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venerdì 20 novembre 2015

Recensione Saggi: SUITE 200 di Giorgio Terruzzi.



Autore: Giorgio Terruzzi.
Sottotitolo: L'Ultima Notte di Ayrton Senna.
Premi vinti: Vincitore Bancarella Sport 2015
Genere: Sport.
Anno: 2014.
Editore: 66thand2nd.
Pagine: 136.
Prezzo: 15 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Acquistato all'ultimo Pisa Bookfestival, il sei novembre per la precisione, e letto tutto d'un fiato. Cronistoria in salsa romanzo di un week-end dannato vissuto in Italia, anche se per rappresentanza di San Marino, prima dagli sportivi e poi da un'intera nazione ma anche, soprattutto, dal mondo intero. Il mondo dei motori e, ancor di più, di quello toccato dall'onda mass mediatica, una frustata di tristezza e di durezza da frantumare il mito dell'immortalità di certe leggende sportive viste alla stregua di eroi del nuovo millennio. Giorgio Terruzzi, volto noto della televisione e della carta stampata, scrive un libro che non avrebbe mai voluto scrivere, vuoi per le sensazioni vissute in pista quel fine settimana, vuoi per l'amicizia che lo legava ad Ayrton Senna, vuoi, perché no, per una sensazione sinistra che spinge i maghi della penna a non scriverle mai certe storie. Un sogno, così svela alle interviste, a fargli cambiare idea; una premonizione o, chissà, la voglia recondita di donare ai posteri il ricordo di chi certe storie le ha viste svilupparsi sotto i propri occhi, come uno spettatore pagante di uno spettacolo che risponde agli ordini di un regista occulto; un potente burattinaio chiamato a sviluppare il copione vergato da uno sceneggiatore celato dalle nubi, in quelle coltri grigiastre portatrici di un'acqua, la stessa, che rivelò Senna al mondo intero, quello ozioso, quello che vede solo gli apici di un certo sport, poco interessandosi delle categorie inferiori dove i campioni si forgiano, crescono e alla fine compiono imprese nel teatro destinato ai grandi attori.

Giorgio Terruzzi, un nome che sarà conosciuto ai più, di certo agli appassionati del mondo dei motori e del rugby. Laureato con una tesi su Brook, regista tra l'altro di Lord of the Flies dall'omonimo romanzo di Golding, ha pubblicato una dozzina di libri, tra i quali Curva Cieca (1991, dedicato alla vita dell'asso del volante Achille Varzi), il recente Grazie Valentino (2015, su Rossi), ma anche il burlonesco Se l'Ammazzi fai Pari (966 battute sul mondo dello sport, per Zelig Editore) che fa un po' il verso alla battuta detta da Tomas Milian a un allievo di Bombolo in Delitto sull'Autostrada, ironia della sorte, quasi a voler chiamare in causa Milanismi scritto da Terruzzi, in simbiosi con Abatantuono, per la Mondadori nel 2005 con l'attore di Regalo di Natale immortalato in copertina come la matrice di tutte le disgrazie di quel Faust a cui Brook, il Peter di cui alla tesi di Terruzzi, ha dedicato il suo debutto nel mondo del teatro nel 1942, portando in scena a Londra Doctor Faustus.
I più, però, conosceranno Terruzzi per la sua vivida presenza nel mondo delle corse e della tv. Capello lungo alla Merzario del giornalismo o forse, senza voler stimolare i pruriti o i calci di certi giornalisti, alla Paolini, personaggio immortalato, sì, dalle telecamere, ma senza la volontà degli operatori per nulla felici, anzi stizziti e a volte imbufaliti. Direttore, fino a qualche tempo fa, di Sport-Mediaset, responsabile della rubrica motori (indimenticabili e imperdibili le sue pagelle sopra le righe alla fine di ogni GP), cronista a modo suo, divertente e divertito, tanto da render piacevole anche la cronaca di GP responsabili di aver ampliato i casi di narcolessia in giro per il mondo. Collaboratore per testate quali Corriere della Sera, addirittura capo redattore di Matrix, lo storico programma ideato da Enrico Mentana, ma soprattutto voce auterevole e autoriale con toni da Meda garbato, ma comunque votato alla spettacolarizzazione dei tratti di penna al fine di render spassosa la lettura o l'ascolto quasi come se fosse una componente pertinenziale, ma non per questo di minor interesse, del tema trattato, che è sempre e solo, la cronaca, le imprese e le vittorie di altri, campioni irraggiungibili baciati da un tocco che ha un che di divino, trascendentale, potremmo dire addirrittura eroico. Gesta e manovre quasi cinematografiche da rileggere sotto una lente all'apparenza deformante che le rende però vivide, viventi con evoluzioni da tragedia greca e, perché no, da opera letteraria. Poco importa poi se nominalmente ha sceneggiato un film intitolato Asini, divertente commedia interpretata da Claudio Bisio, poiché le sue opere sono contenutisticamente parlando dei cavalli di razza, come indica quel cavallino a cui Terruzzi ha dedicato il documentario Ferrari 100.

L'autore GIORGIO TERRUZZI.

Suite 200, un titolo che non è in relazione col 100 Ferrari, piuttosto con la camera di un hotel di Castel San Pietro, in cui il tre volte campione del mondo di F1, Ayrton Senna, era solito pernottare in occasione dei gran premi di San Marino, disputati a Imola, provincia di Bologna, per indisponibilità di piste regolamentari all'interno dei territori del piccolo stato, una fortezza storica inglobata nella nostra penisola dopo l'unione di Italia. Un volume che si apre proprio laggiù, nel 1994, su quel tracciato maledetto da un oscuro destino favorito da modifiche poco calibrate di regolamenti, da auto di sviluppi prestazionali troppo esasperati e per nulla parametrati alla sicurezza garantita da vie di fuga e da scocche dimostratesi cedevoli.
L'autore, Giorgio Terruzzi, sceglie, intelligentemente, di raccontare i fatti con piglio più da scrittore che da giornalista. Stile scorrevole, a tratti verboso, ma alla fine appagante, non dico spassoso perché il testo è triste, melanconico, per lunghi tratti tale da far sorgere la voglia di abbracciare questo campione all'apparenza indistruttibile, tutto solo nella sua camera d'albergo, in compagnia di un animo martoriato dall'esigenza di voler regalare ai più deboli un'emozione da tradursi poi in aiuti concreti; ma soprattutto ferito da un carattere schivo, affamato di corse tanto da divorare la vita privata, le relazioni, i rapporti umani anche a causa di una famiglia iperprotettiva, di un padre emerso dalla povertà grazie a oculate scelte imprenditoriali e portato a guidare la vita del figlio, troppo ribelle però da sottostare a una vita senza competizioni, senza corse, senza il brivido della velocità, ma incapace di ribellarsi del tutto.

Il volume offre uno squarcio quasi inedito sulla vita di Senna. In virtù di oculati flashback, Terruzzi immagina l'ultima notte passata da Senna, alla vigilia del gran premio di Imola, già funestato dal grave incidente occorso a Rubens Barrichello nelle prove libere (qui inizia il volume) ma, in modo particolare, dalla morte di Roland Ratzenberger (Terruzzi offre qualche cenno e ricordo di quanto vide in pista quel giorno), a dodici anni esatti di distanza dagli ultimi decessi in pista corrispondenti ai nomi di Gilles Villeneuve e Riccardo Paletti. Poco lo spazio lasciato alle cronace delle imprese sportive, giusto degli schizzi essenziali, imprescindibili per proseguire la narrazione. A Terruzzi interessa parlare del lato umano e sentimentale del pilota, parla di come è sorta la sua voglia di correre, delle sue prime gare in categoria go kart e soprattutto parla dei suoi amori costantemente osteggiati dalla famiglia, del matrimonio fallito per responsabilità attribuibile allo stesso Senna, troppo giovane e poco disposto a dividersi tra lavoro e casa, dell'attaccamento morboso e visionario alla religione, fede evangelica per la precisione, del desiderio di donarsi agli altri nella vita comune senza però sconti in pista. Una voracità e una ferocia ai limiti della correttezza, talmente forti da spingerlo a cacciare fuori pista Alain Prost, l'acerrimo rivale, in modo deliberato qualcuno affermò criminale, per vendetta, nel famoso gran premio del Giappone; teatro eletto per la risoluzione dei conflitti tra i due, già tutto esaurito un anno prima, con l'idea di trovarsi al Madison Square Garden o più semplicemente, data la materia prima, al luna park, specialità auto-scontro. Terruzzi parla di tutto questo immaginando un Senna riflessivo, incapace di dormire nella sua suite 200, a meditare sulla sua vita, sulle recenti tragedie, ma pure su quelle passate, con un ricordo molto particolare per il piccolo aviatore, conosciuto anche come il fantino, Gilles Villeneuve. Un bilancio del tempo che è stato, uno stimolo da tradursi in trampolino verso il futuro, magari aperto a una famiglia tutta sua, condizione imprescindibile alla nascita di un figlio, e perché no allargata, tanto da tradursi in impegno in politica, di certo nel sociale data l'idea concreta (e realizzata post mortem) di dar vita a una fondazione finalizzata ad aiutare i più bisognosi. Così scrive Terruzzi: "Un trionfo motoristico pagato cifre esorbitanti. Mascherato dalla consapevolezza di essere Ayrton Senna. Un'iradiddio. Un fenomeno. Ma anche una figura fastidiosa. Per chi faceva il suo stesso mestiere senza dubbio. Per chi faceva il suo stesso mestiere ed era brasiliano ancor di più. I colpi bassi in pista se li aspettava e li dava".

Terruzzi regala ai suoi lettori anche spezzoni piuttosto delicati, come il tentativo della famiglia di mettere in guardia Ayrton circa il suo ultimo amore, motivazione capace di spingere il fratello a registrare, per conto del padre, le telefonate tra la ragazza e il suo precedente findanzato e andare a sbandierare il tutto a Ayrton, proprio alla vigilia della sua ultima gara. Molte pagine sono poi dedicate alle cattiverie di Nelson Piquet, campione connazionale adombrato dalla lucentezza del nuovo arrivato, che giunse a spargere la voce che Senna fosse omossessuale, con tutta una serie di conseguenze per il giovane pilota emergente, sempre solo, riservatissimo e senza distrazioni, visto come soggetto un po' strano, al punto da alimentare certe voci e darne quasi conferma indiretta. In realtà, come spiega l'autore, "delle ragazze che circondavano quel mondo, del resto, non si curava affatto... E l'idea di consumare rapporti frettolosi, occasionali, superficiali, aggiungeva malinconia su malinconia. Era diverso dai suoi colleghi. Era diverso nel profondo, diverso si sentiva, voleva essere, preso da una missione personale che manteneva a distanza una quantità di accessori".

Scopriamo poi, ma già lo sapevamo, l'attaccamento mostruoso di Senna nel lavoro, nella cura nel dettaglio così precisa e marcata da sorprendere ed esaltare gli ingegneri giapponesi, per i quali era un monaco, un asceta, assettato e dispensatore di conoscenza, quasi più preciso dei computer, di certo più veloce nel dare informazioni di qualunque altro avessero conosciuto. Merito di Senna, merito in parte del suo preparatore Nuno Cobra, un maestro nel distillargli consigli di gestione mentale che il pilota esasperava guidando in stato di trance, in quella che Terruzzi chiama "esperienza mistica". Non costituiscono mistero certe rivelazioni di Ayrton che sosteneva di guidare vedendo accanto a sé Dio, tanto da suscitare ilarità nei giornalisti che lo deridevano e lo consideravano, bravo sì, ma normale poco, forse addirittura pazzo, comunque ai limiti del disturbo psichico.

Seguono i contrasti con Prost e col presidente della FIA, il francese Balestre, il rischio di esser estromesso dal campionato mondiale, la costrizione di inviare una lettera di scuse alla federazione, fino all'ottimo rapporto con lo scudiero Gherard Berger e alla decisione di lasciare la McLaren, con le difficoltà, a generare rimpianti, in casa Williams al cospetto di un astro nascente che di nome faceva Michael Schumacher.

Dunque un gran bel testo che ha regalato a Terruzzi la soddisfazione di vincere il Bancarella Sport 2015, pur se in ex aequo, ma soprattutto di gettare luce su aspetti di Senna meno trattati. Più spazio alla componente emotiva, sentimentale, vuoi introspettiva, piuttosto che ai risultati in pista, apprezzabili da qualsiasi storico e lettore di ordini arrivo, il tutto narrato prendendo come riferimento l'infausto week-end di Imola a plasmare un saggio mascherato da romanzo costruito sulla cronaca vera. Imperdibile per un amante del genere.

Cosa aggiungere su Senna... Posso solo dire che ricordo perfettamente quel giorno, all'epoca ero tifoso di Mika Hakkinen e Bertrand Gachot, con quest'ultimo che si era qualificato con la pessima Pacific-Ilmor. Ricordo quel movimento del casco di Senna, impercettibile ma evidente, che fece pensare anche a me che il sinistro poi non fosse così grave. Poi però il resto... il continuo premere sui bottoni del telecomando per leggere gli aggiornamenti su Televideo. La passeggiata a piedi per Tirrenia, alla fiera che si celebra ogni anno nel mio paese per il primo maggio, le voci che serpeggiavano, infine il triste annuncio. L'indomani le rivelazioni di un mio compagno di giochi di allora, non avevo ancora tredici anni, che mi riferì di esser stato presente in pista il giorno dell'incidente mortale di Ratzenberger, di non aver visto niente, ma di aver udito un tonfo terribile, fortissimo da sovrastare tutto e tutti. Ricordo che comprai anche Autosprint, ma chissà dove sia finita quella copia.

Ricordare Senna come pilota, penso che niente sia più preciso e adeguato del giudizio espresso da Alex Zanardi nell'ottima collana edita dalla Gazzetta dello Sport intitolata I Miti della F1 ai Raggi X: "Ayrton è stato un grande professionista. Secondo me più per vocazione che per dedizione... Grande comunicatore, tutto poggiava su un talento di quelli mai visti, pazzesco, e un carisma che alla fine ha spinto tanti appassionati a battezzarlo come il più grande di tutti i tempi... Un'altra sua dote immensa era la fantasia, la capacità di farsi venire in mente mosse decisive in porzioni di tempo inarrivabili per i suoi rivali... E' stato il pilota che nella sua epoca ha riscritto le regole del gioco e chi ha voluto avvicinarlo ha dovuto usare le sue... Il suo difetto più grande era quello di quasi tutti gli sportivi di alto livello: lo sport per me è una forma d'arte e i campioni tendono a essere un po' narcisi. Lui lo era... A lui non piaceva vincere, piaceva dominare."

AYRTON SENNA 
in un momento di riflessione religiosa.

venerdì 13 novembre 2015

Recensione Saggi: SFIDE di Simona Ercolani.




Autore: Simona Ercolani.
Sottotitolo: Lo sport come non l'avete letto.
Genere: Sport.
Anno: 2006
Editore: Rizzoli.
Pagine: 262.
Prezzo: 16 euro.

Commento di Matteo Mancini.
"Io, io posso ricordare (mi ricordo). In piedi accanto al Muro (accanto al Muro) e i fucili spararono sopra le nostre teste (sopra le nostre teste) e ci baciammo, come se niente potesse accadere (niente potesse accadere) E la vergogna era dall'altra parte. 
Oh possiamo batterli, ancora e per sempre allora potremmo essere Eroi,anche solo per un giorno."

Al suono di queste parole, intonate da un cantante in vena di cover del famoso brano Heroes di David Bowie, inizierebbe una delle tante splendide puntate griffate Sfide, storico programma RAI ideato da Simona Ercolani nel lontano 1998 e premiato nel 2001 col Premio Ennio Flaiano quale miglior programma televisivo dell'anno. La produttrice televisiva Ercolani, romana classe '63, conosciuta per aver ideato molteplici format di successo e lanciata da trasmissioni quali Storie Vere e Chi l'ha Visto?, tenta di trasferire su carta venti appassionanti storie di altrettanti sportivi provenienti da svariati sport. Largo spazio al calcio con sette storie, ma anche al pugilato, basket, ciclismo, F1, motociclismo, sci, nuoto, atletica leggera e ginnastica artistica. Visione pertanto molto ampia, mancano storie relative agli sport tipicamente americani, al rugby e all'ippica, per il resto c'è un po' di tutto.

Molte delle pagine costituiscono il testo utilizzato per i servizi del programma televisivo, altre non saprei. La Ercolani opta per storie concentrate su personaggi meno noti rispetto ai tradizionali catalizzatori delle puntate tv, anche se si racconta di personaggi famosi come Roberto Baggio o Jacques Anquetil.
Lo stile è veloce, a differenza del successivo L'Importante è Perdere di Nicola Roggero, la Ercolani presenta le varie storie dalla viva voce dei diretti protagonisti che parlano della loro carriera o rammentano un episodio speciale che li ha visti protagonisti. Storie diverse tra loro. Recuperi da infortuni giudicati inguaribili (Roberto Baggio e Damiano Tommasi) e altri che invece pongono fine a una carriera (il tendine d'achille del ginnasta Menichelli), rivoluzionari che hanno fatto la storia di un dato sport creando un nuovo stile o una nuova tecnica (il salto in alto di Dick Fosbury), eroi di una serata (i portieri Francesco Toldo e Helmut Ducadam ipnotizzatori di giocatori chiamati a calciare i rigori), campioni limitati dal fatto di aver incontrato un rivale imbattibile sul proprio cammino (Vigneron al cospetto di Bubka), drammi sportivi che si traformano in tregedie (la paralisi di Slobodan Jankovic dovuta a una reazione di pura follia per un errore arbitrale) o l'impresa di una squadra di calcio di dilettanti capace di arrivare in finale di coppa di Francia (il miracolo del Calais), la vita privata da scandalo rosa ai limiti dell'incesto del cinque volte vincitore del tour de france Jacques Anquetil o il racconto della prima conquista dlla medaglia d'oro olimpica da parte di una donna italiana (Ondina Valla). Dunque racconti di trionfi, di record inattesi (a esempio quello sui 200 metri in stile libero marcato da Giorgio Lamberti), di incredibili sconfitte agli ultimi metri (incredibile secondo posto in una corsa valevole per l'iride del ciclista Franco Bitossi bruciato a dieci metri dall'arrivo), di personaggi che passano dallo sport al mondo del cinema (lo sciatore Toni Sailer che diviene attore e poi cantante) o di altri che finiranno con l'ispirare immortali personaggi cinematografici quali Rocky Balboa (ideato da Sylvester Stallone dopo aver ammirato il combattimento tra Muhammad Alì e il rozzo Chuck Wepner, un pugile capace di esibirsi in combattimenti contro wrestler o orsi), persino la storia che portò alla ideazione della muta della nazionale del Brasile calcio dopo la cocente sconfitta nella finale dei mondiali di casa. Ascese e perdizioni, sorprese e conferme, ma anche trionfi e sconfitte nella classica alternanza tipica della crudeltà che governa la legge dello sport. Gioia e dolori, vittoria e rimpianto.

Quale è il senso di queste storie, la ragione per cui è interessante leggere un volume come questo? Forse ce lo rende esplicito il ginnasta Franco Menichelli che, quando pensa ai suoi trionfi, spiega: "Ma davvero qualche bambino avrebbe sognato ascoltando la mia storia prima di addormentarsi? Volevo diventare una fiaba olimpica." Dunque lo sport come metafora per far sognare, ma non tanto per la sensazione di essere i migliori ma quella di regalare stupore e spettacolo. E a proposito di fiabe olimpiche e de L'Importante è Perdere, volume gemello e successivo a questo Sfide, mi piace sottolineare il ricordo di Menichelli dell'Olimpiade di Città del Messico del 1968 dove partecipò nonostante un'infammazione tendinea a rischio di infortunarsi sul campo di gara (come poi avvenne). Si tratta del ricordo di un atleta tanzaniano, reputato da alcune fonti come "il miglior ultimo della storia", impegnato nella maratona di quella edizione. Una prova, la sua, da cui trasuda il vero senso dello sport e oltre a questo della vita: "Juan Esteban Acquari (nel volume c'è un errore trattandosi invece di John Stephen Akhwari, n.d.r.) si fa male alla gamba destra durante la maratona e sono 42 chilometri e passa di sofferenza. E' buio, una macchina lo segue facendo luce con i fari. Lui non molla, si trascina sulla gamba buona. Entra nello stadio che ormai è notte fonda. Zoppicando si porta fino al traguardo. Non c'è più nessuno. Solo un oscuro giudice annoterà il suo tempo, riporrà la penna e tornerà a casa. Lo sport è questo o meglio non sarebbe quello che è se non ci fosse anche questo!" Commento giustissimo quello di Menichelli, esaltato dai racconti che hanno reso il gesto di Akhwari addirittura più famoso dello sforzo di chi quella maratona l'ha vinta. Questo perché il pubblico si immedesima, vive le sofferenze degli atleti, familiarizza con le difficoltà e premia l'attaccamento alla maglia, l'impegno, la voglia di battere tutto e tutti, a partire dallo sfinimento fisico e dalle avversità di qualunque specie esse siano. Questo rende "eroico" un atleta, quel concetto cantato dalla canzone di Bowie, e non l'esito del risultato finale. Ed è questo che rende umani e più terrestri certi atleti, poiché si può essere campioni anche se non si è stati baciati da dea natura. In altre parole, si può anche arrivare ultimi, come spiegherà Roggero e come anticipa qua la Ercolani col filtro del ricordo di Menichelli, ed essere dei vincenti e con la propria impresa sconfiggere il velo oscuro fatto calare dal decorrere degli anni.

L'ULTIMO CLASSIFICATO DELLA MARATONA
DELLE OLIMPIADI DEL 1968
EPPURE è DIVENTATO EROE PER LA VOLONTà
DI ULTIMARE IL PERCORSO A OGNI COSTO
NEL RISPETTO DELLO SPIRITO OLIMPICO
JOHN STEPHEN AKHWARI.

Questo in breve il contenuto del volume che purtroppo appare fuori catalogo, ma che non può mancare nella biblioteca di ogni amante di sport. Lettura veloce, appassionante e appassionata. Faccio notare, mestamente, come non siano molte le antologie di questo tipo, volumi la cui uscita non può che far bene allo sport e contribuire ad ampliare la cultura sportiva di molti appassionati troppo spesso confinata a una manciata di discipline. La stessa Simona Ercolani non ha dato alle stampe nessun altro volume, restando quindi limitata a questa uscita che ormai compierà dieci anni nei prossimi mesi. Peccato, si dovrebbe incentivare la pubblicazione di testi di questo tipo. Consigliato.

Così l'autrice presenta il suo volume: "Se vi hanno insegnato che nello sport l'importante è partecipare, siete fuori strada. Se credete che vincere sia tutto, non avete capito nulla. Nello sport quello che conta è andare avanti e - quando capita - saper perdere con stile. E i protagonisti di questo libro lo sanno benissimo..."

SIMONA ERCOLANI

"I fischi divennero la colonna sonora di ogni mia prestazione. io, però, non li vivevo in maniera traumatica. Quando sei consapevole di dare il massimo e di fare del tuo meglio accetti tutto più serenamente. L'importante è trovare la propria strada e percorrerla con decisione, senza risparmiarsi. Io credo che ognuno di noi sia quello che fa: per questo ogni cosa va fatta nel miglior modo possibie" (Damiano Tommasi).

"Nel tour del '62 Anquetil indossa la maglia gialla il primo giorno e la conserva per tutta la durata della corsa... Eppure in fondo a quel Tour lo accolgono i fischi dei francesi. Non ho mai capito cosa gli rimproverassero. Jacques risponde con ironia: si compra una barca e la chiama SIFFLET (FISCHIETTO)"

martedì 6 ottobre 2015

Omaggio BRUCE GROBBELAAR nel giorno del Compleanno


In occasione del 58° compleanno di Bruce Grobbelaar, portiere epico per il blog, veniamo a stendere questo articolo biografia con verve simpatica, consigliando l'acquisto del volume Portieri Figli di Puttana di Fausto Bagattini, molto divertente e imperdibile per i portieri e gli sportivi in generale, specie se appassionati di calcio. Nei prossimi mesi lo recensiremo, intanto lo omaggiamo come fonte di ispirazione per questo articolo che invece è opera del sottoscritto Matteo Mancini, autore, tra gli altri, dei volumi Spaghetti Western.

DUE STERLINE VINCENTE PER UNA QUOTA ASTRONOMICA: CHIEDERE AL WHITECAPS

A cura di Matteo Mancini.

Due Sterline per Bruce
(Foto da Telegraph.co.uk)

Quando Bruce Grobbelaar inizia a giocare a calcio, da portiere, nella sua città di Durban, Sud Africa, lo prendono per una pippa. Arriva dal cricket e dopo dal baseball. C'è già chi scommette in una gloriosa carriera con berretto e mazza, ma hanno torto, perché si appassiona al calcio. Si mette a fare il portiere perché quei venti che corrono dietro a una palla gli sembrano un branco di matti. Tutti ad affannarsi per oltre cento metri, quando poi la palla ti arriva in mano senza fare tanti affanni, semplicemente te la fanno arrivare quegli altri, un po' come diceva un detective di un famoso romanzo di Leroux, addirittura chi ti gioca contro. Vi pare da persone intelligenti affaticarsi tanto? A noi ci pare di no e la pensiamo come Bruce che infatti dice: "Ero più sveglio io o loro? Oggi uno sveglio è Buffon!" Meglio allora fare i portieri, solo che gli altri non capiscono, sennò non erano matti. Così commenta Fausto Bagattini, autore del libro indicato in premessa: "Se ne va dalla sua città sbattendo la porta" (che evidentemente era aperta, se non l'avessero aperta non l'avrebbe sbattuta, come direbbe un appassionato di sofistica n.d.r.). "Accusa i dirigenti di razzismo verso i bianchi, in un'epoca di pieno apartheid contro i neri!!!" Con Bruce... ne succedono di tutti colori, è il fascino dei portieri. E cosa fa lui...? Si arruola come mercenario nella GUARDIA RHODESIANA, nel 1977. Manco fosse un garibaldino dell'emisfero australe, prende parte alla guerra civile che culminerà con la vittoria delle truppe di Mugabe che, come direbbe Rod Steiger in Giù la Testa, si finge un benefattore e poi invece è un dittatore di prima categoria. Bruce allora fa come Coburn, butterà via i manuali, e riassumerà l'esperienza con una parola: "Terrificante". Del resto di Leoni, lui, ne aveva visti parecchi... e anche assai aggressivi. Butta via la divisa della blasonatissima Guardia della Rhodesia, che poi assumerà il più appropriato nome di Zimbawe, e si rimette a giocare, lui che in vecchiaia sarà uno a cui Bukowski avrebbe fatto fare una caricatura per attaccarsela in camera da letto con la scritta "Storie di Ordinaria Follia" al posto dei diritti d'autore.
Grobbelaar è uno che prende la vita con un alto tasso di ironia, proprio perché ha visto e conosce l'altro lato della medaglia. Ha visto la morte in faccia e le ha detto: "Sei decisamente poco attraente, senza offesa, a me piacciono più in carne...". Siccome ce l'avevano con i bianchi, quando giocava, nel 1979 si fa ingaggiare dal WHITECAPS, una squadra dietro l'angolo... Fa infatti un salto a VANCOUVER, in Canada, dove, ad allenarlo, c'è un personaggio a tema per le pronunce italiane: Waite(rs). Certo... e chi ci volevate mettere? Bruce, prima di firmare chiede conferme, potrebbe essere lecito pensare: "Ma è proprio tutto white, white, qua?" Certamente, gli viene assicurato, le cose vanno fatte bene, altrimenti Bruce è bello e che venuto anche perché, poco sotto, c'era pure Lee che stava a Seattle, Washington... ma no dove c'è la casa bianca, ironia della sorte e nemmeno quella Nera che invece è prerogativa di Craven e non di Hooper, come vedremo! Invece ecco che Waite(rs), nonostante il nome, è scuola Blackpool e faceva pure lui il portiere, per giunta della nazionale. Insomma, il primo che passava per strada, ironia della sorte... il peggior giudice che ti poteva capitare, un pari grado! Insomma, il ragazzo non gioca male, ma nemmeno da strapparsi i capelli... Debutta contro la squadra dell'altro Bruce, il Seattle Sounders, e comincia a lasciar trapelare delle buone impressioni. Siccome gli inglesi hanno un certo Humor, visto che il giocatore disputa il campionato nel lontano far west, i primi che se ne accorgono sono quelli del West Albion che lo vorrebbero pure ingaggiare, ma non gli viene concesso il permesso di soggiorno. Con quella faccia qualcuno, forse, non è poi convinto che si metta a giocare a pallone. «O chi è lu' lì?» Ma siccome gli inglesi hanno inventato la Zuppa Inglese, per gli amanti del Piccolo Diavolo, qualcuno ci vede una certa crema, anche perché vuoi vedere che i red devils... del resto la crema, notoriamente, è un colore tendente al...? Si, certo. E lo mandano al CREWE ALEXANDRA, lo Chantilly sarebbe stato troppo Anglaise. E cosa fai lui? RIGORI... realizza dal dischetto una rete, piazzando una palla nell'angolino con il portiere avversario che sul momento sembra perdere tutti i capelli... manco fosse Polonio. Siccome aveva debuttato contro i Sounders un certo Saunders pensa bene che è meglio non avercelo contro e lo segnala proprio ai Red Devils, tutto come programma. Quelli del LIVERPOOL, un po' leghornizzandosi, dicono: «Boia deh, guarda questo vì che lavori...? Ma di chi è?» Scoprono così che è tesserato per una squadra canadese che lo ha mandato in prestito in Inghilterra... Pazzesco, caso quasi unico visto che di solito avviene l'opposto. E dicono: «Mah, buttiamoci un paio di sterline, tanto per quel che costa...» L'allenatore Waite(rs) dei Whitecaps, quando glielo dicono, strabuzza gli occhi e dice: «Chi lo vuole? Il Liverpool...? Mandateglielo subito, guarda che incompententi che sono diventati in Inghilterrra... Grobbelaar al Liverpool» e giù con le risate.
Bruce sbarca dai Reds e lo mettono in panchina, ma proprio perché c'è della clemenza visto che in porta c'è RAY CLEMENCE, altrimenti lo avrebbero mandato in tribuna dicendogli: «Ma hai notato per chi sei tesserato?» Alla fine però Clemence lo mandano dagli speroni... uno così clemente senza speroni vincerebbe forse poco. E così con Clemence al Tottenham, Grobbelaar viene buttato nella mischia, manco fosse Soviero. Stile aggressivo, gli piace uscire in anticipo sugli avversari, è molto dinamico, agile e non male con i piedi. La sua logica è quella di prevenire i pericoli prima che si creeino, limitando le capacità di ragionamento dell'avversario. Un cocktail di genio e sregolatezza, ma soprattutto di schiuma di idiozia finalizzata però al disorientamento di chi vorrebbe bucarlo al fine di anticiparne le azioni. Quando la palla vaga per la sua trequarti i tifosi hanno le palpitazioni, con uno così... può succedere di tutto, di certo non ci si annoia. Così Bagattini: "Inizia l'epopea di uno dei portieri più discussi e discutibili del secolo scorso!". Si mette in mostra agli occhi del mondo nella primavera del 1984, con il siparietto ai rigori nello stadio olimpico di Roma, contro la Roma di Falcao che rinuncia persino a tirare il rigore. «Ma chi è quel matto là...? Io che mi chiamo Falcao non ho mai visto un pazzo del genere, ma che fa il trapezzista? Tirate voi, non me la sento...»
Pizzul, che fa la telecronaca della partita, è incredulo. In tanti anni di cronaca non ha mai assistito a una cosa del genere. «Ma cosa fa...? Mangia la rete?» Ai cinefili viene in mente la scena di Hooper, che ironia della sorte lo sostituirà di lì a poco in una partita leggendaria col Genoa in coppa Uefa, quando si cala nella gabbia e va a sfidare lo squalo... lo sapete di che colore, vero...? E cosa succede? Se non lo avete capito si parla del film di Steven Spielberg, di dieci anni prima. Shaw, ovvero il buon QUINT, gliela aveva detto: «Tu vai nell'acqua...e anche lui è nell'acqua?» Risultato finale? Gabbia demolita e non c'è certo da render grazia agli ani se Hooper si salva, perché il bestione ha appena scheggiato la base della gabbia a caccia di ciccia, che in Toscano vuol dire carne. Un po' come la palla del Graziani che vola sopra la traversa di Grobbelaar, con la consolazione, molto magra (un po' come lo squalo che è andato, naturalmente, in bianco), di aver scheggiato la traversa.
Quelli della Roma dicono: «Non ho ben capito...». Eppure prima ha sbagliato anche Conti. Qualcuno sospetta che si sia nel golfo di Lampedusa, dato che di là c'è un certo Gattopardo, ma è una girandola di colpi di scena. Dopo baffo Rush, arriva Kennedy e la butta dentro in un'atmosfera surreale che consegna Bruce Grobbelaar alla storia tanto da avere pure due emuli nel corso del tempo: il polonio DUDEK, che arginò il Grande Milan dello Sheva sul 3 a 3, e il mitico portiere lanciato dalla Roma, LUPATELLI, che altro che lì, con quel nome, avrebbe potuto esser lanciato, anche se qualcuno ci avrebbe visto bene pure l'Avellino, del resto Grobbelaar giocava sempre col maglione verde e all'Avellino con le belve tra i pali erano assai abituati visto che in quegli anni avevano DI LEO. 
Il Bruno,Conti, colore indigesto al portiere di Durban, quando se lo era visto davanti aveva provato a diventare Bianco, ma niente... «Correva e saltellava, sembrava che stesse per mettersi a ballare» Chissà se Bruce stesse pensando ai Whitesnakes, non è dato conoscere il pensiero del funambolico portiere scuola Whitecaps che tra i pali si muoveva come un serpente alla melodia del piffero magico di un incantatore, solo che a restare incantati in questo caso sono i pifferai... Si limiterà a dire di essersi girato a vedere i fotografi, il cui flash ricorda un po' il bianco, per farsi immortalare insieme agli spaghetti della rete, mentre strizza l'occhiolino a destra e a sinistra, tra una risata e l'altra. A qualcuno sembra di vedere Celentano nel film Asso, Bruce è molleggiato e svaluta tutti i blasonati avversari, come in una partita di Poker, tanto che sembrano diventati dei cialtroni in balia dello spettacolo. A ogni errore degli avversari il portiere corre all'impazzata fuori dalla porta e sbatte i guanti l'uno contro l'altro, ridendo a crepapelle. Sembra un saltimbanco che vuol sbancare il banco, dando l'impressione di esser lui a rimetterci. Qualcuno ha da ridire, qualcun altro da ridere, c'è persino chi vorrebbe cacciarlo alla fine però fa tredici e il riferimento va agli anni di permanenza nel Liverpool.
Lui non se la prende, né fa caso a cosa dicano intorno. Dorme sonni tranquilli, anche se non è ben chiaro se lo stesso avvenga a chi scelga di frequentarlo. Lui non fa una piega, del resto non gli piacciono le moto e dice, con la naturalezza di chi al pub si ingozza di birre: "Prima di ogni partita facevo un giochino. Calciavo il pallone contro l'interruttore, per colpirlo e spegnere la luce. Pensavo che riuscendoci, avremmo vinto noi." Insomma sembra di vedere il nipote di Banfi ne, Il Bar dello Sport, che tira pallonate per la casa mentre l'altro dice: "Ho fatto tredici... Ho fatto tredici..." E infatti Grobbelaar ha fatto tredici come abbiamo detto!

Il trapezzista
(Foto da rankopedia.com)

L'anno dopo ancora finale, in Belgio, una finale tragica, con morti sepolti sotto lo stadio dell'Heysel, crollato perché invaso dai tifosi oltre i limiti di capacità. Contro c'è ancora una squadra italiana: la Juventus. Bruce sfoggia un giallone spettacolare, ma c'è un clima di tensione, spettrale. E' la finale più macabra che si sia mai vista nella storia. E' la prima disputata dalla Juventus. Gli organizzatori, molto probabilmente, la dovrebbero sospendere, rinviare, perché la logica direbbe che non si può giocare, scherzare ed esultare in mezzo ai morti. Qualunque tifoseria sarebbe stata d'accordo con questa soluzione, penso, e invece no... La partita viene giocata per ragioni di ordine pubblico!? Con tutti i morti e una curva crollata... E cosa succede? Rigore per la Juve con fallo iniziato dieci metri fuori d'area. L'arbitro vede un rigore che tutti si accorgono essere inesistente, ma nessuno batte ciglio. Tira Platini ed esulta come se si fosse in un clima da festeggiamenti di fine anno. Ci sono 39 morti, quasi tutti italiani. Bruce, che ha preso parte a delle guerre e ha visto morire gente sul campo di battaglia, non la prende bene, perché una partita di calcio non può esser presa sul serio come una questione di vita o di morte. Decide addirittura di ritirarsi dal calcio: «SIETE UN BRANCO DI BUFFONI!» Poi ci ripensa, ma prende una parabola bizzarra, per certi versi oscura. Le squadre inglesi vengono squalificate dal calcio internazionale per sei anni, lui invece diventa più stravagante, definito spesso ai limiti della follia. Si presenta in campo addirittura con una maschera sul volto (Jeanot farà di peggio, integralmente vestito da Spiderman n.d.r). Alterna miracoli pazzeschi, a papere che nemmeno ai laghetti si vedono. 
Diventa un eroe di Mai dire Gol. Salta il 1988 per una menengite da cui però recupera e ritorna nel 1989, giusto per assistere a un'altra tragedia, questa volta contro la squadra di Robin Hood. Semifinale di FA CUP, cosa che a Bruce ricorda certi colori presagio di catastrofe. Crolla di nuovo una curva, questa volta di Sheffield, la Lepping Lane. Il crollo viene provocato da un'idiozia della polizia che, incapace di contenere i tifosi del Liverpool, apre i cancelli. In curva arriva un'ondata che sembra uno tsunami. E' il cancello C a essere teatro della disfatta. Botte da orbi tra tifosi della stessa squadra e tra questi e la polizia. La partita, questa volta, viene sospesa. Esito: 96 morti e 100 feriti. Il rinvio è di tre giorni. Cambia la sede, da Sheffield si giunge a Manchester. Vince il Liverpool che assapora aria di Derby per la finale, dove infatti troverà l'Everton. Vince ancora, alza la coppa, ma nessuno festeggia. I giornalisti locali, quelli del Sun, si legge nelle cronache, pubblicano articoli, che si scopriranno esser falsi (o presunti tali), contro i tifosi, per addossare a questi responsabilità che non hanno. Si denunciano sciacallaggi inesistenti... Chissà come mai, poi... Ha però inizio la lotta agli hooligans che vede la Thatcher prendere il toro per le corna, anche se non ha a che fare con la Juventus, nè col Toro. E' storia... Ha inizio la battaglia d'Inghilterra contro certi tifosi. Si parla di RAPPORTO TAYLOR e visto che siamo a Liverpool non è un riferimento alla Liz del Gran Premio, ma di un giudice specifico coinvolto in una storia di ucraini e tassisti piuttosto oscura, pure questa... manco fosse coinvolto il pilota Gachot.
La realtà dei fatti emergerà con 25 anni di ritardo (si parla di verbali falsificati, referti taroccati e quant'altro), grazie a un politico titanico che pone termine alle lamentele: Cameron. Intanto però aumentano subito il costo dei biglietti per l'ingresso negli stadi e irrompe la pratica della pay per view. Cameron sarà esplicito: «Chiedo scusa, a nome dei miei predecessori, per aver fatto passare delle vittime come dei carnefici

IL GIORNO DEL GIUDIZIO CON PETER
e il riferimento non va a Morgan, ma al grande
Schmeichel.
(Foto vannizagnoli.altervista.org)

Quando il Liverpool affronta il Genoa, a termine del 1992, Grobbelaar è ancora il portiere titolare, ma siamo alla fine della sua esperienza. Ironia della sorta, per chi schiera in attacco Rush, i reds chiudono per JAMES, che è tutt'altro che un hunt essendo un grande professionista. Tra i due nasce un grande duello, ma l'esito è scritto nel nome del nuovo arrivato che viene chiamato, chissà se in onore di una celebre pistolera del west esaltata dai racconti di Buffalo Bill (non quello de Il Silenzio degli Innocenti, sia chiaro): CALAMITY JAMES. E' un emergente scomodo, tanto che farà addirittura fuori il "marinaio" Seaman dai pali della nazionale inglese. Bruce, allora, non può che andare in prestito alla città dello stoccaccio: lo Stoke City. Poi va al Southampton e infine finisce in balia di un'indagine sul calcio scommesse innescata dal numero uno dell'Aston, non la Martin, ma il Villa... roba da Mal, non furia, ma malesi visto che restano coinvolti bizzarri personaggi della mala proprio malese. Tutti puntano il dito, fanno i faciloni, soprattutto il Sun, ma poi... Grobbelaar viene assolto, perché poi cosa succede...? Ma succede di tutto... pure in un'aula di tribunale.
«Ho detto quelle frasi» dice Bruce riferendosi alle immagini e ai commenti immortalati in una certa vhs in cui si parla di certe partite truccate «per incastrare i due colleghi truffaldini.» Fa riferimento alla celebre punta del Wimbledon Fashanu, altro idolo di Mai dire Gol e di Teo Teocoli, e al portiere dell'Aston Villa. Tutti assolti e Bruce, giustamente, querela il Sun per diffamazione e cosa succede? Vince naturalmente la causa e si mette in tasca 85.000 sterline, pensando: «soldi facili....» Il tabloid però non apprezza mai dire gol e non dice "cosmico" come faceva un certo personaggio della trasmissione che ironizzava sugli inglesi, ma ricorre, chissà se con handicap data la sua enorme importanza rispetto a un singolo calciatore... Il caso finisce sui tavoli della Camera dei Lord. Altro colpo di scena. Si ribalta tutto. I Lord dicono che non è mica ben chiaro se è stato diffamato o no Grobbelaar, perché l'assoluzione non è tanto chiara, si direbbe quasi oscura. E allora? Nessun responsabile di niente. Per la Commisisone la dignità di Grobbelaar vale una sterlina e condanna il Sun a versargliene una. Decisione pazzesca anche perché le spese del processo sono tutte a carico di Grobbelaar che, impossibilitato a pagare, viene dichiarato fallito sebbene non sia una persona giuridica. Una girandola, veramente, di colpi di scena. E lui? Va a giocare con la nazionale dello Zimbawe, facendone anche l'allenatore giocatore. E dov'è il problema...?
Sei campionati inglesi vinti, i primi tre consecutivi (1981-82; 1982-83; 1983-84), Tre coppe d'Inghilterra. Tre coppe di lega, Cinque Charity Shield, Una coppa dei Campioni. Ventuno presenze in nazionale. Quasi 450 presenze col Liverpool. Cosa fa adesso...? Allena i portieri in Canada, ma dalla parte opposta rispetto a dove ha iniziato, nell'Ottawa Fury e assicura una cosa: "L'unica cosa che a un portiere non insegni è la personalità. O ce l'hai o non ce l'hai!"

Il Commento Tecnico
Personalmente ho sempre avuto una grandissima stima, sotto il profilo tecnico, per questo portiere, penso che si comprenda sia dal testo, sia da chi mi ha visto giocare nei miei ultimi anni in FIGC, sezione calcio a 5, quando tenevo in porta una posizione anomala, che era in parte ispirata a certi portieri spagnoli di settore, da Castracane della BNL, ma anche dal mitico Bruce. Nel mio piccolo l'ho sempre tenuto di riferimento, insieme ad altri, perché il suo stile insegna molto ai portieri e non solo a loro (dato che certe tecniche sono riportate anche in manuali particolari). In prima battuta insegna a divertirsi nel fare quel che molte persone prendono troppo sul serio e, vedete bene, divertirsi non vuol dire fare le cose alla viva il parroco come vengono vengono, ma significa farlo con la componente ludica. Poi, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, l'atteggiarsi a spaccone, sbruffone e pagliaccio è un atteggiamento che può pagare, specie se si ha a che fare con chi cade nell'errore delle apparenze, dei formalismi e dei preconcetti. Come dice Clive Barker, giustappunto di Liverpool (ragazzi, non si fanno mica le citazioni a caso), in un racconto il cui titolo è geniale per l'occasione: "Nel momento in cui si comincia a credere che una tigre è una tigre si è già in metà in suo potere..." Prima ancora di Grobbelaar, dallo Zimbawe, era stato un altro dallo Zaire a darne dimostrazione evidente e lampante. Uno che contrariamente a Bruce non volava da un palo all'altro, sebbene avesse scelto come nome Ali. Non mi riferisco a Bagattini, che laggiù ha supervisionato le elezioni, ma a Muhammad Ali che con modi similiari mandò in black out, è proprio il caso di dire, Foreman che fu quasi mandato fuori dal ring dopo aver dominato la prima parte del combattimento, con Alì che incitava la folla e ballettava in qua e in là. E' dunque il caso di rivalutare, se ne occorre, la figura di questo portiere che faceva divertire, si divertiva e insegnava calcio ai colleghi.
Chiudiamo con un pezzo musicale che ci sembra sintetizzarne bene il debutto in Canada, dove lo lanciamo...? Da i barre, ma un barre particolare, uno di quelli in cui ci vorrebbero entrare in parecchi.. e allora dalla calda voce di Barry White, mandiamo My First, My Last, My Everything, ma sarà proprio white white...? Io vi dico una sola cosa, usate moderazione con gli alcolici, non bevete una pool di cocktail, perché è meglio un Black che farsi venire un liver grosso così... Non vorrei poi che diventaste troppo gialli!

Foto da nesn.com

Testo a cura di Matteo Mancini.

Bibliografia:
Portieri Figli di Puttana, di F.Bagattini, edizioni Ultra Sport.
La verità cercata da Grobbelaar: "Quell'assalto fu scatenato dall'estrema destra di Londra", a cura di Angelo Carotenuto per la Repubblica.

Un volume da recuperare!

sabato 25 luglio 2015

Recensioni Narrativa: Dracula di Bram Stoker.


Autore: Bram Stoker.
Anno: 1897.
Genere: Horror.
Pagine: 412
Edizione: Mondadori.

Commento di Matteo Mancini
Grandissimo classico della narrativa gotica e più specificatamente della narrativa del terrore, forse il più famoso romanzo horror di tutti i tempi, capace di ispirare un vero e proprio sottogenere ovvero quello dei vampiri. Scritto da uno scrittore irlandese all'epoca più famoso come critico teatrale che come romanziere, ebbe successo immediato al punto da interessare fin da subito il cinema che renderà questo romanzo un vero e proprio cult dell'immaginario colletivo con una serie interminabile di trasposizioni più o meno fedeli. 
Abbiam già parlato dell'autore, Bram Stoker, e della genesi del romanzo in occasione della recente recensione de La Vergine di Norimberga, entriamo dunque nel vivo della storia.

Innanzi tutto occorre analizzare la struttura del testo. Per dare verosimiglianza alla storia, Stoker ricorre allo stratagemma delle pagine di diario o delle lettere che i vari protagonisti si scambiano ovvero di stralci di articoli di giornale che commentano gli avvenimenti narrati. E' una soluzione che cala il lettore nella storia e offre il modo ai vari coinvolti di esternare le proprie emozioni, oltre a dare la parvenza di una cronaca di un episodio realmente accaduto. D'altro canto rende la struttura un po' frammentaria, cambiando spesso punto di vista e ponendo troppe volte l'attenzione su questioni marginali e più legate agli affetti dei vari protagonisti. Aspetti che tendono, in più di una circostanza, a spezzare il ritmo e a non dare fluidità al narrato.
Premetto subito che, ad avviso di chi scrive, Dracula è un romanzo sopravvalutato, molto diluito nello sviluppo del soggetto e per lunghe parti noioso. Sarò l'unico a cantare fuori dal coro, ma è quello che penso. E' comunque incontenstabile la notevole importanza storica del testo, sia per aver generato un vero e proprio sottogenere, sia per la presenza di alcuni passaggi e alcuni monologhi dal retrogusto meta-filosofico, oltre che per alcune trovate a dir poco pionieristiche.

L'autore Bram Stoker.

Stoker sviluppa il soggetto scrivendo qualcosa come 500 pagine, quando avrebbe benissimo potuto realizzare un romanzo da duecento pagine. La storia si riassume in poche righe e ha un soggetto, a mio avviso, un po' forzato (ma chi glielo fa fare a Dracula di andare in Inghilterra e prima ancora di segregare Harker nel suo castello?). Protagonista è Jonathan Harker, un procuratore alle prime armi, che viene spedito in Transilvania per perfezionare la vendita di una magione londinese. L'acquirente è un Conte smilzo, dal volto pallido e dai baffetti pronunciati, avanti con gli anni e con gli occhi iniettati di sangue. Si tratta del Conte Dracula, un non morto, ma ancora Harker non lo sa, sebbene in paese si mormorino strane leggende e soprattutto si faccia più volte il nome del diavolo. Dracula ha un passato da valoroso soldato, statista, alchimista, grande sapiente con un cuore che non conosce paura. Ha combattuto per la propria terra, respinto l'invasore. Narra fatti storici come se li avesse vissuti di persona, e di fatti è proprio così anche se ad Harker sembra impensabile. Non si sa bene come sia diventato vampiro, si dice solo che questo passaggio lo abbia, difatto, instupidito e costretto a compiere azioni meccaniche alla maniera di un bimbo. L'inizio è molto promettente e fascinoso. Harker viene recluso nel castello, molestato da tre vampire iper sexy che lo vorrebbero sbranare in modo amoroso e lento, ma interviene in sua protezione Dracula che entra ed esce alla maniera di un geco che percorre le pareti esterne della magione a testa all'ingiù. Conosciamo subito i poteri e i vizi del mostro. Non mangia mai, vive negli scantinati della cappella all'interno di una bara e non si riflette negli specchi. Dracula controlla branchi di lupi, comanda agenti atmosferici come tempeste e nebbie, ha influenza sui topi, ha il dono dei gatti che gli permette di assottigliarsi e di passare sotto piccole fessure. Ma ha anche grossi limiti, come l'impossibilità di ricorrere ai propri poteri nelle ore diurne, l'impossibilità di resistere agli oggetti sacri (in particolare ostie e crocefissi), ma anche all'aglio. Il suo alone di malvagità deriva dal fatto che va a caccia di bimbi, che rapisce, avvolge in sacche e li getta in pasto alle tre ragazze che vivono insieme a lui al castello. Insomma è una creatura molto meno affascinante e molto meno pestifera di quella tracciata dai film, anche perché meno diabolico e meno intelligente di quanto il cinema ci abbia abituato a vederlo. Van Helsing dirà a più riprese che ha una mente fanciullesca ed egoistica.

La storia si sposta presto in Inghilterra dove Dracula, divenuto più giovane per aver succhiato un po' di sangue, si reca a prendere possesso della casa appena acquistata. Carfax è il nome della struttura ovvero Quatre Face per aver la caratteristica di avere i quattro lati corrispondenti ai punti cardinali (che abbia rilevanza metaforica e simbolica? Molto probabile data l'estrazione esotericadi Stoker). Non si capisce bene perché Dracula decida di emigrare dopo tanti anni, sembra per cercare sagnue fresco, ma la scelta si rivelerà, piuttosto velocemente, nonostante le lungaggini di Stoker, fallimentare. Dopo l'arrivo misterioso di una nave i cui occupanti sono tutti morti, dopo un viaggio all'insegna della follia (forse è la parte più paurosa del romanzo), Dracula, nella forma del lupo, sbarca nel Regno Unito. Qua il romanzo diviene lento. Stoker presenta la due protagoniste femminili, Lucy e Mary, le quali non fanno altro che parlare dei loro amori e dei loro sogni (parte pallosissima), tanto da tingere di rosa quello che è un romanzo nero. La parte centrale del romanzo la conoscono tutti ed è proposta un po' da tutti i film a tema. Lucy, l'amica della fidanzata di Harker, viene vampirizzata da Dracula anche se la cosa resta celata per molto tempo. Deperisce sempre più e non se ne capisce la ragione. Le vengono praticate numerose trasfusioni di sangue, sebbene nessuno si spieghi come faccia a perderlo. A destare sospetti sono due piccoli fori che ha sul collo, simili a pinzi. Dracula, nel frattempo, è un personaggio latente, non si vede ma c'è, se ne percepisce la presenza per via di un ululato o di un pipistrello che svolazza nella notte. Viene chiamato in causa allora il grande professore Van Helsing, che giunge in supporto del dottor Seward, psichiatra impegnato, nel contempo, nello studio di un paziente zoofago chiamato Ranfield (personaggio che si sarebbe potuto tagliare e che viene messo per allungare la minestra e per compiere disserdazioni di carattere metascientifico). Van Helsing è il vero protagonista del romanzo. Dottore olandese di ampie vedute, che si esprime in modo sgrammaticato, perché è straniero. Arriva dall'Olanda ed è lui a comandare la battaglia contro Dracula, leggendo i diari di Harker, nel frattempo fuggito dalla Transilvania e ritornato a casa, e spulciando su antichi testi di stregoneria e di folklorismo. "Filosofo, metafisico, mente assolutamente aperta. Nervi d'acciaio, carattere di ghiaccio, volontà indomabile" quesa la descrizione che si fa di lui nel testo.

I medici non riescono a salvare Lucy, che una volta sepolta torna in vita sotto forma di vampiro e seduce i bambini per succhiar loro il sangue. Van Helsing riesce a dimostrare la sua teoria, cioè quella dell'esistenza dei vampiri ritornanti, profanando la tomba (che scoprirà vuota) e uccidendo la vampira di giorno, conficcandole un paletto di frassino nel cuore. Tutto molto semplice, con poche resistenze.
L'ultima parte è incentrata sulla ricerca di Dracula, che poi non è tanto lontano essendo alloggiato accanto ai protagonisti. Quest'ultimo vuole vampirizzare anche Mary, perché è offeso dall'atteggiamento dei suoi rivali che hanno osato contrastarlo (e cosa avrebbero dovuto fare?). "E così vorreste mettere la vostra intelligenza a confronto con la mia! Ora voi sapete cosa significhi frapporni ostacoli... E voi, la loro beniamina, siete ormai mia... per ora mia rigogliosa vendemmia, in seguito mia compagna e mia complice!" Così dice, prima di darsi alla fuga in quattro e quattr'otto, anche perché i "buoni" troveranno tutte le casse di terra maledetta che il mostro si è portato dietro per potervisi nascondere nelle ore diurne rendendole inservibili con l'apposizione di ostie benedette. Così pur essendo riuscito a mordere Mary e averla indotta a una sorta di battesimo satanico, costringendola a bere il sangue dal proprio ventre, Dracula si trova a dover cedere. Scappar via come un coniglio inseguito dalla muta di cani rabbiosi. Braccato da Van Helsing e soci si trova costretto a ritornare in patria, contrattando un posto a buon prezzo su un'imbarcazione diretta in Romania. Non riuscirà a farla franca. La cassa all'interno della quale è celato e che viene difesa da alcuni zingari, viene bloccata a poche centinaia di metri dal castello da Van Helsing e soci. Questi ultimi hanno infatti hanno deciso di seguire il viaggio del Conte per altra così da anticiparne l'arrivo a destinazione. L'obiettivo è spezzare il sortilegio che grava su Mary mediante l'uccisione del mostro. Per Dracula è la fine. Un epilogo senza lotta, sbattuto sulla neve semidormiente per via del tramonto non ancora completato. Paletto nel cuore e testa decapitata, il tutto senza reazione. Per Mary è la salvezza, dal momento che la maledizione del vampiro cessa con la morte dello stesso. Questo in estrema sintesi il romanzo.

CHRISTOPHER LEE ovvero l'attore che ha interpretato
più volte Dracula.

Dunque una storia con pochi risvolti (a parte la tematica della cosiddetta new woman e della contaminazione dei valori vittoriani), molto ridondante, che propone, sotto altra veste, il tema della possessione diabolica. Una possessione che non è determinata da colpe, ma dal mero fato, dalla scelta di un non morto che vive nutrendosi del sangue altrui, come un perfetto parassita. Una possessione che si lotta con la fede, ma che necessita l'assassinio del diretto responsabile, poiché come una malattia infettiva porta alla morte e da questa alla perdizione e alla mutazione di tutte quelle caratteristiche dell'essere che l'ha provocata. Non c'è possibilità di salvezza, non esistono buoni o cattivi ma soggetti liberi  e schiavi. Dunque una morte che genere vita e che trasforma in entità diaboliche che si sostituiscono a Dio nel decretare chi debba avere la vita eterna, una scelta non dettata dall'amore e dalla generosità bensì da necessità egoistica. E come tutti gli egoismi da ciò non può che nascere un'esistenza dannata, una vita piegata alla schiavità di ripetere sempre i medesimi gesti per un bisogno esistenziale. Dracula non rappresenta il male, ma la dannazione. Semina morte e pestilenza perché è costretto a farlo. Apparentemente rappresenta la libertà assoluta e la ribellione ai formalismi e alle regole sociali, ma è solo una parvenza di libertà e di ribellione, perché è lui stesso assoggettato a regole che non può valicare. E' portatore di una forte carica erotica, anche se nel testo non emerge in modo sbandierato. Dracula non ama una donna in particolare, contamina tutte quelle che gli riempiono l'occhio. Una soluzione che all'epoca avrebbe potuto sconvolgere il bigottismo tipico della società vittoriana e che sicuramente lo avrà anche fatto. Ma a suscitare potenziale scandalo sono più gli atteggiamenti, quasi da libertine represse, delle sue vittime che non riescano a sottrarsi dai suoi attacchi, anzi sembrano riceverlo come in preda a un'estasi ai limiti dell'orgasmo. Stoker anticipa il tema della corruzione del sangue, delle malattie infettive trasmissibili con rapporto sessuale (e guarda caso con rapporti promiscui e occasionali). Eloquente, al riguardo, la scena in cui Van Helsing strappa il fidanzato di Lucy dalle labbra della donna che lo vuol baciare. Ancor più esemplificativa è la disperazione di Mary, quando dice che non potrà più amare il suo uomo perché comprende di esser stata morsa da Dracula ("Contaminata! Non potrò più né toccarlo né baciarlo. Oh, proprio io dovevo divenire la sua peggiore nemica, colei che più ha motivo di temere?"). Interessante è poi il collegamento ipnotico e mentale che si instaura tra Dracula e le sue vittime, che restano in contatto mentale con lui riuscendo a vedere dove si trovi e cosa stia facendo.Una trovata che sarà ripresa da dozzine e dozzine di romanzi successivi.

Si evince poi un'apertura di Stoker, da membro di certe società iniziatiche e segrete, al paranormale, al superamento dei limiti scientifici, andando a pescare direttamente da leggende medievali e da credenze sepolte nel tempo, quasi a voler recuperare la tradizione e anteporla al menzoniero progresso. E' grazie alla cultura tradizionale che Van Helsing piega il mostro e non in virtù delle conoscenze scientifiche acquisite per effetto dello studio universitario. Si sottolinea pertanto l'importanza di possedere una mentalità aperta, di superare preconcetti e i limiti autoimposti dall'esperienza diretta. Mai pensare che certe cose non possano esistere solo perché non vi sono dimostrazioni contrarie. Si parte sempre da un fatto e si cerca la soluzionie, mai partire dalle soluzioni ritenute possibili per poi adattarle al dato iniziale di partenza, scartando a priori l'imponderabile.
Un romanzo a suo modo religioso che si interroga di continuo sul significato della vita, sulla destinazione post mortem delle anime, sulla necessità di conquistarsi la vera immortalità nella vita di tutti i giorni. "Perché la vita in fondo cos'è'? Solo l'attesa di qualcos'altro, no? E la morte è l'unica cosa sicura!" scrive Stoker, cercando di suggerire quale sia il vero senso della vita ovvero la conquista del Paradiso, senza farsi influenzare dai desideri materiali (vuoi della carne o delle proprietà immobiliari o delle monete che Dracula lascia cadere nella sua irruzione finale nella camera di Mary). Un'opera quindi che è bene leggere per ragioni culturali, specie per gli amanti della narrativa del brivido, ma che ho faticato a terminare perché, a mio avviso, a tratti poco avvincente. L'amerà maggiormente un pubblico femminile, vuoi per la velata componente erotica, vuoi per il subliminale fascino operato da Dracula che riesce a valicare la carta stampata. Quando vi coricare a letto allungate un orecchio nella notte e fate attenzione al flebile battito d'ali che risuona nella notte: un non morto potrebbe essere lì che vi scruta dalle tenebre chiedendovi di invitarlo a entrare.

La carica erotica del romanzo parte anche dal fatto che DRACULA,
gran bel furbacchione, vampirizza sempre giovani donzelle e lo fa
con quello che è un bacio iper passionale. Scambio di fluidi.

"E' davvero meravigliosa la capacità di recupero della natura umana. Basta che una causa di ansia, quale che sia, venga rimossa in un modo o nell'altro ed eccoci a tornare spontaneamente ai normali principi della speranza e della gioia"

domenica 19 luglio 2015

Apertura canale youtube I GRANDI MAESTRI DELLA LETTERATURA FANTASTICA a cura di Matteo Mancini.




Rendo noto ai lettori del blog che ho provveduto ad aprire un canale su youtube in cui mi dedico alla spiegazione orale dei maggiori maestri della letteratura fantastica. Al momento sono stati realizzati quattro video, tutti piuttosto spartani nella messa in scena, di diversa durata, dedicati a Matthew G. Lewis, Leslie A. Lewis, Nikolaj Gogol e gli ascendenti di DYLAN DOG.

Chi abbia voglia può quindi sorbirsi questi video e, eventualemente, lasciare dei commenti. Ripeto lo stile è spartano, ma il contenuto credo efficiace. Un modo diverso per "pubblicizzare" mostri sacri, cercando magari di coinvolgere anche coloro che faticano a leggere.

Buona visione. 

Il link dedicato a Nikolaj Gogol: https://www.youtube.com/watch?v=A_zecVoeNNE 

sabato 18 luglio 2015

Recensioni Cinematografiche: QUELLA SPORCA DOZZINA di Robert Aldrich




Regia: Robert Aldrich.
Anno: 1967, USA.
Genere: Guerra.
Soggetto: tratto dal romanzo di E.M. Nathanson.
Sceneggiatura: Nunnally Johnson e Lukas Helle.
Interpreti Principali: Lee Marvin, Charles Bronson, John Cassavetes, Telly Savalas, Donald Sutherland, Jim Brown, Ernest Borgnine, Robert Ryan e Al Mancini.
Durata: 149.

Commento di Matteo Mancini (autore di Spaghetti Western V. 1 e V.2).
Pietra miliare del cinema di guerra, ma soprattutto base di riferimento per il nascente cinema di genere europeo e americano. E' Robert Aldrich a firmarlo e dirigerlo in un clima iniziale di scetticismo ingiustificato. Siamo infatti alle prese con un regista già affermato, che arriva a portare in scena questo adattamento da un romanzo di Nathanson con qualcosa come sedici pellicole all'attivo, oltre che un lunghissimo praticantato in veste di aiuto regista iniziato nel 1942 agli ordini di Robert Stevenson (è un caso di sdoppiamento di identità, ma non ha nulla a che fare con l'autore de Lo Strano Caso del Dr Jekyll e Mr Hide) e sviluppatosi soprattutto con Irving Reis, con l'apice ottenuto al servizio di Charlie Chaplin ne Luci della Ribalta (1952) che gli apre la carriera da regista. Professionista quindi già di grosso calibro, alla soglia dei cinquant'anni, più apprezzato nel vecchio continente che in patria come dimostrano Il Leone di Argento ottenuto al Festival di Venezia per Il Grande Coltello (1955) e la nomination al Leone d'Oro per Prima Linea (1956), nonché l'Orso d'Argento del Festival di Berlino con Foglie d'Autunno (1956) e la nomination alla Palma d'Oro di Cannes per l'assoluto capolavoro Che Fine ha Fatto Baby Jane? (1962).
Quando Aldrich inizia a lavorare a The Dirty Dozen è reduce da tre pellicole non particolarmente riuscite tra cui Sodoma e Gomorra (1962), dove vi ha lavorato in qualità di direttore della seconda unità Sergio Leone, e dalla beffa di aver ricevuto sette nomination all'oscar con Piano... Piano, Dolce Carlotta (1964) senza vincerne neppure uno. La carica emotiva quindi non gli manca e il copione ha tutti gli ingredienti per dare avvio, nel corso degli anni, a un sottogenere, a una serie di sequel (tre) e addirittura a un serial televisivo. C'è azione (pur se concentrata nella parte finale), buoni dialoghi caratterizzati dall'anteposizione di canaglie e reietti alle consuetudinarie presenze di uomini di alto rispetto nonché portatori di valori da diffondere nella popolazione e poi vi è un atteggiamento rivoltoso, più votato alla sostanza che alla forma, ai canovacci legati all'ambiente militare. Qua i protagonisti sono i reietti e non gli accademici.
L'idea è semplice e deriva dal romanzo di E.M Nathanson, autore tutt'altro che famoso. Abbiamo un maggiore dell'esercito americano, Maggiore Reisman (il nome sembra quasi un omaggio al maestro di Aldrich, che era Reis), che pensa bene di proporre all'alto comando americano una missione proibitiva, per i grossi rischi per il commando da impiegare, facendosi affidare i peggiori elementi dell'esercito allo scopo di mettere in piedi un nucleo di soggetti disposti a tutto. Riesce così a mettere su una rosa di reietti, addirittura tutti condannati a pene detentive con almeno cinque destinati alla forca, su cui nessuno punterebbe un mezzo dollaro. Gli uomini accettano, perché vien loro offerto, in caso di esito favorevole della missione, il condono delle pene (soluzione che starà alla base di dozzine di film successivi, su tutti 1997 Fuga da New York), ma il comportamento sbagliato di qualcuno di loro o ogni tentativo di ammutinamento determineranno conseguenze negative sull'intero gruppo. Gli inizi dell'addestramento sono tutt'altro che facili, c'è chi è riottoso agli ordini, chi sembra ritardato, chi è uno psicopatico, chi ha deliri religiosi culminanti con derive da missionario schizofrenico e via dicendo. Il maggiore però che li ha in custodia è un altro soggetto fuori dai canoni, inviso ai superiori per i suoi modi non convenzionali e addirittura per un atteggiamento tendente allo spaccone. Li mette in riga con modi duri, ma giusti. Li fa pernottare in baracche senza alcun confort, perché quelli si devono guadagnare sul campo. Conia per loro il nome di "sporca dozzina" perché loro per protesta rifiutano di radersi e di pulirsi finché non viene data loro l'acqua calda che viene invece garantita alla Militar Police. Reisman in tutta risposta fa togliere sapone e rasoi: "sarete il reparto più brutto e puzzolente degli Stati Uniti!". Alla fine però li premia promuovendo un'orgia nel campo, soluzione che manderà su tutte le furie colonnelli e generali, oltre che l'elemento affetto da deliri religiosi (il grande Savalas) nonché ultra misogino (sarà poi quello che complicherà la missione facendo indirettamente morire quasi tutti i suoi compagni).
La prima parte si consuma con l'addestramento di questi uomini, che non vengono chiamati per nome ma solo per numero, proprio come se fossero una squadra di calcio. Il Maggiore Reisman li fa fraternizzare "all'inglese" e così dai litigi e dagli spintoni (dovuti anche a questioni razziali) riesce a forgiare uno spirito di gruppo e di appartenenza sotto una medesima divisa, sebbene lo spirito di tutti i partecipanti, Maggiore compreso (che si unisce a loro nella missione combattendo fianco a fianco), rimane ribelle e insofferente ai formalismi. Costituisce al riguardo una palese critica ai formalismi e alle ipocrisie di fondo che governano certi meccanismi la sequenza in cui si assiste alla sceneggiata che mette in atto il colonnello Breed, interpretato da Ryan, quando pensa che tra i dodici sia infiltrato un generale, cui da corpo Sutherland, e per aggraziarselo riceve il gruppo con la banda e la musica, giusto per farsi vedere bello e ossequioso. I nostri terranno un atteggiamento da buzzurri che manderà su tutte le furie il colonnello: "Maggiore, qualcuno la potrà ritenere un ottimo ufficiale, per quanto mi riguarda lei è soltanto un pagliaccio indisciplinato e mediocre. Mi farò un preciso dovere di farla radiare dall'esercito!" urla a Marvin che in tutta risposta lo schernisce con humor british "Devo farle le mie scuse, signore, l'ho sempre creduta un tipo privo di immaginazione e di emozioni e invece... Molto emotivo, non è vero?"
La parte finale del film, la più spettacolare ma anche la più cinematografica (dal punto di vista della verosimiglianza), è incentrata sulla missione segreta del commando. I dodici comandati dal maggiore Reisman dovranno assaltare un castello, in Francia, dove è in corso un ricevimento che vede coinvolti i più alti gradi dell'esercito nazista. Reisman, in compagnia del polacco Wladislaw (unico del gruppo a parlare tedesco), si infiltra, vestito da ufficiale, all'interno del locale in attesa che i suoi uomini assalgano dall'esterno il castello. L'obiettivo è uccidere tutti i nazisti presenti. Cosa vi ricorda? Bastardi senza Gloria di Quentin Tarantino, esattamente e non è un caso dato che l'ispirazione di Quentin è più legata a questo film che a Quel Maledetto Treno Blindato di Enzo G. Castellari che, a sua volta, lo aveva omaggiato in modo palese col western Ammazzali Tutti e Torna Solo.
Aldrich gira questa parte finale con grande dispendio di capitali, ma alto senso per la spettacolarità. Memorabile l'esplosione di buona parte del castello per effetto di svariate bombe a mano e decine di litri di benzina versati dall'esterno nei locali sotterranei della struttura. L'esplosione sventrerà trequarti della costruzione, con fiamme e lingue di fuoco che avvolgeranno finestre e fuoriusciranno dagli squarci del muro, senza stacchi e tutto in primo piano. Sequenze davvero curatissime che risollevano il film da una parte centrale un po' noiosa e mi riferisco all'esercitazione in cui il gruppo deve dimostrare al colonnello Breed, suo assoluto detrattore, le capacità e le doti che il maggiore va decantando al generale Worden ("Il mio gruppo è il più preparato tra quelli di cui potete disporre"), quest'ultimo (lo interpreta il grande Borgnine) di vedute più aperte e disposto a concedere una chance all'accozzaglia di reietti. L'ufficiale sembra quasi godere nel vedere il modo in cui i ragazzi si prenderanno gioco del colonnello, arrivando a vincere la prova in un modo a dir poco disonorevole per il graduato che finisce preda di ilarità e di risate di gusto.

Il generale Warden (BORGNINE) se la ride quando capisce il gioco che la Sporca Dozzina
sta tirando al colonnello Breed.

Una nota di merito va al cast artistico a dir poco faraonico. Protagonista è il fresco premio oscar Lee Marvin, che in quegli anni avrebbe dovuto ricoprire il ruolo del colonnello Douglas Mortimer in Per un Pugno di Dollari, è lui a forgiare e a vigilare sul branco di schegge impazzite che ha deciso di domare e di utilizzare per una missione eroica di cui lui stesso diviene parte attiva. Personaggio sarcastico, ma piuttosto freddo, ha le caratteristiche tipiche per esser esaltate da un attore come Marvin, solitamente alle prese con personaggi antagonisti soprattutto in western e film di azione.
I migliori del gruppo sono però Telly Savalas, perfetto nei panni dell'individuo affetto da deliri religiosi (è il personaggio più pericoloso del gruppo), del resto aveva già avuto un ruolo da sadico in L'Uomo di Alcatraz (1963) che gli era valso la nomination all'oscar e che va a ricalcare nella scena in cui uccide con un pugnale una tedesca gridandole più volte a denti stretti: "sgualdrina... sgualdrinna... sei una sgualdriiiiina"; e Donald Sutherland, quest'ultimo alle prime armi con un personaggio che da l'impressione di essere un ritardato mentale, ma che cambia atteggiamento appena gli viene richiesto (eccezionale la prova quando scimmiotta i comportamenti di un generale intransigente, ma al contempo burlonesco). A ricevere maggiori consensi di critica è però John Cassavetes, prossimo a esser ingaggiato da Polanski per l'horror satanico Rosemary's Baby (1968), unico, tra quelli del film, a esser indicato quale potenziale migliore attore non protagonista nella rosa dei candidati al premio oscar. Il suo è un ruolo da pacione, meno violento degli altri e forse anche meno sopra le righe rispetto a esempio ai due citati. L'unico a sopravvivere sarà però Charles Bronson, un blocco di marmo come al solito,da quasi l'impressione di essere un terminator quando vaga per il castello francese parlando in tedesco e tranquillizzando Marvin che invece fa smorfie e annuisce non capendo niente di quello che gli dicono gli interlocutori ("Fai una cosa... le porto io le borse, tu vai avanti" dice al suo uomo, prendendogli di mano le valige che sta portando nella camera destinata agli ospiti della festa).
Non manca il "man in black" di turno, giusto per sottolineare il superamento degli atteggiamenti razziali, rappresentato dal colosso Jim Brown, atleta definito "il più grande running back di tutti i tempi del football americano". Brown denota grande mole, ma doti recitative non eccelse, all'epoca era peraltro in lite col suo presidente che non accettava di buon grado le uscite cinematografiche del suo dipendente.
Buona prova per Robert Ryan, è lui il colonnello legato ai formalismi e  con la puzza sotto il naso, quello che qualcuno (per render l'idea) chiamerebbe "cravattaro". Ryan era un altro attore abituato ai ruoli da antipatico e da antagonista, ex pugile, pure lui con alle spalle nomination all'oscar (grazie al ruolo di killer in Odio Implacabile del 1947). Ernest Borgnine ha invece un ruolo più marginale, si nota quindi poco pur lasciando impressa l'idea di colui che ha capito tutto e si gode lo spettacolo in disparte nonostante la sua posizione suprema. Arriva invece dai serial televisivi Al Mancini, dove poi tornerà, ma soprattutto da The Dirty Game - La Guerra Segreta (1965) di Christian-Jaque dove era presente, questa volta col grado di Generale, lo stesso Robert Ryan.


All'epoca il film ebbe un grande successo soprattutto per la cura nella messa in scena e per l'apporto del cast tecnico. Ottenne svariate nomination agli oscar per miglior sonoro, miglior effetti sonori (riceverà l'oscar) e miglior montaggio. Fotografia e colonna sonora, pur essendo apprezzabili, non ricevettero particolare attenzione.
Si tratta quindi di un war-movie, anche se io lo definirei più un action movie essendo i combattimenti limitati all'assalto di un castello con il solo impiego di fanteria paracadutata, che fa leva sul political incorrect e sull'apporto recitativo degli attori, oltre una ventina di minuti finali all'insegna dello spettacolo visivo.
Come abbiamo detto il film avrà la forza di tracciare le coordinate di un sottogenere, particolarmente seguito in Italia dove all'epoca furoreggiava il c.d. Macaroni Combat, e di stimolare negli anni '80 svariati sequel tutti di livello assai inferiore a questo e che vedranno coinvolto persino un personaggio come il pugile Ray "Boom Boom" Mancini che farà la sua comparsa in Quella Sporca Dozzina: Missione nei Balcani (1988) di Lee H. Katzin, quarto e ultimo episodio della saga.
Mi preme anche evidenziare come un copione che potrebbe sembrare fumettistico e di difficile attuazione come quello qui oggetto di esame abbia avuto dimostrazione pratica anche nel concreto e con risultati leggendari, anche se al cinema i profili dei soggetti sono estremizzati e sconfinano in profili criminali a tutti gli effetti. Cito al riguardo alcune righe da un volume senza indicarne ne autore ne titolo (perché lascio al lettore l'eventuale curiosità che possa spingerlo alla ricerca), è solo per fare un parallelo per dimostrare come, spesso, l'intelligenza, le motivazioni e la bravura di un "addestratore-leader" riescono a sviluppare doti e caratteristiche da soggetti scartati dagli altri e considerati "carne da macello", ma che invece dimostrano potenzialità inespresse su cui investire e su cui lavorare... "Eravamo dodici... quelli puniti, la gente umiliata, quelli che non fanno regali agli ufficiali, quelli che non sono carini, quelli che hanno il loro carattere e sono grandi guerrieri che per le circostanze della vita vengono considerati ribelli. Gente difficile da trattare, ma che in fondo è buona di cuore (quelli del film insomma, ma è un film, n.d.r.), quelli con i quali nessuno parla mai, ma che tutti vorrebbero avere vicino nel momento del bisogno. Questo era il mio gruppo."
E questo è anche lo spirito di fondo a cui si è ispirato Tarantino nel delineare i suoi "Bastardi senza Gloria", nella fattispecie ancora più polital incorrect di quelli di Aldrich, un'espressione in cui il termine "bastardo" acquisisce un'accezione positiva e sta a significare colui che rigetta ipocrisie, schemi di facciata, formalismi bigotti e persegue un obiettivo senza fare calcoli economici, senza fare ragionamenti circa le possibilità di far carriera. Sempre riprendendo il libro citato, chiudo con una frase che ben si adatta ai dodici soldati del film e non solo a loro, ma a tutti coloro che hanno avuto la sventura di combattere una guerra, situazione estrema dove non ci si può nascondere dietro ipocrisie o giri di parole perché si viene abbattuti senza appello: "Provate a vivere con la consapevolezza di una condanna a morte e vi accorgerete che in quello che dite e fate non vi può essere protagonismo o polemica, ma solo voglia di vincere per tornare a vivere la vita come tutti gli altri..."


ROBERT ALDRICH indossa la cravatta in modo atipico e irriverente.

domenica 12 luglio 2015

Recensione Saggi: I CENTO LIBRI di Piero Dorfles




Autore: Piero Dorfles.
Sottotitolo: Che rendono più ricca la nostra vita.
Genere: Saggio di critica narrativa.
Anno: 2014
Editore: Garzanti.
Pagine: 300
Prezzo: 14,90 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Bella iniziativa del giornalista RAI Piero Dorfles, conduttore della trasmissione Per un Pugno di Libri, il quale confeziona un'agile e piacevole guida alla letteratura che possa fungere da orientamento nella scelta dei libri da leggere, ma anche da confronto e da spunto di riflessione circa le diverse chiavi di lettura che caratterizzano un romanzo.

Triestino classe 1946, nipote del critico d'arte Gillo Dorfles, Dorfles realizza un volume che ha lo scopo di radunare e di presentare i cento libri che, ad avviso dell'autore, sono entrati a far parte dell'immaginario letterario collettivo. Romanzi cioè che uniscono all'importanza sotto il profilo storico e culturale una certa diffusione nella cultura personale di massa. "Sono quei libri che, al di là del loro valore letterario, potete sentir citare in un discorso, in un saggio, in una chiacchiera da bar, in un articolo, e che possono esser necessari per capire di cosa si sta parlando" così commenta la propria selezione. Abbiamo così l'omissione di quelle opere classiche la cui lettura viene imposta a scuola, come I Promessi Sposi, La Divina Commedia, le tragedie greche piuttosto quelle di Virgilio, ma anche il Don Chisciotte o l'Ivanhoe, per non parlare dei vari Verga e altri scrittori proposti alle superiori; testi di valore assoluto, pilastri della letteratura mondiale, ma anche complessi, a volte persino per i professori, e legati a certe logiche costruttive che finiscono per l'allontanare buona parte dei ragazzi dalla lettura anziché invogliarli nel proseguimento di questa passione. Risultato quest'ultimo non addebitabile agli scrittori in questione, sia chiaro, ma a chi propone certe letture a un pubblico acerbo, su cui invece si dovrebbe insinuare e lasciar maturare il seme della passione che solo le opere più briose, divertenti e votate all'intrattenimento possono garantire in modo da far scattare quel principio che sta alla base del circolo vizioso (in questo caso virtuoso) che governa tutte le forme di dipendenza. Curiosamente sfuggono da queste esclusioni William Shakespeare, rappresentato da più di un romanzo, e autori più attenti alle capacità di intrattenimento come Pirandello o Sciascia. Dorfles si orienta in direzione della letteratura del 1800 e del 1900, dando spazio a romanzi che un professore di vecchio stampo tenderebbe a non far leggere ai propri studenti. Così abbiamo proposti accanto ai classici di autori come Shakespeare, Pirandello, Primo Levi, Dostoevskij i maestri della narrativa fantastica, della fantascienza e  persino dell'horror degli inizi.
In altri termini, l'autore si sforza in un lodevole proselitismo letterario e lo fa assai bene, citando le parole di Umberto Eco: "Chi non legge vive un'epoca sola, mentre chi legge può vivere infinite epoche diverse". Quindi la lettura come evasione, oltre che come istruzione, un allontanarsi temporaneamente dalla realtà per vivere emozioni illusorie ben più forti di quelle che può offrire il cinema, poiché alla visione di un film lo spettatore è un essere passivo, mentre dietro a un libro, scrigno che custodisce quel bene prezioso offerto dalle combinazioni delle lettere dell'alfabeto, è un fruitore attivo che immagina, dipinge sequenze mentali e talvolta personalizza andando a completare quelle caratteristiche che uno scrittore si è solo limitato a tratteggiare. Sta anche in questo la magia della scrittura e della lettura. Ma la letteratura è anche occasione di riflessione, di denuncia, un allontanarsi dalla realtà per poi penetrarvi con la speranza di esser portatori di un nuovo carico di valori o quanto meno di riuscire a scuotere le coscienze per ristabilire i valori sopraffatti dal consumismo o dall'innegabile richiamo delle tentazioni materialistiche. Giustamente Dorfles scrive che con l'andare degli anni cioè che era considerato un prodotto di intrattenimento è in realtà uno dei più raffinati strumenti per avere consapevolezza della complessità del mondo in cui viviamo. Pertanto la letteratura come allegoria o come metafora apparentemente lontana dalla realtà, ma legata a questa da similitudini innegabili e forse più concrete di ciò che si pensa essere reale, proprio perché filtrato da quel velo di ipocrisia di cui l'uomo moderno piace contornare le proprie gesta e le proprie scelte.

Ne deriva un volume che scorre via velocemente, diviso in mini capitoli che fungono da raggruppamento dei vari romanzi proposti. Il linguaggio è semplice, di facile lettura, rivolto a un pubblico di qualunque specie. Dorfles presenta ciascun romanzo parlando della trama e offrendo la propria valutazione del testo, individuando chiavi di lettura e significati metaforici, con tanto di citazioni e di frasi estrapolate dal testo di riferimento.
Ne deriva un'opera che è perfetta per esser regalata a dei giovani ragazzi, per permettere loro di avere un orientamento che possa avvicinarli in modo divertente alla lettura e che possa permettere loro di acquistare i volumi più indicati ai loro gusti. Dorfles presenta autori come P.K.Dick, Orwell, Verne Poe, Stevenson, Stoker, Mary Shelley, Collodi, Swift insomma ce n'è davvero per tutti i gusti.
Si tratta inoltre di un libro utile anche agli adulti, specie coloro che amano la letteratura e che sono sempre in cerca di quello scambio di opinioni e di diversi approcci interpretativi di un testo, discussioni che al bar, come invece immagina Dorfles, sono assai rare da poter intavolare tra una spuma e un tramezzino.

Chiudo con un'ottima frase di Dorfles, forse un po' troppo romantica e ottimista nell'estendere il concetto a tutti coloro che leggono, che va riequilibrata con una massima di Jorge Borges che sosteneva che un buon lettore è raro tanto quanto un buon scrittore: I libri bisogna viverli, rileggerli, sentirli propri, personalizzarli. Farli diventare una parte di noi come noi diventiamo una parte di quello che hanno dentro."