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sabato 12 dicembre 2015

Recensione Cinematografiche: THE PROGRAM di Stephen Frears






Produzione: Tim Bevan, Eric Fellner, Tracey Seaward e Kate Solomon.
Soggetto: David Walsh.
Sceneggiatura: John Hodge.
Regia: Stephen Frears.
Montaggio: Valerio Bonelli.
Colonna Sonora: Alex Heffes.
Interpreti Principali: Ben Foster, Chris O'Dowd, Guillaume Canet, Jesse Plemons, Dennis Menochet, Lee Pace, Dustin Hoffman.
Durata: 103 min.

Commento Matteo Mancini.

Nei cassetti della memoria, poi neppur tanto sbiaditi dal tempo, affiora il ricordo di un ciclista, un ventunenne capace di debuttare nella più ambita corsa a tappe del mondo. Proprio così. C'era una volta un giovane campione del mondo su strada venuto dall'altra parte del mondo, incapace però di resistere ai ritmi spezzati e discontinui degli scalatori, quegli scatti che tagliano le gambe; ma soprattutto, c'era una volta un uomo capace di sconfiggere un tumore ai testicoli e di sopportare una delicata operazione alla testa, per ritornare alle competizioni più forte di prima. E c'era una volta un eroe capace di vincere sette tour de France consecutivi (record assoluto alla Grande Boucle), dopo aver visto negli occhi la dea falciatrice e averla ricacciata con forza nella nebbia della attesa indeterminata, nebbia da cui però sono uscite altre ombre e sospetti che uccidono anch'essi seppur in modo invisibile. Signori, c'era una volta un uomo, una star capace di abbagliare mostri sacri della storia sportiva, una maglia gialla che affiorava dalle pendenze di una salita cancellando il fondo fatto di vette innevate... signori, c'era una volta LANCE ARMSTRONG e veniva da Plano seguendo un programma.
A quattro anni dal ritiro delle competizioni di Armstrong, un poker di produttori porta al cinema la storia di quest'uomo. Il nome di spicco che sta alla base del progetto, tra i finanziatori, è quello del neozelandese Tim Bevan, produttore esecutivo di altre celebri pellicole sportive, Rush (2013) di Ron Howard e Senna (2010) di Asif Kapadia su tutte, ma soprattutto premiato ai BAFTA per La Teoria del Tutto (2014), La Talpa (2011) ed Elizabeth (1998) quali migliori film britannici. Produttore attivissimo nel Regno Unito, sulla cresta dell'onda fin dalla seconda metà degli anni '80 ed esploso negli anni '90 grazie alla realizzazione di film quali Fargo (1996) e Il Grande Lebowski (1998), poi seguiti dagli scatenati Johnny English (2003), Wimbledon (2004) e Hot Fuzz (2007) per un totale superiore a cento pellicole che ne fanno forse il più importante produttore sul mercato inglese. Lo supporta nello sforzo il socio Eric Fellner, con cui ha iniziato a collaborare a partire dal 1993, in occasione della produzione del western Posse, La Leggenda di Jessie Lee (1993) diretto da Mario Van Peebles, proseguendo con Triplo Gioco (1993) e via via con un lungo e duraturo sodalizio. 
Assai meno esperta è invece Tracey Seaward, la terza anima economica del film, che ha prodotto un altro Triplo Gioco (2002) che non ha nulla a che fare con quello di Bevan e Fellner, ma soprattutto è coproduttrice di War Horse (2011) di Spielberg. Sebbene sia meno blasonata, sotto il profilo quantitativo, è a lei che si deve la scelta del regista avendo prodotto le due pellicole più importanti dello stesso e cioè le candidate all'oscar The Queen (2006) dallo sceneggiatore di Rush (Peter Morgan), e Philomena (2013). Fa invece esperienza Kate Solomon alla sua prima grande produzione dopo aver tentato, con poca fortuna, la carriera di regista.

Il film nasce così dall'incontro di due forti blocchi di produttori, quello costituito dal duo Bevan-Fellner e quello rappresentato dall'emergente Tracey Seaward che porta alla scelta dell'inglese Stephen Frears quale regista a cui affidare il soggetto. Frears è un candidato all'Oscar che ha conquistato la critica in occasione di Rischiose Abitudini che gli valse proprio una nomination nel lontano 1990. Regista esperto, ultrasettantenne, ha preso le mosse nei serial televisivi inglesi di fine anni '60, proseguendo in tale settore fino agli albori degli anni '90, togliendosi le maggiori soddisfazioni negli ultimi quindici anni di carriera grazie all'approdo al cinema. A parte la commedia Lady Henderson Presenta (2005) premiata col Golden Globe, è proprio con la Seaward che strappa altri prestigiosi premi, gira persino un bizzarro western, Hi-lo Country (1998), che gli vale l'Orso di Berlino quale miglior regista. Non da meno è la ricostruzione della battaglia politica tra Cassius Clay e il governo degli Stati Uniti relativa all'intervento in Vietnam, che porterà alla carcerazione del grande pugile, immortalata nella pellicola Muhammad Ali's Greatest Fight (2013). Questo il curriculum del regista che si presenta all'appuntamento con Armstrong fresco fresco dal successo riscontrato da Philomena, con cui ha fatto incetta di premi, tra i quali il Premio Osella, alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

Frears può così concentrarsi sulla parabola di uno sportivo passato da semi-dio a un semi-demone. Per metterla in scena si sceglie di prendere a modello, come linfa da cui attingere dati, un volume di un giornalista irlandese che per primo ha osato sospettare della regolarità nella preparazione atletica di Lance Armstrong. 'Prima del tumore prendeva pesanti distacchi dagli scalatori e ora vedi come va in salita...' È la penna di David Walsh quella che stimola gli autori del film, che si leggono e acquistano i diritti di Seven Deadly Sins: My Pursuit of Lance Armstrong (2013). Piuttosto curiosamente, visto la mancanza di legami con i diretti interessati, viene dato incarico allo scozzese John Hodge di stendere la sceneggiatura. Hodge è uno sceneggiatore poco prolifico, ma ha alle spalle pellicole cult. Classe 1964, ha debuttato a trent'anni quale sceneggiatore di fiducia del talentuoso emergente Danny Boyle, mettendo la firma sui copioni di quattro suoi film amatissimi dal pubblico, tra i quali Trainspotting (1996) e The Beach (1997), per poi passare ad altri registi senza particolari risultati fino al ritorno con Boyle in occasione di Trance (2013).

STEPHEN FREARS

Hodge si concentra non tanto sulla carriera sportiva di Lance Armstrong, sui suoi successi al tour o sulle sue battaglie con gli storici avversari, i vari Jan Ullrich, Joseba Beloki o Marco Pantani, no... niente di questo, non sono neppure menzionati; così come non viene offerto alcun cenno al tributo che regalò allo sfortunato campione del mondo italiano Fabio Casartelli, suo compagno di squadra deceduto in una discesa al tour, andando a vincere in solitaria tre giorni dopo la tragedia. 
Hodge, basandosi sul lavoro di Walsh che è parte integrante della storia quale personaggio attivo, punta tutto sulla caratterizzazione ambigua e truffaldina di Lance Armstrong e sul rapporto tra lui, la squadra (la U.S. Postal col fido direttore sportivo Bruyneel) e il doping. Ne deriva un attacco fortissimo sul piano etico e professionale, che pittura Armstrong quale un manipolatore, addirittura ai limiti di un boss mafioso che controlla l'intero gruppo, minaccia chi intende mettergli i bastoni tra le ruote, per poi costruirsi attorno un immagine di copertura da benefattore. Ne è un esempio lampante l'avvertimento al ciclista italiano Simeoni, reo di aver testimoniato contro il medico che ha stilato il programma farmacologico (di cui al titolo) che sta alla base della preparazione di Armstrong. Vediamo infatti l'americano dirigersi, in corsa, accanto all'avversario, poggiargli una mano sulla spalla come se stesse salutando un amico per poi minacciarlo e fare il cenno alla telecamera di cucirsi la bocca. Tutto vero, sia chiaro, ma reso in modo ingiusto. Hodge non fa cenni al fatto che il doping, allora, fosse una pratica estesa nel gruppo, tanto che molti avversari di Armstrong, tra tutti Ullrich (Rumsas e altri), verranno poi in seguito squalificati per le medesime ragioni. Chi non mastica ciclismo, e non ha vissuto quei tempi, potrebbe esser portato a pensare alla presenza di una squadra, la US Postal, che ha truffato tutti, unica artefice di questo programma di doping scientifico che sfuggiva a ogni controllo. Addirittura si arriva a suggerire, o a dare l'idea, che l'EPO, ovvero la nuova frontiera delle emotrasfusioni (bella la sequenza con il dottore che spiega la pratica a Lance che si allena con la maschera da cui attinge ossigeno) sia stata un'ideazione del gruppo di Armstrong finalizzata ad aumentare la resistenza fisica e l'afflusso di ossigeno nei tessuti. Vero in parte, non essendo stato l'unico a farlo, né tra i primi. Si trattava in realtà di pratiche conosciute nell'ambiente. Non si fa poi cenno che il contrasto di questi atteggiamenti è mirato, in prima battuta, alla tutela degli atleti. Doparsi, oltre a truccare una corsa (risultato che non si crea, se si dopano tutti), comporta seri pericoli per la salute di chi corre, è questo il motivo per cui esistono le regole tese al contrasto del fenomeno. Sarà scontato dirlo, ma è bene farlo.
Grande attenzione poi al battage pubblicitario messo in piedi da Armstrong per costruirsi l'immagine di un eroe che ha sconfitto il cancro grazie alla forza di volontà, allo spirito di sacrificio, alla famiglia (che poi non viene neppure mostrata, mentre lui ne parlava sempre), ai valori della lealtà. Una serie di bei discorsi, come lui stesso dici, che hanno la funzione di fornire il proprio esempio per fungere da ispirazione a chi si trova a dover combattere contro la malattia. Atteggiamento lodevole, seppur viziato da meschini, o presunti tali, obiettivi personali, poiché offre comunque un esempio che infonde forza in chi lo sta a sentire e dunque, seppur viziato da negatività, positivissimo. Nel film ciò viene proposto però si tende più a far sorgere nello spettatore un pensiero della serie: 'Guarda che falso...!'
Ancor più marcata, in tal senso, la caratterizzazione del gregario Floyd Landis, che addirittura arriverà a prendere in giro la comunità religiosa in cui è nato, proprio lui che ha in casa immagini religiose che ammoniscono gli ingiusti dicendo che finiranno all'inferno. 
Non viene poi fatto nessun cenno al fatto che tutti, all'epoca dei successi dell'americano, sapevano che Armstrong utilizzava sostanze particolari, si diceva dei salvavita che si pensava potessero esser responsabili del miglioramento delle prestazioni ma che non si potevano reputare dopanti proprio perché funzionali alla cura. Non viene detto niente di tutto questo, tanto che agli spettatori non scafati potrebbe sembrare tutto inverosimile. Ho letto infatti commenti di gente che dice: 'Si capiva che era dopato, come faceva altrimenti a vincere in quel modo...? Tutti erano conniventi, quindi...' Come ho spiegato questa conclusione è inesatta e facilona.

BEN FOSTER, 
somigliante a Martin Brody,
lo sceriffo di Amity nel film di Spielberg,
sembra voler simulare la pinna di uno
squalo.

Purtroppo Frears, che pure è bravo nelle poche scene di azione - bello il prologo che omaggia la nostra fiction su Bartali, L'Intramontabile, quella con Favino, per intenderci, quando parla della voglia anteposta alle gambe, e al cuore e all'anima quali elementi imprescindibili per giungere alla vittoria anteposti al fisico - è più interessato alle magagne che allo spettacolo sportivo. Così indugia su Armstrong che si buca (mi è tornata in mente una vecchia ripresa di Fabio Cannavaro seduto su un lettino che scherza e fa battute con gli aghi delle flebo nelle vene), che invita i compagni a fare altrettanto e studia il doping perché bisogna vincere a tutti i costi. Ne esce fuori un personaggio antipaticissimo, ben reso dall'attore americano Ben Foster che appare con un look che lo rende identico al vero Armstrong. Il bostoniano è bravissimo nel ruolo. Trentacinque anni, nel cinema dal 1996 con Scacco all'Organizzazione e con ruoli spesso secondari. Lo si ricorda soprattutto in X-MEN Conflitto Finale (2006), Quel Treno per Yuma (2006), Alpha Dog (2006) e nell'horror 30 Giorni di Buio (2007). Foster convince appieno e si erge rispetto a tutti i colleghi. Ha un che di Roy Scheider, cosa che forse lo rende ancor più simpatico e fa sorgere in mente la maglia gialla dello scorso anno Vincenzo Nibali, detto appunto Lo Squalo. Duetta spesso con Jesse Plemons, chiamato a interpretare il più combattuto Floyd Landis. Quest'ultimo infatti viene presentato come un uomo indolente, che ha dei sensi di colpa profondi, ma che si dopa, andando contro ai suoi principi formativi, perché così si deve fare (almeno così sembra suggerire il regista). Una sorta di talento soggiogato al carisma del capo squadra e del direttore sportivo che vende le bici dei corridori per sostenere il doping. Plemons, arriva pure lui dagli Stati Uniti, è meno somigliante al personaggio che va interpretare e non offre una prestazione particolarmente esaltante. È comunque sufficiente, come lo sono tutti gli altri partecipanti. Meritano una menzione il francese Denis Menochet, nei panni del direttore sportivo della Us Postal che avalla in tutto e per tutto le pratiche di Armstrong (era il fattore francese in Bastardi senza Gloria di Quentin Tarantino), e l'altro francese Guillaume Canet, nei panni del medico Michele Ferrari, che viene mostrato quale innovatore delle pratiche doping nel ciclismo, una sorta di scienziato pazzo dei tempi moderni che ricerca soluzioni vincenti in anticipo sui controllori. Attore prolifico in Francia, dove si esibisce anche quale regista, i più lo ricorderanno nella sua prima esperienza all'estero con The Beach (2000) di Boyle e in Vidocq (2001) che gli valse il riconoscimento del Premio Jean Gabin.

Il vero DAVID WALSH

Piccolo cammeo per il grande Dustin Hoffman, nel ruolo di un matematico ingaggiato per la sua dote nel calcolare percentuali in campo imprenditoriale (lo vediamo alla fine lanciar in aria un mazzo di carte da gioco), chissà se sia un omaggio a Raiman. Purtroppo è una partecipazione marginale. Completa il campo l'irlandese Chris O'Dowd che interpreta il giornalista David Walsh ovvero l'autore del volume su cui Hodge, sceneggiatore di fiducia di Danny Boyle, ha messo in piedi la sceneggiatura del film, e che, ironia della sorte, è nato a Boyle nella contea di Roscommon. Si tratta di un comico irlandese, memorabile nello scatenato A Cena con un Cretino (2010), che mette da parte la propria verve per un ruolo di inchiesta. Da infatti corpo a un giornalista d'assalto, seppur pacato e gentile nei modi, che si batte per uno sport pulito. Si troverà contro tutti, persino i colleghi, riottosi a mettersi contro uno che ha amici importanti in tutto il globo, dai Presidenti degli Stati Uniti a tirar giù tra i cantanti, giudici e compagnia bella. A mio avviso si tratta di un personaggio che, nella storia di Armstrong, dovrebbe restare marginale e invece è uno degli attori principali, aspetto questo che si ripercuote sulla parte agonistica che Hodge avrebbe potutto approfondire e che invece è tagliata quasi del tutto.

Questo l'apparato artistico che, tutto sommato, funziona bene pur senza esaltare, a parte Foster che si rivela il più azzeccato. 
Sul versante tecnico c'è forse da fare qualche appunto sulla colonna sonora che non è sempre ben usata. Ho infatti avuto l'impressione che in alcune sequenze si sarebbe potuto mettere basi più emozionanti, mentre invece si è optato per i rumori di scena. A ogni modo sono presenti un mix di brani, dagli storici Simon & Garfunkel con Miss Robinson a brani più contemporanei, alternati a basi strumentali. Le musiche originali, non certo le sue migliori, portano la firma di Alex Heffes, giovane compositore inglese conosciuto soprattutto per gli horror Cappuccetto Rosso Sangue (2011) e Il Rito (2011), con l'apice raggiunto con la nomination ai Golden Globe ottenuta grazie alle musiche di Mandela: Long Walk to Freedom (2013). Sua la musica anche di un altro film incentrato sulle lotte per l'affermazione dei diritti civili nel continente nero ovvero il pluri premiato L'Ultimo Re di Scozia (2006). Heffes arriva al film dopo aver musicato il documentario Palio (2015), dai produttori del film movie Senna, diretto da Cosima Spender e dedicato al Palio di Siena che dovrebbe esser prossimo a uscire negli Stati Uniti.


Il montaggio, ottimo, è invece del poco conosciuto in Italia (dato che non gli è dedicata neppure una pagina su wikipedia) Valerio Bonelli, piccolo tecnico sorto dall'underground italiano e passato subito nell'entourage di Ridley Scott, facendo da assistente al montaggio in pellicole quali Il Gladiatore (2000), Hannibal (2001), Black Hawk Down (2001) e in The Martian (2015) che dovrebbe esser prossimo a uscire anche in Italia. Tecnico di belle speranze, dunque, emigrato in Inghilterra perché, forse, in Italia non godeva di grande considerazione o non aveva spazio. Ha preso le mosse da 'primo' montatore nel 2005, andando a montare nel giro di un paio di anni cult quali Hannibal Lecter, Le Origini del Male (2007) di Webber e Philomena di Frears che dunque lo conferma al timone in The Program.

La fotografia, patinatissima, è invece frutto dell'estro di Danny Cohen, operatore passato alla fotografia con esperienze persino in pellicole italiane quali I no Spik Inglish (1995) dei Vanzina o The Full Monty (1997) da non accreditato. A fine anni '90 si alterna tra cortometraggi, sceneggiati e serial tv inglesi, tra cui The Book Group (2003). Si fa conoscere in prima persona al cinema con l'horror Creep (2004) per poi alternarsi tra tv e cinema e ottenere i maggiori successi nell'ultimo decennio culminanti con la nomination all'oscar ottenuta con Il Discorso del Re (2010) di Tom Hooper e con quattro nomination ai BAFTA ottenute, oltre che col citato film, con Longford (2006), Les Miserables (2012), sempre di Hooper, e Joe'S Palace (2007) di Poliakoff. 

Dunque, come si vede, un cocktail di attori e tecnici di prima scelta, avvezzi ai premi e dunque tali da suscitare grosse aspettative negli spettatori internazionali. Purtroppo però Hodge e Frears hanno scelto una via difficile, forse più di nicchia che per il grande pubblico. Rispetto ad altri film sportivi, Frears non ricerca la spettacolarizzazione del gesto atletico, non tratta la storia sportiva e gli avversari del protagonista, ma sposta tutto sul suo atteggiamento politico, sul doping e sulla natura di un ambiente inquinato, quello dalla US Postal, senza però mostrare che anche gli altri non erano da meno.
Tecnicamente, pur non essendo adrenalinico (a parte l'eccellente prologo), il film scorre via bene, merito di Foster che è bravissimo, difficile fare meglio. Le quasi due ore scorrono via veloci e il film si lascia vedere con piacere. Ripeto, non mi è piaciuta la strumentalizzazione relativa alla caduta etica di Armstrong, usata per attaccarlo e distruggerne l'immagine, peraltro in modo lecito e veritiero sia chiaro, ma senza dare atto che era la situazione ambientale a determinare e a favorire tali derive. Della serie: o fai in quel modo o arrivi esimo... E di chi è la colpa di tutto questo? Dei ciclisti o dei direttori sportivi? Io non credo, la colpa è dei controllori, semplice... ma il film non ne fa menzione, troppo facile così... E' ipocrisia spiccia e facilona, un po' bacchettona mi verrebbe da dire senza voler vedere dove sta il vero problema. Comunque questa è una mia opinione, ben vengano film come questo e ben vengano personaggi come David Walsh che lottano per un mondo, in questo caso dello sport, più pulito e orientato ai veri valori dello sport che sono lo spettacolo, la dura lotta (le c.d. sportellate nel mondo automobilistico) e il sacrificio negli allenamenti, peculiarità a cui sponsor e soldi devono piegarsi e non viceversa come già spiegato in certi passaggi esemplificati nella tesi di laurea del sottoscritto che, ironia della sorte, era proprio incentrata sulla repressione penale del doping e che vanno a coinvolgere anche pratiche quali la pay per view con eventi sportivi che si moltiplicano e atleti costretti a dover effettuare recuperi fisici poco in linea con le qualità dei comuni mortali.

Curiosità personale, ho assistito alla proiezione del film in un piccolo, ma storico cinema di Pisa, il LANTERI, alla presenza di un numero di spettatori pari a quelli di una squadra ciclistica impegnata in una competizione a tappe. All'uscita dalle sale qualcuno ha detto: 'Ora ho capito perché non c'era nessuno...' mi sarebbe piaciuto vedere alcune righe scritte da questa persona per sondarne il commento.

Chiudo con uno stralcio giornalistico, che rende bene l'idea dell'ipocrisia che imperversava nell'ambiente ciclistico di quegli quegli anni. Ricordo peraltro l'episodio, verificatosi il giorno del mio ventesimo compleanno (2001), perché prese la maglia gialla un corridore (sarà poi squalificato pure lui per doping, a fine carriera) per cui facevo il tifo: Stuart O'Grady, eccelso pist-card e discreto velocista. Quel giorno l'australiano prese la maglia gialla grazie a una "fuga bidone", così chiamata perché composta da un gruppo di corridori giudicati di scarso valore. Arrivarono al traguardo con un vantaggio di oltre mezz'ora sul gruppo dei migliori. Vinse la tappa l'ottimo olandese Erik Dekker, corridore da classiche ma incapace di fare imprese in una corsa a tappe, se non parziali. Accarezzai addirittura l'idea, folle, che O'Grady potesse fare l'impresa fino ai Campi Elisi e vincere il tour de france...! E non ero neanche il solo a fantasticare simili scenari da clinica psichiatrica. Rammento però anche i più equilibrati commenti degli appassionati di allora. "Non ce la farà mai... vedrai quando arriveranno le montagne!". E infatti O'Grady, pur lottando con i denti, crollò al momento delle prime rampe, subendo i consueti pesanti distacchi. Il tour lo vinse, naturalmente, Lance Armstrong. Quel giorno però, oltre a questo evento piuttosto curioso, tenne banco l'allontanamento di un corridore di 28 anni al debutto nella Grand Boucle, di fatto sconosciuto, "brocco" e lontantissimo in classifica. Risultò infatti positivo a un controllo anti-doping tale TXEMA DEL OLMO, della Euskatel, squadra basca. La squadra di appartenza si affrettò subito nell'escluderlo dalla corsa, era sospettato di esser ricorso alla pratica dell'EPO (quella che nel film si imputerebbe alla squadra di Armstrong). Divertente, alla luce delle evoluzioni successive, la giustificazione: "al fine di evitare interferenze sul NORMALE svolgimento della competizione e RISPETTARE I VALORI ETICI E MORALI INERENTI AL TOUR DE FRANCE". "Normale" risultato finale di quella edizione? Primo Armstrong (poi radiato, anni dopo); secondo Ullrich (ha confessato che faceva uso di doping, squalificato); terzo il compagno del gregario squalificato di cui sopra, JOSEBA BELOKI, che si ritirerà a 33 anni perché coinvolto in uno scandalo doping. Come direbbe Brad Pitt nel film ispirato a quello di cui sotto: "Divertente...!

Onore allora ai protagonisti di quella pazzesca fuga in salsa SFIDE, una sorta di Quella Sporca Dozzina di Aldrich, agli ordini delle due precedenti maglie gialle, rispetto al detentore Voigt, di quell'anno, STUART O'GRADY e MARC WAUTERS, furono: CHANTEUR, GONZALEZ, KNAVEN, DIERCKXSENS, DEKKER, TEUTENBERG, DE GROOT, SIMON, TURPIN, DURAND, l'italiano LODA della Fassa Bortolo e il kazako KIVILEV. Di tutti questi, solo quest'ultimo, ebbe la forza di contenere i più grandi, chiudendo il tour, da perfetto sconosciuto, in quarta posizione. Una felicità che potè godere per poco, perché morirà poco più di un anno dopo in una banale caduta di bici nella Parigi-Nizza, determinando da parte degli organizzatori la scelta di istituire l'obbligatorietà dei caschetti. Alla luce dell'ordine di arrivo finale, Andrej Kivilev è il vincitore morale, e non solo tale, dell'edizione del 2001, un'edizione vinta in chiave Tarantino come un perfetto sconosciuto a cui non è stata riconosciuta la GLORIA che avrebbe meritato sul campo. Chapeau, come direbbe il compianto De Zan sr. 


Scritto da Matteo Mancini, 10 ottobre 2015.


L'Omaggio della Maglia GIALLA
al vincitore morale dell'edizione 2001
ANDREJ KIVILEV.



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