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sabato 28 maggio 2022

Recensione Narrativa: LA NUBE PURPUREA di Matthew P. Shiel.

Autore: Matthew P. Shiel.
Titolo Originale: The Purple Cloud.
Anno: 1901.
Genere: Fantascienza / Horror.
Editore: Urania - Mondadori (2019).
Pagine: 226.
Prezzo: 6.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Torniamo a distanza di anni a parlare di Matthew P. Shiel e lo facciamo analizzando il suo romanzo più famoso: The Purple Cloud (“La Nube Purpurea”). Uscito in Inghilterra nel 1901 e giunto alle nostre latitudini già nel 1924, tradotto da Rocco Lazzazzera, viene erroneamente indicato da molti quale romanzo seminale del cosiddetto last man novel, un sottogenere che si sarebbe poi arricchito grazie ai contribuiti dei vari Richard Matheson (I Am Legend), John Wyndham (The Day of the Triffids) e Stephen King (The Stand). Walter Catalano, in Guida alla Letteratura Horror (Odoya, 2014), parla di romanzo che “anticipa la fantascienza catastrofica e apocalittica” senza null'altro dire e gli fanno da eco gli autori di Guida alla Letteratura di Fantascienza (Odoya, 2013) che parlano di “romanzo antesignano”. La realtà tuttavia è ben diversa.


UN FALSO ROMANZO ANTESIGNANO

The Purple Cloud è ben lontano da essere un romanzo antesignano. È infatti un chiaro esempio di romanzo fortemente derivativo e legato ad altre opere che non è sbagliato dire esser state cannibalizzate da Shiel. La fortuna dell'opera sta nel fatto che i romanzi in questione hanno faticato a essere apprezzati e, a differenza di The Purple Cloud, sono finiti nel dimenticatoio salvo esser riscoperti sul finire del novecento.

Impossibile non riconoscere il seme germinale di Le Dernier Homme (1805), un romanzo, purtroppo inedito in italiano, pubblicato cento anni prima dal prete cattolico francese Jean Baptiste Cousin de Grainville. È questo il vero romanzo antesignano del genere. Un'opera che Shiel “scopiazza” avendola probabilmente letta in lingua inglese, approfittando di una traduzione risalente al 1806. Il contenuto centrale che sta alla base dei due romanzi, ovvero l'eventuale rinascita del genere umano su una terra dove ormai sono sopravvissuti solo due esemplari (l'Adamo e l'Eva del futuro) in balia di forze spirituali superiori che tramano l'una per la rinascita e l'altra per l'estinzione della razza umana, è del tutto identico. Shiel modernizza, rende lievemente più implicito il legame tra le vicende del romanzo e il gran mistero della fede, ma non si discosta dal modello di partenza peraltro, a sua volta, derivativo del Paradiso Perduto di Milton (guarda caso citato esplicitamente anche da Shiel). Non solo... Arrivano forti gli echi di The Last Man (“L'Ultimo Uomo”) e della produzione di Mary Shelley. Le ambientazioni iniziali al Polo Nord ricordano il prologo di Frankenstein (1818), mentre l'idea della profezia (sotto forma di quaderni estrapolati dalle frasi di un medium sottoposta a ipnosi) che dal presente porta a un lungo resoconto scritto nel futuro dall'ultimo uomo della terra è ripresa da The Last Man (1826). Anche i continui pellegrinaggi in giro per l'Europa e il Nord Africa di cui si rende protagonista (nel corso dei quasi 20 anni del dopo disastro) Adam Jeffson, il Robinson Crusoe del futuro, sono quelli che hanno caratterizzato i movimenti dell'eroe della Shelley, pur se qua animati da un proposito difforme. Shiel, a differenza della collega (che parlava di peste), fa morire tutta l'umanità in un sol colpo e, per utilizzare un'espressione legata al cinema, fuori campo. Non sappiamo niente della tragedia che si è consumata sulla Terra, se non da alcuni articoli di giornale trovati anni dopo dal superstite. Vediamo però le conseguenze. Le maggiori città europee sono diventate tombe a cielo aperto, in balia di un silenzio totale. Se nel romanzo della Shelley il canto degli uccelli e le corse degli animali rendevano l'uomo l'unico essere a esser stato colpito, qua è l'intero creato animale a esser stato spazzato via.

UNA PUNIZIONE DIVINA SUL MODELLO DEL DILUVIO UNIVERSALE.

Tutto prende le mosse da una spedizione al polo nord che viene ad assumere valenza metaforica. Shiel paragona la conquista del polo alla mela dell'albero della conoscenza nell'Eden. Non a caso il protagonista viene spinto all'azione dalla futura moglie, un'avvelenatrice arrivista che fa di tutto per poter spingere il proprio uomo alla conquista e fa questo non certo per amore (a differenza di quanto farà la seconda donna al centro del romanzo). Sono il denaro, la vanità e la vanagloria i motori dell'azione dell'uomo (del passato) e, al tempo stesso, la sua condanna in un mondo dominato da due forze contrapposte (il bianco e il nero) che ricordano molto l'odio e amore della filosofia di Empedocle.

Durante la spedizione al polo nord, di cui resta in vita un solo superstite, una misteriosa nube purpurea, un miasma letale dall'odore di pesca e mandorle, si libera dal centro della terra e si diffonde in tutto il mondo (anche questa non è una novità, bensì una variazione di certe credenze del tutto infondate messe in circolazione ai tempi della peste nera e indicate, tra gli altri, da Daniel Defoe nel 1722 in A Journal of the Plague Year). La cosa non è casuale né frutto di una ribellione della natura, Shiel lo dice in modo implicito. Arrivando nel centro del Polo Nord il protagonista ha visto qualcosa di insostenibile, qualcosa che vortica all'infinito in un lago ghiacciato e la cui visione porta allo svenimento del protagonista. La sensazione è che possa trattarsi del diavolo, con un rinvio al Lucifero dell'Inferno dantesco e la cosa viene suggerita da una specie di lapide su cui campeggia un nome intraducibile per il linguaggio umano. Shiel scrive, tramite il suo protagonista, che “si trattava della più sacra fra tutte le cose sacre, l'antico segreto eterno e inviolabile della Vita su questa Terra e che posarvi lo sguardo era un peccato atroce per un semplice uomo”. Le conseguenze sono letali e improvvise. La nube uccide l'intero creato animale (salvo rare eccezioni, per lo più marine e acquatiche), sorprendendo gli uomini mentre sono a lavoro o svolgono le loro normali occupazioni. Chi cerca di scappare non ha possibilità di salvezza. Il fenomeno migratorio è reso percepibile dalla variabilità di usi e costumi apprezzati durante la visione dei cadaveri rimasti mummificati dalla nube. Il plot apocalittico è tuttavia meramente strumentale e permette a Shiel di lavorare sull'uomo quale creatura votata al male. L'unico superstite non trova meglio da fare che divertirsi a distruggere la testimonianza della civiltà umana, convinto di conquistare i favori di Dio erigendo in suo onore un palazzo d'oro. La solitudine lo porta nelle maglie della follia. Appicca incendi, spara con i cannoni e distrugge la creazione di secoli e secoli di umanità, deliziandosi contemplando visioni che ricordano l'inferno piuttosto che il paradiso. Londra, Costantinopoli e numerose città francesi crollano sotto i colpi dell'artiglieria scatenata dal protagonista. La guerra è in opera addirittura alla presenza di una sola parte o, meglio ancora, di un unico superstite. Va in scena, per tale via, una condanna alla razza umana di cui Shiel non si sente di sancire l'inappellabilità, lasciando sempre aperta la porta della redenzione in vista di una revisione della natura umana. “Anche se mi dovesse uccidere, io continuerò ad avere fede in lui” scrive nell'ultimo rigo del romanzo il protagonista. La morte dell'umanità, pur se dovuta all'azione di eventi (apparentemente) naturali, è il frutto di una vera e propria punizione divina, una sorta di nuovo diluvio universale estrinsecato in forma diversa, ma dal medesimo contenuto. Un grande reset da cui ripartire, grazie all'entrata in scena di un nuovo modello di donna. La protagonista di Shiel non rispecchia la Eva biblica, ma ha un qualcosa di mariano (la sua lettura preferita è la Bibbia e Dio è l'essere supremo a cui è devota), una sorta di new woman che ricorda, per la capacità di smuovere l'uomo e riportarlo sulla retta via, certe eroine di Bram Stoker. È la donna a salvare l'uomo, riconducendolo nel solco della normalità (quella della creazione) e salvandolo dalla pazzia omicida (quella della vita terrestre) di cui rischia di essere pervaso. La salvezza viene così conquistata e trova la sua fonte nella fede incondizionata verso un essere superiore che tutto guida e tutto gestisce, a cui l'uomo deve piegarsi in qualità di essere inferiore. Questo fa di The Purple Cloud un romanzo religioso e non un “semplice” precursore della fantascienza post-apocalittica. Shiel non inventa niente, caso mai assimila, rimodula e personalizza con omaggi continui. Si pensi al personaggio che si chiama Machen, non una fedele personificazione di Arthur Machen (vicino di casa e grande amico di Shiel) ma comunque a esso legato (“non scriveva per compiacere le indistinte folle di lettori che pendevano dalle sue labbra ma, come i migliori poeti, lo faceva per ritemprarsi con il calore divino che fluiva nel suo petto”); allo stesso modo il nome del protagonista, secondo alcuni studiosi, sarebbe un tributo a un altro amico scrittore di Shiel, ovvero Edgar Jepson (autore di The Garden At 19 di recente proposto da una casa editrice amatoriale italiana).

Punti di forza del testo sono le molteplici parti altamente visionarie. Si pensi alle navi che vagano per l'oceano cariche di morti (fanno venire in mente l'epilogo di Zombi 2 di Lucio Fulci), oppure alle più importanti città europee in balia della nube purpurea o, ancora, al vagare del protagonista a bordo di locomotive o auto accerchiato da scheletri e scheletri sopra i quali si trova costretto a muoversi (stile la famosa sequenza di Phenomena di Dario Argento).

Il romanzo non fu particolarmente apprezzato da Howard P. Lovecraft che di Shiel fu un convinto estimatore. Il Solitario di Providence, contrariamente dal sottoscritto, indicò la parte centrale del romanzo (quella incentrata sulle riflessioni del protagonista e sulle interminabili ricerche in giro per l'Europa) quale quella “descritta con un'abilità e una maestria che rasentano la genialità”, trovando invece dei limiti (“convenzionale atmosfera romantica”) nella parte finale, al punto da reputare la seconda parte del romanzo “una delusione”. Secondo l'opinione dello scrivente, invece, è proprio la parte centrale a costituire un limite del romanzo. Pur ben rappresentando la graduale discesa nella follia del protagonista (poiché l'isolamento porta alla follia e all'inferno, mentre la socialità al paradiso), è una parte troppo lunga e tendente al ripetitivo, finendo per diventare noiosa. Il protagonista si sposta di città in città, senza avere relazione (se non distruttiva) con niente o nessuno. Si atteggia come grande sovrano del mondo e sviluppa un atteggiamento egoista e distruttivo verso quanto è sopravvissuto della razza umana. La parte finale funge da riequilibrio dello status perduto per ricondurre Jeffson, attraverso un percorso inverso, a quella situazione di normalità iniziale di cui era portatore Adamo prima della cacciata.

Rodolfo Wilcock, negli anni sessanta, spese parole di grande elogio del romanzo, reputandolo un "capolavoro continuamente più riuscito e trascendente di un qualsiasi romanzo di Emile Zolà". 

CONCLUSIONE

A ogni buon conto The Purple Cloud, pur se affetto da svariati difetti (e con molti e grossi buchi narrativi), è diventato nel corso degli anni un classico. Riproposto in Italia nel 1967 da Adelphi, nel 1975 da Mondadori e nel 1981 da Bompiani sempre con traduzione di Juan Rodolfo Wilcock, è stato di recente (gennaio 2019) riproposto in una nuova traduzione per la serie “Collezione Urania”.

Senz'altro da leggere per tutti gli estimatori del fantastico, ma da contestualizzare e inserire in un ambito assai più ampio rispetto a quello indicato nei testi di studio del genere, così da poter meglio comprendere la genesi e lo sviluppo del cosiddetto genere post-apocalittico.


L'autore Matthew P. Shiel.

"Nessuno ha mai potuto, né può tuttora, giudicare il destino, perché esso non è compiuto: la nostra specie dovrebbe seguirlo ciecamente, avendo fede nel fatto che dopo molte curve ricondurrà il mondo a Dio. "

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