Autore: Jacques Spitz.
Titolo Originale: L'Oeil du Purgatoire.
Anno: 1945.
Genere: Fantastico / Surreale.
Editore: Mondadori, collana Urania (n.987).
Pagine: 114.
Commento a cura di Matteo Mancini.
Torniamo con L'Oeil du Purgatoire, edito nel 1945 e pubblicato in Italia nel 1973, sulle sempre gradite pagine dell'Urania per presentare un romanzo che mi è stato segnalato dall'amico Cesare Buttaboni. Vero e proprio classico della narrativa surreale francese, più volte proposto dalla Mondadori nella collana Urania e anche in edizioni in vendita nel tradizionale campionario destinato alle librerie.
Romanzo molto particolare, che si presta a diversi piani di lettura e che fa sfoggio di un'ironia nera al servizio di una storia paradossale a metà strada tra il surrealismo kafkiano e l'onirismo degli scrittori di genere.
Dietro al narrato c'è il franco-algerino Jacques Spitz, un autore ingiustamente dimenticato del primissimo novecento, morto solo e in povertà in quel di Parigi nel 1963. Autore sarcastico, ai limiti della satira, solito dileggiare i militari da una parte, gli accademici dall'altra e non da ultimi i poteri forti che incarnano il demone dalla politica con la P maiuscola. Era solito miscelare la narrativa di genere a elucubrazioni di carattere filosofico-religioso, giocando agli estremi.
L'Occhio del Purgatorio è il suo capolavoro insieme a La Guerre des Mouches (1938), in italia Le Mosche, in cui immagina la terra impegnata contro un aggressore molto particolare: sciami di mosche contrapposte agli eserciti dei vari Mussolini, Hitler e Stalin. Gli insetti, ovvero le creature più microscopiche tra quelle percebili a occhio nudo, contro i grandi politici chiamati a spartirsi il mondo. Palese la verve satirica, del resto è ben noto intorno a chi danzino le mosche. L'Occhio del Purgatorio non si discosta da tale visione dissacrante, pur se innalzata a valori trascendenti, assai superiori alle vicende politiche. Ciò nonostante è un romanzo consigliato a tutti, compresi i lettori popolari, per il suo mostrare una storia che dietro all'apparenza del racconto di genere cela profondi livelli di lettura. Lo stile brioso, veloce e leggero, rende il romanzo digeribile a tutti i palati, così come la sua lunghezza contenuta ne fa un libro terminabile in poche ore, ciò non va tuttavia di pari passo con i contenuti, che sono tutt'altro che di pronta soluzione, rivelandosi aulici e colti. Evidente, fin da subito, la critica all'uomo della società contemporanea (figurarsi quello del nuovo secolo, rimbambito dalle pubblicità e da quanto proposto dai mass media) tratteggiato come un essere inconsapevole della propria natura, addirittura non pensante, una vera e propria marionetta assimilabile a quella risultante dai racconti degli odierni Thomas Ligotti e Laird Barron. “Nella vita ho scelto di pensare. Gli uomini, animali pensanti, pensano telmente poco che chi non accetta tanta parsimonia fa sicuramente la figura dell'eccentrico“ afferma uno dei due principali personaggi del romanzo.
Spitz intesse una prima traccia di storia proponendo le sorti di un pittore indolente, stanco della vita e giunto all'orlo del suicidio, che si trova, suo malgrado, inconsapevole cavia di un atipico mad doctor (più filosofo che scienziato) convinto che gli animali vivano un tempo accellerato rispetto al nostro per ragioni di sopravvivenza. Così, per effetto di uno speciale bacillo isolato in laboratorio, lo scienziato infetta il nervo ottico del pittore con la scusa di offrirgli una pastiglia per l'emicrania. Ha così inizio un viaggio nell'irreale di macheniana memoria come suggerito dal celebre Il Gran Dio Pan, in cui verranno a sovrapporsi due realtà in cui il protagonista si troverà invischiato lottando continuamente col rischio di esser rinchiuso in manicomio e ben attento a non rivelare il suo segreto. "Penetro nei segreti dell'alidilà, attraverso la fessura di una porta misteriosa... E tutto l'invisibile che mi è dato di vedere s'intreccia come un immenso gioco di carte, per giocare Dio solo sa che gioco!" Così, da una mattina all'altra, il nostro si troverà testimone di un processo degenerativo che lo porta a scindere la realtà fenomenica visiva da quella percepibile con gli altri sensi. In altre parole la realtà gli appare, progressivamente, evoluta rispetto a quella contemporanea così che gli oggetti, gli uomini e tutto ciò che si trova nella realtà, si presentano nei primi giorni come saranno qualche anno dopo, poi, col procedere delle settimane e l'intensificarsi della vista, come saranno qualche decennio dopo, infine qualche secolo dopo. “Vedo le cose nel posto in cui sono, ma nello stato in cui saranno più tardi“ si rende presto conto il protagonista che si vede vomitevoli poltiglie nei piatti, al posto di succulente bistecche, che tuttavia mantengono il gusto originario.
L'eloquente copertina di una recente
edizione della Mondadori.
Viene così a delinearsi una sorta di diario con Poldonski, questo il nome del protagonista, che narra le sue vicende e come la realtà gli appare via via intorno. Immutata per quattro sensi, stravolta per il quinto: la vista. Il genere del romanzo diviene così molto vicino a quel surrealismo alla Perutz, o alla Kafka (seppure di stile assai più leggero), in cui trovano spazio riflessioni sulla caducità delle cose materiali, sulla conservazione a scadenza dell'uomo sia come singolo che come razza (una nullità al cospetto dell'universo), mostrato dapprima in carne ossa, poi aggredito dalla putrefazione, quindi nelle forme di scheletri che camminano per la strada per giungere a trasformarsi in cenere e da questa a forme ectoplasmatiche che vivono nel mondo ma vagano senza capacità di interelazioni, non solo con i vivi, ma anche tra loro (in una solitudine finale di livello cosmico).
Spitz è divertente e sa regalare sorrisi (si veda il rapporto freddo e sarcastico del protagonista con la fidanzata), ma lo fa con un fortissimo retrogusto di tristezza. Il suo è un taglio pessimista, amaro, senza speranza. La bellezza della natura che ci circonda ci viene mostrata per quella che sarà la sua sorte finale, in un processo di decomposizione che arriverà a decretare la morte stessa del mondo. Poldonski, proiettato simultaneamente su due livelli sfalsati di esistenza, riesce così a vedere il tutto senza comprenderne le ragioni. Solo le conseguenze, i risultati finali dell'azione del tempo, saltano agli occhi del pittore che intuisce cosa succederà nel futuro, senza però carpirne i misteri che ne stanno alla base. Situazione che lo stimola a formulare decine e decine di congetture sul mistero della vita, ragionamenti che lo porteranno sempre più ad allontanarsi dai concittadini, a rinchiudersi in un isolamento che lo ridurrà allo stato di barbone, rinunciando alla propria professione di pittore e all'amore, per interrogarsi sul grande mistero della morte. Un mistero che riuscirà a comprendere, parzialmente, solo alla fine scoprendo la sua vera anima in un parallelismo che evoca Il Ritratto di Dorian Gray (in entrambi i casi tutto parte da un soggetto che si rende modello di un ritratto). Se Wilde usava l'elemento artistico del ritratto per mostare la vera realtà, Spitz usa la macchina fotografica (che riesce a immortalare l'aspetto attuale delle cose che appaiono decrepite agli occhi di Poldonski) ma ribalta il rapporto, poiché a differenza del padrino dell'estetismo Spitz vede nel mondo la prigione e nell'arte la fuga. “Cosa significa essere un pittore, un poeta, se non sottrarsi all'aspetto quotidiano del mondo per tentare altri approcci alla realtà? Anziché abbandonarsi alle attrattive del mondo, bisognerebbe invece provare un'intensa repulsione per esso“ Ecco così che la vita (ovvero la morte) diviene un quadro (il grande quadro della morte, ben rappresentato dall'opera realizzata da Poldonski in cui degli scheletri marciano al funerale di un uomo) da cui l'uomo superiore, l'artista, è chiamato a fuggire per conquistare il paradiso perduto, alla stregua di un'anima condannata alla perdizione fin dalla nascita per sconfiggere la morte e trovare in essa la vita. Un vero e proprio ribaltamento della filosofia che sta alla base dell'epicureo atteggiamento dell'estetismo e che si avvicina più alla filosofia stoica. “Volevo vedere le cose da un punto di vista originale, e l'ho ottenuto“ dice Poldonski che all'inizio, un po' come il suo correlato artista nato dalla pena di Oscar Wilde, finisce col fare un patto diabolico implicito con un individuo che si definisce Il Genio (da notare come nel testo appaia poi un omaggio esplicito a Le Mille e una Notte, fate voi l'uno più uno) per poi, a poco a poco, condurre una vita dissoluta (pur di farsi notare dagli altri uomini e dunque accettare) fino ad ammettere di essersi macchiato di furti e delitti e di aver così perduto la propria anima che pure gli danza attorno con un ghigno malefico e omicida al punto da esser irriconoscibile persino ai suoi occhi (cosa vi ricorda?). Dunque processi opposti ma epiloghi simili, che si sintetizzano assai bene nell'epilogo comune alle due opere. La condanna di Poldonski sarà quella di vedere il nuovo come sarà al momento della sua fine, con la conseguenza di veder sparire dalla realtà visiva tutto quello che costituisce la bellezza e la giovinezza della vita (l'incubo, guarda caso, degli estetisti decantati da Wilde), una situazione che arriverà assai presto a non sostenere pur evitando la fuga nel dolce mare della follia.
“Forse le forme (leggisi le anime) sono soltanto un miraggio, mentre voi (i gioielli, leggisi il denaro), con la vostra realtà, sfidate i secoli e il mondo diventa cenere solo per mettervi meglio in risalto, voi unici oggetti preziosi in questo scrigno di rovine.“ Quale più tremenda constatazione per commentare la deriva materialista che domina la società moderna e che, da sempre, ha condotto le sorti della razza umana? Un motivo molto forte per evidenziare come il potere e la ricchezza siano i valori che sopravvivono nei secoli, menando il mondo verso la sua stessa rovina, forse le uniche certezze di un'esistenza che sembra priva di sbocchi e destinata allo sbaraglio finale.
Il dono della terza vista, chiamiamola così, conduce al paradosso kafkiano il nostro Poldonski che diventerà, in buona sostanza, cieco al progredire della “malattia“ (la realtà attorno a lui gli apparirà come sarà alla fine dei tempi, cenere e dunque invisibile ai suoi “nuovi occhi“ che lo rendono incapace di muoversi nel mondo) riuscendo a vedere maggiormente nel più profondo dei misteri dell'umanità. Unico cosciente in un mondo di ignoranza o di soggetti che fuggono dalla vera realtà delle cose illudendosi di essere immortali per godersi le flebili droghe della quotidianità, emozioni effimere che altro non sono che lo spettro che cela un futuro di perdizione e di solitudine. Spitz, a livello metaforico, richiama, non so quanto volontariamente, massime esoteriche sulla natura del c.d. terzo occhio dando così una sottotraccia al narrato che eleva il romanzo a capolavoro del genere. Un'opera dunque che sa intrattenere diverse categorie di lettori, ma anche stupire, deliziare con il suo essere visionaria ma soprattutto riflettere. Un romanzo che trasmette ai lettori la complessa personalità del suo autore, uno scrittore che merita di esser riscoperto e apprezzato. un vero e proprio maestro del fantastico, troppo ignorato e non inserito neppure nel volume francese Grandi Maestri della Letteratura Fantastica dell'Edipem, Recupereremo presto altre opere di Jacques Spitz, tradotto in diverse copie Urania anche di recentissima pubbliczione, è una promessa.
Nessun commento:
Posta un commento