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sabato 17 maggio 2025

Recensione Narrativa: THE OUTSIDER di Stephen King.

Autore: Stephen King.
Titolo Originale: The Outsider.
Anno: 2018.
Genere:  Horror / Giallo.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 529.
Prezzo: 12.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Quarto capitolo della serie poliziesca Mr Mercedes da cui arriva uno dei pochi personaggi seriali della narrativa di Stephen King: la detective Holly Gibney. Uscito nel 2018 dopo Sleeping Beauties, The Outsider prosegue il percorso di Stephen King nel thriller e nel romanzo di indagine prendendo vie che ricordano molto da vicino quelle battute da Dean Koontz negli anni ottanta. Tornano infatti concetti come quello del doppio, dell'indagine su una catena di omicidi seriali su cui si affacciano componenti soprannaturali, la tematica delle violazioni di domicilio, delle minacce, degli stupri e delle brutali violenze sessuali. Da ultimo ecco poi arrivare i poteri parapsicologici del villain di teletrasportarsi da un posto all'altro, seppure in forma similar ectoplasmatica. Tutte tematiche e concetti propri della narrativa di Koontz, si vedano romanzi quali Whispers (“Sussurri”, 1980) o The Bad Place (“Il Posto del Buio”, 1991). Su tale intelaiatura King “monta” la leggenda metropolitana/folkloristica dell'uomo nero. La figura dell'uomo nero, assai cara a King fin dai tempi dell'antologia A Volte Ritornano, è riadattata in favore della leggenda messicana di “el cuco”, una sorta di vampiro sudamericano sprovvisto di forma e costretto a nutrirsi di sangue e di carne umana per poter sopravvivere e plasmare il proprio corpo assumendo quello dei soggetti da cui ha estratto il DNA e su cui andranno a ricadere le colpe dei suoi crimini (lascia infatti prove e indizi dietro di sè proprio per fare accusare altri).  “Quando i bambini americani intagliano la zucca per Halloween, stanno scolpendo il ritratto di El Cuco”. Dunque abbiamo una di quelle figure cinematografiche alla Freddy Krueger o alla Michael Myers, sebbene di natura extraterrestre (l'essere è composto da vermi). In buona sostanza, Dracula incontra gli Ultracorpi, in un substrato di critica alla giustizia penale che si spinge, per effetto della supponenza (dovuta alla presunte certezze scientifiche) tipica del luminare che pensa di aver tutto sotto controllo, ad accusare persone di reati che non hanno compiuto. Aspetto quest'ultimo non di poco conto nell'economia della storia, posto che due innocenti incontreranno la morte anche per via di una valutazione (non lontana della realtà) pecoreccia delle masse giustizialiste.

Ecco che The Outsider (l'intruso) si presenta con le stigmate di un vero e proprio romanzo di indagine le cui premesse iniziali verranno a poco a poco scombinate da un qualcosa di inedito e sconosciuto che mina le certezze dei sistemi accusatori. Dal giallo/thriller si evolve in un horror d'azione che termina forse frettolosamente (omaggiata la morte del T-1000 in Terminator - Il Giorno del Giudizio), seppure in un contesto assai scenografico debitore di romanzi come Demon Night (“La Notte del Demonio”, 1989) di Joseph Michael Straczynski.

King adotta un ritmo molto più sollecito del suo solito, specie nelle fasi iniziali, divertendosi a omaggiare la narrativa classica (William Wilson di Poe, Sherlock Holmes di Doyle, Dracula di Bram Stoker) ma anche i prodotti cinematografici dei drive in con gustosi omaggi tarantiniani a film messicani come Rosita luchadora e amigas conocen El Cuco ovvero “Le wrestler messicane incontrano il mostro”. L'inizio è memorabile e ricorda certe scene del racconto Blockade Billy (“Blocco Billy”, 2017, contenuto ne Il Bazar dei Brutti Sogni). Lo sviluppo tuttavia segue cliché lontani dalla tradizione kinghiana degli anni ottanta e novanta. King viene fuori alla distanza e lo fa con uno sguardo che omaggia i classici della narrativa del terrore e, al tempo stesso, offre una metafora del male umano, raffigurando “il mostro” con tratti insospettabili rappresentati da facce banali che incarnano il buon vicino della porta accanto. Ecco arrivare le citazioni dirette a Ted Bundy e a John Wayne Gacy, ma anche a Renfield (l'outsider ha un aiutante pazzo a servirlo), all'attitudine del mostro (come Dracula) di vivere riposando nei luoghi di sepoltura e persino la sfumatura freudiana e psicanalitica che fa del mostro un impotente sessuale come tale era Dracula (King dedica un'approfondita analisi sulla questione in Danse Macabre, 1981, parlando di sessualità orale). Lo stesso finale, all'apparenza frettoloso, non è troppo dissimile rispetto a quello di Dracula e si chiude sempre con la distruzione della testa dell'essere infernale (vera e propria cabina di regia). Più che in Bram Stoker, dove si fa un rapido accenno alla genesi del mostro, in The Outsider nulla viene detto sulla natura del villain. È una scelta deliberata. King propone alternative ipotetiche che, tuttavia, decide di non risolvere.

Alla fine ne viene fuori un romanzo più maturo e più allineato alla narrativa commerciale convenzionale, in grado di aggraziarsi i puristi del giallo ma che si trasforma in horror per la natura extraumana del villain. Tra i momenti da antologia kinghiana vi è la sparatoria all'esterno della grotta, la parte finale all'interno della stessa, l'arresto iniziale in uno stadio di baseball e la sparatoria ai piedi del tribunale. Bella anche la scena della contaminazione del poliziotto sfiorato da El Cuco.

Dunque un romanzo che definirei onesto, privo di quelle ingenuità che sovente filtrano dalle righe kinghiane, che riesce a intrattenere pur pagando qualcosa in termini di originalità. Non il top nella produzione kinghiana, ma neppure un romanzo che si può utilizzare a supporto della tesi (che non supportiamo) di un Stephen King in declino. L'autore tornerà a utilizzare la protagonista in Holly (2023) e nell'appena uscito Never Flinch (2025). Il romanzo, invece, ha ispirato una serie televisiva del 2020.

 


La realtà è come uno strato di ghiaccio sottile, ma quasi tutta la gente ci pattina sopra tranquillamente e il ghiaccio si rompe solo alla fine.

giovedì 8 maggio 2025

Recensione Narrativa: L'ORECCHIO DELLA CIVETTA di Erckmann-Chatrian.


Autore: Emile Erckmann e Alexandre Chatrian.
Titolo Originale: L'Oreille de la Chouette.
Anno: 1849-1860.
Genere: Folk Horror.
Editore: Agenzia Alcatraz, 2023.
Pagine: 350.
Prezzo: 17.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Tredicesima uscita per la collana Bizarre dell'Agenzia Alcatraz, che ripropone i numeri più famosi della serie belga Marabout Fantastique. Dopo aver rispolverato alcuni dei nomi più famosi del fantastico francofono (e non solo, basti ricordare le uscite dedicate a Ethel Mannin e Vernon Lee), è la volta della coppia costituita da Emile Erckmann e Alexandre Chatrian, due autori della seconda metà dell'ottocento soliti firmare a quattro mani i loro testi.

Assai famosi in vita nella seconda metà dell'ottocento, soprattutto per i loro adattamenti teatrali, le riduzioni liriche (addirittura di Pietro Mascagni), i romanzi patriottici e i racconti incentrati sulle cronache di vita rurale della popolazione dell'Alsazia-Lorena (di cui i due autori erano originari), il sodalizio Erckmann-Chatrian ha scritto pagine importanti del fantastico francese tanto da ricevere lodi da firme quali Howard P. Lovecraft (che li cita nel suo Supernatural Horror in Literature) e Montague R. James. Una qualità sfociata in oltre un milione di copie vendute quando ancora erano in vita. Una fortuna che ha toccato il fantastico (campo di elezione soprattutto di Erckmann) salvo poi allontanarsene a favore di tematiche di presa storico-politica. Un successo rovinato dalla vicenda conclusiva che ha posto termine alla collaborazione sfociando addirittura nelle aule di tribunale, a seguito di una serie di rivelazioni fornite da Alexandre Chatrian a un giornalista de Le Figarò. Chatrian affermò che il socio Erckmann aveva posizioni politiche filo tedesche e assicurò che l'autore delle opere firmate Erckmann-Chatrian in realtà era lui stesso. Assai infastidito, Erckmann citò a giudizio l'ex amico e riuscì a ottenere la condanna dello stesso per diffamazione. Quarant'anni di carriera (1847-1889) cancellati da un triste epilogo, reso ancora più amaro dai problemi mentali che minarono la salute di Chatrian portandolo alla morte pochi mesi dopo la condanna.

Nel novecento la produzione Erckmann-Chatrian è stata a poco a poco ridimensionata, tanto che i due autori non sono stati citati nel volume francese (aspetto che rende ancora più importante l'esclusione) della Edipem Maestri della Letteratura Fantastica. A loro non è neppure dedicato un rigo nella Guida alla Letteratura Horror dell'Odoya anche perché nel novecento, in Italia, la loro produzione è stata quasi del tutto ignorata. Il loro primo racconto (L'Araignée-Crabe) è stato pubblicato nel 1957, all'interno dell'antologia Destinazione Universo, per poi esser di nuovo riproposto nel 1994 in un trittico tutto dedicato alla coppia francese edito da Edizioni Theoria e completato da Le Trois Ames e Le Lunette de Hans Schnaps.

Si deve poi a riviste come Hypnos (nel numero 10 dell'autunno 2019 è pubblicato uno speciale di Danilo Arrigoni interamente dedicato alla coppia) e ad Agenzia Alcatraz la loro riscoperta, oltre che alla Dagon Press di Pietro Guarriello che, nel 2021, ha proposto per la prima volta in Italia un romanzo della coppia: Hugues Le Loup (“Il Lupo”).

L'antologia della Agenzia Alcatraz, ottimamente tradotta da Camilla Scarpa, delude le attese degli amanti del fantastico, a causa di una selezione (operata dai curatori della Marabout Fantastique) che non massimizza la produzione fantastica della coppia diluendo il materiale con tanti racconti che di fantastico non hanno nulla. Sarebbe forse stato opportuno – sebbene contrario allo spirito della collana Bizarre – proporre una selezione rimodulata e sbilanciata sul fantastico. Dei diciotto racconti proposti meno della metà sono ascrivibili al fantastico. Tanti non possono neppure qualificarsi come perturbanti. Dominano le cronache di paese, i momenti di vita comune, tra locande (sempre presenti), passeggiate in campagna, combattimenti tra animali, furti e omicidi. Tra gli argomenti ricorrenti abbiamo i deliri allucinatori provocati dall'abuso dell'alcool o dalle problematiche mentali, il sonnambulismo, la sfiducia nelle masse, la caratterizzazione negativa degli ebrei, le ambientazioni teutoniche, l'amore per l'arte (i protagonisti spesso sono pittori o musicisti), ma anche bizzarre scoperte scientifiche che potenziano i sensi umani.

Sorprende lo stile leggero, delicato, che non disdegna il romanticismo e una comicità grottesca, senza mai appesantire o annoiare anche quando i contenuti delle storie hanno poco da dire. La lettura è sempre piacevole e cala con successo il lettore nelle ambientazioni.

Il volume pubblicato dala Dagon Press.

Tuttavia solo due dei diciotto racconti proposti, specie se si considera l'anno di pubblicazione, sono da reputare autentici capolavori. È il caso de Il Cannocchiale di Hans Schnaps (La Lunette de Hans Schnaps, 1859) uno sci-fi ante-litteram che anticipa la tematica della realtà virtuale. Uno scienziato pazzo inventa un cannocchiale speciale (“materializza le idee e le mette a disposizione delle masse”) che riproduce tutto quanto passa nella mente dell'uomo che vi guarda all'interno, traducendo in immagini pensieri, sogni e aspirazioni provocando una vera e propria fuga dalla realtà che induce l'utilizzatore a vivere una vita immaginaria attaccato allo strumento. Un capolavoro a tutti gli effetti. Interessanti anche i passaggi, con uno snobismo che vede nel volgo una massa ignorante di persone. ”Perché un'idea abbia successo in questo mondo, bisogna che abbia l'appoggio delle masse. Ora, le masse, che non saprebbero elevarsi all'altezza dell'idea pura, comprendono mirabilmente l'idea materializzata, cioè i fatti. La pretesa superiorità degli uomini pratici sui pensatori non ha ragione d'essere. Quei giovanotti là sono ricchi, potenti, governano il mondo, si fanno loro delle statue... Perché? Perché mettono a portata di imbecille l'idea di qualche povero diavolo di grand'uomo morto di fame in un tugurio”.


Celebre, non solo per gli elogi di Lovecraft, L'Occhio Invisibile (L'Oeil Invisible, 1857). Un racconto che anticipa Il Ragno (1907) di Hans H. Ewers e La Finestra sul Cortile (1942) di Cornell Woolrich, parlando di una serie di strani suicidi (che danno spunto alla realizzazione della copertina del libro) che avvengono fuori una locanda. Al centro dell'intreccio ci sarebbe una sorta di stregoneria orchestrata da una vecchia signora che abita sul lato opposto all'appartamento della locanda. Un pittore intuirà il tutto. Spierà i movimenti della donna e, affittato l'appartamento in questione, adotterà uno schema inverso per ribaltare il sortilegio e portare al suicidio la strega.


Il terzo racconto di livello, seppure penalizzato da un finale frettoloso e da certe soluzioni divinatorie un po' fuori luogo, è Il Ragno-Granchio (L'Araignée-Crabe, 1860), una sorta de Lo Squalo dei primordi che propone una surreale avventura ambientata nelle acque termali di Spinbronn, dove la quiete e le qualità curative delle acque vengono minacciate da una serie di scomparse e di ritrovamenti di cadaveri. In azione infatti vi è un ragno caraibico che, aiutato dal calore delle acque, è lievitato di dimensioni al punto da attaccare uomini e animali. Spedizione finale per eliminare la creatura.


Valido L'Orologio del Decano (Le Montre du Doyen, 1859), un giallo alla Poe, con bizzarre apparizioni, uomini che vagano sui tetti impugnando pugnali intrisi di sangue, indagini della polizia, accuse a carico di innocenti e risoluzione del mistero. La coppia di autori, questa volta, parla di sonnambulismo, immaginando uno stato psichico in cui si annulla la ragione dell'uomo e vengono a galla gli istinti incontrollabili. “Era un fatto incontestabile che la moralità, la volontà, l'anima non agisca durante il sonnambulismo... Ora l'animale, abbandonato a se stesso, subisce naturalmente l'impulso dei suoi istinti”.


Più classico Il Violino dell'Impiccato (Le Violon du Pendu, 1860) che ruota al centro di una locanda nella cui soffitta, ogni sera, si palesa l'anima di un musicista che suona il suo violino. Il protagonista, un compositore che non riesce a comporre niente di originale, ne approfitterà per scrivere la musica dell'anima perduta e lucrarne sopra spacciandola per propria. Carino, ma con momenti ripresi da L'Orologio del Decano.


Inquietante mix tra macabro, grottesco e comicità Il Requiem del Corvo (Le Requiem du Corbeau, 1857). Personaggi assurdi, pieni di complessi che sottendono a qualcosa di blasfemo. Un corvo, guarito da un medico che strangola gatti e cani, infastidisce un compositore fino a indurlo in stato di malattia. L'intervento del medico del paese sarà risolutore. Ci rimetteranno il corvo e il gatto di casa. Epilogo black humor.


Fascinoso, ma nulla più, L'Orecchio della Civetta (L'Oreille de la Chouette, 1860) che brilla per atmosfera e descrizioni, salvo rivelarsi del tutto estraneo al fantastico. Un povero debole di mente si è convinto di avere realizzato un amplificatore sonoro che permette di deliziarsi con tutti i rumori della natura che non pervengono in via naturale alle orecchie degli uomini. Come per altri personaggi della coppia, la scoperta sarà ignorata e non compresa dalle masse.


Combattimenti al centro degli intrecci addirittura in tre racconti. Molto simili Il Combattimento degli Orsi (Le Combat d'Ours, 1860) e Il Gufo della Sinagoga (Le Hibou de la Synagogue, 1860) incentrati sui crudeli passatempo che ravvivano la vita dei villaggi di campagna. Tagli grotteschi, tra scommesse, bevute e momenti esilaranti. Forse più interessante il primo dei due racconti che mette in scena il crollo delle tribune in cui sono assiepati gli spettatori, dopo che due orsi hanno fatto scempio di cani. Per distogliere un orso liberatosi dalla museruola viene sciolto un toro. Momenti brutali, che si chiudono col protagonista, un pittore locale, che afferma la superiorità della pittura indigena rispetto alle impostazioni teatrali adottate dai modelli dei pittori italiani. L'altro racconto propone scontri tra galli con un accenno assai modesto al fantastico solo nell'ultima parte della narrazione, quando il titolare del galletto vincitore degli scontri decide di utilizzare l'animale per far fuori un gufo che si è appollaiato sul tetto di una locanda. La morte del galletto porterà il suo proprietario a inveire contro il gufo, a suo dire incarnazione del rabbino defunto.

Ancora più surreale e comico Il Capro d'Israele (Le Bouc d'Israel, 1860), in cui un teologo, che ha fatto razzia di alcool, suggerisce a un amico rassegnato per aver ucciso in duello il rivale in amore la via per ripulirsi l'anima: addossare tutte le colpe a una vittima sacrificale, un capro nero, da scaraventare giù in un dirupo. Vincerà l'animale e il teologo capirà che non esiste modo migliore per ripulirsi l'anima che mettere su famiglia.


Rembrandt (1849) è un racconto lungo che immagina la quotidianità del celebre pittore che subisce dei furti per mano di uno sconosciuto manigoldo che si introduce misteriosamente nella sua abitazione. Convito che dietro ai colpi ci sia il figlio, Rembrandt scoprirà che il colpevole è un ebreo suo cliente vittima di uno stato di sonnambulismo che lo porta a sfruttare un passaggio segreto che unisce la casa del pittore alla sua.


Il Sogno di mio Cugino Elof (Le Réve de mon Cousin Elof, 1859) torna al fantastico (modesto), con un incubo che ossessiona un uomo fin dall'infanzia finché un giorno il tutto si rivelerà attinente alla realtà. L'uomo infatti ha visto in sogno un delitto avvenuto anni prima. Cercherà così di capire cosa fare per dare giustizia all'anima di un uomo ingiustamente giustiziato sul patibolo per un omicidio che non ha compiuto.


Modestissimi gli altri. Sospesi tra il delirio dovuto all'assunzione di sostanze alcoliche e fantastico sia Stati di Alterazione (Entre Deux Vins, 1860) che Crispinus (1860), racconti con qualche lampo ma che si perdono senza giungere ad alcuna conclusione.


Sceglie la malinconia I Promessi Sposi di Grinderwald (Les Fiancés de Grinderwald, 1860) che veicola l'idea dell'importanza dell'amore (da anteporre alla carriera) attraverso un vecchio giudice in pensione che cerca di ricostruirsi una seconda giovinezza sognando di sposare una ragazzina che, in verità, ha occhi solo per i coetanei. Prevalerà la ragione. Similare, ma votato al romanticismo, Gretchen (1860) che propone la dichiarazione d'amore, modalità serenata, di un giovane ragazzo verso la più bella del paese.


Non colpisce (se non per il profilo della follia del protagonista) neppure Hans Storkus (1860) in cui l'ossessione di un collezionista delirante, rapito da fossili e conchiglie al punto da dissociarsi dalla realtà, scatena la furia omicida dell'uomo nel momento in cui scoprirà che la moglie si è disfatta della sua intera collezione.


CONCLUSIONE

Cinque buoni racconti, di cui due capolavori, un altro paio interessanti, per il resto storie non memorabili, molte delle quali fuori tema rispetto alla destinazione dell'antologia e, peraltro, ripetitive. Storie come I Promessi Sposi di Grinderwald, Gretchen, Stati di Alterazione e Crispinus potevano essere sostituite da racconti più attinenti come Les Trois Ames, La Reine des Abeilles, Le Cabaliste Hans Wieland e L'Esquisse Mystèrieuse.

Dunque un volume per completisti, che si lascia leggere con piacere anche quando i racconti sono meno riusciti. Resta un po' di amaro in bocca, perché le qualità alla coppia non mancavano.

 
La coppia di autori.
 
 
"Gli uomini di buon senso non hanno mai inventato nulla; sono i pazzi che, fino a ora, hanno fatto tutte le più grandi scoperte”.

sabato 3 maggio 2025

Recensioni Cinematografiche: DIABOLIK - CHI SEI? di Manetti Bros.

Produzione: Manetti Bros, Carlo Macchitella, Pier Giorgio Bellocchio e Mario Gomboli.
Sceneggiatura: Manetti Bros e Michelangelo La Neve
Regia: Manetti Bros.
Montaggio: Federico Maria Maneschi.
Fotografia: Angelo Sorrentino.
Colonna Sonora: Pivio e Aldo De Scalzi.
Interpreti Principali: Giancarlo Gianniotti, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Monica Bellucci, Massimiliano Rossi, Pier Giorgio Bellocchio, Barbara Bouchet, Max Gazzé.
Durata: 124 min.

Commento Matteo Mancini.

Ultimo capitolo della trilogia del Re del Terrore che i Manetti Bros concludono in un crescendo da applausi. Diabolik – Chi Sei? è il migliore della serie (probabilmente la perla nell'intera produzione dei due fratelli) da tutti i punti di vista. Si contrae la componente fumettistica (comunque presente con spiccati rimandi alle soluzioni ingegnose della saga 007, ivi compresa la parte sull'isola) a favore di un copione spiccatamente noir/poliziesco, rappresentato da una banda di rapinatori che ricorda molto quelle al centro degli intrecci della filmografia di Fernando Di Leo (con tanto di spogliarello integrale in stile Milano Calibro 9). Il copione viene ispirato all'albo omonimo numero 107 della collezione fumetti Diabolik delle sorelle Giussani (ideatrici anchedel personaggio), in cui venivano trattate le origini dell'uomo dai mille volti. Visivamente figlio delle produzione italiane anni '70 (l'ambientazione rétro aiuta), grazie a soggettive argentiane e dettagli lenziani, la pellicola ha un inizio scatenato che omaggia persino Funny Games (artificio di riavvolgere il nastro per modificare quanto inizialmente proposto) e Batman il Cavaliere Oscuro (sequenza della rapina) per poi prendere una strada diversa dai precedenti capitoli. Se nell'episodio pilota i protagonisti erano Diabolik ed Eva Kant, mentre nel secondo furoreggiava Ginko, qua viene concesso spazio a un nuovo gruppo di villain tipicamente “italiani” (si veda anche Appunti di un Venditore di Donne, 2021) oltre che alle donne (su tutte la marchesa Altea, affidata a Monica Bellucci) con Ginko e Diabolik che si ritrovano inermi a sperare nell'intervento delle stesse.

Notevole la parte in flashback (rigorosamente in bianco e nero) dove viene spiegata la genesi dell'inafferrabile ladro. Uno stralcio che pare ispirarsi a film come Pericolosa Partita (1932) e L'Uomo con la Pistola d'Oro (1974). Spettacolo anche nelle scene di inseguimento, con i Manetti Bros che riportano lo spettatore ai favolosi anni in cui Umberto Lenzi e Sergio Martino deliziavano i palati degli amanti dell'azione.

Tutto molto bello (fotografia compresa), eccetto l'incertezza nella sceneggiatura (degli stessi Manetti) nella parte in cui i malviventi si incartano nel tergiversare sul come gestire i due prigionieri d'eccellenza: Ginko e Diabolik. Si sarebbe dovuto scrivere meglio questo sviluppo che, a mio modesto parere, costituisce l'unico neo di una pellicola per il resto magistrale. Occhio al finale: un chiaro omaggio al Diabolik (1968) di Mario Bava e, al contempo, chiusura circolare dopo quanto visto nel primo episodio. Omaggi anche a La Finestra sul Cortile (1954) e Caccia al Ladro (1955) di Alfred Hitchcock. Cosa chiedere di più?

In conclusione siamo alle prese con uno di quei film di cui si sente la mancanza e che, a differenza di operazioni “similari” come il coevo Dampyr (2022) prodotto dalla Bonelli, resta fedele alla lezione della cinematografia italica senza cedere ai richiami d'oltreoceano. A Hollywood non esistono film di questo taglio ed è questo che rende l'operazione vincente. Ne viene fuori un prodotto di intrattenimento molto divertente e, al tempo stesso, uno spettacolo per gli occhi. Il montaggio tarantiniano (confermate le scene proposte in contemporanea per effetto di una specifica divisione dello schermo) e la colonna sonora (strepitoso il sound di Pivio e Aldo De Scalzi che rievoca la musica di Profondo Rosso utilizzata nella sequenza della villa abbandonata) completano il lavoro portandolo, per i canoni della nostra cinematografia di genere, dalle parti del capolavoro. Tra le tracce musicali, infine, è da apprezzare l'operazione nostalgia col brano Ti Chiami Diabolik di un redivivo Alan Sorrenti che tenta di rinverdire le hit parade conquistate con tormentoni quali Figli delle Stelle (1977) e Tu sei l'Unica Donna per me (1979).

Grande cura nella realizzazione delle scenografie, tanto da sembrare un film anni settanta sia per costumi che per le auto che vengono mostrate. L'ambientazione è nell'immaginaria Clerville, un'accozzaglia di strade e piazze prese a prestito da città italiane debitamente transennate per proporle e agghindarle in veste antiquata.

Cammei per Barbara Bouchet e Max Gazzé. Garanzia Miriam Leone (ancora una volta la migliore del cast artistico), più convincenti del precedente episodio Giacomo Gianniotti e Monica Bellucci (personaggio pomposo). Resta ai margini Mastandrea. Tra i cattivi, convince Massimiliano Rossi, mentre deludono gli sgherri (nessuna traccia dei caratteristi di una volta).

Nota dolente dai responsi del botteghino e dalla “solita” critica nostrana che, a differenza dei colleghi esteri quando affrontano pellicole di registi connazionali, insiste a distruggere quanto dovrebbe sostenere parlando di “adattamento mediocre”. L'Incasso, inferiore a un milione di euro, ne decreta un evidente insuccesso commerciale a fronte di un budget di dieci milioni. Da qui una riflessione personale: il vero problema del cinema italiano non risiede nei registi né nei produttori ma, come si vede da questi risultati, ricade sul pubblico (rimbecillito dai bombardamenti hollywoodiani) e sui critici “generalisti” che, anziché spingere per i prodotti di casa, persistono ad affossare ogni tentativo di risollevare la testa in ossequio a un atteggiamento spocchioso prossimo a compiere cento anni. E' ora di svegliarsi, invece di vivere nel passato: quanto si sogna è realizzabile, basta crederci.

 
I registi Marco e Antonio Manetti.

giovedì 1 maggio 2025

Recensione Narrativa: IL POSTO DEL BUIO di Dean R. Koontz.

Autore: Dean R. Koontz. 
Titolo originale: The Bad Place.
Anno: 1990. 
Genere: Thriller. 
Editore: Sperling & Kupfer (1995). 
Pagine: 430. 
Prezzo: Fuori catalogo.
 
Commento a cura di Matteo Mancini.  

Classico thriller alla Dean Koontz, crudo (proposte anche uccisioni di neonati) e con elementi parapsicologici - questa volta marcati - che torna sui caratteristici cliché della sterminata produzione dell'autore. The Bad Place (1990) si inserisce nel solco tracciato da Whispers (“Sussurri”, 1980) che abbiamo già analizzato su queste pagine (http://giurista81.blogspot.com/2025/01/recensione-narrativa-sussurri-di-dean-r.html) riproponendone tutti gli ingredienti base. Abbiamo infatti una coppia di innamorati in veste di protagonisti (nella fattispecie due detective privati), un villain muscolare generato da un incesto, un serial killer che irrompe nelle abitazioni e che ha spiccati problemi nella sfera sessuale (già presente in Funhouse - "Il Tunnell dell'Orrore"), il tema della vendetta delirante che anima il killer, un medico privo di etica che per soldi tiene condotte amorali, poteri parapsicologici, omicidi crudi messi in scena con taglio cinematografico (rimando allo slasher, tanto che in una scena è esplicitamente omaggiato Jason Voorhees della saga Venerdì 13), maltrattamenti familiari ed educazione religiosa castrante alla base della genesi criminale, mirabolanti poteri riconnessi all'uso delle droghe e vaghi rimandi erotici. Niente di nuovo, dunque, nella produzione dell'autore, se non fosse per l'influenza patita dal film The Fly (“La Mosca”, 1986) diretto da David Cronenberg. Koontz infatti inserisce nel suo canonico soggetto di “fuga e assalto” - costituito da un serial killer che si è dato l'obiettivo di uccidere un dato soggetto in costante fuga - il tema del teletrasporto umano, arrivando a proporre squarci altamente visionari che penetrano nella fantascienza spaziale (addirittura astronavi alieni, scarafaggi che defecano diamanti e un pianeta sconosciuto lontano dalla via lattea). Un'introduzione coraggiosa che alza la media del testo nonostante l'autore non approfondisca la questione (davvero un peccato). Dimenticate quindi soluzioni alla Philip Fracassi in Commodore.

Il romanzo ruota attorno a un personaggio con vuoti di memoria e in via di disgregazione fisica e mentale che ha il dono di teletrasportarsi col pensiero nei luoghi in cui ha vissuto. A dargli la caccia è il fratello, anch'esso dotato di poteri parapsicologici molto sviluppati, che vuole ucciderlo per vendicare la madre assassinata. Koontz, dunque, prosegue su un sentiero già battuto, si pensi a The Door to December (“Incubi”, 1985) che abbiamo analizzato la passata stagione (http://giurista81.blogspot.com/2024/08/recensione-narrativa-incubi-di-dean-r.html), in linea alla narrativa di Stephen King (si pensi ai poteri parapsicologici sviluppati dalla protagonista di Firestarter, in conseguenza delle droghe somministrate ai genitori) senza, tuttavia, avere la capacità di variare strutturalmente i soggetti delle proprie storie. La costruzione dei singoli romanzi dell'autore tende quindi a essere sempre la stessa (grosso limite nella produzione di Koontz). Nell'occasione c'è da sottolineare una migliore quadratura della storia, che – a differenza di Whispers - non si concede parentesi estranee alla vicenda principale (a parte l'adrenalinica presentazione iniziale dei protagonisti) mantenendo il ritmo su livelli di guardia e sopratutto si rivela (almeno per due terzi di storia) molto più accattivante della media dei romanzi di Koontz. A un certo sembra quasi di essere alle prese con una trama alla Buick 8 (2002) di King, con un soggetto che scompare e si ricompone portando con sé oggetti alieni su cui gli indagatori investigano per venire a capo del mistero. Un processo continuo che porterà il soggetto a contaminare il proprio corpo, incorporando all'interno di sé stesso elementi estranei (topi, scarafaggi, pezzi di vestiti) che lo condurranno a un epilogo body horror tra David Cronenberg e Brian Yuzna, con Koontz che sottolinea gli omaggi facendo continuo riferimento al concetto di “carne” con frasi come: “Noi siamo carne, soltanto carne, e in cuor nostro lo sappiamo, e in segreto applaudiamo gli uomini che hanno il coraggio di trattarci per quello che siamo. Carne”.

Buona la caratterizzazione del villain (addirittura generato da una donna ermafrodita che si è auto-inseminata!?) che, oltre a teletrasportarsi con la forza della mente, si nutre di sangue umano e animale, rilasciando scariche elettriche dalle mani che provocano la fuga degli animali dalla boscaglia così che possa agguantarne alcuni e azzannarli al collo. Koontz diluisce nella trama alcuni momenti agghiaccianti contraddistinti da rara cattiveria. Altro aspetto da rimarcare è il clima promiscuo e malsano (stile The Texas Chainsaw Massacre) che domina la famiglia del villain con rapporti interpersonali malati che hanno nella repressione sessuale la loro ragione d'essere. Non a caso il villain è dotato di quattro testicoli, ma è privo di pene, mentre le sorelle hanno la capacità di calarsi nella mente degli animali e di percepirne le emozioni.

Dunque un Koontz, a suo modo coraggioso, che propone interessanti varianti all'interno di un intreccio ampiamente collaudato.

Tra le sottotracce trapela anche un ragionamento sul mistero della vita, sospeso tra una visione nichilista (siamo carne da macello) e il sogno che la morte non sia la fine di tutto. “Osarono cullarsi nel sogno più grande di tutti: il sogno che non esiste una vera morte”. Eloquente, come in King, il fatto che i soggetti dotati di poteri soprannaturali siano i diversi e gli ultimi, tra cui un ragazzino down non poi così lontano dal modello kinghiano di Dreamcatcher (“L'Acchiappasogni”, 2003). Altresì kinghiano è il messaggio finale sull'amicizia: “uno dei doveri più sacri dell'amicizia è tenere accesa la fiamma del ricordo, in modo che la morte non significhi la sparizione immediata dal mondo. In un certo senso, i morti possono continuare a vivere, finché vive chi li ha amati. I ricordi sono un'arma essenziale contro il caos della vita e della morte, la via che assicura la continuità di generazione in generazione, un segno di rispetto per l'ordine e il senso dell'esistenza umana.”

Dunque un romanzo dalla struttura classica, nell'ambito della narrativa di Koontz, ma con guizzi, caratterizzazioni e una voglia di osare superiore alla media delle opere dell'autore. Probabilmente tra i più folli e visionari mai scritti da Koontz.

 
 
"Ma provate a immaginarlo. La figlia ermafrodita di un rapporto incestuoso tra fratello e sorella che si ingravida da sola! La madre del bambino è anche il padre. La nonna è anche la prozia, e il nonno il prozio! Una linea genetica incredibile... e non dimentichiamo i geni di Yarnell, danneggiati dall'uso di allucinogeni. Praticamente, la garanzia sicura al cento per cento di un altro mostro di natura."