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lunedì 19 agosto 2024

Recensione Narrativa: IL TUNNEL DELL'ORRORE di Dean R. Koontz.

Autore: Dean R. Koontz. 
Titolo originale: Funhouse.
Anno: 1981. 
Genere: Drammatico / Horror. 
Editore: Fanucci (1994). 
Pagine: 236. 
Prezzo: Fuori catalogo.
 
Commento a cura di Matteo Mancini.  

L'OPERAZIONE COMMERCIALE

Operazione di marketing orchestrata, dietro altre società, dalla Universal al fine di lanciare l'omonimo film affidato alla regia di Tobe Hooper, il giovane asceso al rango di maestro dopo l'uscita del suo disturbante e malatissimo The Texas Chain Saw Massacre (“Non Aprite quella Porta”, 1974). Siamo nel 1981, Hooper, dopo aver sbagliato qualche pellicola, è reduce dal successo ottenuto con il film tv Salem's Lot (“Le Notti di Salem”, 1979) e si candida per esser uno dei registi rampanti destinati, insieme a John Carpenter, David Cronenberg e George A. Romero, a riscrivere le regole del cinema horror americano. In realtà finirà presto per essere ridimensionato, pur mantenendosi alto nella scala dei valori al fianco dei vari Wes Craven, William Lustig e soprattutto Joe Dante, con cui condividerà l'approdo alle produzioni siglate Steven Spielberg. Dopo Funhouse, infatti,  avrà l'occasione della vita grazie a Poltergeist (1982), uno dei film più maledetti della storia del cinema. La tappa di avvicinamento a Spielberg tuttavia passa proprio da questo film: Funhouse, da noi distribuito col titolo “Il Tunnel dell'Orrore”. Niente di innovativo, sia chiaro. Hooper e lo sceneggiatore Larry Block, che non è il ben più famoso Lawrence Block (wikipedia sbaglia a unire in un'unica voce le due figure), fingono di guardare a Freaks, l'horror di Tod Browning uscito nel 1932. In realtà ripropongono, sotto altra veste, il plot di The Texas Chainsaw Massacre. Quattro teenager allupati e deficenti come lo sono i teenager degli slasher decidono di trascorrere una serata al lunapark. Entrano nell'attrazione denominata “Il Tunnel dell'orrore”, una sorta di casa degli orrori con mostri a molla, pipistrelli finti e paccottiglie varie, e qui assistono a un omicidio perpetrato da un uomo deforme. Ha inizio pertanto il tentativo di fuga per sottrarsi alla minaccia del killer e del padre intenzionati a uccidere scomodi testimoni. Tutto qua. Un po' poco per tirarci fuori un romanzo fedele. Se ne accorge presto Dean R. Koontz, scrittore destinato a diventare un caso letterario con cinquecento milioni di copie vendute. La Universal, tramite la Jove Books, lo contatta e gli mette sul piatto della bilancia quarantamila dollari per scrivere un romanzo su commissione. Si tenta di emulare l'operazione Omen, ovvero scrivere una novelization e farla uscire in contemporanea col film al fine di sfruttarne il successo. 

OWEN WEST: NUOVO MAESTRO DELL'HORROR? 

Koontz, all'epoca conosciuto soprattutto nel campo della fantascienza ma non ancora bestsellerista, accetta il contratto e la proposta di trincerarsi dietro un nuovo pseudonimo. La Jove Books, infatti, vuol pompare la nascita di un nuovo scrittore horror capace di rivaleggiare con Stephen King e Peter Straub. Koontz, che già aveva firmato lavori con lo pseudonimo North, gioca sui punti cardinali e sceglie il nome: Owen West. Si accorge però che il lavoro di Larry Block è piuttosto modesto. C'è una buona idea adatta a un prodotto cinematografico, inscenare uno slasher movie all'interno di un lunapark in un'epoca in cui lo slasher si vedeva soprattutto in campagna o per le vie cittadine (si veda Halloween, di Carpenter, citato da Hooper nella prima sequenza), ma per il resto non c'è niente.

 La copertina originale della prima edizione del libro.

 IL ROMANZO

Koontz si rimbocca le mani e mette molto di suo nella versione romanzata, dando un passato a tutti i protagonisti. Il suo Funhouse è una novelization solo per la sua parte finale. Koontz omaggia i film legati alla figura dell'anticristo, sebbene il film sia prodotto da Steven Bernhardt e non da (come scritto erroneamente da alcuni recensori su internet) Harvey Bernhard che, guarda caso, era il produttore di Omen (“Il Presagio”, 1976). Il prologo del romanzo – del tutto assente nel film – è un chiarissimo rimando al finale del film Rosemary's Baby (1968) di Roman Polanski, che vede Mia Farrow, riluttante, cedere al richiamo di maternità al cospetto di un demone dagli occhi verdi che piange nella sua culla. Koontz parte da qua, lo si capisce subito e lo sottolinea nel corso del romanzo con espliciti rimandi all'anticristo. La sua protagonista, tale Ellen Giavanetto, a differenza della Farrow non cede all'istinto materno ma sopprime il neonato, convinta che in lui alberghi il male. Il prologo è davvero notevole. Sorpresa dal marito (un giostraio), la donna viene malmenata e costretta ad andarsene dal lunapark in cui si è rifugiata per sottrarsi a una madre fanatica. Abbandonata a sé stessa, vaga in una notte di tormenta, battuta dalla pioggia e illuminata dai lampi, impossibilitata a ritornare dai genitori da cui è fuggita (suo figlio cercherà di fare lo stesso in un ciclo che tende a ripetersi). La polizia non viene chiamata e non si vedrà in nessuna parte del romanzo, in ossequio a una giustizia fai da te decisamente brutale. La vita ripartirà altrove, minata dal passato e da un uomo che medita una vendetta malata e allucinata da consumarsi a tempo debito.

Da qui si assiste a uno sbalzo temporale di una ventina di anni. Koontz passa da Polanski a Stephen King e costruisce una caratterizzazione dei personaggi principali che, seppur privata di elementi soprannaturali, guarda a Carrie (1974). Il romanzo infatti ruota su una lunga parte centrale, prettamente drammatica (si parte da un ballo studentesco di fine anno scolastico), che verte sulle pulsioni sessuali dell'adolescenza e di come queste vengano gestite dai ragazzi e dai genitori. La madre della protagonista è la classica integralista religiosa, ma è un'integralista bigotta, che ha una morale tutta sua (probabilmente in una perenne condanna di sé stessa che riflette per interposta persona sui figli). Predica, legge la Bibbia, prega tutte le sere, impone ai figli di seguirne l'esempio, ma beve come una spugna (si noti il parallelismo creato da Koontz tra ubriachezza da alcolici e ubriachezza da fanatismo religioso), è violenta e si è macchiata di infanticidio. Koontz è molto coraggioso, specie se si considera che siamo nell'ambito di un'opera che nasce come operazione commerciale e dunque dovrebbe cercare di ingraziarsi le masse (Koontz non lo fa). Prende posizione in modo violento sul delicatissimo tema dell'aborto (che giustifica addirittura ben oltre i periodi di tempo che oggi definiremmo legali), si vedano a proposito di King le premesse di Insomnia (1994) giusto per comprendere le dimensioni della questione; arriva poi a proporre un'analisi sulla dicotomia tra libertà sessuale e monogamia senza tuttavia schierarsi sul punto (si badi però il parallelismo tra peccato e inferno e i rimandi a Vegas, dove rischia di finire la protagonista stimolata da un'amica tentatrice). Ho letto da alcune parti che il personaggio di Liz, l'amica libertina, sarebbe troppo irreale per come si esprime (volgare), in realtà, invece, lo trovo molto pertinente con quanto si vede in giro, specie oggi, dove si passa da un fidanzamento all'altro in quella modalità definita "tromba-amici". Koontz la usa per finalità narrativa e quando troverà la morte per la via sessuale non sarà poi così preoccupata.

Il lavoro di Koontz trova dunque il suo punto di forza nella caratterizzazione dei personaggi. Ognuno di essi è definito. C'è la madre bigotta ma alcolizzata, c'è l'adolescente che non sa ancora chi è (ma di certo “le piace il salame”), c'è la sgualdrina ninfomane versione Lucignola che ambisce a diventare escort, c'è il genio che per il pelo finisce sulla cattiva strada, c'è il ragazzino a cui vengono distrutti i sogni dell'infanzia perché secondo la madre dovrebbe crescere e c'è, infine, un uomo annebbiato dalla rabbia che sposa la causa del satanismo perdendo il contatto dalla realtà. I fanatismi, dunque, come causa dei mali. Koontz propone tematiche tipiche dello slasher, ma conferisce al tutto una dimensione psicologica che il film di Hooper neppur si sogna. Purtroppo non è tutto oro quel che luccica. La storia ha vuoti narrativi (che fine fa Ellen Harper dopo che i figli sono andati al lunapark?) e un'impostazione fin troppo cinematografica. Non si indaga, dal punto di vista poliziesco, la componente dei delitti, dando così vita a un dramma dai contenuti horror dove l'orrore, prettamente terrestre, non è preponderante rispetto ai dialoghi e alle pulsioni adolescenziali.

Spicca l'ambientazione all'interno del lunapark. Koontz, cultore dell'argomento, propone attrazioni su attrazioni, mostra come venga smontato e poi riproposto altrove un lunapark itinerante, ma tralascia di interessarsi all'intreccio thrilling. Potremmo infatti definire il romanzo una revenge story vista dalla parte dei cattivi, con struttura corale. Non vi sono misteri. Inoltre abbiamo il messaggio pericoloso – che arriva da Hooper - di proporre il diverso come mostro. L'assassino è infatti un freak incapace di vivere la sua dimensione sessuale (Freud docet), perché schifato da tutti e soprattutto tutte tanto da andare in giro mascherato. Sfogherà una violenza barbarica e animalesca, dovuta all'incapacità di gestire le vittime. Gli amplessi sono bestiali e vengono protetti da un padre a sua volta turbato da un passato nefasto.

L'epilogo, ripreso dal film, è frettoloso, specie se lo si compara all'attenzione centrale che Koontz dedica all'aborto, alle pulsioni sessuali (si arriva a proporre rapporti orgiastici e saffici) e al concetto di brava ragazza. Nel complesso però Funhouse, pur non essendo un caposaldo nella narrativa di un autore che poi scalerà le classifiche, è un pulp con elementi di interesse. Appena uscito in America, vendette in tre settimane un milione di copie salvo poi subire l'inatteso effetto contrario dovuto all'uscita del film di Hooper ed essere archiviato nel dimenticatoio. La pellicola, a causa di problemi di montaggio, apparve infatti nei cinema tre settimane dopo l'uscita del libro. Le attese degli spettatori erano così alte che finirono per lasciarli delusi. Un rigetto generalizzato che pregiudicò il buon esito del lavoro di Koontz. Il “nostro”, dopo aver pubblicato il romanzo “The Mask” (1981), decise di porre fine all'esperimento Owen West. Scrisse: “è morto tragicamente, calpestato da un bue muschiato in Birmania mentre era alla ricerca di materiale per un romanzo su una gigantesca papera preistorica che aveva provvisoriamente intitolato Quackzilla”.

Fine della storia. Il romanzo giunse in Italia tredici anni dopo, nel 1994, importato dalla Fanucci Editore, senza entrare nelle top ten stilate dai lettori di Koontz. Lo stesso autore ammetterà di non aver scritto un romanzo ai livelli di Watchers (“Mostri”) e Hideaway (“Cuore Nero”), pur reputandolo “buono quanto alcuni e forse meglio di altri”. Siamo d'accordo, eppure c'è del buono. In primis è un Koontz atipico, totalmente privato da contenuti parapsicologici, intrighi di potere e fantascienza. C'è il tema della mutazione genetica (che non viene spiegata ma viene vista dall'antagonista come una benedizione del maligno) e c'è la dimensione psicologica degli abusi dei genitori a danno dei figli (tema caro a Koontz, che è passato da un simile passato). Funhouse è dunque un romanzo con molte luci (il prologo, la caratterizzazione dei personaggi, le scenografie al lunapark) e qualche ombra (troppa insistenza sui dialoghi legati alla liberalizzazione sessuale, la parte sull'aborto che, forse, si poteva tagliare a beneficio di una trama poliziesca, i vuoti narrativi). Non manca il grandguignol (teste decapitate, animali deformi, freak messi in bella mostra per divertire il pubblico), seppur limitato ad alcune scene. Devo comunque ammettere che, nonostante le apparenze, Funhouse non è un romanzo di esclusivo intrattenimento, ma ha un substrato che induce a riflettere (si vedano non solo i temi scottanti affrontati, ma anche il modo con cui i ragazzetti dileggiano i diversi). La lettura è molto scorrevole. Epilogo frettoloso con rimandi alla divina provvidenza che ricordano certi romanzi di King, tipo Needful Things (“Cose Preziose”, 1991). Lettura comunque interessante, in puro stile anni ottanta.

La locandina del film.

"L'inferno era un luogo dove i peccatori venivano ricompensati per i loro peccati; era, sotto tutti gli aspetti, il luogo dei loro sogni. Inoltre, nell'inferno non esisteva una cosa come il rimorso. Nell'inferno non esisteva il peccato."

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