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sabato 22 giugno 2024

Recensione Narrativa: NARAKA di Caleb Battiago.

Autore: Caleb Battiago (alias Alessandro Manzetti)
Anno: 2013.
Genere:  Distopico / Torture Porn.
Editore: Independent Legions (2018).
Pagine: 232.
Prezzo: 14.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Opera di esordio che ha rivelato e lanciato Alessandro Manzetti nel gota internazionale dell'editoria horror, tanto da portarlo - nel giro di un paio di anni - a conquistare il primo dei tre Bram Stoker Award che gli sono stati riconosciuti (su quattordici nomination) negli States. Un premio quest'ultimo, attenzione, mai conseguito da nessun altro scrittore italiano e dunque base di partenza da evidenziare ogni volta di cui si parla di questo autore, non poi così semplice da metabolizzare e dunque facile da ripudiare (mai vincitore di un Premio Italia, ma idolo della sagra del Cicatiello). Seppur a forte trazione sci-fi distopica, possiamo definire Naraka un horror manifesto nel suo “rivoluzionare” il genere, proponendo qualcosa che in ambito editoriale non era ancora mai stato visto in Italia. Il romanzo esce nel 2013 – poi riproposto nel 2018 dalla Independent Legions - e si propone di scioccare i lettori scegliendo la via di un oltranzismo che non si frena al cospetto di alcunché, esondando oltre i limiti del sostenibile. Manzetti mischia un soggetto action alla Nikita (1990) di Luc Besson impiantato sul cosiddetto body horror, con richiami a pellicole quali 2022: I Sopravvissuti (1973), al tema della “nuova carne” di David Cronenberg e al torture porn alla Hostel (2005) di Eli Roth per stemperare (purtroppo) il taglio commerciale e di intrattenimento con l'amore mai celato per il marchese De Sade, le “perversioni malate” della rappresentazione cinematografica di Salò o Le 120 Giornate di Sodoma di Pasolini e con quell'estremismo ereditato dai “maestri” del cosiddetto hardcore horror rappresentato da Edward Lee, Graham Masterton e Charlee Jacob (non a caso poi proposti dallo stesso Manzetti all'interno del suo catalogo editoriale). A differenza di Edward Lee mancano del tutto l'ironia e le situazione iperboliche. In Naraka l'orrore è reale, tragico e cattivo senza alcuna speranza, poiché tutto è marcio (anche in quello che viene definito “il mondo di sopra”) e non vi sono personaggi positivi né un paradiso ideale in cui evadere. Lo stile, pur se sperimentale e con delle continue interruzioni di ritmo rappresentate da richiami citazionisti (alla lunga, a mio modo di vedere, leziosi), non ha il lirismo della Jacob (non che sia un difetto), ponendosi a metà strada tra taglio cinematografico e peregrinazioni filosofeggianti. La sensazione è che si tratti di un Manzetti non ancora maturo nella gestione di un soggetto valido e accattivante, ma non sviluppato appieno (buchi narrativi dovuti alla scelta di portare avanti il tutto per "schizzi" piuttosto che in funzione di una visione dettagliata d'insieme). C'è troppa carne al fuoco (è proprio il caso di dire), messa sotto lo sguardo del lettore e poi non sfruttata, tra cui interessanti spunti sociali e religiosi che indubbiamente elevano il testo dal mero pulp. Il Naraka è una sorta di inferno dantesco, con i suoi gironi (qualche girone in più non avrebbe guastato), scavato sul lato oscuro della luna con l'intento ufficiale di ripulire la Terra dalla feccia. Un carcere dunque che diventa un mattatoio probabilmente ispirato ai campi di concentramento nazisti, dove si selezionano le carni, si utilizzano gli uomini come energia destinata ad alimentare le macchine (vachi echi a Matrix), si allevano uomini in cattività selezionando gli accoppiamenti come si potrebbe fare con stalloni e fattrici e si sperimentano strane mutazioni genetiche che rimandano vagamente agli esperimenti del Dottor Moreau (parte non ben sviluppata). Bello spunto, nulla da dire, che Manzetti trasforma in una metafora delle cattiverie che dominano il mondo (capitalismo su tutto?) vedendo nella religione (rappresentata da un prete pedofilo spacciatore di allucinogeni) una droga funzionale a garantire il controllo sociale, in vista di un menzognero aldilà in cui l'anima potrà finalmente liberarsi dalla prigionia e dalle sofferenze. È chiaro che Manzetti adotti un'impronta atea che sembra escludere l'esistenza dell'anima. Tutto è inganno. La parola data non viene rispettata. La politica fornisce risposte ipocrite e promette una civiltà, con i suoi 37 miliardi di abitanti affamati (contro gli attuali 8 miliardi scarsi), ormai sfuggita di mano e sul punto di tramutarsi in un inferno romeriano. Questa era la parte su cui si doveva puntare forte, sviluppando meglio il capitolo dell'evasione dell'eroina “bessoniana” Kiki Leger, una sicario professionista francese finita – insieme ad altri assassini seriali – nella prigione di massima sicurezza. Manzetti invece tende a ripetersi (propone tre tentativi di evasione) per farsi prendere la mano dalla tentazione di dettagliare le atrocità che diventano – non ce ne voglia – il contenuto dominante, ciclico e ripetitivo. Un peccato, perché gli spunti c'erano ed erano tanti (ivi compresa l'evoluzione tecnologica che si ripercuote contro l'uomo). La fanno da padrona gli stupri, le violenze sulle donne con tante scene eccessive sia nel numero sia nei contenuti. Difficile da leggere, ma anche da concepirle certe scene. Mi verrebbe da chiedere cosa avrebbe pensato la donna di Lucio Fulci, che decise di abbandonarlo dopo aver visto Lo Squartatore di New York. La storia infatti, dopo un inizio giostrato sulla luna su due diversi periodi temporali che si alternano tra loro nella narrazione finché uno di questi, a circa metà romanzo (altra scelta discutibile), arriva al suo epilogo, si sposta in una Parigi post-apocalittica, flagellata dalle radiazioni e schiava di un sesso liberalizzato in ogni sua più perversa follia. Manzetti dopo essersi presentato da novello Quentin Tarantino (il primo capitolo è tarantiniano per come presenta i vari personaggi) si traveste da Philip K. Dick, traccia scenari urbani cupi e notturni da vero e proprio noir, giostrati tra flashback e una gestione della storia tutt'altro che lineare, per poi “scadere” (non me ne voglia) in sodomizzazioni brutali, stupri compiuti da uomini deformati da pus e pustole, sventramenti di donne, depezzamenti e altre soluzioni che – a mio modo di vedere – contaminano un buono spunto di interesse cinematografico con volgarità che rubano la scena ai contenuti e all'atmosfera contraendo il cerchio dei potenziali lettori. Le nefandezze infatti sono pressoché continue, le troviamo in ogni capitolo, con un'insistenza che da l'impressione di essere compiaciuta (oltre che ripetitiva). Un aspetto quest'ultimo che esalta uno zoccolo duro di afecionados dell'autore, ma al tempo stesso allontana tutti gli altri. Perché devo esaltarmi nel legggere depravazioni di ogni specie? Leggo il romanzo perché cerco queste esagerazioni, oppure perché voglio trovare qualcos'altro che sia il sense of wonder, il divertimento, l'aspettativa di sapere cosa succederà oppure il trovare spunti riflessivi? Paradossalmente, credo che la presenza di un editore sopra Manzetti avrebbe permesso al romanzo di migliorare e di tanto, come peraltro succedeva ai tempi della cinematografia di genere quando il demone della censura faceva a fette certe scorciatoie (attivando indirettamente la fantasia degli autori). Dico questo, si badi bene, da cultore di una certa cerchia di registi. Ritengo infatti doveroso, perché richiesto dalla tipologia di storia, inserire momenti ad alto tasso grandguignolesco, ma questo non deve diventare un qualcosa di dettagliato e persistente. Il troppo, dice un vecchio detto, “stroppia”. Si deve comunque riconoscere a Manzetti, tra i tanti momenti (diversi ripetitivi), di aver descritto molte scene estremamente efficaci. Tra queste citerei il primo arrivo all'affettatrice, le scene delle sparatorie descritte con divertente gusto pulp e l'eccezionale (sia per cattiveria che per erotismo, nella fattispecie e per una volta non tramutatosi in pornografia) del primo incontro tra Kiki e “l'ape regina”. L'epilogo, giusto per non farsi mancare niente in tema di perversioni, strizza l'occhiolino alla storia di Armin Meiwes e suggerisce i contenuti di un sequel (che verrà pubblicato anni dopo col titolo di Naraka 2) diretto a riscrivere le coordinate dell'antropofagia romeriana in vista di un'interessante critica al capitalismo scandagliato nelle sue più estreme conseguenze. Insomma, c'è del buono ma troppo contaminato da concessioni stilistiche, lirismi e soprattutto una contemplazione del macabro applicato a parafilie di ogni tipo che, alla lunga, indispongono la lettura.

Da un punto di vista oggettivo, Naraka ha dato vita a una serie di volumi, tra seguiti, spin-off e prequel, che ne hanno fatto un romanzo, piaccia o non piaccia il genere, da leggere per quanti siano interessati alle mutazioni e all'evoluzione della narrativa dark a tinte horror. Testo dunque storico, eppure da evitare per chi non dovesse tollerare violenze, sangue e torture.

All'interno dell'edizione Independent Legions sono presenti alcune illustrazioni di Stefano Cardoselli, altro autore apprezzato negli Stati Uniti, col suo inconfondibile stile – a mio modesto e non qualificato parere – di grana grossa, eppure reputato tra i migliori in certi ambienti altolocati. Per quel che mi riguarda, sceglierei tutta la vita Giorgio Finamore, Boris Vallejo e, per restare in campo Independent Legions, Vincent Chong.

In una frase: pietra miliare dell'hardcore horror italiano, con spunti contenutistici su cui lavorare.

 
Caleb Battiago ovvero Alessandro Manzetti, 
versione CANTA TU:
suggeriamo il brano NUDA E SENZA SENO di Alberto Fortis:
"Mi è stato risposto non farlo perché, una mucca potrebbe morire per me!"
 
"Questo è il futuro... Mangiati e digeriti da una macchina da noi costruita: il creatore che diventa cibo, carburante. Non ci sono confini a questa tecnologia."

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