Autore: Arthur Conan Doyle.
Titolo Originale: A Study in Scarlet.
Genere: Giallo.
Anno: 1887.
Pagine: 130 circa.
Commento di Matteo Mancini.
Pietra
miliare del genere giallo/poliziesco soprattutto per essere il
romanzo che introduce il personaggio di Sherlock Holmes e il suo
metodo analitico che farà scuola in narrativa, ma anche nel campo
d'indagine della vita di tutti i giorni gettando le basi dell'odierna
criminologia.
Conan
Doyle avvia così la serie che gli regalerà una fortuna economica
probabilmente non preventivabile quando, nel 1887, concepì questo
suo Uno Studio in Rosso. Il medico scozzese, di origini
irlandesi, quando pubblica il romanzo ha circa ventotto anni e ha già
scritto alcuni discreti racconti brevi rientranti nell'alveo della
narrativa del terrore, ma è ancora lontano dalle storie fantastiche
del Professor Challenger che amerà, crediamo di poter dire, molto di
più del suo geniale detective. Affascinato dalle storie, poche per
la verità, con protagonista l'investigatore Auguste Dupin di Edgar
Allan Poe che, nel 1841, comparve nel romanzo ispiratore I
Delitti della Rue Morgue,
Doyle decide così di dar vita a un testo che aprirà le porte a una
lunga serie. Quattro romanzi e qualcosa come una sessantina di
racconti, che hanno tutti in comune, altro aspetto che farà scuola,
una narrazione filtrata dai ricordi dell'assistente Watson che
ricorda i casi come se stesse leggendo le pagine di un suo diario.
A
differenza delle opere di Poe però, questo primo romanzo, non si
concentra sull'intreccio giallo, ma punta tutto sulla
caratterizzazione dei personaggi e sul metodo di indagine utilizzato
per risolvere un duplice delitto il cui movente è sepolto negli anni
e si riconduce a una vecchia vendetta. Dunque niente a che vedere, a
esempio, con i successivi gialli di Agatha Christie, tanto per citare
un'altra Grande Maestra, finalizzati a portare il lettore a chiedersi
chi sia l'autore degli omicidi e a scovarlo tra una serie di
sospettati, grazie a svariati indizi seminati nel testo. Qua non c'è
alcun interesse a spingere verso questa direzione, del tutto
impraticabile peraltro, ciò che preme all'autore è presentare il
metodo d'indagine rivoluzionario del suo personaggio. Doyle
addirittura arriva a dividere la storia in due parti, con una sorta
di racconto nel racconto. Abbiamo la prima parte dove, dopo aver
presentato i personaggi e analizzata la scena del crimine per cui
Sherlock Holmes viene ingaggiato da Scotland Yard in veste di
consulente, viene risolto il caso e una seconda parte dove,
regredendo indietro di trenta anni in una scenografia western, si
spiegano, partendo molto alla lontana, le ragioni che stanno alla
base del duplice omicidio consumato a Londra. Una storia quest'ultima
che verte sulla volontà ossessiva di vendetta di un uomo riconnessa
alla scomparsa di una giovane donna deceduta, per crepacuore,
all'interno di una comunità di mormoni (tratteggiati come una setta
dominata da un santone accentratore).
Statua di Sherlock Holmes
a Londra.
Intreccio
dunque tutt'altro che memorabile, ma caratterizzazione e spiegazione
del metodo d'indagine di alta scuola tanto da elevare il romanzo a
pietra miliare. Doyle gioca a voler superare il maestro Poe, facendo
dire al suo protagonista che i metodi del corrispettivo collega americano (Dupin) sono
molto plateali e superficiali oltre che poco geniali. Ne deriva
l'ideazione di un personaggio in apparenza pomposo e presuntuoso,
quasi un giocatore d'azzardo che spara ricostruzioni e arriva persino
a dire, a colpo d'occhio, i mestieri delle persone che passeggiano
per la strada, ma che alla fine non sbaglia alcuna visione e
previsione riqualificandosi così da potenziale cialtrone a genio,
una specie di mentalista ante
litteram che assorbe
dati, analizzando vestiti, portamenti, caratteristiche fisiche,
tracce sul terreno, attraverso un ragionamento regressivo che prende
le mosse dai dati oggettivi che si hanno sotto gli occhi per
concludersi con l'individuazione del dato da scoprire. Un metodo di
indagine che lascia sorpresi i poliziotti professionisti che invece
affondano o sbagliano nell'interpretare i vari indizi. Infatti, se
Sherlock Holmes spicca, Doyle mette in cattiva luce Scotland Yard e i
suoi poliziotti. “Gregson
è la mente più brillante di Scotland Yard. Lui e Lestrade sono gli
elementi migliori di un branco di imbecilli...”
I due agenti finiranno così per imboccare piste sbagliate e
arrestare innocenti, mentre Sherlock, attraverso l'impiego anche di
un un gruppo di ragazzotti di strada, riuscirà a individuare il vero
responsabile. Ciò nonostante, sulla carta stampata, i meriti della
risoluzione del caso andranno tutti a Scotland Yard perché “questo
succede quando non si ha una posizione ufficiale.” Sherlock
Holmes viene definito dai giornalisti, che non sono a conoscenza del
dietro le quinte, come un dilettante che può solo
sperare, col tempo, di conseguire un po' delle abilità dei due
grandi poliziotti.
Lapidario il commento di Sherlock, alla vista dell'articolo e alla
presenza dell'amico Watson (conosciuto perché quest'ultimo, di
ritorno da una campagna militare in Afghanistan, era in cerca di un
alloggio da dividere con un compagno di camera), in riferimento
all'esito finale della storia: “A
questo mondo, quello che si fa non ha molta importanza. Il problema
è, cosa si può far credere alla gente di aver fatto!”
Un
cenno conclusivo va alla caratterizzazione di Sherlock Holmes. Doyle
non da vita a un super eroe completo e tuttologo, piuttosto a uno
specialista dell'indagine ovvero a una vera e propria macchina di
indagine che sa tutto quello che deve sapere per perseguire il suo
obiettivo, ma che poi ignora tutto il resto persino ovvietà
riconducibili a una minima conoscenza di cultura generale. Un
imprinting che trova la sua ragione d'essere in una convinzione che
lo stesso indagatore spiega al suo assistente, stupefatto dei
commenti del mentore che dichiara di disinteressarsi del tutto alla
teoria copernicana. Così
spiega Holmes:“il
cervello umano è come un attico vuoto che uno deve riempire con i
mobili che preferisce. Uno sciocco assimila ogni sorta di ciarpame
gli viene a tiro, così le nozioni che potrebbero essergli utili
vengono spinte fuori o, nella migliore delle ipotesi, accatastate
alla rinfusa insieme con un'infinità di altre cose, di modo che ha
difficoltà a ritrovarle. Un operaio abile, invece, sta molto attento
a ciò che immagazzina nel suo cervello.”
Dunque
un individuo che non è laureato, eppure studia più di coloro che
seguono i corsi convenzionali e lo fa attraverso l'analisi di una
serie di materie variegate tutte funzionali a fargli espletare la sua
professione di detective dilettante. Un personaggio fuori schema,
bizzarro e a tratti poco raccomandabile che pure supera di gran lunga
i professionisti. “I
suoi studi sono privi di qualsiasi metodo e piuttosto eccentrici”
spiega un amico di
Watson prima di farglielo conoscere, “ma
ha accumulato una massa enorme di cognizioni insolite che
lascerebbero a bocca aperta i suoi professori... Dio solo sa cosa
studia.”
L'ambizione
di Sherlock Holmes, uomo peraltro piuttosto scostante e suscettibile
agli sbalzi di umore, è così sbandierata da renderlo agli occhi
dell'amico come arrogante e pomposo. Così infatti il detective parla
di se: “Ho tutte le
qualità per diventare famoso. Non esiste e non è mai esistito
qualcuno che abbia dedicato tanto studio e tanto talento naturale
alla scoperta del crimine quanto ne ho dedicato io.”
Doyle
tratteggia così i caratteri di un personaggio destinato a
ricomparire di nuovo sulla carta stampata dove, tuttavia, farà
ritorno solo tre anni dopo con Il Segno dei Quattro. L'inizio della leggenda è così appena accennato...
“Asseriva
di esser in grado di intuire i pensieri più reconditi delle persone
da una fuggevole espressione, dalla contrazione di un muscolo, da
un'occhiata. Secondo lui, era impossibile fingere in presenza di chi
fosse addestrato all'osservazione e all'analisi. Al non addetto ai
lavori i suoi risultati sarebbero apparsi talmente sorprendenti che
lo avrebbero preso per uno stregone.”
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