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lunedì 21 luglio 2025

Recensioni Cinematografiche: RETROSPETTIVA SUL CINEMA BIS DI DARIO ARGENTO.



 Quello che si vede non esiste.

A cura di Matteo Mancini

La retrospettiva dedicata a Dario Argento curata dalla redazione Mediaset, e più specificatamente da Italia 2, mi ha permesso di rivedere quasi tutti i film del periodo buio del regista fino all'eclissi finale e ai saluti di rito. È convenzione, non priva di fondamento, che da Phenomena (1985) in poi il Maestro sia caduto in una crisi irreversibile.

Da suo grande fan (per citare il Maestro Riccardo Freda, guarderei anche un film sulle Pagine Gialle girato da Argento), non avendo mai scritto specificatamente di lui nei saggi cinematografici che mi sono stati commissionati nel corso degli anni, prendo la palla al volo per proporre una breve retrospettiva incentrata proprio sui film che sono stati reputati la sua serie B. Del resto, sono sempre stato un cultore dei lati b, non certo per fare riferimento alle cose fatte col “culo”, piuttosto per quegli aspetti di nicchia, meno riusciti e imperfetti, e proprio per questo un po' artistici e naif o per quelle cose che sarebbero potute essere ma invece non sono state. Sono proprio questi film che ti fanno attivare l'immaginazione, portandoti a pensare come si sarebbero potuti correggere o rendere più riusciti. Un film perfetto non ha bisogno di interventi esterni, lo si vede passivamente, senza alcuna possibilità di voce in capitolo, e così facendo uccide la fantasia. Le opere d'arte hanno bisogno della partecipazione di chi le guarda, devono essere immersive in un'epoca in cui nessuno supera la cortina della banale quotidianità e dove tutti vorrebbero risposte immediate senza preoccuparsi dei processi formativi.

Lo slasher Opera (1987) è stato il vero e proprio spartiacque tra una produzione di valore esponenziale, fatta di capolavori assoluti (L'Uccello dalle Piume di Cristallo, Profondo Rosso e Suspiria) e di tanti notevoli film, e una deriva deficitaria intrisa di difetti. Con Opera l'approccio e la componente visiva diventano sempre più sbilanciati verso l'horror (a tratti soprannaturale e a tratti visivo con effetti sempre più estremi sulla scia di quanto visto con Tenebre). Il cinema di Dario, così come la devianza della condotta criminale di matrice psicologica (si pensi ai serial killer non animati da intento venale), è da sempre un cinema fatto di traumi celati nel passato e mai superati, ma è stato anche il cinema della grande rivelazione presente fin dall'inizio (vuoi nella forma di un rumore, in una visione concitata viziata dai preconcetti o nella vera e propria presenza del killer celato in un'opera d'arte) seppure non decriptata dal testimone oculare di turno e, con lui, dallo spettatore che, troppo spesso, sopravvaluta la propria intelligenza al punto da non riuscire a vedere (“quello che non si vede è la verità”) ciò che il regista, con grande accettazione del rischio e piglio manipolatorio da prestigiatore, gli ha già messo davanti in una sfida destinata a essere vinta (Sergio Leone diceva che il cinema non è teatro e che nel cinema si vede tutto, anche un minimo dettaglio). È stato altresì il cinema delle sperimentazioni, delle soggettive ispirate da Alfred Hitchcock (e Brian De Palma) e della grande tecnica nell'impiego della macchina da presa. Dario Argento è stato ed è (perché i film non si perdono come le persone) un valore culturale e artistico da proteggere e da tutelare nell'asfittico panorama italiano, spesso e volentieri criticato oltre limite da quell'idiozia figlia dell'italianità media che inconsciamente vorrebbe portare verso la mediocrità chiunque possa eccellere e, così facendo, mettere in ridicolo chi fallisce (vengono alla memoria alcune frasi inserite nel romanzo Las Bas di Huymans). L'italia è la patria della castrazione della fantasia che deborda dal conformismo e rende singole entità i componenti di un gruppo spesso uniformante e, per questo, castrante.

Ho avuto il piacere e la fortuna di essere stato pubblicato da Profondo Rosso, tanto che un mio secondo saggio, intitolato Il Maestro della Doppia Soluzione (titolo poi modificato da Luigi Cozzi) e dedicato a un autore horror italiano dimenticato, è in uscita in questi giorni (o almeno dovrebbe). Pertanto voglio, anche per piacere personale, fare un tributo al Maestro, concentrandomi sulla parte della sua produzione che gli altri non vorrebbero considerare. Del resto stiamo parlando di un regista che, al pari di Sergio Leone, George A. Romero e John Carpenter, ha influenzato la mia passione per il cinema di genere e, poi, la mia vena da scrittore dilettante (questa contaminata anche dalla lettura degli autori weird e del blocco Golden Dawn).

È innegabile che il periodo che va da Opera a Occhiali Neri sia un periodo incomparabile al precedente. Il perfezionismo di Argento si è interrotto, a mio modo di vedere, in modo anomalo. A parte Dracula 3D, nessun film è da bocciare in modo netto. Argento ha conservato fino all'ultimo il suo piglio onirico, la sua capacità di regalare sequenze che i colleghi, italiani e non, non riescono neppure a proporre (basti vedere la media degli horror americani degli ultimi venti anni, non mi riferisco alle punte, parlo di media di horror di ultima generazione, quelli che spesso si vedono su Italia 2 o su Rai 4). Cosa è successo allora? A mio avviso, forse anche a causa della morte del padre Salvatore (deceduto proprio nel 1987), produttore e immagino guida tecnica di Dario, sono mancati assistenti capaci di contrastare con piglio costruttivo il regista. Divenuto ormai Maestro e contornato da personalità più giovani di lui (spesso accondiscendenti, poiché fare i tafani di socratica memoria è sempre controproducente da un punto di vista di vantaggi personali), il buon Dario ha acquisito quella libertà tale da non essere contraddetto. Troppi film, ora scenderemo nel dettaglio, hanno avuto tracolli concettuali. Mi spiego meglio. Non è un problema di mancanza di idee o di film tecnicamente fatti male, piuttosto di ingenuità sia in scrittura che, soprattutto, nella messa in scena, aspetti facilmente correggibili e dovuti a una scarsa immedesimazione nei fatti rapportati a quanto accadrebbe nella realtà. Cosa succederebbe se? Manca una risposta realistica a tale domanda, portando le storie nella dimensione della fiaba (spesso al centro della produzione di Dario, da Suspiria a Il Fantasma dell'Opera), dove regna l'ingenuità infantile (cosa è Asia Argento, ne La Terza Madre, se non una bambina cresciuta? E la Marsillach di Opera, un po' come la Connelly di Phenomena, non è forse una bambina in un reame incantato?). Così vediamo due soggetti che si nascondono in un bosco per sottrarsi da un inseguitore e, nel farlo, urlano a squarciagola (Occhiali Neri), un ufficio di polizia in cui i poliziotti inveiscono e saltano sulle sedie nell'assistere a una banale partita a poker a carte scoperte condotta da un sedicente mago dei videogame (Il Cartaio), un killer che viene ucciso da un colpo di pistola sparato a casaccio dalla polizia dalla strada come se anche gli agenti avessero capito, insieme allo spettatore, chi sia l'assassino (Non ho Sonno), una poliziotta di venti anni che conduce da sola le indagini su un serial killer venendone contaminata dal male senza tuttavia far sorgere sospetti nello psicologo che l'ha in cura (La Sindrome di Stendahl), una madre che uccide solo a determinate condizioni atmosferiche i responsabili del parto che ha provocato la decapitazione del nascituro (Trauma), un gruppo di streghe agghindate stile Loredana Bertè che ridono e fanno baccano a Roma agli ordini di una strega dalle tette rifatte (La Terza Madre) e si potrebbe proseguire. Questo è il male della produzione dell'Argento degli ultimi trent'anni, un male, a mio modo di vedere, riconducibile anche agli stretti collaboratori.

A questo problema si aggiunge quello che è sempre stato il tallone di achille del regista: un grande amore per le immagini non accompagnato dalla sapiente direzione degli attori. Argento è un regista che, a differenza del comparto tecnico, non sviluppa il personale artistico, anzi lo fa involvere. Troppo spesso, le recitazioni nei suoi film sono sotto la media, a volte diventano persino imbarazzanti (la Rinaldi ne Il Fantasma dell'Opera). Asia Argento, che sarebbe dovuta essere la chioccia attorno alla quale solidificare l'estro del padre, si è rivelata – esprimo un mio modesto parere – il punto debole di questa fase, probabilmente non solo per colpa sua (viste le prove più consistenti agli ordini di Abel Ferrara e George A. Romero). Alla componente horror e al grandguignol sempre più estremizzati fino ad adottare i cliché di Lucio Fulci, si è aggiunto un inconsueto interesse per i nudi femminili (pressoché assenti in tutti i film del Dario Argento dei tempi migliori, quando invece andavano di moda) diventato una vera e propria firma. A parte Stefania Rocca (scelta la Rocca sbagliata, verrebbe da dire) ed Emanuelle Seigner (da vedere ne La Nona Porta), Argento le ha svestite tutte in una sorta di carrellata di nudi spesso e volentieri “benedetti” dal ritocco della chirurgia estetica. Così abbiamo Asia Argento, Moran Attias, Ylenia Pastorelli, l'attrice di Jennifer, la Rocchetti e una serie di attrici secondarie con tanto di nudi integrali o belle bocce in mostra (vedi Dracula 3D e l'inizio di Non Ho Sonno). Ultimo anello debole i dialoghi, spesso scritti con una mediocrità ricorrente (i vari puttana che colorano le battute dei villain di turno o gli atteggiamenti di rottura ingiustificata in momenti di alta tensone, tipo Asia Argento che si preoccupa della tosse del suo datore di lavoro quando sta succedendo di tutto ne La Terza Madre).

Cosa ha funzionato e cosa no, allora? Vediamolo nel dettaglio, film per film.

Osserva attentamente...
 
 LA RETROSPETTIVA FILM SU FILM.

Nel 1987, a quarantasette anni (dunque ancora giovane, lo dico giusto per non abbattermi), Dario Argento cerca di realizzare il film più evoluto, da un versante tecnico, della sua produzione. Parte dall'amore per il teatro, il Macbeth di Verdi, e da Il Sipario Strappato (1966) di Alfred Hitchcock e scrive, con Franco Ferrini, OPERA. Il film è un giallo-slasher assai perverso, che sconfina nell'horror sia per la truculenza delle immagini, sia per la scelta della colonna sonora (introduzione dell'heavy metal) e, non da ultimo, per il suo indulgere sulle scene più estreme, tanto da trovare una geniale soluzione per torturare la protagonista, la bella e discretamente brava Cristina Marsillach (per fortuna arrivata in sostituzione della De Sio), e al tempo stesso lo spettatore. Escogita infatti un sistema, rappresentato da una fila di aghi collocata davanti agli occhi della protagonista, per costringere alla visione degli omicidi in una sorta di malato rapporto di collaborazione indiretta tra il carnefice e il pubblico. Non si può non vedere, poiché non è concesso chiudere gli occhi. Ciò che si vede è la realtà. È l'apoteosi del voyeurismo, fin da subito evidenziato dal primissimo piano sull'occhio del corvo (un animale che non dimentica) in cui si riflette il teatro. Da un punto di vista di tecnica di regia e di soggetto base, il film è un capolavoro. La scena dei corvi liberati nel Teatro Regio di Parma che volano in cerca dell'assassino è da antologia argentiana. Costata un miliardo, in virtù di una serie di collegamenti aerei necessari a far correre le macchine da presa. L'effetto che ne deriva è pazzesco in una sorta di rapporto metacinematografico con la sala che guarda. Gli Uccelli di Hitchcock tornano a terrorizzare lo spettatore e lo fanno in un'opera dai contenuti psicanalitici orientati verso la sfera sessuale. A essere colpito sarà proprio l'occhio, privato della sua funzione primaria e addirittura estirpato dai becchi degli uccelli. Il compito di consentire al cervello di discernere la realtà attraverso la vista è ora precluso. Opera è il film della castrazione degli impulsi inconfessabili (la protagonista è frigida e lo è perché qualcosa nel passato l'ha bloccata), della perversione che affascina e di una violenza portata ai massimi livelli. E' il killer a fare tutto per lo spettatore, in un'ottica che spaventa e crea repulsione, poiché come diceva un noto criminologo i buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Lo splatter e il gore sono marcati, rappresentati da coltelli che trapassano gole o da forbici che squarciano il petto. Potente il versante visivo (la scena della pallottola che perfora lo spioncino di una porta) anche se si cominciano a vedere sperimentalismi in computer grafica fuori luogo (il cervello che vibra) e che irromperanno in modo più deciso ne La Sindrome di Stendahl.

Una grande costruzione filmica, rappresentata da una perizia tecnica che sconfina nel valore artistico, totalmente rovinata da un finale imbarazzante e inverosimile. La sensazione è di vedere un film la cui parte finale sia stata tagliata in fase di montaggio per fare spazio a un finale alternativo girato frettolosamente e con poca convinzione. Un altro punto debole è costituito dall'assassino. L'attore scelto, anche per l'età (è praticamente coetaneo della protagonista) e il ruolo avuto nel passato della protagonista, è inidoneo. Così come è inidonea, non ce ne voglia il Maestro Franco Ferrini, la professione svolta dal killer (del tutto incompatibile col ruolo, tanto che nella casistica criminologica non si trovano serial killer con quella professione, un motivo ci sarà) ma, soprattutto, viene da chiedersi come possa qualcuno scambiare un manichino (immagino di plastica) con un cadavere umano (una boiata da vergognarsi di averla scritta). Una caduta di stile poco comprensibile e che caratterizzerà tutti i film successivi di Argento, tra momenti tecnicamente spettacolari e uscite incomprensibili di cui si stenta a comprenderne la matrice. L'assioma genio & sregolatezza calato in campo cinematografico diventerà marchio di fabbrica da qui in avanti.

Premesso ciò, Opera resta un film buono, con momenti di grande regia e trovate concettuali geniali (il discorso metacinematografico, l'insistere sull'occhio) tanto che non manca chi lo reputi, per certi versi non a torto, un piccolo capolavoro. Fu il primo film della serie "I Maestri della Paura" uscita a inizio duemila in edicola. L'ho rivisto di recente proiettato al cinema, a Livorno, con presenza in sala del Maestro Ferrini. A ogni modo, è da qui che il cinema di Dario comincia a scricchiolare.

Anche l'abisso ti osserva. 

Corteggiato da anni dalle produzioni americane, a inizio anni novanta, Dario Argento cede parzialmente al richiamo delle sirene d'oltreoceano e si sposta negli States per due film, mantenendo comunque in mano la produzione. Cede anche a un'altra tentazione: quella di tributare i nomi tutelari dell'horror e poi le loro creature più rappresentative. Il primo a essere omaggiato non può che essere il maestro narrativo di Dario Argento (e non solo di lui) ovvero Edgar Allan Poe, l'inventore del giallo perverso e delle turbe mentali degli assassini narrativi. Prende così avvio una serie di film che non faranno la fortuna del regista. Argento progetta con Lucio Fulci di produrgli la mummia che poi diventerà la maschera di cera (girata da Sergio Stivaletti) e, in seguito, girerà in prima persona i due film meno riusciti della sua produzione: Il Fantasma dell'Opera e Dracula 3D. Si tratta di progetti già sulla carta potenzialmente fallimentari o, quantomeno, ardimentosi. Argento è chiamato a misurarsi con storie inflazionate e già traslate in veri e propri capolavori del brivido. L'idea di omaggiare Poe, peraltro, è stra-abusata, basti pensare all'infinita serie curata e diretta da Roger Corman negli anni sessanta. Il progetto, tuttavia, prende piede in modo esplosivo. Vengono coinvolti, oltre al nostro, George A. Romero, John Carpenter e, addirittura, Stephen King, tutti chiamati a dirigere un episodio. Miscela atomica, con i quattro più grandi esponenti dell'orrore mondiale dell'epoca pronti a scendere in campo. Tutto però si ridimensiona nel giro di mesi. Carpenter e King escono dal progetto. Restano in due: Romero e Argento, già soci ai tempi di Zombi (1978). Il titolo del film, diviso in due episodi, è DUE OCCHI DIABOLICI (1990). Inizia così il primo periodo americano di Argento, che si trova a lavorare con un intero cast artistico di americani e a dirigere un attore di culto come Harvey Keitel (doppiato da Ferruccio Amendola) che, due anni dopo, terrà a battesimo il debutto alla regia di Quentin Tarantino ne Le Iene, proseguendo la collaborazione nel ruolo di Mr Wolf in Pulp Fiction.

Le premesse sono ottime e Argento non le spreca, pur restando lontano dai suoi migliori lavori. È ispirato alla regia e sceglie l'episodio de Il Gatto Nero, già di suo ricco di perversione e atmosfera malata. Il film parte in quarta. Vediamo una scena del delitto in cui un cadavere di una donna (ovviamente nuda) è legato a un tavolo e diviso in due da un pendolo disceso dall'alto (evidente omaggio a un altro celebre racconto del Maestro di Boston ovvero Il Pozzo e il Pendolo). Argento si avvale ancora una volta, in scrittura, di Franco Ferrini e dirige quello che, forse, è il contributo più compatto di questa seconda fase di carriera, sebbene il mediometraggio venga di rado menzionato. Non ci sono grandi scivoloni e non si tentano esagerazioni condannate all'inverosimiglianza. L'ispirazione arriva, anche se non l'ho mai letto in giro, dal Richard Dees del racconto The Night Flier (1988) di Stephen King. Abbiamo un fotografo di cronaca nera, di nome Usher (altro omaggio a Poe), ossessionato da immagini di violenza e di morte, al punto da seviziare un gatto nero per realizzare un album fotografico finalizzato a sanare l'appetito dei sadici. Come diceva Nietzsche, però, se guardi insistentemente in fondo all'abisso anche l'abisso guarderà dentro di te e così, un po' come in Art Pupil di King, il male corrompe il protagonista spingendolo all'omicidio e alla sua disfatta. Horror quadrato, con l'elemento soprannaturale del gatto vendicatore. Domina lo splatter, curato realisticamente dall'americano Tom Savini. L'inizio, come avviene in quasi tutti i film di Argento, è strepitoso. Presenza di svariate scene memorabili (da segnalare i gattini che divorano un cadavere putrefatto murato in una parete oppure la scena dell’impalamento di Keitel). Purtroppo, ci sono evidenti cali di ritmo nella parte centrale, dove l’assassino è intento a costruirsi l'alibi per difendersi dall'eventuale accusa di omicidio. La regia oscilla tra il buono e l’ottimo. Il finale risente un po’ di Sette Note in Nero e di Black Cat diretti da Lucio Fulci. In televisione credo non si veda da anni, io stesso lo dovrei rivedere (ho il DVD). Ne conservo un buon ricordo.

 

Che madre ha visto?

L'esperienza di Due Occhi Diabolici porta Dario Argento a insistere sugli Stati Uniti, confermando la scommesa su cast artistico e buona parte del tecnico americani. Il nuovo progetto parte da uno studio sull'anoressia, malattia della sfera psicologica che, a inizio anni novanta, esplose quale vero e proprio male del decennio. Prende così piede il soggetto di TRAUMA, plasmato dall'apporto del fido Franco Ferrini (e di Gianni Romoli). Il film viene finanziato da co-produttori d'oltreoceano che probabilmente impongono la partecipazione (non so quanto reale) di un nome forte alla sceneggiatura. In luogo di Ferrini e Romoli, viene coinvolto T.E.D Klein. Klein era un maestro, seppur non particolarmente prolifico, nel campo della narrativa del terrore, assai apprezzato dagli estimatori di Howard P. Lovecraft e di Clark Ashton Smith. Dunque un profilo più incline al weird e al fantastico che al thriller. Klein non è il nome giusto a cui affidarsi per lo sviluppo di una storia troppo sbilanciata sulle tematiche argentiane. Dario Argento, come avverrà col successivo Non ho Sonno, chiede di sviluppare un suo racconto (L'Enigma di Aura) che si diverte a contaminare gli ingredienti base di Profondo Rosso, riproponendo alcune delle soluzioni del film (la decapitazione, la natura dell'assassino, la seduta medianica in cui viene percepita la presenza del male, il killer messo fin da subito davanti allo spettatore rappresentato dalla protagonista che non riesce a intravederlo). A tale impostazione si aggiungono evidenti omaggi al film La Finestra sul Cortile (1954) di Alfred Hitchcock (da cui arrivano anche gli inserti comici rappresentati da un ragazzino ficcanaso) e a Omicidio a Luci Rosse (1984) di Brian De Palma, con un gusto visivo che, grazie all'impiego di pioggia battente e di una fotografia glaciale con dominanza delle tonalità blu, anticipa le atmosfere di Seven (1995) di Fincher.

Si conferma inoltre la tendenza a tributare il mondo della pittura. La scena in cui l'assassino viene visto dal testimone oculare (un'Asia Argento più convincente del solito anche perché chiamata a interpretare un ruolo che le è più congeniale), che come tradizione argentiana non riesce a ricordare il volto dell'assassino (semplicemente perché ha visto quello della vittima decapitata), omaggia per la postura dell'attrice la celebre illustrazione La Testa Decapitata di Gustave Dore utilizzata a corredo del Canto XXVIII dell'Inferno di Dante Alighieri. Vi è inoltre una spiccata associazione tra L'Ofelia di John Everett Millais, celebre quadro preraffaellita ammirato in una vetrina dal protagonista Christopher Rydell (in Profondo Rosso era stato omaggiato I Nottambuli di Edward Hopper attraverso la realizzazione di un bar che ricalcava l'opera del pittore), e la corsa dello stesso che pensa che Asia Argento si sia suicidata gettandosi in un fiume.

Da un punto di vista tecnico e visivo Trauma è una perla, sebbene Argento si concentri più sui movimenti di macchina (qua numerosi e ispiratissimi) e sulle scenografie piuttosto che sull'estetica dell'omicidio. Mai come in questo film, le morti sono tanto ripetitive e poco inventive. Protagonista assoluta è la decapitazione, prodotta da un congegno semiautomatico a pressione digitale che stringe un cappio sul collo della vittima, portando alla recisione della testa. Non manca la scena eccessiva (da antologia argentiana), con una testa che, ricordando Macabro (1980) di Lamberto Bava, continua a parlare una volta che è stata staccata dal tronco (Carlo Lucarelli omaggerà la cosa col racconto Julian, poi incluso nell'antologia Il Lato Sinistro del Cuore).

Se l'occhio apprezza l'estetica argentiana, lo stesso non può dirsi per la componente razionale della vicenda. La sceneggiatura è assai più scricchiolante che in Opera, di cui peraltro viene riproposta la pessima idea del prefinale (la polizia che confonde il cadavere rinvenuto fuori dall'abitazione della protagonista e lo fa per mesi). Argento abbandona definitivamente il realismo per imboccare la dimensione dell'incubo, dove tutto diviene possibile. Costruisce un killer vendicatore, che si finge (senza ragione) morto e uccide a determinate condizioni atmosferiche, indispensabili per ricreare le condizioni di un trauma passato e per tale via esorcizzarlo. Le vittime fanno tutte parte di un gruppo di soggetti responsabili di un grave (quanto iperbolico) errore chirurgico (flashback bello visivamente quanto trash se valutato con un'ottica di presa realistica). Le stesse modalità di consumazione dei delitti acquisiscono fortissima rilevanza simbolica. Grave limite dello script è l'incapacità da parte della polizia di accorgersi che tutte le vittime sono collegate tra loro. Non è all'opera uno psicopatico in modalità random, bensì un soggetto che agisce per vendetta, facendo fuori soggetti predeterminati e per questo facilmente distinguibili al proseguire della catena. È pertanto evidente il case linkage degli omicidi e con questo la particolare natura dell'assassino. La polizia tuttavia brancola nel buio.

C'è da dire che nelle prime versioni del soggetto, l'assassino era caratterizzato diversamente e forse in modo più interessante, trattandosi di uno psicopatico ossessionato dalla ghigliottina francese. Argento però ha poi optato per una maggiore caratterizzazione psicologica, facendo peggio che meglio.

La prima parentesi americana del regista finisce qua con un'esperienza maturata, tutto sommato, produttiva. Poco supportato dalla scrittura, Argento persiste a essere un vero Maestro come poeta di immagini. Gli estimatori, tuttavia, iniziano a storcere il naso, sebbene il nostro mantenga la massima considerazione. È comunque atteso a un riscatto che non ci sarà.

 

La passione per il mondo dell'arte pittorica, come abbiamo visto a più riprese omaggiato dalla produzione di Dario Argento, esplode con LA SINDROME DI STENDAHL. Argento decide di tornare sui suoi passi, sebbene i produttori americani vorrebbero insistere con lui e tenerlo negli States dove, di certo, avrebbe fatto meglio di quanto prodotto nel prosieguo carriera. Argento, però, non sente ragioni e per liberarsi paga una penale e torna in Italia, a Firenze.  

Influenzato da un saggio che parla della capacità delle opere d'arte di suscitare stordimento e soggezione in osservatori particolarmente sensibili, sviluppa un interessante soggetto con Franco Ferrini che delinea le coordinate di un film diverso dai precedenti, più drammatico che thriller. Torna e si rafforza l'idea del tentativo di contaminazione del male, già al centro del film Opera, che qua si concretizza e passa dall'antagonista alla protagonista. La Sindrome di Stendahl è un film perverso, malato. Non c'è da scoprire l'assassino, tutto è chiaro fin dall'inizio. Uno psicopatico sessuale ossessiona la protagonista convinto che alla stessa piaccia subire l'aggressione. Solo nella seconda parte (la più debole) c'è un abbozzo di giallo: prende piede una catena di omicidi forse ascrivibili al killer che si pensava essere morto (il mistero cadrà quando verrà ripescato il cadavere dell'uomo).

Un bel progetto sulla carta, che si impantana nella seconda parte a causa di una gestione non perfettamente riuscita del personaggio della protagonista (non basta farle cambiare look). Asia Argento, non da ultimo per la giovane età, è inadatta al ruolo. Il personaggio che deve interpretare è mal costruito, non aiutato dai dialoghi. Non è possibile pensare a una poliziotta schizofrenica, a cui viene mantenuta l'arma, con lo psicologo che l'ha in cura che non si accorge dei gravi problemi mentali che l'affliggono.  Come si può poi pensare che una ragazza di venticinque anni conduca in autonomia le indagini su un killer stupratore? La vediamo infatti muoversi senza coperture sulle tracce di un serial killer (l'eccellente Thomas Kretschmann) che la adesca per corromperne l'anima e far emerge la parte corrotta e perversa che la giovane cela sotto l'apparenza di normalità. Il contatto con lo psicopatico induce infatti la protagonista a sviluppare una schizofrenia con sdoppiamento della personalità che la induce a uccidere, convinta di essere posseduta dallo spirito del killer.

Film coraggioso, anche per le scene di stupro. Kretschmann appare in una sorta di anticipazione del ruolo del Conte Dracula. Recide con un rasoio Asia Argento e la bacia col sangue che cola da bocca a bocca.

Tra le scene più coraggiose si segnala il demone dal pene eretto che fuoriesce da un murales materializzandosi nella realtà.

Deludente quando uscì, non piacque ai fan e segnò il declino del Maestro. La Sindrome di Stendahl è comunque un film, a posteriori, da rivalutare. La parte iniziale agli Uffizi è da antologia argentiana (ancora una volta un ottimo inizio che andrà a perdersi al procedere della narrazione, un difetto questo che si ripeterà per quasi tutti i film successivi). Argento rappresenta ottimamente l'inebriamento provocato dalle opere d'arte. Da Botticelli a Caravaggio sino alla Caduta di Icaro, enigma alchemico dipinto da Brueghel il Vecchio (un artista argeniano per il celare l'evento principale delle sue opere in un contesto dove gli altri personaggi ritratti si interessano di altro, facendo passare l'evento per inosservato) e simbolo della caduta della protagonista. Quest'ultima sente i rumori, gli odori dei soggetti delle tele e viene assorbita direttamente all'interno dei quadri. Una parte eccezionale del tutto scollegata al resto della narrazione che propone tutt'altra sindrome.

La seconda parte di film si appesantisce e rovina quanto di buono fatto. Argento, meno virtuoso alla regia, fornisce comunque una più che sufficiente prova tecnica. Vi è invece un marcato deterioramento delle interpretazioni. A parte Kretschmann, gli altri attori non entusiasmano e vi sono anche alcune pessime prove (il poliziotto che si fa uccidere da Asia è quanto di più insulso vi possa essere, peraltro non aiutato dalla caratterizzazione). Fallisce inoltre il tentativo di proseguire, come già fatto in Opera, con la computer grafica anche quando si sarebbe potuta omettere (la soggettiva di una pastiglia che cala in gola di chi l'ha ingoiata). Ottima, invece, la colonna sonora di Morricone che, a distanza di anni, torna a collaborare col Maestro.

Se già La Sindrome di Stendahl aveva debiti con Opera, IL FANTASMA DELL'OPERA Dario Argento può reputarsi quasi un remakedel film  da cui mutua le ambientazioni teatrali, gli attentati alle soprano finalizzati a fare debuttare la giovane cantante e l'ascesa di quest'ultima nel mondo delle opere. Cambia la natura del villain (addirittura protagonista) e la rappresentazione del suo amore: disperato e connaturato da un romanticismo decadente. Progetto, dunque, discutibile fin dal suo concepimento. Argento aveva già omaggiato il celebre capolavoro narrativo di Gaston Leroux e lo aveva fatto con un piglio personale proprio con Opera. Perché allora ritornare sulla questione, peraltro con modifiche importanti rispetto al capolavoro di Leroux? Mistero, specie se si considerano le tante precedenti trasposizioni cinematografiche. Scompare la mostruosità fisica del Fantasma e si opta per una poco concepibile fusione tra il Fantasma di Leroux, il Tarzan di Burroughs e Pinguino di Batman – Il Ritorno (1992) di Burton. Il fantasma di Dario è un belloccio cresciuto dai topi che vive, non se ne capisce bene la ragione, nei sotterranei dell'Operà, escluso dal mondo. Il mancato coinvolgimento di Ferrini ha effetti devastanti sulla sceneggiatura. Dario Argento lavora pressoché in autonomia, dato che il collaboratore Gérard Brach (L'Inquilino del Terzo Piano e Frantic) non lo tiene a freno. L'horror si miscela a un grottesco che piega sulla comicità demenziale, in una fastidiosa alternanza tra dramma e sceneggiate caciarone. Discutibile la scelta del cast artistico. Nadia Rinaldi (pessima) è protagonista di una delle scene più trash della produzione di Argento (roba da film Le Comiche). Male anche l'amorfo Andrea Di Stefano e il "cacciatore di topi", che fornisce un'interpretazione così sopra le righe che sembra essere stato diretto da Bruno Mattei. Asia Argento, chiamata in un ruolo tutto sommato calibrato, naufraga non aiutata dal copione, che propone dialoghi spesso imbarazzanti. Julian Sands, chiamato dopo che l'attore designato (nientemeno che John Malkovich) aveva rifiutato, funziona a intermittenza. Si salvano le sequenze nei sotterranei, le inquadrature sui topi, la sequenza nel bordello, l'ottimo prologo e il romantico epilogo, oltre alle scenografie di Geleng e agli effetti splatter di Stivaletti. Un po' poco per un film dall'interessante budget. Non siamo alle prese con un horror convenzionale, ma con un prodotto al confine tra il fantasy e la favola nera, intriso di decise venature erotiche e qualche momento poetico (discreto il triste finale, esaltato dalle inquadrature dei topi). Pertinente al taglio tragico la colonna sonora di Morricone. C'è da dire che la versione distribuita in commercio è stata montata in modo diverso rispetto al volere del regista, anche se qua i problemi sono davvero troppi per azzardare una rivalutazine. Col Fantasma dell'Opera la crisi di Dario Argento si palesa in modo manifesto.


PROSEGUE PROSSIMAMENTE 

 
e quello che non si vede è la verità.

 

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