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sabato 31 agosto 2024

Recensione Narrativa: CACCIA AL DINOSAURO di Maurice Renard.

Autore: Maurice Renard.
Curatore: Luigi Cozzi.
Anno: 1905-19013.
Genere:  Fantascienza - Avventura - Horror.
Editore: Profondo Rosso (2021).
Pagine: 232.
Prezzo: 23 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Torna l'asso francese Maurice Renard, con un'antologia a cura Luigi Cozzi, per impreziosire l'ampio ventaglio di soluzioni predisposte nel corso degli anni dalle Edizioni Profondo Rosso. Sono infatti circa dieci i volumi che la casa editrice romana ha dedicato alla narrativa di questo grande maestro scandalosamente ignorato quasi del tutto alle nostre latitudini finché, nel 2009, non sono caduti i diritti d'autore sulle opere pubblicate. Prima del nuovo secolo, sono stati infatti pubblicati appena tre romanzi dell'autore, tra il 1924 e il 1951, oltre due racconti brevi. Praticamente niente. Al di là delle critiche sulle traduzioni e sui refusi, si deve a Cozzi la riscoperta della produzione dello scrittore. Il regista ed editore trapiantato da anni a Roma, ma milanese d'origine, ha proposto il meglio di Renard, presto imitato da altri editori quali la CH3 Press e la CSA Editrice. Quest'ultima, grazie all'impegno di Giorgio Leonardi, ha proposto un'antologia - Racconti del Mistero - formata da ventiquattro brevi storie tra poliziesco e giallo. Un racconto è altresì presente nella raccolta Grand Guignol della Biblioteca di Lovecraft (Edizioni Arcoiris).   


L'AUTORE

Maurice Renard (1875-1939) è stato uno dei principali scrittori di fantastico francese nonché uno dei padri del giallo transalpino. Una firma spesso accostata a quelle dei vari J. H. Rosny, Gaston Leroux, Maurice Leblanc ed Emile Gaboriau, in grado di rivaleggiare con i ben più famosi colleghi anglofoni. Avvocato di professione in quel di Parigi, è stato definito da Pierre Versins: “il miglior autore d'anticipazione scientifica francese del primo trentennio del novecento”. Interessato al macabro, ma soprattutto a una narrativa, da lui definita “ipotetica”, che parte dalla scienza per imboccare territori fantastici, esordisce nel 1905 con l'antologia Fantomes et Fantoches pubblicata sotto lo pseudonimo Vincent Saint-Vincent. Il successo, pressoché immediato, lo porterà a utilizzare il proprio nome fin dalla sua seconda pubblicazione. È stato tra i primi a teorizzare la possibilità di un'abduction aliena, a portare in scena i dinosauri (protagonisti di più racconti), a immaginare la possibilità di varcare i vetri per accedere a una quarta dimensione, ma anche di ipotizzare la possibilità di ricorrere a macchinari in grado di rimpicciolire un uomo fino a farlo diventare una preda per gli insetti oppure di smaterializzarlo ma lasciarlo visibile, farlo regredire nel passato o ancora di stravolgere la legge gravitazionale. Insomma, un grandissimo maestro da riscoprire che garantisce avventura, brividi, riflessioni e tanto sense of wonder. A oggi è famoso soprattutto per romanzi quali Le Mains d'Orlac (1921), quattro volte trasposto al cinema e (seppur a sua volta debitore di The Beast with Five Fingers, 1919, di William Harvey) in grado di ispirare tutti quei thriller incentrati su trapianti biologici estrapolati da killer che portano il beneficiario a deviare le proprie condotte, Le Péril Bleu (1919) di cui al momento esistono due edizioni italiane, Le Docteur Lerne (1908) che verrà omaggiato da Libero Samale nel romanzo Anima Nera, e Un Homme chez les Microbes (1928) con cui ha anticipato nientemeno che il celebre The Incredible Shrinking Man (“Tre Millimetri al Giorno”, 1956) di Richard Matheson. Dunque una vera e propria fucina di idee germogliate altrove e divenute classici. Ispirato da Herbert G. Wells e da Jules Verne, Renard ha tracciato coordinate su cui si sarebbe allineato uno scrittore come Arthur Conan Doyle per ideare le avventure del Professor Challenger, personaggio comparso a partire dal 1912 col celebre The Lost World, una storia quest'ultima che deve parecchio a Les Vacances de Mounsieur Dupont (1905) inserito proprio in questa antologia.

Autore di oltre mille racconti, ha scritto anche numerosi articoli scientifici e la cosa si riflette nelle sue opere dove è palpabile l'erudizione nella materia che va di volta in volta a trattare, con ragionamenti e spiegazioni che cercano sempre di fornire una verosimiglianza alla piega fantastica adottata in via ipotetica.


IL LIBRO

Caccia al Dinosauro è un ottimo volume per approcciarsi a Renard, peraltro – a quanto pare a differenza di altri della casa editrice - in un'edizione ben tradotta e ben presentata da Luigi Cozzi. Traduzioni fluide, forse ammodernate (in un racconto si legge la parola “zombi” che non credo esser stata utilizzata da Renard) e corredate da alcune premesse di raccordo che immagino non essere imputabili a Renard (nel primo racconto si anticipa quanto avverrà in un racconto pubblicato qualche pagina dopo).

Le storie proposte sono quattro, dotate di un titolo ideato da Cozzi molto più accattivante rispetto a quelli originali. La lunghezza delle storie oscilla dalle ottanta alle trentasei pagine.

Il racconto più vecchio è il sopracitato Les Vacances de Mounsieur Dupont (1905) che Cozzi pesca dall'antologia d'esordio dello scrittore, presentandolo come Caccia al Dinosauro.

Racconto molto moderno, considerando che è stato pubblicato nel 1905. Renard mostra padronanza nel parlare di paleontologia e dinosauri (parla delle varie specie e indica le caratteristiche), anticipando il grande classico di Conan Doyle The Lost World (“Il Mondo Perduto”, 1912), ma non A Matter of Interest (“Un Argomento di Interesse”, 1897) di Robert W. Chambers, di cui, tuttavia, è di gran lunga più accattivante. Siamo nella Francia del sud, dove un vacanziere (il Monsieur Dupont) viene ospitato da un conte suo vecchio compagno di scuola. Il clima è particolarmente umido e afoso e fa da cornice a uno dei più bei racconti sui dinosauri che sia mai stato pubblicato. Dopo aver mostrato la sua collezione di fossili e di scheletri (qui ricorda un po' Chambers), il padrone di casa conduce l'amico nel luogo degli scavi dove, senza accorgersene, porta alla luce un uovo che si è conservato intatto dal giurassico. Viene così alla luce un iguanodonte che prende a razziare i raccolti finché un altro dinosauro, un megalosauro, farà la sua comparsa.

Splendido, con momenti horror granguignoleschi che ispireranno Michael Crichton (Jurassic Park) e Steven Spielberg (The Lost World). Vediamo infatti un megalosauro faccia a faccia con un uomo appiattito a un muro, con la bestia che allunga la lingua cercando di afferrare la preda. Molto carino, seppure debole nella ricostruzione fantascientifica tesa a giustificare la presenza di due dinosauri nel mondo moderno. Resta un caposaldo imprescindibile per i fan dei racconti sui dinosauri.


Arrivano da Monsieur d'Outremort et Autres Histories Singulières (1913) La Cantatrice (La Voce Magica) e L'Homme au Corps Subtil (L'Uomo Senza Corpo), due tra i racconti brevi più famosi dell'autore.

La Cantatrice è una storia weird, ambientata a Montecarlo nel mondo degli spettacoli canori. La messa in scena di Sigfried di Wagner rivela al pubblico di spettatori, tra cui il direttore dell'Opera di Parigi, un talento canoro in grado di inebriare gli ascoltatori. Interessato a ingaggiare la misteriosa donna che, a differenza delle colleghe, resta celata dietro le quinte, il direttore scopre di avere a che fare con una triste handicappata alla mercé di un marito despota e bizzarro. Bella storia, che richiama un po' Leroux e il suo capolavoro Le Fantome de l'Opéra (Il Fantasma dell'Opera, 1910), per virare verso gli orrori marini nel solco della più classica delle tradizioni. Bella la scena con tutti i cittadini che, di pomeriggio, si dirigono in massa verso l'abitazione dove la soprano si è messa a cantare contrariamente alle indicazioni del marito (ricorda molto il finale di Chissà Perché Capitano tutte a Me). Bello, ma prevedibile negli sviluppi. Colpo di scena telefonato.


Più in linea alla narrativa di Renard è L'Homme au Corps Subtil che si ricollega agli insegnamenti di Wells e a un precedente racconto dello stesso Renard di cui.funge da prequel, proponendo un mad doctor a lavoro su dei raggi in grado di smaterializzare i corpi. Qui il riferimento è The Invisible Man (1897), sebbene non venga meno la forma dell'uomo che resta visibile ma - a differenza di Wells - non palpabile. L'idea arriva dalla scoperta dei raggi x e dall'ipotesi che esistano altri raggi non ancora individuati dalla scienza. Da un punto di vista contenutistico è il miglior racconto della raccolta. Renard prova a immaginare le implicazioni di un corpo smaterializzato che oltrepassa tutto ciò che incontra, potendo attraversare i corpi come un nuotatore fa incontrando l'acqua. Una capacità che si scontra, tuttavia, con la legge della gravità che porta i corpi a essere attratti verso il centro della terra se non fosse per la presenza dell'ostacolo costituito dalla materia che impedisce a questi corpi di sprofondare. Cosa succederebbe, però, se la materia diventasse oltrepassabile? Gioiello, con qualche occhiolino al poliziesco.


Più debole e - sebbene scritto anni prima - in veste di sequel di L'Homme au Corps Subtil è Le Singuliére Destinée de Bouvancourt (Il Prigioniero della Quarta Dimensione), tratto dall'antologia Le Voyage Immobile suivi d'autres Histoires Singuliéres (1909). Ritroviamo i due protagonisti del precedente racconto: un medico nel ruolo di narratore e il suo folle amico ricercatore nel campo scientifico Bouvancourt. Nonostante la promessa del mad doctor di abbandonare ricerche rivelatesi troppo pericolose per la razza umana, tornano in ballo gli esperimenti sui particolari raggi in grado di smaterializzare i corpi. La sete di conoscenza, ma soprattutto l'ambizione del successo portano il ricercatore – ancora una volta – a sperimentare su sé stesso i bizzarri macchinari che ha realizzato. Scoprirà per tale via di essere in grado di attraversare gli specchi, ma solo per un arco limitato di tempo oltre il quale il proprio corpo tornerà a essere materiale. Sorta di remake del precedente racconto. Carino, ma superato dal successivo racconto dello stesso Renard. Presenta comunque una scena che diventerà un leitmotiv degli horror: l'attraversamento di uno specchio che, a contatto con le dita, diviene liquido e consente ai corpi di oltrepassarlo (idea riproposta, tra gli altri, dal film Il Signore del Male di John Carpenter).


CONCLUSIONI

Consigliatissimo agli amanti del weird e ai fan di autori quali Herbert G. Wells o delle storie del ciclo Challenger di Arthur Conan Doyle. Autore da riscoprire e conoscere, penalizzato da un ingiustificato ostracismo perpetrato dagli editori italiani nel corso degli anni. Lo segnalo anche a tutti gli estimatori della collana Bizarre dell'Agenzia Alcatraz. Da avere, nonostante un prezzo non proprio economico tipico delle Edizioni Profondo Rosso.

  L'autore Maurice Renard.

 "Non c'è nulla che ci impedisca di pensare di riuscire un giorno a discendere fino al centro della Terra, né più né meno come anche di credere all'esistenza nell'infinito di creature aliene che, a differenza di noi uomini, non siano in grado di passare attraverso l'aria o di muoversi in mezzo ai gas... poiché io non posso certo negare la possibilità che esistano da qualche parte luoghi, pianeti o dimensioni che funzionano nell'esatto modo contrario di quanto avvenga nel nostro mondo."

mercoledì 21 agosto 2024

Recensione Narrativa: LE NUOVE AVVENTURE DI BATMAN a cura di Martin H. Greenberg.

Autore: AA.VV..
Curatore: Martin H. Greenberg.
Titolo Originale: The Further Adventures of Batman.
Anno: 1989.
Genere:  Thriller - Spionaggio - Fantascienza.
Editore: Rizzoli (1991).
Pagine: 286.
Prezzo: Fuori catalogo.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Operazione di marketing curata dal celebre antologista Martin H. Greenberg, una garanzia nel campo del giallo e della fantascienza americana. Il progetto viene completato nel 1989 in occasione dell'uscita nelle sale cinematografiche del Batman di Tim Burton, ma in Italia arriva due anni dopo quando nei cinema proiettano il secondo capitolo del dittico del regista. Quattordici racconti, che diventano dodici nell'edizione italiana (tagliati William Nolan ed Edward Wellen), a cui faranno seguito, tra il 1992 e il 1997, sei ulteriori antologie – mai giunte in Italia – dedicate, tra gli altri, alle avventure di Joker, Pinguino, Catwoman e soprattutto ancora Batman.

Il progetto è molto interessate e dall'indiscusso appeal. Purtroppo delude l'esecuzione, sebbene Greenberg raduni il meglio dei suoi scrittori tanto da ingaggiare mostri sacri della fantascienza quali Isaac Asimov (che morirà tre anni dopo), Robert Sheckley e Robert Silverberg, per non parlare di emergenti (di allora) del calibro di Joe Lansdale e di nomi “minori” assai conosciuti dai lettori della serie Urania quali Henry Slesar e Mike Resnick. Tante aspettative, disattese a fine lettura soprattutto per la scelta di trattare il genere da un'ottica diversa rispetto a quella che sarebbe stato lecito attendersi. Anziché giocare sulla componente fumettistica, sui colori e su personaggi sopra le righe, magari utilizzando i grandi nemici dell'uomo pipistrello, l'interesse passa sulla psicologia di Bruce Wayne, sui conflitti mentali di Batman che portano l'eroe, in più di un racconto (Sheckley, Slesar), a finire visitato dai medici (addirittura psichiatri), uno sconforto e una depressione che coinvolgerà persino Joker (Collins). Una scelta di umanizzare il personaggio, che suona sovente quale parodia sulla scia degli episodi televisivi degli anni '70 che depotenziarono il clima cupo della creazione di Bob Kane, un'atmosfera che sarebbe poi ritornata solo grazie a Burton prima e a Nolan poi. Si tentano inoltre inutili percorsi metanarrativi che cercano di proporre Bruce Wayne quale personaggio della realtà (Asimov) o di traslare Batman dalla cronaca nera (dunque anch'esso proposto alla stregua di un personaggio esistente) al cinema della Hollywood degli anni quaranta (Kaminsky). Paradossalmente manca quasi del tutto la dimensione fumettistica. Solo il racconto di Max Allan Collins (e in parte quello di Effinger), che arriva ad anticipare di decenni la creazione di Harley Quinn, sposa appieno lo stile dei fumetti e dei film da Burton in poi, rendendosi, per questo, tra i più esilaranti e divertenti della selezione. E' un'eccezione, poiché i celebri villain dell'uomo pipistrello sono pressoché del tutto assenti o, se ci sono, fanno giusto delle rapide comparse (Joker e Enigmista) se non appena menzionati senza mai vedersi (Pinguino). A ergersi a "deboli" rivali del "nostro" sono criminali convenzionali (ladri, ipnotizzatori, contrabbandieri di armi, sequestratori) tipici dei gialli e dei polizieschi, solo in due casi in maschera. Dominano, infatti, le storie poliziesche e spionistiche finendo, per tale via, col mettere in ridicolo l'eroe dell'antologia: Batman, con tutti i suoi gadget e i suoi prototipi, sembra un matto che se ne va in giro vestito da pipistrello aiutando il quasi pressoché immancabile ispettore Gordon. Prova a introdurre qualcosa di diverso Joe Lansdale, che vira la sua storia verso un horror grandguignolesco con un soggetto tutt'altro che originale che riprende l'abusata idea che vede lo "spirito" di Jack Lo Squartatore varcare la dimensione del tempo. Bello l'inizio della storia di Robert Sheckley che mostra la morte cruenta e orrorifica del Joker, salvo “perdersi” nel giallo fino a sconfinare in uno spionistico raffazzonato con al centro virus informatici, armi segrete e ologrammi utilizzati per ingannare il prossimo. Meglio allora la storia di Henry Slesar, tra i più ispirati del lotto, con un Batman versione “picchiatello” che dileggia sé stesso al fine di fuorviare una psichiatra dedita al crimine che intende utilizzare sieri e droghe per addormentare i protettori di Gotham e compiere i suoi crimini. Il tema delle droghe e dell'ipnosi torna nella storia di Goldsmith, un giallo assai quadrato (bella la parte nella casa degli orrori di un ipnotizzatore) e ben scritto, dove però Batman finisce in un ruolo secondario, scavalcato da un giornalista sedicenne (Robin in borghese) e dalla relativa indagine. Questo il meglio dell'antologia, per un'opera che si legge bene e volentieri, ma che lascia l'amaro in bocca. Tra i peggiori, addirittura, Isaac Asimov, con un racconto insulso metanarrativo dove Batman non è neppure presente e in cui il vero Bruce Wayne, ormai settantenne, rivela ai compagni di cena un vecchio episodio (del tutto banale) incentrato su un lapsus di un suo collaboratore e di come questo gli abbia insinuato dubbi sulla fedeltà dell'uomo. Bruttina anche la storia di Gorman su un giovane pazzo convinto che Batman gli abbia rubato la sua personalità, una storia dove "l'eroe" è del tutto in secondo piano e neppure menzionato (lo stesso avviene nel racconto di Resnick). Su tematica similare si muove Silverberg con un impostore di Batman, dedito ai furti e affetto da squilibri mentali.
 
I RACCONTI NEL DETTAGLIO CON SPOILER. 

Scendiamo nello specifico con l'analisi dei dodici racconti. Come anticipato non ci sono capolavori, così come sono davvero pochi (ma ci sono) i racconti da bocciare.

Il racconto che ho preferito, per la sua componente fumettistica, è The Sound of One Hand Clapping (Il Rumore di una Mano che Applaude) scritto non certo da uno degli scrittori di punta radunati da Greenberg. Porta infatti la firma di Max Allan Collins, una mezza dozzina di Gialli Mondadori all'attivo in Italia, famoso soprattutto per le novelization di Waterworld (1995), The Mummy (“La Mummia”, 1999) e di una serie di episodi della serie CSI – Scena del Crimine e Criminal Minds. L'autore fa leva sul suo passato da fumettista, negli anni settanta aveva ideato Quarry, per proporre lo spirito del fumetto di Bob Kane. The Sound of One Hand Clapping ha il merito di anticipare la love story tra Joker e Harley Quinn. Sia chiaro, siamo nel 1989 e il personaggio che sarà reso celebre al cinema da Margot Robbie non è ancora stato creato, ma Collins propone qualcosa di molto simile. Joker è infatti depresso, in cerca di una donna che possa riscaldargli il cuore. Perde così la testa per una giovane che compie delitti per ragioni di critica ecologica. La giovane, ribattezzata “Il Mimo” per la sua abitudine di dipingersi il volto con un fondotinta bianco, viene imprigionata e destinata all'Arkham Asylum, ma il “re dei buffoni” la libera durante il tragitto di trasferimento (bella scena action) e cerca di far tutto per conquistarne il cuore. Azione, ilarità e soprattutto taglio farsesco. Molto carino, con esilarante descrizione del quartier generale del Joker caratterizzato da poster di carte e gadget svariati. A mio avviso, è di gran lunga il miglior racconto dell'antologia per il suo offrire ciò che l'appassionato di Batman va cercando. Sorpresa.


Merita considerazione anche Bats (Pipistrelli) di Henry Slesar, scrittore conosciuto sia per i racconti brevi fantascientifici (un paio trasposti nella serie televisiva Ai Confini della Realtà) che gialli (presenza assidua nelle serie Ellery Queen's Mystery Magazine e Alfred Hitchcock's Mystery Magazine), ma anche per alcuni sceneggiati della serie Alfred Hitchcock Presenta e della CBS Radio Mystery Theatre. È stato insignito di un Edgar Award. Come sua abitudine, Slesar attinge dalla sua inclinazione per l'ironia per portare in scena un Batman afflitto dai conflitti interiori, al punto da destare preoccupazione in Alfred, lo storico maggiordomo. È proprio quest'ultimo a raccontare la storia, che vede un Batman consumato dai sensi di colpa per la morte di Robin, tanto da finire in cura da una psichiatra che utilizza la tecnica dell'ipnosi per curare i pazienti. Invece di migliorare, il nostro si rende protagonista di una serie di comparsate in pubblico che mettono in ridicolo la figura di Batman. L'uomo pipistrello appare d'improvviso in occasione di presentazioni o eventi mondani dileggiando la propria figura con frasi da ubriaco. Ora grasso, ora con un cappello che richiama il cappellaio matto di Alice nel Paese delle Meraviglie. Deriso dai giornali (parlano di “Batman picchiato di testa”) e inoperoso a fronte dell'esplosione del crimine, induce tutti a pensare che sia impazzito salvo rivelare, all'epilogo, una strategia calibrata che lo porterà  a portare a galla il complotto che stordisce l'intera città. Il “nostro” ha infatti dato vita a una messa in scena per portare allo scoperto la mente dietro alla quale ruota un gruppo di gangster che utilizzano l'ipnosi e gli psicofarmaci per intontire il capo della polizia, batman e il sindaco, così da condurre liberamente i traffici delittuosi. Belli i dialoghi iniziali tra Batman e la psichiatra (si scava sul passato dell'eroe, sulla morte dei genitori e sulle ragioni psicologiche per le quali si cela dietro una maschera), anche se è fin troppo evidente per tutti (meno i personaggi del racconto) che dietro la natura dell'eroe in maschera ci sia Bruce Wayne. Buoni inoltre i riferimenti all'attitudine dei giornali di attendere il momento propizio per denigrare l'eroe in declino. Bel racconto.


Una costruzione simile caratterizza l'elaborato del grande maestro Robert Sheckley, nome che non ha bisogno di presentazioni nel campo della fantascienza distopica per il suo essere stato – tra le altre cose - l'ispiratore dei cosiddetti Hunger Games. Anche Death of the Dreamaster (Morte del Maestro dei Sogni) propone un Batman allucinato e ossessionato dalla ricomparsa dei villain che ha sconfitto nel passato. Come struttura di soggetto, probabilmente, è il migliore racconto del lotto tanto che Greenberg gli conferisce l'onore di aprire l'antologia. Sheckley lavora sulla trama, propone snodi che consentono al racconto di passare dall'horror al giallo fino a concludersi in un intreccio da spy story a caratura internazionale. Bruce Wayne ha addirittura un'ulteriore personalità, oltre quella di Batman, e deve superare una crisi psicologica alimentata da qualcuno che riesce a fargli credere di essere affetto da allucinazioni. In realtà, dietro alle visioni si cela un qualcosa che opera all'esterno del cervello del protagonista.

Notevole l'inizio grandguignolesco, dove assistiamo alla morte del Joker. Da qui si dipana un'indagine che, attraverso una serie di indizi, svelerà un intrigo incentrato su una società di armi non convenzionali in trattativa col governo degli Stati Uniti. Avventura dunque d'impronta spionistica, sprovvista di super eroi e con qualche elemento fantascientifico. Non manca l'ironia (Batman in maschera che viene visitato dal medico). Non un capolavoro, ma di mestiere.


Un altro racconto che ottiene molti consensi tra i lettori è Subway Jack (Jack della Sotterranea) firmato da una delle giovani speranze (poi mantenute) dell'horror statunitense ovvero Joe R. Lansdale. Appena reduce da The Drive-In, Lansdale abbandona la sua tipica ironia per plasmare un vero e proprio horror truce e sanguinario, forse più in linea con Dylan Dog che Batman. Una serie di omicidi insanguinano la metropolitana di Gotham. A colpire è un killer sventratore che si accanisce sulle donne barbone. Tutto ruota su un oggetto totem (un rasoio) capace di richiamare da un'altra dimensione un demone (“Il Dio del Rasoio”) dalle zampe caprine e dai teschi come scarpe, che si muove indossando un cilindro. Lo spirito prende possesso di chi lo ha evocato e induce lo stesso a vibrare letali colpi di rasoio. Batman e l'ispettore Gordon saranno impegnati a fermare una carneficina che ricorda molto quella di Jack the Ripper, anche per l'abitudine del killer di lasciare messaggi scritti col sangue.

Penalizzato da inneschi tutt'altro che originali, è un racconto comunque ben narrato, molto violento e con un'atmosfera assai cupa. Non mancano alcuni sperimentalismi tecnici, come alcune parti scritte alla stregua di una sceneggiatura che si alternano al testo standard.


Dietro questi quattro racconti, a mio modo di vedere i migliori dell'antologia, vi sono un trio di storie sufficienti grazie alla discreta dose di azione. Tra queste piace soprattutto Command Performance (Esecuzioni a Comando) di Howard Goldsmith. Scrittore tra i meno noti dell'antologia (suoi racconti sono stati pubblicati in italiano in appendice a un volume Urania, in un paio di antologie della Mondadori e soprattutto in volumi della Garden Editoriale, compresa la serie Horror Story), propone un giallo assai ben gestito sia nell'intreccio, che negli sviluppi e nei dialoghi. Purtroppo manca del tutto la componente fumettistica e fantastica. Batman, addirittura è in secondo piano, sostituito da Dick Grayson – Robin – nei panni di un giornalista di sedici anni che decide di avviare un'indagine per venire a capo dello strano comportamento di una vecchia compagna di scuola fermata dalla polizia con l'accusa di furto. Al centro del mistero vi è un giro di droga e di furti su commissione compiuti da tossici manipolati da un ipnotizzatore che li usa per svaligiare gioiellerie. Storia quadrata, ben cadenzata da Goldsmith. Raggiunge il suo apice nello spettacolo di mentalismo condotto dal villain nonché nelle peripezie all'interno di un'abitazione trasformata in una vera e propria casa degli orrori sul modello di quelle dei lunapark. Debole e frettoloso l'epilogo (peccato).


Non male The Origin of the Polarizer (La Comparsa del Polarizzatore) di George Alec Effinger, valido autore sci-fi vincitore del Nebula e dell'Hugo. Ha il merito (insieme a Collins) di avvicinarsi alle atmosfere del fumetto. In prima battuta crea un villain di una certa forza, munito di maschera e costume. Una soluzione questa che potrebbe apparire logica per un'antologia su Batman, ma che invece nelle storie selezionate da Greenberg latita. Protagonista è un giovane studente a caccia di fondi per pagarsi le rette universitarie, particolarmente abile in congegni elettronici, che decide di darsi al crimine. Convinto (a ragione) di aver compreso le identità di Batman e Robin (non si capisce come in tutta Gotham nessuno riesca a identificarli), riesce a sabotare le attrezzature della coppia in modo da prendersi gioco di loro e mettere a segno un paio di furti. Buona l'azione, tra inseguimenti automobilistici e scazzottate, purtroppo il tutto viene rovinato da un finale dove l'antagonista – assai narciso – assume condotte assurde che lo portano a farsi prendere dai due eroi nonostante i tanti vantaggi acquisiti. Vista la conclusione, il fatto che si definisca un genio lascia a desiderare.


Un'altra storia giostrata sull'azione e su un soggetto piuttosto quadrato è Batman in Nighttown (Batman nella Città di Notte) del binomio Karen Haber e Robert Silverberg. Anche qua, con Silverberg, siamo alle prese con un colosso della fantascienza americana che non necessita di presentazioni, mattatore della serie Urania e non solo. Come avvenuto per Goldsmith, viene meno il taglio fumettistico e si assiste a una lotta tra Batman – vestito da demone rosso – e un usurpatore che si muove proprio nelle vesti di Batman. Tutto ha inizio a termine di una festa in maschera, tenuta presso la villa di Bruce Wayne, che si conclude col furto di una serie di gioielli. A compiere il colpo è stato un invitato sconosciuto vestito da Batman. Inseguimenti notturni, accessi in bettole tra prostitute e ricettatori fino al tragico epilogo dove emergerà la natura dell'impostore: un giovane disturbato che sognava di sostituirsi all'uomo pipistrello. Prova di mestiere, con ottime descrizioni ambientali (sia interne che esterne) che si dipana senza scivoloni ma anche senza momenti di particolare lustro.


Questi sette racconti sono il meglio dell'antologia che, per l'altra metà (due storie addirittura tagliate nell'edzione italiana) non entusiasma. Certo ci sono degli interessanti sperimentalismi. A esempio The Batman Memos (I Promemoria di Batman) di Stuart M. Kaminsky, scrittore alla prima pubblicazione in Italia, è costituito da una serie di promemoria che ricostruiscono il tentativo di un produttore della Hollywood dei primi anni quaranta di ottenere la liberatoria da Batman per portare in scena le sue avventure (evidentemente spacciate per casi di cronaca nera). Kaminsky inserisce sulla traccia principale una sottotraccia (debole) che verte sul rapimento di un'attrice, sotto contratto del produttore, che verrà liberata proprio dall'uomo pipistrello. Non male nel complesso, soprattutto per i risvolti metanarrativi, ma non certo per l'intreccio giallo (assai mediocre). Su questo spunto finale si muove anche “sua maestà” Isaac Asimov, forse il meno ispirato del lotto. Il suo Northwestward (Verso Nordovest) è un classico racconto del ciclo “I Vedovi Neri” di cui riprende tutte le caratteristiche del ciclo, peraltro riproposte dal nostro Bellomi per la sua serie Gli Enigmi del Club Pigreco. Bruce Wayne diviene un personaggio davvero esistente, ormai di settantenne, che ha ispirato il Batman dei fumetti. Dunque l'eroe mascherato nel racconto di Asimov non esiste, ma lo stesso non può dirsi di Alfred e della villa del magnate. In assenza di Batman, dunque, non resta che narrare nel corso di una cena un episodio del passato legato al comportamento di uno dei tanti dipendenti di Wayne, durante il trasporto di un gadget dall'inestimabile valore. Cosa si celava dietro il comportamento dell'uomo? Ai commensali il compito di risolvere il giallo (del tutto privo di interesse). Addirittura, a mio modesto parere, è il racconto peggiore dell'antologia.


Altri due racconti in cui Batman non viene menzionato sono Neutral Ground (Terreno Neutrale) di Mike Resnick e Idol (Idolo) di Ed Gorman. Nel primo il protagonista è il gestore di un piccolo negozio che rifornisce i personaggi in maschera della città. Si capisce di chi si sta parlando solo perché il racconto è inserito in un'antologia dedicata a Batman, altrimenti tutti i riferimenti risulterebbero incomprensibili. Si intuisce così che il primo cliente del protagonista è proprio Batman, mentre il secondo è L'Enigmista. Entrambi richiedono gadget e accessori personalizzati per i loro costumi. Tutto qua, senza risvolti narrativi. Assai poco per uno scrittore più volte apprezzato nella serie Urania. Similare, ma più contorto, è Idol (Idolo) di Ed Gorman – altro scrittore alla prima pubblicazione in Italia – strutturato in modo frammentario e incentrato su un ragazzo convinto di essere messo in ridicolo da un soggetto che si spaccia per lui stesso (intuiamo essere Batman, perché altrimenti la storia non avrebbe senso di essere stata selezionata). La salute mentale del giovane deflagrerà nel corso degli anni, al punto da indurlo a uccidere la madre e persino Batman che reputa essere un suo usurpatore. Farraginoso.


Struttura raffazzonata anche per il giallista Edward Hoch con l'action The Pirate of Millionaires' Cave (Il Pirata della Cala dei Milionari), che vede Bruce Wayne pensare bene di fungere da esca per sgominare una banda di pirati (!?) che assaltano gli yacht ormeggiati nella baia di Gotham. Decisamente inverosimile, seppur con qualche momento visionario di un certo spessore. Non all'altezza del suo autore.


CONCLUSIONI

Antologia sotto le attese, inutile girarci intorno. Visto il personaggio – forse all'epoca non ancora forte quanto lo è adesso – si poteva e si doveva fare meglio. Manca la fantasia nonostante il coinvolgimento di una squadra di primissimo piano. Si preferisce proporre soggetti giallo/polizieschi in cui la figura dell'eroe mascherato potrebbe tranquillamente essere sostituita da un ordinario detective o da un uomo d'azione. Sono rarissimi i contenuti in linea al fumetto (Collins, Effinger, in parte Sheckley, Lansdale e Slesar), sacrificati in favore di un taglio realistico. Rischia, per tali motivi, di deludere i fan del fumetto e dei film, nonostante i racconti siano di facile fruibilità e garantiscano sufficiente intrattenimento. Non è tra le migliori antologie curate da Greenberg.

 
La copertina originale.
  
Ancora oggi c'è della gente che ritiene Batman una specie di schizofrenico, con impossibili manie di grandezza. Altri invece pensano che Batman non sia altro che un'invenzione dell'immaginazione fervida di qualcuno. A Batman non importa nulla. Intende lasciare che i criminali di questo mondo continuino a vivere nel paradiso degli sciocchi, fino alla notte scura in cui vedranno l'ombra nera delle ali di pipistrello stagliarsi contro il cerchio della luna gialla.” (Henry Slesar).

lunedì 19 agosto 2024

Recensione Narrativa: IL TUNNEL DELL'ORRORE di Dean R. Koontz.

Autore: Dean R. Koontz. 
Titolo originale: Funhouse.
Anno: 1981. 
Genere: Drammatico / Horror. 
Editore: Fanucci (1994). 
Pagine: 236. 
Prezzo: Fuori catalogo.
 
Commento a cura di Matteo Mancini.  

L'OPERAZIONE COMMERCIALE

Operazione di marketing orchestrata, dietro altre società, dalla Universal al fine di lanciare l'omonimo film affidato alla regia di Tobe Hooper, il giovane asceso al rango di maestro dopo l'uscita del suo disturbante e malatissimo The Texas Chain Saw Massacre (“Non Aprite quella Porta”, 1974). Siamo nel 1981, Hooper, dopo aver sbagliato qualche pellicola, è reduce dal successo ottenuto con il film tv Salem's Lot (“Le Notti di Salem”, 1979) e si candida per esser uno dei registi rampanti destinati, insieme a John Carpenter, David Cronenberg e George A. Romero, a riscrivere le regole del cinema horror americano. In realtà finirà presto per essere ridimensionato, pur mantenendosi alto nella scala dei valori al fianco dei vari Wes Craven, William Lustig e soprattutto Joe Dante, con cui condividerà l'approdo alle produzioni siglate Steven Spielberg. Dopo Funhouse, infatti,  avrà l'occasione della vita grazie a Poltergeist (1982), uno dei film più maledetti della storia del cinema. La tappa di avvicinamento a Spielberg tuttavia passa proprio da questo film: Funhouse, da noi distribuito col titolo “Il Tunnel dell'Orrore”. Niente di innovativo, sia chiaro. Hooper e lo sceneggiatore Larry Block, che non è il ben più famoso Lawrence Block (wikipedia sbaglia a unire in un'unica voce le due figure), fingono di guardare a Freaks, l'horror di Tod Browning uscito nel 1932. In realtà ripropongono, sotto altra veste, il plot di The Texas Chainsaw Massacre. Quattro teenager allupati e deficenti come lo sono i teenager degli slasher decidono di trascorrere una serata al lunapark. Entrano nell'attrazione denominata “Il Tunnel dell'orrore”, una sorta di casa degli orrori con mostri a molla, pipistrelli finti e paccottiglie varie, e qui assistono a un omicidio perpetrato da un uomo deforme. Ha inizio pertanto il tentativo di fuga per sottrarsi alla minaccia del killer e del padre intenzionati a uccidere scomodi testimoni. Tutto qua. Un po' poco per tirarci fuori un romanzo fedele. Se ne accorge presto Dean R. Koontz, scrittore destinato a diventare un caso letterario con cinquecento milioni di copie vendute. La Universal, tramite la Jove Books, lo contatta e gli mette sul piatto della bilancia quarantamila dollari per scrivere un romanzo su commissione. Si tenta di emulare l'operazione Omen, ovvero scrivere una novelization e farla uscire in contemporanea col film al fine di sfruttarne il successo. 

OWEN WEST: NUOVO MAESTRO DELL'HORROR? 

Koontz, all'epoca conosciuto soprattutto nel campo della fantascienza ma non ancora bestsellerista, accetta il contratto e la proposta di trincerarsi dietro un nuovo pseudonimo. La Jove Books, infatti, vuol pompare la nascita di un nuovo scrittore horror capace di rivaleggiare con Stephen King e Peter Straub. Koontz, che già aveva firmato lavori con lo pseudonimo North, gioca sui punti cardinali e sceglie il nome: Owen West. Si accorge però che il lavoro di Larry Block è piuttosto modesto. C'è una buona idea adatta a un prodotto cinematografico, inscenare uno slasher movie all'interno di un lunapark in un'epoca in cui lo slasher si vedeva soprattutto in campagna o per le vie cittadine (si veda Halloween, di Carpenter, citato da Hooper nella prima sequenza), ma per il resto non c'è niente.

 La copertina originale della prima edizione del libro.

 IL ROMANZO

Koontz si rimbocca le mani e mette molto di suo nella versione romanzata, dando un passato a tutti i protagonisti. Il suo Funhouse è una novelization solo per la sua parte finale. Koontz omaggia i film legati alla figura dell'anticristo, sebbene il film sia prodotto da Steven Bernhardt e non da (come scritto erroneamente da alcuni recensori su internet) Harvey Bernhard che, guarda caso, era il produttore di Omen (“Il Presagio”, 1976). Il prologo del romanzo – del tutto assente nel film – è un chiarissimo rimando al finale del film Rosemary's Baby (1968) di Roman Polanski, che vede Mia Farrow, riluttante, cedere al richiamo di maternità al cospetto di un demone dagli occhi verdi che piange nella sua culla. Koontz parte da qua, lo si capisce subito e lo sottolinea nel corso del romanzo con espliciti rimandi all'anticristo. La sua protagonista, tale Ellen Giavanetto, a differenza della Farrow non cede all'istinto materno ma sopprime il neonato, convinta che in lui alberghi il male. Il prologo è davvero notevole. Sorpresa dal marito (un giostraio), la donna viene malmenata e costretta ad andarsene dal lunapark in cui si è rifugiata per sottrarsi a una madre fanatica. Abbandonata a sé stessa, vaga in una notte di tormenta, battuta dalla pioggia e illuminata dai lampi, impossibilitata a ritornare dai genitori da cui è fuggita (suo figlio cercherà di fare lo stesso in un ciclo che tende a ripetersi). La polizia non viene chiamata e non si vedrà in nessuna parte del romanzo, in ossequio a una giustizia fai da te decisamente brutale. La vita ripartirà altrove, minata dal passato e da un uomo che medita una vendetta malata e allucinata da consumarsi a tempo debito.

Da qui si assiste a uno sbalzo temporale di una ventina di anni. Koontz passa da Polanski a Stephen King e costruisce una caratterizzazione dei personaggi principali che, seppur privata di elementi soprannaturali, guarda a Carrie (1974). Il romanzo infatti ruota su una lunga parte centrale, prettamente drammatica (si parte da un ballo studentesco di fine anno scolastico), che verte sulle pulsioni sessuali dell'adolescenza e di come queste vengano gestite dai ragazzi e dai genitori. La madre della protagonista è la classica integralista religiosa, ma è un'integralista bigotta, che ha una morale tutta sua (probabilmente in una perenne condanna di sé stessa che riflette per interposta persona sui figli). Predica, legge la Bibbia, prega tutte le sere, impone ai figli di seguirne l'esempio, ma beve come una spugna (si noti il parallelismo creato da Koontz tra ubriachezza da alcolici e ubriachezza da fanatismo religioso), è violenta e si è macchiata di infanticidio. Koontz è molto coraggioso, specie se si considera che siamo nell'ambito di un'opera che nasce come operazione commerciale e dunque dovrebbe cercare di ingraziarsi le masse (Koontz non lo fa). Prende posizione in modo violento sul delicatissimo tema dell'aborto (che giustifica addirittura ben oltre i periodi di tempo che oggi definiremmo legali), si vedano a proposito di King le premesse di Insomnia (1994) giusto per comprendere le dimensioni della questione; arriva poi a proporre un'analisi sulla dicotomia tra libertà sessuale e monogamia senza tuttavia schierarsi sul punto (si badi però il parallelismo tra peccato e inferno e i rimandi a Vegas, dove rischia di finire la protagonista stimolata da un'amica tentatrice). Ho letto da alcune parti che il personaggio di Liz, l'amica libertina, sarebbe troppo irreale per come si esprime (volgare), in realtà, invece, lo trovo molto pertinente con quanto si vede in giro, specie oggi, dove si passa da un fidanzamento all'altro in quella modalità definita "tromba-amici". Koontz la usa per finalità narrativa e quando troverà la morte per la via sessuale non sarà poi così preoccupata.

Il lavoro di Koontz trova dunque il suo punto di forza nella caratterizzazione dei personaggi. Ognuno di essi è definito. C'è la madre bigotta ma alcolizzata, c'è l'adolescente che non sa ancora chi è (ma di certo “le piace il salame”), c'è la sgualdrina ninfomane versione Lucignola che ambisce a diventare escort, c'è il genio che per il pelo finisce sulla cattiva strada, c'è il ragazzino a cui vengono distrutti i sogni dell'infanzia perché secondo la madre dovrebbe crescere e c'è, infine, un uomo annebbiato dalla rabbia che sposa la causa del satanismo perdendo il contatto dalla realtà. I fanatismi, dunque, come causa dei mali. Koontz propone tematiche tipiche dello slasher, ma conferisce al tutto una dimensione psicologica che il film di Hooper neppur si sogna. Purtroppo non è tutto oro quel che luccica. La storia ha vuoti narrativi (che fine fa Ellen Harper dopo che i figli sono andati al lunapark?) e un'impostazione fin troppo cinematografica. Non si indaga, dal punto di vista poliziesco, la componente dei delitti, dando così vita a un dramma dai contenuti horror dove l'orrore, prettamente terrestre, non è preponderante rispetto ai dialoghi e alle pulsioni adolescenziali.

Spicca l'ambientazione all'interno del lunapark. Koontz, cultore dell'argomento, propone attrazioni su attrazioni, mostra come venga smontato e poi riproposto altrove un lunapark itinerante, ma tralascia di interessarsi all'intreccio thrilling. Potremmo infatti definire il romanzo una revenge story vista dalla parte dei cattivi, con struttura corale. Non vi sono misteri. Inoltre abbiamo il messaggio pericoloso – che arriva da Hooper - di proporre il diverso come mostro. L'assassino è infatti un freak incapace di vivere la sua dimensione sessuale (Freud docet), perché schifato da tutti e soprattutto tutte tanto da andare in giro mascherato. Sfogherà una violenza barbarica e animalesca, dovuta all'incapacità di gestire le vittime. Gli amplessi sono bestiali e vengono protetti da un padre a sua volta turbato da un passato nefasto.

L'epilogo, ripreso dal film, è frettoloso, specie se lo si compara all'attenzione centrale che Koontz dedica all'aborto, alle pulsioni sessuali (si arriva a proporre rapporti orgiastici e saffici) e al concetto di brava ragazza. Nel complesso però Funhouse, pur non essendo un caposaldo nella narrativa di un autore che poi scalerà le classifiche, è un pulp con elementi di interesse. Appena uscito in America, vendette in tre settimane un milione di copie salvo poi subire l'inatteso effetto contrario dovuto all'uscita del film di Hooper ed essere archiviato nel dimenticatoio. La pellicola, a causa di problemi di montaggio, apparve infatti nei cinema tre settimane dopo l'uscita del libro. Le attese degli spettatori erano così alte che finirono per lasciarli delusi. Un rigetto generalizzato che pregiudicò il buon esito del lavoro di Koontz. Il “nostro”, dopo aver pubblicato il romanzo “The Mask” (1981), decise di porre fine all'esperimento Owen West. Scrisse: “è morto tragicamente, calpestato da un bue muschiato in Birmania mentre era alla ricerca di materiale per un romanzo su una gigantesca papera preistorica che aveva provvisoriamente intitolato Quackzilla”.

Fine della storia. Il romanzo giunse in Italia tredici anni dopo, nel 1994, importato dalla Fanucci Editore, senza entrare nelle top ten stilate dai lettori di Koontz. Lo stesso autore ammetterà di non aver scritto un romanzo ai livelli di Watchers (“Mostri”) e Hideaway (“Cuore Nero”), pur reputandolo “buono quanto alcuni e forse meglio di altri”. Siamo d'accordo, eppure c'è del buono. In primis è un Koontz atipico, totalmente privato da contenuti parapsicologici, intrighi di potere e fantascienza. C'è il tema della mutazione genetica (che non viene spiegata ma viene vista dall'antagonista come una benedizione del maligno) e c'è la dimensione psicologica degli abusi dei genitori a danno dei figli (tema caro a Koontz, che è passato da un simile passato). Funhouse è dunque un romanzo con molte luci (il prologo, la caratterizzazione dei personaggi, le scenografie al lunapark) e qualche ombra (troppa insistenza sui dialoghi legati alla liberalizzazione sessuale, la parte sull'aborto che, forse, si poteva tagliare a beneficio di una trama poliziesca, i vuoti narrativi). Non manca il grandguignol (teste decapitate, animali deformi, freak messi in bella mostra per divertire il pubblico), seppur limitato ad alcune scene. Devo comunque ammettere che, nonostante le apparenze, Funhouse non è un romanzo di esclusivo intrattenimento, ma ha un substrato che induce a riflettere (si vedano non solo i temi scottanti affrontati, ma anche il modo con cui i ragazzetti dileggiano i diversi). La lettura è molto scorrevole. Epilogo frettoloso con rimandi alla divina provvidenza che ricordano certi romanzi di King, tipo Needful Things (“Cose Preziose”, 1991). Lettura comunque interessante, in puro stile anni ottanta.

La locandina del film.

"L'inferno era un luogo dove i peccatori venivano ricompensati per i loro peccati; era, sotto tutti gli aspetti, il luogo dei loro sogni. Inoltre, nell'inferno non esisteva una cosa come il rimorso. Nell'inferno non esisteva il peccato."

giovedì 15 agosto 2024

RECENSIONE NARRATIVA: INCUBI di Dean R. Koontz.

Autore: Dean R. Koontz. 
Titolo originale: The Door to December.
Anno: 1985. 
Genere: Thriller parapsicologico. 
Editore: Sperling & Kupfer (1991). 
Pagine: 330. 
Prezzo: Fuori catalogo.
 
Commento a cura di Matteo Mancini.  

Se Warlock (“Spedizione verso il Niente”) è stato il primo romanzo di Koontz che ho letto, The Door to December (“Incubi”, 1985) è stato il primo romanzo del Koontz “moderno” a finirmi tra le mani.

Lessi questo libro tra il 2006 e il 2008 (non ricordo bene l'anno), durante gli spostamenti da pendolare in bus quando ancora svolgevo la professione di praticante legale abilitato alle difese. Mi fu prestato da una mia vicina di casa che purtroppo da anni è mancata. Me lo presentò come un romanzo adrenalinico, scritto da una penna alquanto tagliante tanto da insidiare la supremazia di Stephen King. Non mi entusiasmò e lì finì il mio interesse per Koontz, nonostante l'arrivo in uno stock del romanzo Phantoms!. Ho recuperato in rete la mia recensione di allora, datata 2011 e probabilmente ripescata dagli appunti che tenevo su word. Si tratta di un commento breve, non ancora esteso come poi avrei fatto a seguito dell'apertura del blog.

Il romanzo viene importato in Italia nel 1991 dalla Sperling & Kupfer, sei anni dopo la sua uscita in America, quando ormai era chiaro a tutti che dietro gli pseudonimi Richard Paige e Leigh Nichols, nomi sotto i quali era uscito  libro, si celava il bestsellerista Dean R. Koontz. The Door to December viene infatti dato alle stampe sotto pseudonimo, addirittura in due versioni a firma diversa. È una scelta curiosa, visto che all'epoca l'autore era già famoso e aveva appena sfornato col suo nome due pezzi pregiati, quali Phantoms! e Twilight Eyes (“Là Fuori, Nel Buio), apprestandosi a concludere il romanzo fiume Strangers e a dargli seguito con Watchers (“Mostri”). È dunque il Koontz nella migliore forma, eppure questo The Door to December non convince finendo col dividere i fan dell'autore, tra chi apprezza il romanzo e chi lo reputa tra i peggiori del periodo. Non ci sono mezze misure. Lo stesso Koontz, con la scelta di non firmarlo per non inflazionare la propria firma, sembra prenderne le distanze. The Door to December è un page-turner dalla struttura thriller e dai contenuti horror/parapsicologici. Veloce, rapido, con la giusta punta di truculenza e una catena di omicidi misteriosi provocati da una forza sovrumana di natura ectoplasmatica. Proprio questa dicotomia, in altri casi calzante, mina l'esito finale. Koontz conferisce al progetto un taglio whodunit, sebbene sia chiaro fin dall'inizio chi sia l'autore degli omicidi. A tal riguardo sono da segnalare le aspre critiche alla Sperling & Kupfer relative alla decisione di proporre, per la seconda ristampa, una copertina fin troppo rivelatrice.

 La criticatissima copertina della seconda ristampa della Sperling,
accusata di rivelare il colpo di scena finale.

A ogni buon conto, la storia ha un buon inizio, in una piovosa Los Angeles. La polizia ritrova una serie di cadaveri all'interno di un'abitazione e una ragazzina nuda e sola che vaga in mezzo della strada. La piccola è scappata da una casa delle torture gestita direttamente dal padre, di cui non si avevano più notizie da anni. Con l'uomo, un noto psicologo, era scomparsa anche la figlia. Cosa è successo in tutti quegli anni? Koontz lavora sul tema a lui caro degli esperimenti contrari a ogni forma di etica. Nella fattispecie si parla di esperimenti di matrice parapsicologica, con conseguenziale sviluppo di speciali poteri mentali. Si cerca infatti di trovare la via per assumere il pieno controllo dell'inconscio e per ampliare le capacità mentali. Ne deriveranno, come da tradizione per i soggetti legati alla figura dei mad doctor, controindicazioni nefaste. I mezzi per compiere tale studio infatti sono brutali ed estremi, senza alcun rispetto per la persona. Si ricorre all'elettroshock e a un isolamento che rende la piccola protagonista una cavia da laboratorio privata di ogni divertimento. Insomma, siamo dalle parti della “Bottega” di Stephen King (si veda Firestarter), ma con piglio meno fantastico e, per certi versi, più crudele.

La piccola è divenuta autistica, sembra non reagire ai tentativi della madre di recuperarla e di donarle una vita degna di chiamarsi tale. Intanto, mentre la polizia indaga, una serie di ulteriori omicidi cruenti si consumano e colpiscono soggetti a vario titolo legati alla storia di torture che hanno visto vittima la piccola protagonista. Chi sarà l'assassino?

La narrazione è molto scorrevole e asciutta, con poche fronzoli e rare battute d'arresto, tuttavia è penalizzata da uno sviluppo che consuma dopo poche pagine le pallottole a disposizione. La caratterizzazione dei personaggi è poco curata, così come i dialoghi e i personaggi appaiono stereotipati. Koontz sembra non crederci. Pare interessato a fare cassa e a conferire al tutto un ritmo sollecito che incolli alla lettura. Prova a creare suspence e mistery, ma tutto è già chiaro fin dai primi capitoli. I tentativi di mascherare la natura del killer sono destinati a fallire, tanto che la parte finale arriva telefonata, con strizzate d'occhio a film quali Patrick (1978) di Richard Franklin e Aenigma (1987) di Lucio Fulci. Se non ricordo male si parla di psicocinesi, nel solco della tradizione kinghiana avviata da Carrie (1974). Ciò che mi è chiaro è il ricordo di un volume che trovai commerciale e tutt'altro che originale. Evitabile.

 Una delle copertine originali firmate con uno dei due pseudonimi.