Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

sabato 13 agosto 2016

Recensione saggi TUTTI I CERCHI DEL MONDO di Emanuela Audisio



Autore: Emanuela Audisio.
Edizioni: Mondadori.
Anno: 2004.
Genere: Sportivo.
Pagine: 170.
Prezzo: 13,00 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Volume acquistato per caso, un annetto fa, sulle bancarelle dell'usato, con la convinzione di aver acquistato un volume sulle storie olimpiche. In altre parole, certezza quasi assoluta di aver acquistato un'antologia di piccole biografie legate ad atleti più o meno connessi al mondo delle olimpiadi. Editore importante, firma di una giornalista di punta del quotidiano La Repubblica, aspettative dunque alte, considerato anche il precedente e apprezzato Bambini Infiniti sugli sportivi che si son distinti fin dalla giovane età e il premio Gianni Brera vinto dall'autrice stessa (unica donna, pare, a esserci riuscita). Questa la premessa, in parte esaudita dalla lettura, ma delusione inevitabile. Siamo infatti alle prese con un volume concepito, a mio modo di vedere, in maniera sbagliata considerata la destinazione per il mercato editoriale e il circuito delle librerie. Un libro, per dirla in termini più specifici, che gioca a voler essere una sorta di aspettando le Olimpiadi del 2004, presentando storie, quasi tutte, legate ad atleti proiettati verso le gare di quel periodo. Poco importa se poi l'Audisio, questo il nome dell'esperta giornalista-scrittrice, tenti a suo modo di tracciare un profilo del mondo parallelo alla manifestazione, una sorta di squarcio sul velo che cela il dietro le quinte agli occhi degli spettatori di tutto il mondo. Grande attenzione per il mondo sportivo africano. Storie del razzismo sud africano, i viaggi della speranza dei calciatori del Cameroon, la fuga degli atleti kenyoti in favore dei paradisi economici offerti dagli stati di Qatar e Bahrein con atleti che cambiano nome (come il caso dello specialista dei 3.000 siepi Stephen Cherono che diventa Saif Saeed Shaheen) o ancora il capitolo sui Grand Sorcier ovvero gli stregoni al seguito delle nazionali africane. Ne deriva un volumetto che risente in modo pesante del tempo passato, destinato a finire fuori commercio non per il non essere più pubblicato ma per il suo essere poco appetibile e accattivante al decorrere degli anni. Lo stile narrativo è sperimentale, fatto di frasi brevi, spesso e volentieri di uniche parole seguite subito dal punto. Ventisei capitoli, incentrati su quasi altrettanti sport, molti dei quali freddi e ricamati in modo tale da stendere quattro o cinque pagine su un unico aspetto. La Audisio non traccia profili o biografie, si limita a istantanee di un dato periodo. Quasi un soffermarsi su una seduta di allenamento di un candidato alle Olimpiadi. Non sviluppa, cristallizza. Certo, non mancano alcuni aneddoti di grande spasso, fisiologici per un libro del genere, ma non sono quelli su cui si lavora. E' l'attesa, la speranza, l'incombere delle Olimpiadi di Atene a tenere banco, magari con la speranza di portare il lettore a seguire gli atleti su cui cala l'attenzione dell'autrice proprio in vista delle olimpiadi greche. Insomma, un progetto che sarebbe potuto andare bene se associato a un quotidiano sportivo dell'epoca, ma che perde senso se si analizza quale libro destinato, per definizione, a vivere al decorrere degli anni (e magari accescere di importanza). Poco comprensibili poi alcuni capitoli, si veda quello del baby camorrista o quello della bagnina di Saddam, che a mio avviso sono del tutto fuori luogo con il tema trattato.

EMANUELA AUDISIO

Questa la critica in generale, ma ci sono anche dei capitoli spassosi che valgano da soli l'acquisto. Su tutti la storia della "partita delle schiappe", come fu denominata dai tedeschi, ovvero lo scontro tra le due peggiori nazionali di calcio nel ranking Fifa nel 2002, o ancora il capitolo dedicato al pugile di thai box (Parinya Charoenphol poi Nong Toom il nome) che vuole esser donna e che va sul ring truccato e vestito come conviene al gentil sesso, tra risate e ironie di fondo, mandando K.O. avversari che lo sottovalutano per il suo look e i balletti, con cui introduce i combattimenti con pantaloncini rosa e reggiseno di pizzo nero, venendo poi baciati sul collo a fine incontro perché, in fondo, è un peccato doverli picchiare, sono così belli...; o ancora gli aneddoti legati agli atleti impacciati che arrivano straultimi ma calamitano l'attenzione di tutti come la ragazza di Kabul che corre i 100 metri senza aver cognizione dei blocchi di partenza o il samoano (Trevor Misapeka) sovrappeso che pensa di andare a fare il lancio del peso e invece viene schierato nei 100 metri, poco male... fa il suo record personale (cinque secondi sopra il record del mondo dei 100 metri) col padre che afferma: "L'ultima volta che l'ho visto correre così veloce è stata verso il frigo...L'unico lavoro di mio figlio è quello di mangiarsi i profitti!"
Poi storie di doping scientifico con società e bizzarri individui deputati a migliorare le prestazioni di intere squadre (è recente la storia della Russia alle Olimpiadi ancora in corso), indagini di personaggi legati a organizzazioni di alcaponiana memoria, campioni in provetta costruiti in laboratorio, scuole australiane che studiano una formula matematica per fare risultati e, infine, quella curiosa storia del barone giapponese, oro alle olimpiadi del '32 nella prova equestre di salto in ostacoli, promosso colonnello nella seconda guerra mondiale e caduto, non di cavallo ma dalla faccia della terra, sull'isola di Iwo, da buon samurai, per sfuggire alla cattura con addosso la criniera del suo Urano (il cavallo con cui aveva strappato l'oro in competizione) e il frustino usato proprio nei giochi di Los Angeles.
Lo sport, come ricorda l'Audisio, rimane sempre un buon punto di vista per interpretare il mondo. Veicolo, a volte, di idee, promotore di battaglie socio-politiche, contenitore di storie che vanno dalla leggenda alla tragedia, passando per il divertimento, la sofferenza, la speranza di fuga da mondi funestati dalla guerra o anche strumento di riscatto per interi popoli. Mi piace però chiudere con un monito offerto dalle parole di Watson, non l'assistente del più celebre personaggio nato dalla penna di Conan Doyle, bensì Checky Watson, professione giocatore di rugby, nazionale sud africano, componente dei famosi Springboks, quelli raccontati da Invictus di Clint Eastwood, ritiratosi un po' come Bulldozer quando scoprì l'inganno della federazione di cui faceva parte e le assurde regole di uno Stato forgiato su leggi pazzesche proprie degli anni '40. Vedendo il figlio, deciso a seguirne le orme, così lo catechizza, dimostrando di essere un grande: "Gli ho detto che se rinuncia a pensare da uomo perché nello sport è conveniente fare così, a casa mia non mette più piede. Non voglio diventi come gli attuali giocatori della nazionale. Vermi. Senza dignità. Gente che pur di non perdere il posto in squadra, con relativi privilegi, accetta tutto. Prima c'è l'uomo, poi il giocatore!"

Il centometrista TREVOR MISAPEKA

Mi concedo una parentesi in segno di quell'allegria e di quello spirito goliardico che dovrebbe caratterizzare il vero sport. E lo faccio con una partita snobbata da tutti, ma non dall'Audisio, che ha in sé il seme della partita da leggenda. Un match, forse l'unico della storia tra nazionali, incapace di attrarre un seppur minimo sponsor nonostante i 25.000 spettatori sugli spalti, ingresso rigorosamente gratuito. Si gioca in uno stadio da matti, con delle specie di templi al posto delle curve, bimbi seduti a bordo campo in rigorosa contemplazione, come se stessero vedendo la finale di Yokohama tra Germania e Brasile, un evento nazionale di importanza transoceanica, e di lato i palazzi che sovrastano il campo quasi a dare l'illusione di esser costruiti proprio sopra la gradinata colma in ogni posto. Si gioca a 2.200 metri di altezza, d'accordo non sarà La Paz ma è roba da gran premi della montagna. La sfida però è inversamente proporzionale all'altezza dello stadio:  Match tra la 202° contro la 203° del ranking FIFA, il Bhutan e il Montserrat. Organizzano gli olandesi, in veste di Don King dei poveri, rimasti esclusi dai mondiali del 2002 e alla ricerca di sfide alternative per buttarla sul ridere e inghiottire un boccone amaro un po' come si fa ai bimbi giocando col cucchiaio colmo di sciroppo per la tosse. Uaaaaan, ecco l'aereo... Uaaaam, Bravo!
Ed ecco così saltare fuori una sfida così allucinante che il centravanti del Montserrat, che pure dovrebbe esser abituato alla montagna, data la nazione di provenienza e certi ripetitori come suggerirebbe un lettore pisano, resta abbagliato alla stregua di San Paolo sulla via di Damasco. Ha perso alla grande la sfida col collega avversario, un tale Wangay che non si chiama così perché ama l'agricoltura pur calzando una specie di bandana per proteggersi dal sole. Roba da border line e infatti la punta del Montserrat, tale Laborde, chiede il cambio al suo allenatore. Crampi, stanchezza, infortunio, mossa tattica? Nemmeno per idea, non sarebbe congeniale a una sfida come questa... Sostituito per "allucinazioni" si legge nel testo. Dopato non era di sicuro, toglietevelo dalla testa! Eloquenti le parole nel dopo gara: «Pensavo di aver visto lo yeti...!» Non è ben chiaro se l'abominevole uomo delle nevi o l'ominimo film diretto da Parolini, Frank Kramer per gli americani, il regista che ha avviato la saga Sartana caduto nel più abominevole film della sua carriera.
Persino l'arbitro, un turista inglese professionista, resta stupefatto a guardare lo spettacolo che fa da cornice al match: "Ne ha strada da fare la Premier League per arrivare a uno spettacolo del genere, my balls.... altro che theese cocks! B.... Beautiful anche se siamo in serie Zeta! Si è Faccia a faccia con un Beauregard... firmato Bennett!" Bennett, appunto, il nome dell'arbitro, solito vedersela con lo spice boy Beckham.

Allo stadio sono presenti diversi poliziotti. No, signori... avete capito male, non sono lì per il servizio d'ordine pubblico, sono direttamente in campo. Come, direte voi? Abbiam appena detto che ci sono i bimbi seduti poco oltre le linee che delimitano il rettangolo di gara... E infatti avete preconcetti, perché i poliziotti sono in campo tra le file del Montserrat e ci tengono a precisare che lavorano senza pistola, perché da loro non serve, bastan le barzellette. Sarà forse per quello che quando giocano in zona Concacaf tutti ridono di gusto, chissà... Gli risponde il Bhtuan con i monaci tibetani, anni luce lontani da quelli di Shaolin Soccer, ma pronti a riportare su un piano di parità il conto delle autorità in campo. Diritto e religione, autorità civile e autorità secolare.

In europa, nell'università del calcio che benedice la bandiera blu con stelle gialle, DER SPIEGEL non fa giri di parole: "LA FINALE DELLE SCHIAPPE" compare a lettere cubitali in una copia lancio finita nel cestino per ordine del capo redattore e ridimensionata all'interno del giornale in formato quattordici. Non è un mistero se i tedeschi fungono da esatto contrario al termine romanticismo. La pensano diversamente i governi dei due paesi, che si smuovono come per una finale olimpica. VINCENT CASSEL, no l'uomo della BELLUCCI bensì il presidente della federazione dello stato caraibico, pretende di fare la formazione al posto del coach inglese. Sembra che non digerisca la presenza del portiere Lake... Preferisce di gran lunga i Fiumi... Si, di Porpora, del resto è così convinto di sé stesso che apprezza il film perché di spalla al protagonista c'è proprio lui...
Il Kuensel, unico foglio bhutanese, parla di sfida del secolo. Gli fa da eco RADIO FAMILY che trasmette in diretta, dall'altro capo del mondo, la sfida in una nazione che ha la capitale sepolta tra la cenere e la lava per i capricci del vulcano Soufriere. Chissà se per lanciare il match abbian lanciato il famoso pezzo dei Sister Sledge per sottolineare che 150 tesserati in una nazione in realtà altro non sono che una grande famiglia.
Tutti snobbano una sfida che ha sapore di LEGGENDA, il senso imprenditoriale sembra mancare. Qualcuno le occasioni non saprebbe coglierle nemmeno a sventolargliele sotto il naso: no, sento odore di bruciato... Non interessa a nessuno sapere che il portiere ospite abbia imprecato per ogni rete subita, tutt'altro che irresistibile, intonando il seguente sproloquio: «Bhutana la misera!» e anche, in formato Squallor «Himalaya, himalaya... maremma grossetana!»... Alla fine il PRIMO MINISTRO di Bhutam, entusiasta della partita, scende giù dagli spalti. Ci sono strette di mano e onori per tutti, a differenza di quanto visto a certe sfide in quel di Rio 2016 con atleti che fuggono ai saluti, i capitani delle due squadre alzano insieme una coppa al cielo. Il Primo ministro, dopo aver decretato un giorno di festa per tutti gli studenti dello stato, commenta in modo pertinente: «Ci interessava il messaggio di unità, fratellanza e speranza che la partita ha dato, e che ce fotte a noi dei soldi..» Per festeggiare si segnala persino l'invasione di campo di un cane, come dimostrano i reperti documentali che girano su internet, in Germania qualcuno ha subito sospettato la presenza di un complotto per meditare multe per omessa custodia di animale. Si sa, in Germania certe cose non sarebbero di certo capitate. Ma non osate guardare negli occhi il monarca della nazione vincitrice del confronto: potreste finire dietro le sbarre per aver violato una delle leggi più importanti dello Stato, alla faccia della scuola pitagorica... Non tutte le cose si prendon con filosofia!
Dimenticavo, abbiam detto che han organizzato gli olandesi, ma i soldi chi ce li ha messi? Indovinate un po'...? Una casa italiana di produzione di documentari, la Mercurio nome quanto mai idoneo in tema di febbre da mondiali (e anche di ostacolisti fan di R.J.'S Fighter, ma questa è un'altra storia), in coproduzione con un ente benefico olandese e la Robot giapponese. Una vera e propria coproduzione alla conquista del mondo, proprio come si sapeva fare nel cinema italiano degli anni '60, con buona pace dei blasonati milionari di Tokyo e Seul.

L'ORGOGLIO DEGLI ULTIMI.

"Noi giochiamo all'estero, quando torniamo a casa, non chiediamo un centesimo per stare in nazionale. Io gioco per me, per il popolo, per ragazzi del mio quartiere. Perché capiscano che lo sport è un mezzo.E' la chiave per entrare in Europa, per vincere le differenze e riscattare la nostra immagine. Lo strumento per sentirci degni e liberi. Ci giochiamo il mondo, in piscina" (Danilo Ikodinovic)



Nessun commento:

Posta un commento