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sabato 11 febbraio 2017

Recensioni Narrativa: DALLE NOVE ALLE NOVE di Leo Perutz




Autore: Leo Perutz.
Genere: Realismo Fantastico / Giallo.
Anno: 1918.
Edizione: Reverdito Editore (Anno 1988).
Pagine: 282.
Prezzo: 24.500 lire.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Primo incontro col praghese Leo Perutz considerato, dal movimento letterario, uno dei maggiori esponenti della narrativa fantastica del blocco germanico/austro-ungarico dei primi novecento. Mi è difficile, essendo la mia prima lettura, scendere in ulteriore dettaglio sulla carriera di questo travagliato autore, costretto a fuggire dall'amata Austria prima dello scoppio della seconda guerra mondiale a causa delle sue origini ebraiche. Si intuisce però, già da questo Zwischen Neun und Neun (Dalle Nove alle Nove), senz'altro una delle sue opere prinicpali al punto da esser definito "il maggior successo editoriale dell'immediato dopoguerra sul mercato tedesco", una profonda diversità da autori quali Meyrink, Ewers o Strobl. Pur individuando in Hoffmann il maestro prediletto, queste le testuali parole dello scrittore, a mio avviso si respira una vicinanza marcata a un autore quale Franz Kafka. L'avventura che ci accingiamo a raccontare, infatti, è strettamente ancorata alla realtà, più in particolare al tessuto socio-economico della Vienna del periodo, ma nonostante questo prende la via del bizzarro, direi più propriamente del surreale di kafkiana memoria, senza però sconfinare nella letteratura del paranormale o del fantastico nel senso più stretto del termine. Perutz dispone di una smisurata abilità nello sviluppare la trama in modo da tenere il lettore attaccato alle pagine con dialoghi e descrizioni minimaliste ma calibrate a dovere. A contrario di Kafka è apparentemente meno autoriale (sottolineo "apparentemente") e più concentrato sul ritmo e i fatti, con un'ironia beffarda che traspira da ogni capitolo e che prende la forma di uno specchio d'acqua sotto il quale hanno gioco delle sabbie mobili in cui il protagonista, senza quasi accorgersene, affonda sempre più. Con questo Dalle Nove alle Nove, periodo di dodici ore in cui si svolgono i fatti narrati (anche se in realtà, come scoprirete alla fine, si tratta di un artificio della fantasia), Perutz usa l'espediente del racconto giallo/poliziesco alla Kafka, modello de Il Processo pure se meno criptico, per raccontare la sua amata Vienna e soprattutto il tessuto sociale urbano e la condizione umana nel suo senso più generale possibile. Così vediamo il protagonista, un abile studente che da ripetizioni a giovani di ricca famiglia cacciatosi in un brutto giro per motivi futili, vagare per la città con un comportamento alquanto bizzarro. Durante questa sua odissea, in cui cerca di recuperare per vie legali una determinata somma di denaro sufficiente a convincere la sua ex ragazza a compiere con lui, in luogo di un altro, la vacanza che la stessa ha organizzato in Italia, incontra, di volta in volta, una moltitudine di personaggi che incarnano i diversi stereotipi degli individui che si possono incontrare in città (dai professori universitari, ai medici, passando per i ricettatori, le bambinaie del parco, ai giocatori di domino, i truffatori e via dicendo). A Perutz interessa più questo che la trama in sé e per sé, la sua è un'analisi filosofica e, per certi versi, spirituale che prende le mosse dalla sociologia. Vuole fare un quadro beffardo della situazione, fatto di continue incomprensioni e punti di vista sbagliati, talvolta determinati da preconcetti (si veda la salumiera che a inizio romanzo pensa di aver subito un furto orchestrato in modo subdolo dal suo cliente) altri da modi di approcciarsi superficiali o comunque disinteressati sotto l'apparenza dell'interesse (vedere come in pochi si accorgino delle discrepanze nelle ricostruzioni fatte dal protagonista). Demba, questo il nome del protagonista, verrà visto in dozzine di modi diversi, alla fine da ubriaco (e lui stesso si convincerà di quanto gli altri gli andranno ad attribuire, tipo di esser in possesso di una pistola), costretto ad accampare le più assurde storie e bugie per motivare il suo strano comportamento, riuscendo spesso e volentieri a convincere l'interlocutore di turno e pure se stesso, tanto da compiacersi delle proprie trovate e dirselo davanti a uno specchio. "Bisogna costringere le persone con l'astuzia, con la superiorità di spirito, la forza di volontà, il potere dello sguardo, approfittando di ogni situazione, e fare quanto ci si aspetta da loro." Si tratta però di conquiste fragili come castelli costruiti sulla sabbia, pronti a cadere al primo soffio di vento perché non strutturati.

Per circa metà romanzo, con arte manipolatoria, lo vediamo vagare senza mai mostrare le mani, tenute rigorosamente sotto il cappotto, come mostra la copertina dell'edizione tedesca con cui abbiam deciso di aprire questo articolo. Perché questo? Lo si capirà solo a metà romanzo, dove Perutz racconta l'antefatto da cui si snoderanno due storie. Una è quella che il lettore sta leggendo, la fantastica in quanto parallela alla reale, oserei dire, l'altra si scoprirà alla fine con un colpo a sorpresa  che spiazza, poi non più di tanto, il lettore o quanto meno dovrebbe farlo nell'ottica dell'autore. Da notare come si respiri una sorta di messaggio metaforico per il quale la vita è paragonata a un'esistenza in catene (vuoi di ragione mentale vuoi di ragione sociale), mentre la morte è vera libertà (almeno così io interpreto, l'altrimenti beffardissimo, l'ultimo capoverso del romanzo). Dalle nove alle nove, in questo potrebbe anche significare la fine che simboleggia un inizio ovvero la morte come nuova vita a cui si giunge con un cammino di illusioni che sbocciano in clamorose beffe orchestrate da un destino divertito e divertente (per gli altri, non certo per chi deve fare i conti con i fatti nudi e crudi che si presentano sul proprio cammino).
L'ironia, pur nella kafkiana situazione di un uomo braccato dalla polizia per un reato in fin dei conti di scarso tenore (il furto di tre libri da una biblioteca universitaria) ma che viene trattato alla stregua di un omicidio, regna sovrana ed è curioso vedere come il protagonista riesca, ogni volta, ad accalappiare in diverso modo il denaro ricercato dovendo poi, per un motivo o per un altro, rinunciarvi, sempre per il vizio che lo attananglia e che non voglio qua evidenziare per non rovinare la lettura. Una sorta di volubilità degli obiettivi materiali e terrestri, che sono sempre a portata di mano ma fuggono sempre perché non ancorati al vero fine che dovrebbe orientare la vita di quello che Meyrink definirebbe l'uomo superiore ovvero colui che cerca il cammino della trascendenza (e che, per forza di cosa, passa da un'iniziazione tribolata e sofferente, altrimenti sarebbe di pronto accesso per chiunque). Per dirla in altri termini, ciò che sulla terra è materiale nell'altrove diviene immateriale per l'incapacità di superare l'ostacolo della morte. Dove si è mai visto, del resto, del denaro che supera il confine della realtà per varcare quello della dimensione ignota agli occhi degli umani?
Perutz, a differenza di Meyrink, a cui non amava esser accostato, esplicitamente non dice mai niente di questo, pare quasi suggerirlo a livello subliminale laddove invece l'austriaco non faceva certo giri di parole.

Belli alcuni passaggi che suggeriscono la sensazione di onnipotenza di un ricercato che passa inosservato agli occhi di polizia e passanti semplicemente camminando sotto i loro nasi, una sensazione però anche questa menzognera cui fa da contraltare la maledizione di una purezza infangata che prima o poi presenterà il suo conto in modo irreversibile e da cui non è concessa via di ritorno. Ecco quindi le successive riflessioni sull'espiazione della colpa e sull'onta incancellabile costituita da un reato passato che, agli occhi della società, non viene ripulito con la semplice condanna di una pena e che porta a un isolamento che non prevede riscatto. "La Giustizia infligge sempre le pene a vita. Chi esce dal carcere, deve nascondere le proprie mani, perché sono disonorate per sempre. Non potrà più porgere liberamente la mano a nessuno, dovrà strisciare attraverso la vita con le mani timidamente nascoste, proprio come me, che oggi per dodici ore, con le mani sotto la mantella."

Paolo Maria Filippi, nella sua post-fazione dell'edizione della Reverdito Editore, giustamente si chiede, in realtà, da chi o cosa scappi il protagonista e se davvero sia lui il colpevole o piuttosto una vittima di un meccanismo oscuro, un po' come il signor K de Il Processo di Kafka. Fa questa sua riflessione per la natura, senz'altro culturalmente più elevata del protagonista rispetto ai meschini o comunque monodimensionali soggetti che si trova a incontrare sul cammino. Un personaggio, questo Demba, che si getta in una missione folle, apparentemente dettata dal tentativo di riconquistare un amore non più corrisposto, dal sapore di supposto riscatto morale o più verosimilmente di ribellione al sistema, una sorta di voler dimostare chi, in realtà, sia il migliore senza poi interessarsi dei premi in denaro o delle conquiste affettive. Una parabola discendente che incarna, se vogliamo, la pazzia dell'uomo che non vede, nonostate i suoi impegni, i risultati sperati e che per questo impazzisce a causa del mancato riconoscimento sociale (si veda l'astio che Demba nutre per il tipo che, con superiorità, non gli rivolge mai parola quando entra nella casa in cui lo stesso svolge le sue lezioni: "Cos'è poi tanto di speciale? Niente studi universitari, niente esame di stato. E non mi stringe la mano, macché! Sarebbe indegno di lui!"). Uno stimolo, se vogliamo, puramente narcisistico e per questo destinato a fallire, perché evanescente proprio per il suo essere materiale (sembrerebbe un controsenso). Così allora arriva a scrivere Filippi: "La colpa esplicita, commessa veramente e riconosciuta (il furto dei tre libri, ndr), rimanda ad un'altra colpa, implicita, sottaciuta, metafora di uno status che va ben al di là di un banale conflitto di proprietà, della quale nulla è detto esplicitamente. " Non so se si possa sostenere la nostra ricostruzione, ma abbiamo cercato di fornire una nostra risposta all'analisi di questo bravo critico. Analisi che porta così a rendere molto diverso Dalle Nove alle Nove da Il Processo, per essere il primo più orientato su un'analisi che mette in correlazione la vacuità degli obiettivi terreni che fingono di offrire una libertà che, invece, si può conquistare solo nell'altrove (dove non vi sono giudici e dove non esiste la materia), laddove il secondo si muove su meccanismi oscuri e prettamente materiali che regolano la società, creando un substrato occulto che, dietro le quinte, muove i fili dei poteri istituzionali. Ed ecco che viene pertinente allora l'apparente sconclusionata dissertazione del protagonista che ribalta un concetto dato per pacifico in ogni società civile e che ruota attorno al concetto di giustizia: "Non deve esserci nessun castigo. Il castigo è follia. E' l'uscita di sicurezza verso la quale ci precipitiamo, quando nell'umanità si diffonde il panico. E' il castigo ad avere la colpa di ogni crimine... Che l'umanità abbia il potere di castigare, è questa la causa di tutta l'arretratezza spirituale..."


.Leo Perutz.

Un'opera questo Dalle Nove alle Nove che calamitò subito le attenzioni di mostri sacri del cinema come il maestro dell'espressionismo tedesco Murnau, che tentò di farne una trasposizione (restando impantanato nel mare dei diritti d'autore e delle mancate autorizzazioni, in quegli anni era rimasto altresì coinvolto nella lunga causa intentata dalla moglie di Stoker per bloccare Nosferatu), e sua maestà Alfred Hitchcock che vi si ispirò per il suo The Lodger (Il Pensionante) uscito nel 1927.
Chiudo con un commento che ho trovato molto chiarificatore circa il contenuto del testo. E' stato pubblicato su Anobi da una tale che si chiama GRAZIA, suona quasi di beffa pure questo dato che si parla di colpe e giudizi, la quale in poche parole sintetizza, a mio modo di vedere, l'anima del testo: "Avrei detto lettura d'intrattenimento. E invece. Tutt'altro. Siamo dinnanzi ad una metafora sulla condizione dell'uomo. Sulla delusione dell'uomo. Sulla fine di tutti i suoi sogni e le sue illusioni. In primis la libertà. Ma anche l'amore. E la giustizia. E il sentimento che coglie e che ben descrive è l'impotenza, l'essere con le mani legate, l'impossibilità di cambiare le cose, nonostante il dibattersi quasi frenetico dell'uomo".

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