capito, insieme allo spettatore, chi sia l'assassino (Non ho Sonno), una poliziotta di venti anni che conduce da sola le indagini su un serial killer venendone contaminata dal male senza tuttavia far sorgere sospetti nello psicologo che l'ha in cura (La Sindrome di Stendahl), una madre che uccide solo a determinate condizioni atmosferiche i responsabili del parto che ha provocato la decapitazione del nascituro (Trauma), un gruppo di streghe agghindate stile Loredana Bertè che ridono e fanno baccano a Roma agli ordini di una strega dalle tette rifatte (La Terza Madre) e si potrebbe proseguire. Questo è il male della produzione dell'Argento degli ultimi trent'anni, un male, a mio modo di vedere, riconducibile anche agli stretti collaboratori.

A questo problema si aggiunge quello che è sempre stato il tallone di achille del regista: un grande amore per le immagini non accompagnato dalla sapiente direzione degli attori. Argento è un regista che, a differenza del comparto tecnico, non sviluppa il personale artistico, anzi lo fa involvere. Troppo spesso, le recitazioni nei suoi film sono sotto la media, a volte diventano persino imbarazzanti (la Rinaldi ne Il Fantasma dell'Opera). Asia Argento, che sarebbe dovuta essere la chioccia attorno alla quale solidificare l'estro del padre, si è rivelata – esprimo un mio modesto parere – il punto debole di questa fase, probabilmente non solo per colpa sua (viste le prove più consistenti agli ordini di Abel Ferrara e George A. Romero). Alla componente horror e al grandguignol sempre più estremizzati fino ad adottare i cliché di Lucio Fulci, si è aggiunto un inconsueto interesse per i nudi femminili (pressoché assenti in tutti i film del Dario Argento dei tempi migliori, quando invece andavano di moda) diventato una vera e propria firma. A parte Stefania Rocca (scelta la Rocca sbagliata, verrebbe da dire) ed Emanuelle Seigner (da vedere ne La Nona Porta), Argento le ha svestite tutte in una sorta di carrellata di nudi spesso e volentieri “benedetti” dal ritocco della chirurgia estetica. Così abbiamo Asia Argento, Moran Attias, Ylenia Pastorelli, l'attrice di Jennifer, la Rocchetti e una serie di attrici secondarie con tanto di nudi integrali o belle bocce in mostra (vedi Dracula 3D e l'inizio di Non Ho Sonno). Ultimo anello debole i dialoghi, spesso scritti con una mediocrità ricorrente (i vari puttana che colorano le battute dei villain di turno o gli atteggiamenti di rottura ingiustificata in momenti di alta tensone, tipo Asia Argento che si preoccupa della tosse del suo datore di lavoro quando sta succedendo di tutto ne La Terza Madre).

Cosa ha funzionato e cosa no, allora? Vediamolo nel dettaglio, film per film.

Osserva attentamente...
 
 LA RETROSPETTIVA FILM SU FILM.

Nel 1987, a quarantasette anni (dunque ancora giovane, lo dico giusto per non abbattermi), Dario Argento cerca di realizzare il film più evoluto, da un versante tecnico, della sua produzione. Parte dall'amore per il teatro, il Macbeth di Verdi, e da Il Sipario Strappato (1966) di Alfred Hitchcock e scrive, con Franco Ferrini, OPERA. Il film è un giallo-slasher assai perverso, che sconfina nell'horror sia per la truculenza delle immagini, sia per la scelta della colonna sonora (introduzione dell'heavy metal) e, non da ultimo, per il suo indulgere sulle scene più estreme, tanto da trovare una geniale soluzione per torturare la protagonista, la bella e discretamente brava Cristina Marsillach (per fortuna arrivata in sostituzione della De Sio), e al tempo stesso lo spettatore. Escogita infatti un sistema, rappresentato da una fila di aghi collocata davanti agli occhi della protagonista, per costringere alla visione degli omicidi in una sorta di malato rapporto di collaborazione indiretta tra il carnefice e il pubblico. Non si può non vedere, poiché non è concesso chiudere gli occhi. Ciò che si vede è la realtà. È l'apoteosi del voyeurismo, fin da subito evidenziato dal primissimo piano sull'occhio del corvo (un animale che non dimentica) in cui si riflette il teatro. Da un punto di vista di tecnica di regia e di soggetto base, il film è un capolavoro. La scena dei corvi liberati nel Teatro Regio di Parma che volano in cerca dell'assassino è da antologia argentiana. Costata un miliardo, in virtù di una serie di collegamenti aerei necessari a far correre le macchine da presa. L'effetto che ne deriva è pazzesco in una sorta di rapporto metacinematografico con la sala che guarda. Gli Uccelli di Hitchcock tornano a terrorizzare lo spettatore e lo fanno in un'opera dai contenuti psicanalitici orientati verso la sfera sessuale. A essere colpito sarà proprio l'occhio, privato della sua funzione primaria e addirittura estirpato dai becchi degli uccelli. Il compito di consentire al cervello di discernere la realtà attraverso la vista è ora precluso. Opera è il film della castrazione degli impulsi inconfessabili (la protagonista è frigida e lo è perché qualcosa nel passato l'ha bloccata), della perversione che affascina e di una violenza portata ai massimi livelli. E' il killer a fare tutto per lo spettatore, in un'ottica che spaventa e crea repulsione, poiché come diceva un noto criminologo i buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Lo splatter e il gore sono marcati, rappresentati da coltelli che trapassano gole o da forbici che squarciano il petto. Potente il versante visivo (la scena della pallottola che perfora lo spioncino di una porta) anche se si cominciano a vedere sperimentalismi in computer grafica fuori luogo (il cervello che vibra) e che irromperanno in modo più deciso ne La Sindrome di Stendahl.

Una grande costruzione filmica, rappresentata da una perizia tecnica che sconfina nel valore artistico, totalmente rovinata da un finale imbarazzante e inverosimile. La sensazione è di vedere un film la cui parte finale sia stata tagliata in fase di montaggio per fare spazio a un finale alternativo girato frettolosamente e con poca convinzione. Un altro punto debole è costituito dall'assassino. L'attore scelto, anche per l'età (è praticamente coetaneo della protagonista) e il ruolo avuto nel passato della protagonista, è inidoneo. Così come è inidonea, non ce ne voglia il Maestro Franco Ferrini, la professione svolta dal killer (del tutto incompatibile col ruolo, tanto che nella casistica criminologica non si trovano serial killer con quella professione, un motivo ci sarà) ma, soprattutto, viene da chiedersi come possa qualcuno scambiare un manichino (immagino di plastica) con un cadavere umano (una boiata da vergognarsi di averla scritta). Una caduta di stile poco comprensibile e che caratterizzerà tutti i film successivi di Argento, tra momenti tecnicamente spettacolari e uscite incomprensibili di cui si stenta a comprenderne la matrice. L'assioma genio & sregolatezza calato in campo cinematografico diventerà marchio di fabbrica da qui in avanti.

Premesso ciò, Opera resta un film buono, con momenti di grande regia e trovate concettuali geniali (il discorso metacinematografico, l'insistere sull'occhio) tanto che non manca chi lo reputi, per certi versi non a torto, un piccolo capolavoro. Fu il primo film della serie "I Maestri della Paura" uscita a inizio duemila in edicola. L'ho rivisto di recente proiettato al cinema, a Livorno, con presenza in sala del Maestro Ferrini. A ogni modo, è da qui che il cinema di Dario comincia a scricchiolare.

Anche l'abisso ti osserva. 

Corteggiato da anni dalle produzioni americane, a inizio anni novanta, Dario Argento cede parzialmente al richiamo delle sirene d'oltreoceano e si sposta negli States per due film, mantenendo comunque in mano la produzione. Cede anche a un'altra tentazione: quella di tributare i nomi tutelari dell'horror e poi le loro creature più rappresentative. Il primo a essere omaggiato non può che essere il maestro narrativo di Dario Argento (e non solo di lui) ovvero Edgar Allan Poe, l'inventore del giallo perverso e delle turbe mentali degli assassini narrativi. Prende così avvio una serie di film che non faranno la fortuna del regista. Argento progetta con Lucio Fulci di produrgli la mummia che poi diventerà la maschera di cera (girata da Sergio Stivaletti) e, in seguito, girerà in prima persona i due film meno riusciti della sua produzione: Il Fantasma dell'Opera e Dracula 3D. Si tratta di progetti già sulla carta potenzialmente fallimentari o, quantomeno, ardimentosi. Argento è chiamato a misurarsi con storie inflazionate e già traslate in veri e propri capolavori del brivido. L'idea di omaggiare Poe, peraltro, è stra-abusata, basti pensare all'infinita serie curata e diretta da Roger Corman negli anni sessanta. Il progetto, tuttavia, prende piede in modo esplosivo. Vengono coinvolti, oltre al nostro, George A. Romero, John Carpenter e, addirittura, Stephen King, tutti chiamati a dirigere un episodio. Miscela atomica, con i quattro più grandi esponenti dell'orrore mondiale dell'epoca pronti a scendere in campo. Tutto però si ridimensiona nel giro di mesi. Carpenter e King escono dal progetto. Restano in due: Romero e Argento, già soci ai tempi di Zombi (1978). Il titolo del film, diviso in due episodi, è DUE OCCHI DIABOLICI (1990). Inizia così il primo periodo americano di Argento, che si trova a lavorare con un intero cast artistico di americani e a dirigere un attore di culto come Harvey Keitel (doppiato da Ferruccio Amendola) che, due anni dopo, terrà a battesimo il debutto alla regia di Quentin Tarantino ne Le Iene, proseguendo la collaborazione nel ruolo di Mr Wolf in Pulp Fiction.

Le premesse sono ottime e Argento non le spreca, pur restando lontano dai suoi migliori lavori. È ispirato alla regia e sceglie l'episodio de Il Gatto Nero, già di suo ricco di perversione e atmosfera malata. Il film parte in quarta. Vediamo una scena del delitto in cui un cadavere di una donna (ovviamente nuda) è legato a un tavolo e diviso in due da un pendolo disceso dall'alto (evidente omaggio a un altro celebre racconto del Maestro di Boston ovvero Il Pozzo e il Pendolo). Argento si avvale ancora una volta, in scrittura, di Franco Ferrini e dirige quello che, forse, è il contributo più compatto di questa seconda fase di carriera, sebbene il mediometraggio venga di rado menzionato. Non ci sono grandi scivoloni e non si tentano esagerazioni condannate all'inverosimiglianza. L'ispirazione arriva, anche se non l'ho mai letto in giro, dal Richard Dees del racconto The Night Flier (1988) di Stephen King. Abbiamo un fotografo di cronaca nera, di nome Usher (altro omaggio a Poe), ossessionato da immagini di violenza e di morte, al punto da seviziare un gatto nero per realizzare un album fotografico finalizzato a sanare l'appetito dei sadici. Come diceva Nietzsche, però, se guardi insistentemente in fondo all'abisso anche l'abisso guarderà dentro di te e così, un po' come in Art Pupil di King, il male corrompe il protagonista spingendolo all'omicidio e alla sua disfatta. Horror quadrato, con l'elemento soprannaturale del gatto vendicatore. Domina lo splatter, curato realisticamente dall'americano Tom Savini. L'inizio, come avviene in quasi tutti i film di Argento, è strepitoso. Presenza di svariate scene memorabili (da segnalare i gattini che divorano un cadavere putrefatto murato in una parete oppure la scena dell’impalamento di Keitel). Purtroppo, ci sono evidenti cali di ritmo nella parte centrale, dove l’assassino è intento a costruirsi l'alibi per difendersi dall'eventuale accusa di omicidio. La regia oscilla tra il buono e l’ottimo. Il finale risente un po’ di Sette Note in Nero e di Black Cat diretti da Lucio Fulci. In televisione credo non si veda da anni, io stesso lo dovrei rivedere (ho il DVD). Ne conservo un buon ricordo.

 

Che madre ha visto?

L'esperienza di Due Occhi Diabolici porta Dario Argento a insistere sugli Stati Uniti, confermando la scommesa su cast artistico e buona parte del tecnico americani. Il nuovo progetto parte da uno studio sull'anoressia, malattia della sfera psicologica che, a inizio anni novanta, esplose quale vero e proprio male del decennio. Prende così piede il soggetto di TRAUMA, plasmato dall'apporto del fido Franco Ferrini (e di Gianni Romoli). Il film viene finanziato da co-produttori d'oltreoceano che probabilmente impongono la partecipazione (non so quanto reale) di un nome forte alla sceneggiatura. In luogo di Ferrini e Romoli, viene coinvolto T.E.D Klein. Klein era un maestro, seppur non particolarmente prolifico, nel campo della narrativa del terrore, assai apprezzato dagli estimatori di Howard P. Lovecraft e di Clark Ashton Smith. Dunque un profilo più incline al weird e al fantastico che al thriller. Klein non è il nome giusto a cui affidarsi per lo sviluppo di una storia troppo sbilanciata sulle tematiche argentiane. Dario Argento, come avverrà col successivo Non ho Sonno, chiede di sviluppare un suo racconto (L'Enigma di Aura) che si diverte a contaminare gli ingredienti base di Profondo Rosso, riproponendo alcune delle soluzioni del film (la decapitazione, la natura dell'assassino, la seduta medianica in cui viene percepita la presenza del male, il killer messo fin da subito davanti allo spettatore rappresentato dalla protagonista che non riesce a intravederlo). A tale impostazione si aggiungono evidenti omaggi al film La Finestra sul Cortile (1954) di Alfred Hitchcock (da cui arrivano anche gli inserti comici rappresentati da un ragazzino ficcanaso) e a Omicidio a Luci Rosse (1984) di Brian De Palma, con un gusto visivo che, grazie all'impiego di pioggia battente e di una fotografia glaciale con dominanza delle tonalità blu, anticipa le atmosfere di Seven (1995) di Fincher.

Si conferma inoltre la tendenza a tributare il mondo della pittura. La scena in cui l'assassino viene visto dal testimone oculare (un'Asia Argento più convincente del solito anche perché chiamata a interpretare un ruolo che le è più congeniale), che come tradizione argentiana non riesce a ricordare il volto dell'assassino (semplicemente perché ha visto quello della vittima decapitata), omaggia per la postura dell'attrice la celebre illustrazione La Testa Decapitata di Gustave Dore utilizzata a corredo del Canto XXVIII dell'Inferno di Dante Alighieri. Vi è inoltre una spiccata associazione tra L'Ofelia di John Everett Millais, celebre quadro preraffaellita ammirato in una vetrina dal protagonista Christopher Rydell (in Profondo Rosso era stato omaggiato I Nottambuli di Edward Hopper attraverso la realizzazione di un bar che ricalcava l'opera del pittore), e la corsa dello stesso che pensa che Asia Argento si sia suicidata gettandosi in un fiume.

Da un punto di vista tecnico e visivo Trauma è una perla, sebbene Argento si concentri più sui movimenti di macchina (qua numerosi e ispiratissimi) e sulle scenografie piuttosto che sull'estetica dell'omicidio. Mai come in questo film, le morti sono tanto ripetitive e poco inventive. Protagonista assoluta è la decapitazione, prodotta da un congegno semiautomatico a pressione digitale che stringe un cappio sul collo della vittima, portando alla recisione della testa. Non manca la scena eccessiva (da antologia argentiana), con una testa che, ricordando Macabro (1980) di Lamberto Bava, continua a parlare una volta che è stata staccata dal tronco (Carlo Lucarelli omaggerà la cosa col racconto Julian, poi incluso nell'antologia Il Lato Sinistro del Cuore).

Se l'occhio apprezza l'estetica argentiana, lo stesso non può dirsi per la componente razionale della vicenda. La sceneggiatura è assai più scricchiolante che in Opera, di cui peraltro viene riproposta la pessima idea del prefinale (la polizia che confonde il cadavere rinvenuto fuori dall'abitazione della protagonista e lo fa per mesi). Argento abbandona definitivamente il realismo per imboccare la dimensione dell'incubo, dove tutto diviene possibile. Costruisce un killer vendicatore, che si finge (senza ragione) morto e uccide a determinate condizioni atmosferiche, indispensabili per ricreare le condizioni di un trauma passato e per tale via esorcizzarlo. Le vittime fanno tutte parte di un gruppo di soggetti responsabili di un grave (quanto iperbolico) errore chirurgico (flashback bello visivamente quanto trash se valutato con un'ottica di presa realistica). Le stesse modalità di consumazione dei delitti acquisiscono fortissima rilevanza simbolica. Grave limite dello script è l'incapacità da parte della polizia di accorgersi che tutte le vittime sono collegate tra loro. Non è all'opera uno psicopatico in modalità random, bensì un soggetto che agisce per vendetta, facendo fuori soggetti predeterminati e per questo facilmente distinguibili al proseguire della catena. È pertanto evidente il case linkage degli omicidi e con questo la particolare natura dell'assassino. La polizia tuttavia brancola nel buio.

C'è da dire che nelle prime versioni del soggetto, l'assassino era caratterizzato diversamente e forse in modo più interessante, trattandosi di uno psicopatico ossessionato dalla ghigliottina francese. Argento però ha poi optato per una maggiore caratterizzazione psicologica, facendo peggio che meglio.

La prima parentesi americana del regista finisce qua con un'esperienza maturata, tutto sommato, produttiva. Poco supportato dalla scrittura, Argento persiste a essere un vero Maestro come poeta di immagini. Gli estimatori, tuttavia, iniziano a storcere il naso, sebbene il nostro mantenga la massima considerazione. È comunque atteso a un riscatto che non ci sarà.

 

La passione per il mondo dell'arte pittorica, come abbiamo visto a più riprese omaggiato dalla produzione di Dario Argento, esplode con LA SINDROME DI STENDAHL. Argento decide di tornare sui suoi passi, sebbene i produttori americani vorrebbero insistere con lui e tenerlo negli States dove, di certo, avrebbe fatto meglio di quanto prodotto nel prosieguo carriera. Argento, però, non sente ragioni e per liberarsi paga una penale e torna in Italia, a Firenze.  

Influenzato da un saggio che parla della capacità delle opere d'arte di suscitare stordimento e soggezione in osservatori particolarmente sensibili, sviluppa un interessante soggetto con Franco Ferrini che delinea le coordinate di un film diverso dai precedenti, più drammatico che thriller. Torna e si rafforza l'idea del tentativo di contaminazione del male, già al centro del film Opera, che qua si concretizza e passa dall'antagonista alla protagonista. La Sindrome di Stendahl è un film perverso, malato. Non c'è da scoprire l'assassino, tutto è chiaro fin dall'inizio. Uno psicopatico sessuale ossessiona la protagonista convinto che alla stessa piaccia subire l'aggressione. Solo nella seconda parte (la più debole) c'è un abbozzo di giallo: prende piede una catena di omicidi forse ascrivibili al killer che si pensava essere morto (il mistero cadrà quando verrà ripescato il cadavere dell'uomo).

Un bel progetto sulla carta, che si impantana nella seconda parte a causa di una gestione non perfettamente riuscita del personaggio della protagonista (non basta farle cambiare look). Asia Argento, non da ultimo per la giovane età, è inadatta al ruolo. Il personaggio che deve interpretare è mal costruito, non aiutato dai dialoghi. Non è possibile pensare a una poliziotta schizofrenica, a cui viene mantenuta l'arma, con lo psicologo che l'ha in cura che non si accorge dei gravi problemi mentali che l'affliggono.  Come si può poi pensare che una ragazza di venticinque anni conduca in autonomia le indagini su un killer stupratore? La vediamo infatti muoversi senza coperture sulle tracce di un serial killer (l'eccellente Thomas Kretschmann) che la adesca per corromperne l'anima e far emerge la parte corrotta e perversa che la giovane cela sotto l'apparenza di normalità. Il contatto con lo psicopatico induce infatti la protagonista a sviluppare una schizofrenia con sdoppiamento della personalità che la induce a uccidere, convinta di essere posseduta dallo spirito del killer.

Film coraggioso, anche per le scene di stupro. Kretschmann appare in una sorta di anticipazione del ruolo del Conte Dracula. Recide con un rasoio Asia Argento e la bacia col sangue che cola da bocca a bocca.

Tra le scene più coraggiose si segnala il demone dal pene eretto che fuoriesce da un murales materializzandosi nella realtà.

Deludente quando uscì, non piacque ai fan e segnò il declino del Maestro. La Sindrome di Stendahl è comunque un film, a posteriori, da rivalutare. La parte iniziale agli Uffizi è da antologia argentiana (ancora una volta un ottimo inizio che andrà a perdersi al procedere della narrazione, un difetto questo che si ripeterà per quasi tutti i film successivi). Argento rappresenta ottimamente l'inebriamento provocato dalle opere d'arte. Da Botticelli a Caravaggio sino alla Caduta di Icaro, enigma alchemico dipinto da Brueghel il Vecchio (un artista argeniano per il celare l'evento principale delle sue opere in un contesto dove gli altri personaggi ritratti si interessano di altro, facendo passare l'evento per inosservato) e simbolo della caduta della protagonista. Quest'ultima sente i rumori, gli odori dei soggetti delle tele e viene assorbita direttamente all'interno dei quadri. Una parte eccezionale del tutto scollegata al resto della narrazione che propone tutt'altra sindrome.

La seconda parte di film si appesantisce e rovina quanto di buono fatto. Argento, meno virtuoso alla regia, fornisce comunque una più che sufficiente prova tecnica. Vi è invece un marcato deterioramento delle interpretazioni. A parte Kretschmann, gli altri attori non entusiasmano e vi sono anche alcune pessime prove (il poliziotto che si fa uccidere da Asia è quanto di più insulso vi possa essere, peraltro non aiutato dalla caratterizzazione). Fallisce inoltre il tentativo di proseguire, come già fatto in Opera, con la computer grafica anche quando si sarebbe potuta omettere (la soggettiva di una pastiglia che cala in gola di chi l'ha ingoiata). Ottima, invece, la colonna sonora di Morricone che, a distanza di anni, torna a collaborare col Maestro.

Se già La Sindrome di Stendahl aveva debiti con Opera, IL FANTASMA DELL'OPERA Dario Argento può reputarsi quasi un remakedel film  da cui mutua le ambientazioni teatrali, gli attentati alle soprano finalizzati a fare debuttare la giovane cantante e l'ascesa di quest'ultima nel mondo delle opere. Cambia la natura del villain (addirittura protagonista) e la rappresentazione del suo amore: disperato e connaturato da un romanticismo decadente. Progetto, dunque, discutibile fin dal suo concepimento. Argento aveva già omaggiato il celebre capolavoro narrativo di Gaston Leroux e lo aveva fatto con un piglio personale proprio con Opera. Perché allora ritornare sulla questione, peraltro con modifiche importanti rispetto al capolavoro di Leroux? Mistero, specie se si considerano le tante precedenti trasposizioni cinematografiche. Scompare la mostruosità fisica del Fantasma e si opta per una poco concepibile fusione tra il Fantasma di Leroux, il Tarzan di Burroughs e Pinguino di Batman – Il Ritorno (1992) di Burton. Il fantasma di Dario è un belloccio cresciuto dai topi che vive, non se ne capisce bene la ragione, nei sotterranei dell'Operà, escluso dal mondo. Il mancato coinvolgimento di Ferrini ha effetti devastanti sulla sceneggiatura. Dario Argento lavora pressoché in autonomia, dato che il collaboratore Gérard Brach (L'Inquilino del Terzo Piano e Frantic) non lo tiene a freno. L'horror si miscela a un grottesco che piega sulla comicità demenziale, in una fastidiosa alternanza tra dramma e sceneggiate caciarone. Discutibile la scelta del cast artistico. Nadia Rinaldi (pessima) è protagonista di una delle scene più trash della produzione di Argento (roba da film Le Comiche). Male anche l'amorfo Andrea Di Stefano e il "cacciatore di topi", che fornisce un'interpretazione così sopra le righe che sembra essere stato diretto da Bruno Mattei. Asia Argento, chiamata in un ruolo tutto sommato calibrato, naufraga non aiutata dal copione, che propone dialoghi spesso imbarazzanti. Julian Sands, chiamato dopo che l'attore designato (nientemeno che John Malkovich) aveva rifiutato, funziona a intermittenza. Si salvano le sequenze nei sotterranei, le inquadrature sui topi, la sequenza nel bordello, l'ottimo prologo e il romantico epilogo, oltre alle scenografie di Geleng e agli effetti splatter di Stivaletti. Un po' poco per un film dall'interessante budget. Non siamo alle prese con un horror convenzionale, ma con un prodotto al confine tra il fantasy e la favola nera, intriso di decise venature erotiche e qualche momento poetico (discreto il triste finale, esaltato dalle inquadrature dei topi). Pertinente al taglio tragico la colonna sonora di Morricone. C'è da dire che la versione distribuita in commercio è stata montata in modo diverso rispetto al volere del regista, anche se qua i problemi sono davvero troppi per azzardare una rivalutazine. Col Fantasma dell'Opera la crisi di Dario Argento si palesa in modo manifesto.


PROSEGUE PROSSIMAMENTE 

 
e quello che non si vede è la verità.